N. 885 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 marzo 1996
N. 885 Ordinanza emessa il 18 marzo 1996 dal tribunale di sorveglianza di Napoli nel procedimento penale a carico di Mariano Ciro Ordinamento penitenziario - Detenuti per determinati delitti (art. 4-bis della legge n. 354/1975) - Facolta' del Ministro di grazia e giustizia di sospendere per motivi di ordine e di sicurezza l'applicazione del regime carcerario ordinario e di sostituirlo con un regime particolarmente restrittivo - Lamentata mancata previsione di limiti temporali, data la possibilita' di proroghe ripetute - Irragionevole disparita' di trattamento rispetto a quello riservato ai detenuti in regime ordinario - Incidenza sulla funzione rieducativa della pena - Violazione dei principi di legalita' di difesa e di inviolabilita' della liberta' personale - Pregiudizio per la tutela giurisdizionale contro gli atti della p.a. (Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 41-bis, secondo comma). (Cost., artt. 3, 13, 24, 25, 27 e 113).(GU n.38 del 18-9-1996 )
IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Considerato che Mariano Ciro propone reclamo avverso il d.m. 9 febbraio 1996 emanato ai sensi dell'art. 41-bis, secondo comma, l.p., che instaura un regime di trattamento differenziato fino all'8 agosto 1996; Preso atto che Mariano Ciro in atti risulta essere appellante per associazione a delinquere di stampo camorristico e omicidio, giudicabile per concorso in associazione a delinquere di stampo camorristico, piu' giudicabile per associazione a delinquere di stampo camorristico, piu' ricorrente per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti e omicidio, piu' giudicabile per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, nonche' definitivo per un provvedimento di cumulo per associazione camorristica, armi e altro; Atteso che l'art. 41-bis introdotto con art. 19 d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito con legge n. 356 del 7 agosto 1992, dispone che "Quando ricorrano gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell'interno, il Ministro di grazia e giustizia ha altresi' la facolta' di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma primo dell'art. 4-bis, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti che possono porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza"; Letto che il decreto ministeriale impugnato, in considerazione della particolare pericolosita' del soggetto che rende ipotizzabile la permanenza di collegamenti operativi con le organizzazioni criminali, sospende la corrispondenza telefonica, la corrispondenza epistolare e telegrafica con altra persona detenuta, anche se congiunto o convivente, i colloqui con i terzi, limita i colloqui con i familiari e conviventi ad uno al mese e di durata non superiore ad un'ora, indipendentemente dal numero delle persone, sottopone a visto di controllo del direttore la corrispondenza epistolare e telegrafica, limita la ricezione dei pacchi contenenti generi ed oggetti ad un solo pacco al mese nei limiti di peso stabiliti (kg. 5), prescrivendo che contenga esclusivamente abiti, biancheria ed indumenti intimi, sospende la ricezione di somme in peculio superiori all'ammontare mensile stabilito ex art. 54 d.P.R. n. 431/1976, sospende le attivita' culturali, ricreative e sportive, sospende il c.d. lavoro a domicilio, sospende l'acquisto al sopravvitto di generi alimentari che richiedono cottura e limita la permanenza all'aria aperta a due ore al giorno. O s s e r v a In via preliminare occorre sottolineare che ai ristretti in stato di detenzione va riconosciuta la titolarita' situazioni soggettive attive, come gia' dichiarato dalla Corte costituzionale con sentenza n. 349/1993, cosi come garantita quella parte di liberta' che la detenzione non intacca. Va tenuto fermo, pertanto, il principio della inviolabilita' della liberta' personale sancita dall'art. 13 Cost., valido anche nei confronti dei sottoposti a limitazioni della stessa liberta' personale durante la custodia cautelare ovvero l'esecuzione della pena, sia pure con tutte le restrizioni che lo stato di detenzione comporta. Da qui un primo corollario di fondamentale importanza sancito dalla Corte costituzionale nella succitata sentenza: l'adozione di provvedimenti tesi ad introdurre restrizioni nell'ambito della parte residua di liberta' personale, sempre viva anche nei soggetti detenuti, di restrizioni che, comunque comportino ulteriori limitazioni della liberta' personale, puo' avvenire esclusivamente con le garanzie espressamente previste dall'art. 13 Cost., riserva