N. 857 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 maggio 1996

                                N. 857
  Ordinanza emessa il  27  maggio  1996  dal  giudice  delle  indagini
 preliminari presso il tribunale di Piacenza nel procedimento penale a
 carico di Caddia Ivanfranco ed altro
 Reati  contro  la pubblica amministrazione - Abuso di ufficio - Fatto
    commesso al fine di  procurare  a  se'  o  ad  altri  un  ingiusto
    vantaggio   patrimoniale   -   Asserita   indeterminatezza   della
    fattispecie  incriminatrice,  non  superabile  per   effetto   del
    previsto  dolo  specifico,  per difetto di elementi oggettivamente
    verificabili - Conseguente possibilita' di inizio del procedimento
    penale senza preventivo  accertamento  della  notitia  criminis  -
    Ipotizzata  indebita  ingerenza nella sfera della discrezionalita'
    della p.a. - Lesione del principio di legalita' e  di  quello  del
    buon andamento della p.a.
 (C.P., art. 323, secondo comma).
 (Cost., artt. 25, secondo comma, e 97, primo comma).
(GU n.38 del 18-9-1996 )
                IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale.  Il
 pubblico ministero chiedeva  il  rinvio  a  giudizio  degli  imputati
 specificati  in  epigrafe per i reati di cui agli articoli: 81 cpv. e
 323, secondo comma c.p., 110 e 323, secondo comma c.p., 346,  secondo
 comma c.p..
   Il g.u.p. fissava l'udienza preliminare.
   Cio'   premesso,   questo  giudice  ripropone  anche  nel  presente
 procedimento  (tenuto  conto  dei  principi  fissati  dal   combinato
 disposto  dagli  artt.   23 della legge 11 marzo 1953 n. 87 e 159 del
 c.p.) la questione (gia' sollevata d'ufficio nel procedimento  penale
 n.  255/1995  g.i.p.  e  n.  625/1994 p.m. in data 16 aprile 1996) di
 illegittimita' costituzionale  dell'art.  323,  secondo  comma,  c.p.
 perche'  in  contrasto  con gli artt.   25, secondo comma e 97, primo
 comma della Costituzione.
   Esaminando innanzitutto il primo profilo, l'art. 323, secondo comma
 c.p. (ma un discorso analogo puo' farsi per l'art. 323,  primo  comma
 c.p.    che   prevede,   secondo   l'orientamento   giurisprudenziale
 prevalente, una autonoma ipotesi di reato) non  pare  rispettare  uno
 degli  aspetti  del  principio  di  legalita'  sancito  dall'art. 25,
 secondo comma della Costituzione e cioe' quello della tassativita'  e
 sufficiente   determinatezza  della  fattispecie  incriminatrice;  si
 tratta di un aspetto che, come  e'  noto,  tende  a  salvaguardare  i
 cittadini   contro   eventuali   abusi   del  potere  giudiziario,  a
 restringere i poteri di interpretazione del giudice.
   Non si intende certo mettere in  discussione  che  nella  redazione
 delle   fattispecie   incriminatrici   il   legislatore   possa  fare
 riferimento ad elementi normativi e non solo  descrittivi.  Si  vuole
 invece   evidenziare   che  l'art.  323  c.p.  incentra  la  condotta
 esclusivamente sull'abuso d'ufficio rinviando all'elemento soggettivo
 (dolo specifico) la rilevanza penale del fatto.
   Senonche', come autorevole dottrina ha osservato,  l'abuso  e'  una
 figura  che  non possiede, di per se stessa, connotati oggettivamente
 verificabili, essendo il risultato di un giudizio che si  esprime  su
 un  comportamento spesso solo in ragione del fine che lo ha ispirato;
 si e' osservato che si tratta di un concetto abbastanza generico,  di
 una locuzione indeterminata, di un termirie neutro, incolore.
   La  norma,  allora,  si  presta  a facili manipolazioni e ad essere
 applicata  a  qualsiasi  forma   di   vizio-irregolarita'   di   tipo
 amministrativo  (che  possono essere legati alle ragioni piu' varie e
 differenti  dalla  commissione   di   un   reato);   ne   conseguono,
 inevitabilmente,    incertezze    interpretative,    indeterminatezza
 applicativa.
   Impostando  correttamente il discorso in relazione all'attivita del
 giudice fin dall'inizio del procedimento (perche' sarebbe  certamente
 riduttivo   prospettarsi   la  questione  guardando  all'epilogo  del
 processo) ha ancora osservato  autorevole  dottrina  che  il  giudice
 penale  puo'  dire  di  trovarsi  dinanzi  ad  una  notitia  criminis
 allorche' e' posto alla sua attenzione un fatto che, ad una  sommaria
 valutazione,  corrisponda  nella  sua  materialita' ad una ipotesi di
 reato.
   Orbene, in relazione all'art. 323 c.p., il carattere  neutro  della
 condotta  rende  poco  agevole la sussunzione nell'ambito della norma
 dei comportamenti piu' vari che possono essere sottoposti  al  vaglio
 del giudice.
   Ne  consegue  il  fondato  rischio  che,  in concreto, l'inizio del
 procedimento possa precedere l'accertamento di una  notitia  criminis
 ed  essere  diretto,  spesso  in  presenza  di  una  mera  ipotesi, a
 verificare se nella situazione in esame  ci  sia  effettivamente  una
 tale notitia.
