N. 313 SENTENZA 18 - 25 luglio 1996

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Impiego  pubblico  -  Dirigenti  dello  Stato  -  Privatizzazione   -
 Esclusione  per  i  soli  dirigenti  generali  con  mantenimento  del
 rapporto  pubblicistico   -   Diversificazione   del   rapporto   non
 rappresentante  di  per  se'  un  pregiudizio per l'imparzialita' del
 dipendente pubblico - Ragionevolezza della scelta del  legislatore  -
 Collocazione  del  tutto  peculiare  dei  dirigenti  generali  per la
 contiguita' con l'esecutivo - Non confrontabilita'  delle  rispettive
 posizioni  -  Non  suscettibile  di  essere assunta a valore assoluto
 l'unitarieta' della dirigenza - Non fondatezza -  Inammissibilita'  -
 Inammissibilita' della costituzione in giudizio della C.G.I.L. per un
 generico  interesse  di  fatto  ritenuto insufficiente per fondare il
 diritto di intervento.
 
 (Legge  23  ottobre  1992,  n.  421, art. 2, primo comma, lettera a);
 d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, artt. 2, secondo e quarto  comma,  16,
 17 e 20, primo comma; d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 12, secondo
 e quarto comma; legge 23 ottobre 1992, n. 421, art. 2).
 
 (Cost., artt. 3 e 97).
(GU n.34 del 21-8-1996 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: avv. Mauro FERRI;
  Giudici: prof. Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,    dott.  Renato
 GRANATA,
  prof.  Giuliano  VASSALLI,    prof. Francesco GUIZZI,   prof. Cesare
 MIRABELLI,  prof. Fernando SANTOSUOSSO,   avv. Massimo VARI,    dott.
 Cesare RUPERTO,  dott. Riccardo CHIEPPA,  prof. Gustavo ZAGREBELSKY,
  prof. Valerio ONIDA,  prof. Carlo MEZZANOTTE;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  degli artt. 2, primo
 comma, lettera b) (recte: lettera a)), della legge 23  ottobre  1992,
 n.  421  (Delega  al  governo per la razionalizzazione e la revisione
 delle discipline in materia  di  sanita',  di  pubblico  impiego,  di
 previdenza  e  di  finanza  statale),  2, commi secondo e quarto, 12,
 commi secondo e quarto,  16,  17  e  20,  primo  comma,  del  decreto
 legislativo    3    febbraio    1993,    n.   29   (Razionalizzazione
 dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della
 disciplina in materia di pubblico impiego, a  norma  dell'articolo  2
 della  legge  23 ottobre 1992, n. 421), promosso con ordinanza emessa
 il 5 luglio 1995 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio sul
 ricorso proposto da Fidei Giacomo ed altri contro il  Presidente  del
 Consiglio  dei  Ministri,  iscritta  al n. 286 del registro ordinanze
 1996  e  pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14,
 prima serie speciale, dell'anno 1996;
   Visti gli atti di costituzione di Fidei Giacomo  ed  altri  nonche'
 gli  atti  di  intervento  della  C.G.I.L.  - Confederazione generale
 italiana del  lavoro,  della  C.I.  S.L.  -  Confederazione  italiana
 sindacato  lavoratori  -  e  della  U.I.L.  -  Confederazione  unione
 italiana del lavoro - e del Presidente del Consiglio di Ministri;
   Udito nell'udienza pubblica del 25 giugno 1996 il giudice  relatore
 Cesare Ruperto;
   Uditi  gli avvocati Federico Sorrentino e Massimo Luciani per Fidei
 Giacomo ed  altri,  Sandro  M.  Carucci,  Massimo  D'Antona  e  Luigi
 Fiorillo  per  la  C.G.I.L.  -  C.I. S.L. - U.I.L. e l'Avvocato dello
 Stato Ivo M. Braguglia per il Presidente del Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1. -  Nel corso di un giudizio in cui i ricorrenti  -  tutti  primi
 dirigenti  o  dirigenti  superiori  dell'amministrazione  centrale  e
 periferica   della   Pubblica   Istruzione   -   avevano    richiesto
 l'annullamento   della   circolare  4  marzo  1993  n.  6/1993  della
 Presidenza del Consiglio dei Ministri (concernente indirizzi  per  la
 fase  di  prima applicazione della nuova disciplina della dirigenza),
 il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con ordinanza emessa
 il 5 luglio 1995, ha sollevato - in riferimento agli  artt.  3  e  97
 della   Costituzione   -  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art. 2, primo comma, lettera  b)  (recte:  a))  della  legge  23
 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la
 revisione  delle  discipline  in  materia  di  sanita',  di  pubblico
 impiego, di previdenza e di finanza statale) nonche' degli  artt.  2,
 commi  secondo  e  quarto,  12,  commi secondo e quarto, 16, 17 e 20,
 primo comma, del d.P.R. (recte: decreto legislativo) 3 febbraio 1993,
 n. 29 (Razionalizzazione  dell'organizzazione  delle  amministrazioni
 pubbliche  e  revisione  della  disciplina  in  materia  di  pubblico
 impiego, a norma dell'articolo 2 della  legge  23  ottobre  1992,  n.
 421).
   Premette  il  rimettente,  in  punto  di rilevanza, che l'impugnata
 circolare reca alcune disposizioni circa  l'immediata  applicabilita'
 del  decreto  legislativo n. 29 del 1993, idonee ad innovare lo stato
 giuridico dei dirigenti dello Stato, in  particolare  condizionandone
 complessivamente    l'attivita'   quanto   alla   organizzazione   ed
 all'esercizio delle funzioni; per  cui  il  Tribunale  amministrativo
 regionale   non   potrebbe   pronunciarsi  sulla  legittimita'  della
 circolare stessa, se non tenendo  conto  delle  norme  oggetto  della
 censura.
   Nel  merito osserva il giudice a quo come, con l'art. 2 della legge
 n. 421 del 1992, il  governo  sia  stato  delegato  al  riordino  del
 settore  pubblico,  mediante la prevista riconduzione alla disciplina
 dettata dal  codice  civile  dei  rapporti  di  lavoro  dei  pubblici
 dipendenti,  mantenendosi  nel  contempo  la  vigente  disciplina del
 rapporto d'impiego solo per alcune categorie  di  personale  quali  i
 magistrati,  gli  avvocati  e procuratori dello Stato, i militari, il
 personale delle forze  di  polizia,  delle  carriere  diplomatiche  e
 prefettizie,  nonche'  i  "dirigenti  generali ed equiparati", cui ne
 sono state successivamente aggiunte altre dal decreto legislativo  n.
 29 del 1993 attuativo della menzionata legge delega.
   Secondo  il  Tribunale  amministrativo regionale rimettente, l'art.
 97 della Costituzione - col demandare alla legge la definizione delle
 sfere di competenza, delle attribuzioni e delle  responsabilita'  dei
 funzionari  -  garantisce  tanto l'autonomia di questi ultimi, quanto
 l'imparzialita' della amministrazione poiche', creando in favore  dei
 funzionari  stessi  una  sfera  di  attribuzioni  di  cui  essi  sono
 personalmente responsabili in tutta autonomia, pone la loro azione al
 riparo dalle "esigenze contingenti  degl'indirizzi  politici  di  una
 maggioranza  espressione degli organi di governo". Con tali premesse,
 al giudice  a  quo  non  pare  conciliabile  la  privatizzazione  dei
 dirigenti  diversi dai dirigenti generali, soprattutto in ragione del
 permanere, anzi dell'ampliarsi, dei loro poteri di rilevanza  esterna
 e  percio'  di  natura  pubblicistica.  In  particolare, un regime di
 recedibilita' caratterizzato dal venir meno del rapporto  di  fiducia
 potrebbe rivelarsi pregiudizievole per l'indipendenza di giudizio dei
 dirigenti,  posto che, in a'mbito privatistico, il dirigente e' colui
 che si sostituisce al datore di lavoro in alcune scelte  decisionali.
 Altrettanto  potrebbe  argomentarsi  con  riguardo  all'affidamento a
 nuclei  di  valutazione,  anche  esterni  all'amministrazione,  della
 verifica  dei risultati ottenuti.  Le ampie attribuzioni assegnate ai
 dirigenti, strumentali ad una  puntuale  soddisfazione  dei  pubblici
 interessi,  non  sarebbero  insomma  garantite  dall'inserimento  del
 rapporto nella contrattazione collettiva di  diritto  comune  con  la
 conseguente perdita della "forte stabilita' del rapporto d'impiego".
   Il  Tribunale  amministrativo  regionale  osserva poi, con riguardo
 all'art. 3 della Costituzione, che la  differenziazione  tra  le  due
 categorie, attesa l'unitarieta' della dirigenza, appare irragionevole
 ed arbitraria. Unica e' infatti la responsabilita' dirigenziale della
 gestione  e  dei  relativi  risultati  (ex art. 3, secondo comma, del
 decreto legislativo n. 29 del 1993) ed unico e' l'albo dei dirigenti.
 La diversita' di compiti affidati ai dirigenti generali  esprimerebbe
 soltanto  una  necessaria  "articolazione" dell'unica carriera in due
 livelli, di cui solo uno apicale, ma non  potrebbe  giustificare  una
 radicale differenziazione di stato giuridico.
   Il  rimettente  si  richiama quindi al principio di ragionevolezza,
 osservando che se le garanzie  implicate  nel  rapporto  di  pubblico
 impiego  sono  state  ritenute necessarie per i dirigenti generali, a
 fortiori esse avrebbero dovuto essere  assicurate  anche  agli  altri
 dirigenti,  "in  quanto le possibilita' di condizionamento su di essi
 da parte del potere politico sono ancora maggiori".
   Il  giudice  a  quo  individua  infine  un  ulteriore  profilo   di
 violazione del principio d'eguaglianza, in confronto con l'esclusione
 dalla  privatizzazione  di  una  serie  di  categorie  di  personale,
 adombrando altresi' la violazione dell'art. 76 della Costituzione per
 l'inserimento, tra quelle non privatizzate, di categorie non comprese
 nella previsione della  delega  contenuta  nell'art.  2  del  decreto
 legislativo  n. 29 del 1993 (in particolare i dipendenti che svolgono
 la loro  attivita'  nell'a'mbito  della  tutela  del  credito  e  del
 risparmio,  della  vigilanza  sulle  societa' e sulla borsa ed infine
 sulla concorrenza ed il mercato).