   Va  poi  evidenziato  che,  come  emerge dai lavori preparatori, il
 legislatore del 1990 si era espressamente posto l'obiettivo di meglio
 tipicizzare i comportamenti lesivi dei beni da tutelare  nella  p.a.;
 senonche'  in  tema di abuso, gli stessi lavori rendono chiaro che la
 formulazione  attuale  dell'art.  323  c.p.  fu   dettata   anche   e
 soprattutto da motivazioni non tecniche (incentrando la condotta solo
 sull'abuso  e  non  inserendo  un  evento  di  tipo  naturalistico si
 anticipava la  soglia  di  punibilita'  "per  evitare  rimproveri  di
 eccessiva indulgenza").
   L'insufficiente determinatezza dell'art. 323 c.p. appare piu' grave
 se  si  considera  che  la norma viene ad assumere un ruolo cardine e
 centrale nel sistema penale della p.a.: essa non ha piu' la  funzione
 sussidiaria  dell'originario abuso innominato; ha inglobato ( e si e'
 parlato di  fattispecie  "onnivora")  il  peculato  per  distrazione,
 l'interesse  privato  in  atti d'ufficio, l'abuso innominato; e tutto
 cio' con la previsione di pene certamente non lievi.
   Ad avviso di questo giudice, inoltre,  non  si  puo'  ritenere  che
 l'art.  323 c.p. sia sufficientemente determinato per la presenza del
 dolo specifico; si tratta, come  e'  noto,  di  uno  degli  argomenti
 centrali  con  il  quale nella ormai datata sentenza n. 7/65 la Corte
 costituzionale  dichiaro'  non  fondata  la  questione  sollevata  in
 relazione  alla  vecchia  fattispecie di abuso innominato. Senonche',
 come  pure  e'  stato  sostenuto  in  dottrina,  la  fattispecie  non
 acquisisce  maggiore  tassativita' attraverso il mero dolo specifico;
 in  proposito   non   va   trascurato   che   nella   interpretazione
 giurisprudenziale (anche se in verita' nelle pronunce piu' recenti la
 Suprema  Corte  ha  posto un freno a tale orientamento), la prova del
 dolo  specifico  viene  tratta  spesso  dalla   mera   illegittimita'
 dell'atto e del comportamento:  l'elemento soggettivo diviene un mero
 corollario di quello oggettivo.
   Passando  all'esame  del  secondo  profilo  di  incostituzionalita'
 denunciato,  va  ribadito  che  sarebbe  riduttivo  prospettarsi   la
 questione   guardando  solo  al  risultato  finale  del  procedimento
 (l'applicazione "discrezionale" della norma di abuso ai fini  di  una
 eventuale  condanna): nella realta' giudiziale, anzi, pare prevalgano
 decisioni in senso assolutorio.
   Occorre  invece  considerare  quella che una autorevole dottrina ha
 definito una invadenza giudiziale "primaria" che si esprime,  di  per
 se', attraverso la sola attivazione dei meccanismi processuali.
   In   questo  senso  l'art.  323  c.p.,  con  la  sua  insufficiente
 determinatezza  costituisce  una   facile   chiave   di   accesso   a
 disposizione  del  giudice  penale per penetrare nel territorio della
 p.a. ed instaurare un processo penale: e gia' soltanto questo, si  e'
 giustamente  osservato,  e'  fonte  di  immediato  discredito  per  i
 pubblici amministratori e di riflesso per la  p.a.  L'art.  323  c.p.
 costituisce allora "una spada di Damocle" che grava sulla testa anche
 dell'amministratrore piu' onesto.
   Tutto  cio'  compromette  seriamente "il buon andamento della p.a."
 voluto dall'art. 97 della Costituzione: da un lato  perche'  consente
 con  facilita'  incursioni giudiziali in una normativamente riservata
 sfera di valutazione discrezionale  della  p.a.;  dall'altro  perche'
 genera  un  clima  non  favorevole  alla  serenita'  della  attivita'
 amministrativa ed una situazione quindi, come pure  si  e'  detto  in
 dottrina,  che  puo'  stimolare  l'immobilismo,  favorire mancanza di
 iniziativa, seminare preoccupazioni anche fra gli amministratori piu'
 onesti.
   Tutto cio' compromette seriamente, si ripete, lo svolgimento di una
 azione amministrativa  in  modo  efficiente;  appropriato,  adeguato,
 spedito.
   Paradossalmente  l'art.  323 c.p. pare minare proprio quel bene che
 costituisce l'oggetto specifico della tutela  penale.  La  questione,
 che si solleva di ufficio, oltre che non manifestamente infondata, e'
 poi, di tutta evidenza rilevante per la decisione, attesa la concreta
 incidenza sul corso del processo.
                                 P.Q.M.
   Visto  l'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87 dichiara rilevante
 nel  presente  procedimento  e  non  manifestamente   infondata,   in
 relazione  agli  artt.  25  secondo  comma  e  97,  primo comma della
 Costituzione, la questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
 323, comma secondo del c.p.;
   Sospende il presente procedimento;
   Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
   Dispone  che  la  presente  ordinanza  sia notificata, a cura della
 Cancelleria al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata  al
 Presidente  del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera
 dei deputati.
     Piacenza, addi' 27 maggio 1996
            Il giudice per le indagini preliminari: Picciau
 96C1176