   2. - E' intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura dello Stato, che ha concluso
 per  l'infondatezza  della  questione,  in   quanto   l'autonomia   e
 l'indipendenza   del   pubblico  funzionario  non  possono  ritenersi
 compromesse dalla  privatizzazione  del  rapporto  di  lavoro,  anche
 considerando che "negli ultimi tempi" le differenze tra i due tipi di
 rapporti sono andate nettamente affievolendosi.
   Secondo  l'Avvocatura,  peraltro,  la riconduzione del rapporto dei
 dirigenti  al  diritto  civile  andrebbe  circoscritta,   quanto   ad
 operativita'    della    contrattazione    collettiva,    "pressoche'
 esclusivamente alla sfera del trattamento economico". Per il resto la
 dirigenza  risulterebbe  sotto   diversi   aspetti   legislativamente
 disciplinata,   mentre   sarebbero   stati  mantenuti  i  profili  di
 responsabilita'  caratteristici  della   disciplina   pregressa.   Il
 richiamo  al  diritto  civile  per  quanto  concerne  le modalita' di
 cessazione  del  rapporto,  oltre  ad  esprimere  il  senso  di   una
 evoluzione  di quest'ultimo, anche alla luce della soppressione delle
 cause estintive gia' contenute nell'art. 2  della  legge  n.  93  del
 1983,  indicherebbe  la  ratio  di  una privatizzazione limitata alla
 legge  ma  non  estesa  in  modo  generalizzato  alla  contrattazione
 collettiva.
   Pur  dando  atto  della  unitarieta' della categoria dei dirigenti,
 l'Autorita' intervenuta ritiene che la diversificazione di funzioni e
 di compiti ben possa  giustificare  una  differenziazione  di  regime
 giuridico  anche  sotto  il  profilo  della  fonte  che disciplina il
 rapporto.
   Quanto  all'eccesso  di  delega,  l'Avvocatura,  oltre  a  rilevare
 l'omessa  motivazione  sub  art.  76  della Costituzione, osserva che
 l'impugnato art. 2, primo comma, lettera  a)  fa  comunque  "salvi  i
 limiti   collegati   al  perseguimento  degl'interessi  generali  cui
 l'organizzazione e  l'azione  delle  pubbliche  amministrazioni  sono
 indirizzate".  In  tale  sfera  rientrerebbero le tre categorie sopra
 citate, in relazione alle quali non sarebbe possibile  instaurare  un
 giudizio  di  comparazione, atteso che coloro che operano nel settore
 del credito e del risparmio gia' non erano soggetti alla legge-quadro
 sul pubblico impiego (ex art.  26 legge n. 93 del 1983).
   3. - I ricorrenti si sono costituiti nel giudizio davanti a  questa
 Corte,  preliminarmente osservando che la circolare impugnata davanti
 al  Tribunale  amministrativo  regionale  determina  la   diretta   e
 immediata  compromissione  dei  legittimi  interessi  dei  ricorrenti
 stessi, che "vedono cristallizzato dall'atto impugnato un trattamento
 giuridico irragionevolmente differenziato rispetto a quello praticato
 ai dirigenti generali", si'  che  essa  e'  direttamente  applicativa
 della  normativa  primaria  impugnata,  con  la conseguente rilevanza
 della questione.
   Nel merito, a sostegno dell'illegittimita' costituzionale, la parte
 privata ricorda come la  scelta  di  procedere  alla  privatizzazione
 della  dirigenza,  dividendo  la  stessa  in  due tronconi, sia stata
 operata dal legislatore trascurando i rilievi della dirigenza stessa,
 ma soprattutto disattendendo  le  contrarie  osservazioni  mosse  sul
 punto   al   disegno   di   legge,   poi  presentato  al  Parlamento,
 dall'Adunanza generale del Consiglio  di  Stato  nel  parere  del  31
 agosto  1992.  Premesso  che  non e' qui in contestazione la ratio di
 fondo della privatizzazione, bensi' il circoscritto aspetto afferente
 la dirigenza, che si chiede di  ricondurre  a  coerenza  interna,  la
 parte  richiama  le  considerazioni  di  cui  al  citato  parere,  in
 particolare  la'  dove  coglie   il   vulnus   dell'art.   97   della
 Costituzione,  che si realizzerebbe nell'assoggettamento del rapporto
 d'impiego  dei  dirigenti  alla   disciplina   privatistica   e   nel
 mantenimento  contemporaneo,  in capo ai medesimi, di numerosi poteri
 di tipo pubblicistico. La distinzione tra organizzazione della p.a. e
 rapporto di lavoro, valorizzata dalla  scelta  di  privatizzare,  non
 avrebbe  quindi  un  senso  per le categorie titolari di una pubblica
 potestas.
   Ulteriore profilo di condizionamento dell'attivita'  dei  dirigenti
 "privatizzati"  sarebbe poi ravvisabile nel fatto che la verifica dei
 risultati da  questi  ottenuti  puo'  essere  affidata  a  nuclei  di
 valutazione   composti   da  soggetti  privati,  cosi'  dimostrandosi
 "l'illegittimo     disconoscimento     della      differenza      tra
 un'amministrazione  pubblica  e una societa' per azioni"; e parimenti
 violandosi l'art. 97 della Costituzione per  l'omessa  determinazione
 dei parametri di valutazione.
   La rottura del nesso tra garanzie di status dei funzionari pubblici
 e garanzie d'imparzialita' nell'esercizio delle loro funzioni sarebbe
 altresi'   confermata   dal   fatto   che  la  delicatissima  materia
 disciplinare   viene   interamente   affidata   alla   contrattazione
 collettiva.
   Quanto  ai  profili di lesione dell'art. 3 della Costituzione, essi
 sarebbero  ravvisabili  in   una   discriminazione   tra   dirigenti,
 introdotta  in  una  logica  -  ribadita  anche  dalla  novella degli
 impugnati artt.  16 e 17, introdotta dagli artt. 9 e 10 del d.lgs. 23
 dicembre 1993, n.  546  -  che  presuppone  invece  l'unicita'  della
 funzione  dirigenziale,  confermata  dalla presenza di un unico albo,
 che, per definizione, raggruppa figure omogenee. Si'  che,  anche  se
 non  censurabile  sotto  il  profilo  della  lesione del principio di
 eguaglianza, la normativa de qua incorrerebbe  nella  violazione  del
 canone  di  ragionevolezza.    Le  garanzie  legate  al  rapporto  di
 servizio, infatti, avrebbero dovuto essere mantenute per i  dirigenti
 generali  a  maggior  ragione che per gli altri, proprio per la minor
 forza della loro posizione giuridica.
   Peraltro l'inclusione di altre categorie - citate  in  ordinanza  -
 tra  quelle  "salvate" dalla privatizzazione e dai conseguenti rischi
 di condizionamento "getta una luce ancor piu' sinistra sul  deteriore
 trattamento  riservato alla categoria dei dirigenti", risolvendosi in
 un irragionevole privilegio, dovuto alla cura d'interessi  totalmente
 privi di copertura costituzionale.
   L'esclusione  di tali categorie dalla privatizzazione concreterebbe
 altresi' la violazione della delega, anche se il parametro costituito
 dall'art. 76 e' citato soltanto nella motivazione  dell'ordinanza  di
 rimessione.
   4.  -  Nel  giudizio  dinanzi  a  questa  Corte  si  sono  altresi'
 costituite la C.G.I.L., la C.I. S.L.  e  la  U.I.L.,    chiedendo  di
 essere    ammesse    a    partecipare   al   presente   giudizio   di
 costituzionalita'. Ma, con ordinanza dibattimentale, l'intervento  e'
 stato dichiarato inammissibile, non essendo state tali confederazioni
 ritenute  parti  del giudizio principale o titolari di una situazione
 giuridica soggettiva diretta e individualizzata, su cui  il  presente
 giudizio possa incidere.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Secondo il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, gli
 artt. 2, primo comma, lettera b) (recte: lettera a)) della  legge  23
 ottobre  1992, n. 421, e 2, commi secondo e quarto, 12, commi secondo
 e quarto, 16, 17  e  20,  primo  comma,  del  decreto  legislativo  3
 febbraio  1993,  n.  29,  nella  parte  in cui mantengono il rapporto
 pubblicistico  di  servizio  per  i   soli   dirigenti   generali   e
 privatizzano  viceversa lo status degli altri dirigenti, violerebbero
 gli artt. 97 e 3 della Costituzione
   Per quanto concerne l'asserita  lesione  del  primo  dei  parametri
 evocati, il Tribunale rimettente ritiene che la "privatizzazione" dei
 dirigenti  (diversi  da quelli generali) si porrebbe in contrasto con
 l'art.  97  della  Costituzione  nella  parte  in  cui  quest'ultimo,
 demandando  alla  legge  la determinazione delle sfere di competenza,
 delle attribuzioni e delle responsabilita'  dei  funzionari,  sarebbe
 volto   a  garantire  sia  l'autonomia  dei  funzionari  stessi,  sia
 l'imparzialita' dell'amministrazione, per il fatto  di  sottrarre  in
 tal   modo   l'azione  amministrativa  alle  indebite  influenze  dei
 contingenti indirizzi politici degli organi di governo.
   La violazione si concreterebbe, in  particolare,  nella  previsione
 d'un  "regime di recesso dal rapporto di lavoro, incentrato nell'area
 contrattualistica privata sul venir meno del rapporto di fiducia  nei
 confronti del dirigente", e nell'affidamento a nuclei di valutazione,
 anche  esterni  all'amministrazione,  della  verifica  dei  risultati
 raggiunti.   In proposito il rimettente esprime  il  dubbio  che  "il
 novero di attribuzioni, ampie e significative, assegnate ai dirigenti
 dall'art.  17  ...,  possa  essere  condizionato"  da una tale scelta
 legislativa,  "non   correlata   esclusivamente   all'imparziale   ed
 efficiente  svolgimento  delle  attribuzioni stesse e non limitata da
 una forte stabilita' del rapporto d'impiego pubblico".
   Per quanto concerne la lesione dell'art. 3 della Costituzione, essa
 viene  prospettata  sotto  il  profilo  dell'irragionevolezza   della
 differenziazione del regime giuridico afferente al rapporto di lavoro
 relativo  a  due  categorie  -  quella  dei  dirigenti  e  quella dei
 dirigenti generali - da considerare quali mere articolazioni  interne
 di  una  figura  concepita  come sostanzialmente unitaria. Tanto piu'
 irragionevole apparirebbe tale differenziazione considerando che -  a
 se'guito  di  essa  -  delle garanzie proprie del rapporto di impiego
 pubblico, assicurate ai dirigenti  generali,  sarebbero  privati  gli
 altri  dirigenti,  maggiormente esposti al condizionamento del potere
 politico. In definitiva, secondo il giudice a quo, il  nuovo  assetto
 colliderebbe con il principio della separazione tra amministrazione e
 politica,  ribadito  anche  dalla  sentenza  n. 68 del 1980 di questa
 Corte.
   Ulteriore profilo di contrasto  con  l'art.  3  della  Costituzione
 starebbe nella esclusione dalla privatizzazione imposta ai dirigenti,
 di  altre  categorie  di  dipendenti  pubblici (peraltro non indicate
 nella legge di delega): esclusione non giustificabile, trattandosi di
 soggetti pure esercenti funzioni riconducibili allo Stato e connotate
 da un alto grado di imparzialita', senza peraltro  essere  dotate  di
 alcuna "copertura costituzionale".
   2.  -  Preliminarmente  va  confermata,  nelle  motivazioni e nelle
 conclusioni, l'ordinanza  dibattimentale  con  cui  questa  Corte  ha
 negato  l'ammissibilita'  dell'intervento  delle  tre  Confederazioni
 sindacali C.G.I.L., C.I. S.L.  e U.I.L.
   3. - Nel merito va anzitutto  precisato  che,  pur  nell'imperfetta
 identificazione  delle norme ritenute lesive degli evocati parametri,
 la sollevata questione e' riconducibile  all'unico  thema  decidendum
 della   legittimita'  costituzionale  della  duplicazione  di  regime
 giuridico   cui   e'   stato   assoggettato  il  rapporto  di  lavoro
 dirigenziale. Restano pertanto estranei  al  presente  giudizio,  sia
 ogni  valutazione  circa  la ratio di fondo della privatizzazione del
 rapporto di pubblico impiego, sia il tema dell'eccesso di delega, cui
 infatti il rimettente fa cenno solo quale sintomo di irragionevolezza
 della denunciata normativa.
   Inammissibile,  perche'   egualmente   estranea   all'oggetto   del
 giudizio,  deve  poi  considerarsi  l'impugnativa dell'art. 12, commi
 secondo e quarto.
   4. - Cosi' circoscritta, la questione non e' fondata.
   4.1. - A partire  dal  nuovo  ordinamento  delle  autonomie  locali
 (legge  8  giugno  1990,  n.  142)  e  dalla riforma del procedimento
 amministrativo  (legge  7  agosto  1990,  n.  241),  il  legislatore,
 attraverso  una  molteplicita'  di  interventi  -  quali,  ad es., la
 limitazione dei controlli preventivi -, si e'  indirizzato  verso  un
 nuovo    modello    di    organizzazione,   vo'lto   ad   alleggerire
 progressivamente l'apparato amministrativo dal suo carico di  vincoli
 sostanziali e procedimentali.
   In  tale  processo  si inserisce la delega di cui alla legge n. 421
 del 1992, incentrata sulla cosiddetta  privatizzazione  del  pubblico
 impiego. Una scelta, questa, diretta a valorizzare la distinzione tra
 organizzazione  della  pubblica  amministrazione,  la  cui disciplina
 viene affidata in primo luogo alla legge, e rapporto  di  lavoro  dei
 pubblici  dipendenti,  tendenzialmente demandato allo strumento della
 contrattazione collettiva (v. anche sentenza  n.  88  del  1996).  Il
 decreto  legislativo  n.  29  del  1993,  sia  pure  entro  un quadro
 strutturale della pubblica  amministrazione  rimasto  sostanzialmente
 inalterato,  attua il disegno del legislatore delegante, abbandonando
 il tradizionale statuto del pubblico impiego in favore della regola -
 temperata da alcune eccezioni - del rapporto  di  lavoro  subordinato
 privato,  ritenuta  piu'  idonea alla realizzazione delle esigenze di
 flessibilita' nella gestione  del  personale  sottese  alla  riforma.
 Flessibilita', vista come strumentale ad assicurare il buon andamento
 dell'amministrazione,  salvi  peraltro restando i limiti collegati al
 perseguimento  degli  interessi  generali  cui   l'organizzazione   e
 l'azione delle pubbliche amministrazioni sono indirizzate (v. art. 2,
 primo  comma,  lettera  a),  della  legge n. 421 del 1992). In questo
 quadro, la legge, in vista del rispetto anche degli  altri  princi'pi
 posti  dal medesimo art. 97 della Costituzione, non rinuncia tuttavia
 a disciplinare nel merito - e sovente non soltanto con norme di  mero
 principio   -   numerosi   aspetti  dei  rapporti  privatizzati  piu'
 strettamente   legati   a   profili   organizzativi    dell'attivita'
 dell'amministrazione: tra i quali, in particolare, quelli concernenti
 la dirigenza.
   La   disciplina   della   dirigenza  non  puo'  essere  avulsa  dal
 complessivo sistema instaurato con la riforma, per  isolare  il  solo
 aspetto  della diversita' di regimi giuridici cui sono assoggettati i
 dirigenti generali da un lato e gli altri dirigenti  dall'altro.  Una
 consimile  unilaterale  prospettazione  -  che  e'  quella ricavabile
 dall'ordinanza di rimessione - cristallizzerebbe infatti il  tema  in
 termini   di   status   e   non   coglierebbe   viceversa   l'aspetto
 dinamico-funzionale dell'attuale collocazione della dirigenza.
   4.1.1.  -  Una  diversificazione  del  regime  del  rapporto  - con
 duplicazione della relativa fonte - non rappresenta  di  per  se'  un
 pregiudizio  per  l'imparzialita'  del dipendente pubblico, posto che
 per questi (dirigente o no) non vi e' - come accade per i  magistrati
 -    una   garanzia   costituzionale   di   autonomia   da   attuarsi
 necessariamente con legge attraverso uno stato giuridico  particolare
 che assicuri, ad es., stabilita' ed inamovibilita'.
   Vero  e'  invece  che  la  scelta  tra l'uno e l'altro regime resta
 affidata alla discrezionalita' del  legislatore,  da  esercitarsi  in
 vista  della  piu'  efficace ed armonica realizzazione dei fini e dei
 princi'pi  che  concernono  l'attivita'  e   l'organizzazione   della
 pubblica  amministrazione.  In particolare, il corretto bilanciamento
 tra i due termini dell'art.  97 della Costituzione,  imparzialita'  e
 buon  andamento, puo' attuarsi - e tanto e' avvenuto con la normativa
 in esame - riservando alla legge una serie di profili  ordinamentali;
 si'  che, per converso, risultino sottratti alla contrattazione tutti
 quegli aspetti in cui il rapporto di ufficio implica  lo  svolgimento
 di  compiti  che partecipano del momento organizzativo della pubblica
 amministrazione.
   Ai dirigenti non generali l'impugnato decreto  legislativo  riserva
 infatti,   come  garantita,  solo  un'area  del  tutto  peculiare  di
 contrattazione,   che   limita   lo   spazio   negoziale   pressoche'
 esclusivamente  al  trattamento  economico  e che comunque non incide
 sugli aspetti ordinamentali e funzionali della dirigenza.
   Inoltre, mancando ancora una concreta attuazione dell'art.  46  del
 citato  decreto  legislativo,  deve  escludersi,  allo  stato, che il
 combinato disposto degli artt. 59, terzo comma, e  20,  primo  comma,
 consenta  di introdurre - come invece paventato dalle parti private -
 una regolamentazione contrattuale della responsabilita'  disciplinare
 dei  dirigenti. Salva quindi una successiva verifica di tale aspetto,
 sempre possibile nel futuro, deve rilevarsi come  la  disciplina  del
 rapporto  de  quo risulti - e ne sia strutturalmente caratterizzata -
 dalla contemporanea esistenza di piu' fonti regolatrici, venendosi  a
 collocare  a  meta'  strada  fra  il  modello  pubblicistico e quello
 privatistico: cio' in coerenza, da un lato, con la posizione  apicale
 propria  di  tale categoria rispetto al complesso del personale, piu'
 nettamente privatizzato, e, dall'altro lato, con il ruolo di cerniera
 tra indirizzo politico ed azione amministrativa che le  e'  assegnato
 nel rapporto con la funzione di governo.
   D'altronde, e' appena il caso di rammentare che l'applicabilita' al
 rapporto   di  lavoro  dei  pubblici  dipendenti  delle  disposizioni
 previste  dal  codice  civile  comporta  non  gia'  che  la  pubblica
 amministrazione  possa  liberamente  recedere dal rapporto stesso, ma
 semplicemente che la  valutazione  dell'idoneita'  professionale  del
 dirigente  e' affidata a criteri e a procedure di carattere oggettivo
 -  assistite  da  un'ampia   pubblicita'   e   dalla   garanzia   del
 contraddittorio  -,  a  conclusione  delle quali soltanto puo' essere
 esercitato il recesso.
   4.1.2. - Conclusivamente, deve  quindi  escludersi  il  prospettato
 vulnus all'art. 97 della Costituzione. In particolare va ribadito che
 il  valore dell'imparzialita' puo' essere in astratto - e viene dalla
 normativa  in  esame  -  non  irrazionalmente  integrato  con  quello
 dell'efficienza:  essendo  da ritenere che l'imparzialita' stessa non
 debba essere garantita  necessariamente  nelle  forme  dello  statuto
 pubblicistico   del   dipendente,   ben   potendo  viceversa  trovare
 attuazione  - come nel caso di specie - in un equilibrato dosaggio di
 fonti regolatrici.
   4.2. - Da escludere  e'  anche  la  violazione  dell'art.  3  della
 Costituzione,   sia  sotto  il  profilo  dell'irragionevolezza  della
 dicotomia di  regime  operata  dal  legislatore  all'interno  di  una
 categoria  unitaria  come  sarebbe  quella  dei  dirigenti, sia sotto
 quello della disparita' di trattamento rispetto agli stessi dirigenti
 generali e ad altre diverse categorie di personale, non  assoggettate
 al regime privatistico.
   4.2.1. - Nell'a'mbito della dirigenza, il quadro delle attribuzioni
 e'  tracciato  dagli  artt.  3,  secondo comma,   16 e 17 del decreto
 legislativo n. 29 del 1993, secondo uno  schema  cosi'  riassumibile:
 formulazione  delle  proposte,  adozione  dei  progetti, assegnazione
 delle risorse, gestione, attuazione e verifica dei risultati. Ma solo
 ai dirigenti generali competono, fra  tali  funzioni,  quelle  che  -
 siccome   di  attribuzione  e  d'impulso  -  sono  piu'  direttamente
 raccordabili all'attivita' politica di definizione  degli  obiettivi,
 secondo la previsione di cui alle lettere a) e b) del citato art. 16.
   Tale  contiguita' con l'Esecutivo individua dunque una collocazione
 del tutto peculiare dei dirigenti generali, la quale trova  riscontro
 nella  norma  di accesso alla relativa qualifica, che non consegue ad
 un ordinario sviluppo di carriera, bensi' ad un  reclutamento  basato
 su   una  scelta  largamente  discrezionale  entro  gli  ampi  limiti
 tracciati dall'art. 21 (che ammette anche  la  nomina  in  favore  di
 soggetti  estranei  alla pubblica amministrazione). Laddove gli altri
 dirigenti - provenienti tutti dal personale  inferiore,  secondo  una
 normale  progressione  di  carriera,  basata  su  criteri di merito e
 anzianita'  -  operano  in  spazi  predeterminati  e  con   attivita'
 prevalentemente   di   gestione,   essendo  solo  eventuale  la  loro
 partecipazione  ai  processi  di  determinazione  degli  a'mbiti   di
 organizzazione  e  delle  risorse. Si' da potersi affermare che si e'
 ormai passati a una terza formula normativa della dirigenza pubblica,
 diversa non solo da quella di antico stampo,  caratterizzata  da  una
 rigida  gerarchia  fra  Ministro  e  dirigenti,  ma  anche  da quella
 successiva, sperimentata col d.P.R. 30 giugno 1972, n. 748,  che  era
 stata   costruita   come   ordine   di   qualifiche  e  funzioni  con
 legittimazione autonoma nel quadro della carriera direttiva.  Insomma
 il  distacco  fra  dirigenti  e  dirigenti  generali  s'e' accentuato
 notevolmente, finendo questi ultimi  con  l'essere  conformati  quale
 raccordo  tra  potere  politico  e comune dirigenza, la cui attivita'
 essi "verificano e controllano... anche  con  potere  sostitutivo  in
 caso d'inerzia" (v. lettera h) del citato art. 16).
   Risulta  allora  evidente,  ai  fini  che qui interessano, come non
 siano confrontabili le rispettive posizioni e come, in ogni modo, sia
 giustificabile  la  denunciata  diversita'  di  regimi;   la   quale,
 d'altronde,  anche  sulla base delle anzidette considerazioni in tema
 di contrattazione, finisce per essere assai meno  marcata  di  quanto
 sembra  ritenere  il rimettente. A riguardo puo' anche osservarsi che
 il meccanismo di valutazione dei risultati ex art. 20  e'  comune  ad
 entrambe  le  categorie,  residuando  una  sostanziale  differenza  -
 peraltro coerente con le due matrici,  pubblicistica  e  codicistica,
 delle situazioni soggettive - soltanto con riguardo, da un lato, alla
 messa a disposizione e, dall'altro, alla risoluzione del rapporto.
   L'unitarieta'  della  dirigenza - su cui molto insiste il giudice a
 quo - resta dunque un concetto  accettabile  solo  se  riferito  agli
 indubbi  elementi  di  omogeneita' professionale che sono ravvisabili
 fra tutti i dirigenti, e che  sono  espressi  dall'iscrizione  ad  un
 unico  albo;  come  tale, non suscettibile di essere assunta a valore
 assoluto o considerata teleologicamente connessa con l'art. 97  della
 Costituzione.
   4.2.2.  -  Ancor  meno  confrontabile  risulta poi la posizione dei
 dirigenti non generali con quella delle altre categorie di  personale
 di  cui  all'art.  2, quarto comma, del decreto legislativo n. 29 del
 1993.
   Cio'  appare  evidente  per  quanto  concerne   i   magistrati   ed
 assimilati,  i  militari, i professori universitari, i diplomatici ed
 il personale della  carriera  prefettizia:  categorie,  ognuna  delle
 quali  esprime  una  propria  ed  evidente specificita' rispetto alla
 dirigenza in esame.   Per quanto riguarda  invece  i  dipendenti  che
 svolgono  le  loro  attivita' nell'a'mbito della tutela del credito e
 del risparmio, della vigilanza sulle societa' e sulla borsa e  infine
 sulla  concorrenza  ed  il  mercato,  basta  qui rilevare che la loro
 sottrazione alla privatizzazione non implica  affatto  l'applicazione
 dello  statuto  del  pubblico  impiego,  ma rappresenta solo la presa
 d'atto di  come  per  essi  siano  gia'  in  essere  moduli  proprii,
 fortemente  caratterizzati  da  elementi privatistici in correlazione
 con l'autonomia su cui le  Autorita'  indipendenti  fondano  la  loro
 presenza  nell'ordinamento:  autonomia,  che non puo' non riflettersi
 anche sul momento conformativo del rapporto di lavoro del  personale.
 Relativamente  poi in particolare ai dipendenti degli istituti per il
 credito e il risparmio, e' appena il  caso  di  rammentare  che  essi
 erano  stati  gia' espressamente esclusi dalla disciplina della legge
 quadro del pubblico impiego (v. art. 26 della legge 29 marzo 1983, n.
 93).
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara non fondata la questione  di  legittimita'  costituzionale
 degli  artt. 2, primo comma, lettera a), della legge 23 ottobre 1992,
 n. 421 (Delega al Governo per la  razionalizzazione  e  la  revisione
 delle  discipline  in  materia  di  sanita',  di pubblico impiego, di
 previdenza e di finanza statale), 2, commi secondo e quarto, 16, 17 e
 20, primo comma, del decreto  legislativo  3  febbraio  1993,  n.  29
 (Razionalizzazione    dell'organizzazione    delle    amministrazioni
 pubbliche  e  revisione  della  disciplina  in  materia  di  pubblico
 impiego,  a  norma  dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421),
 sollevata, in riferimento agli artt.  3 e 97 della Costituzione,  dal
 Tribunale  amministrativo regionale del Lazio, con l'ordinanza di cui
 in epigrafe;
   Dichiara inammissibile la questione di legittimita'  costituzionale
 dell'art.  12,  commi  secondo  e  quarto,  del decreto legislativo 3
 febbraio 1993, n.  29  (Razionalizzazione  dell'organizzazione  delle
 amministrazioni  pubbliche e revisione della disciplina in materia di
 pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n.
 421), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione,
 dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con l'ordinanza  di
 cui in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 18 luglio 1996.
                         Il Presidente: Ferri
                         Il redattore: Ruperto
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 25 luglio 1996.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
                               Allegato
 Reg. ord. n. 286 del 1996.
        Ordinanza letta nell'udienza pubblica del 25 giugno 1996
   Visto  l'atto  di  costituzione  della  C.G.I.L.  -  Confederazione
 generale  italiana  del  lavoro,  della  C.I.  S.L.  - Confederazione
 italiana sindacato lavoratori  -  e  della  U.I.L.  -  Confederazione
 unione  italiana  del  lavoro  - in data 20 aprile 1996, nel giudizio
 promosso dal T.A.R.  del Lazio, sez. I, con  ordinanza  emessa  il  5
 luglio 1995, iscritta al n. 286 del registro ordinanze del 1996;
   Considerato  che  nei giudizi di legittimita' costituzionale in via
 incidentale sono legittimate a  costituirsi  soltanto  le  parti  del
 giudizio  a  quo  che,  al  momento  del  deposito o della lettura in
 dibattimento dell'ordinanza  di  rimessione,  avevano  tale  qualita'
 (cfr. sentenze n. 117 del 1996 e n. 315 del 1992);
     che  viceversa  le  Confederazioni  sindacali  si sono limitate a
 depositare  nella  cancelleria  del  rimettente  un  mero   atto   di
 intervento   notificato  ai  ricorrenti,  solo  successivamente  alla
 sospensione   del   procedimento   a   seguito   della   proposizione
 dell'incidente di costituzionalita';
     che,  peraltro, un generico interesse di fatto non e' sufficiente
 per fondare il diritto di costituzione o di intervento, il quale deve
 basarsi sulla configurabilita' di una situazione giuridica soggettiva
 diretta ed individualizzata, riconoscibile solo  quando  l'esito  del
 giudizio  di costituzionalita' sia destinato ad incidere direttamente
 su  una  posizione  giuridica  propria  della  parte   costituita   o
 intervenuta (v. sentenza n. 421 del 1995);
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara   inammissibile   la   costituzione   della   C.G.I.L.   -
 Confederazione generale  italiana  del  lavoro,  della  C.I.  S.L.  -
 Confederazione  italiana  sindacato  lavoratori  -,  e della U.I.L. -
 Confederazione unione italiana del lavoro, nel giudizio promosso  dal
 T.A.R.  del  Lazio,  sez.  I,  con ordinanza emessa il 5 luglio 1995,
 iscritta al n. 286 del registro ordinanze del 1996.
                         Il Presidente: Ferri
 96C1258