di legge e riserva di giurisdizione. Alla liberta' personale del soggetto corrisponde, d'altra parte, il potere di coazione dello Stato, a difesa dei cittadini e dell'ordine giuridico, potere che si estrinseca attraverso l'attivita' dell'Amministrazione, cui compete la responsabilita' della custodia, del trattamento e della sicurezza dell'istituzione penitenziaria, e l'attivita' dell'Ordine giudiziario, cui spetta l'attuazione della potesta' punitiva dello Stato e il controllo sull'esecuzione della pena. E' vero che l'Amministrazione puo' intervenire con provvedimenti che incidono sulle modalita' di esecuzione della pena, ma e' pur vero che tali interventi non possono essere in contrasto con i principi costituzionali tutelati ex artt. 13, 24, 27, 113 Cost.. La Corte costituzionale nella sentenza n. 349/1993 ha riconosciuto la sindacabilita' dei provvedimenti emessi ex art. 414-bis l.p. da parte del giudice ordinario, secondo le medesime modalita' del controllo giurisdizionale esercitato ai sensi di legge sull'operato dell'Amministrazione penitenziaria nonche' sui provvedimenti riguardanti l'esecuzione delle pene. Precisando, con la pronunzia n. 410 del 1993, che "... una volta affermato che nei confronti dell'Amministrazione penitenziaria i detenuti restano titolari di posizioni giuridiche che per la loro stretta inerenza alla persona umana sono qualificabili come diritti soggettivi costituzionalmente garantiti, occorre conseguentemente riconoscere che la tutela giurisdizionale di dette posizioni costituzionalmente necessaria ai sensi dell'art. 24 della Costituzione, non puo' che spettare al giudice dei diritti e cioe' al giudice ordinario. Nell'attuale quadro normativo, pertanto, in assenza di disposizioni espresse, la competenza a sindacare la legittimita' dei provvedimenti adottati dall'Amministrazione penitenziaria ai sensi dell'art. 41-bis deve riconoscersi a quello stesso organo giurisdizionale cui e' demandato il controllo sull'applicazione, da parte della medesima Amministrazione, del regime di sorveglianza particolare, ai sensi dell'art. 14-ter dell'ordinamento penitenziario". Identita' di controllo, quindi, da parte del giudice ordinario su due regimi di detenzione particolari: la sorveglianza speciale, ex art. 14-bis l.p., e il regime differenziato, ex art. 41-bis l.p.. E non solo, ma anche affinita' di contenuto tra l'art. 41-bis, introduttivo del regime differenziato di sospensione del trattamento penitenziario, e l'art. 14-bis e seguenti, che nella sua concreta applicazione, cita la Corte "... viene ad assumere un contenuto largamente coincidente con il regime differenziato..... introdotto con il provvedimento ex art. 41-bis". Ed ancora... "E' di intuitiva evidenza che il potere esercitato serve, in entrambi i casi, a consentire all'Amministrazione penitenziaria di predisporre uno strumento di particolare rigore mediante il quale fronteggiare la pericolosita' di ben determinate categorie di detenuti. Ricorre, inoltre, una notevole identita' di presupposti, stante l'ampia possibilita' di applicare il regime di sorveglianza particolare a qualsiasi detenuto, sulla base di precedenti comportamenti penitenziari, ''o di altri concreti comportamenti tenuti nello stato di liberta''' (art. 14-bis, quinto comma)". Ricordiamo, per un attimo, la sequenza legislativa che ha dato vita all'assetto attuale. L'art. 14-bis e' stato introdotto nell'ordinamento penitenziario dall'art. 1 legge 10 ottobre 1986, n. 663: "Regime di sorveglianza particolare. Possono essere sottoposti al regime di sorveglianza particolare per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche piu' volte, in misura non superiore ogni volta a tre mesi, i condannati, internati e gli imputati.....". La medesima novella del 1986 introduceva l'art. 41-bis, comma primo, in sostituzione dell'abrogato art. 90 legge n. 354/1975. Giova richiamare il suo contenuto: "Situazioni di emergenza. In casi eccezionale di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro di grazia e giustizia ha facolta' di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessita' di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto". Questo il dettato dell'art. 41-bis, comma primo, inserito sull'onda delle molteplici polemiche sollevate dall'abrogato art. 90. Si presenta, ad una semplice lettura, doverosamente "limitato" nei suoi spazi applicativi, sia temporalmente, "durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto", sia per la sua stessa ragione d'essere "casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza". Il nuovo assetto normativo penitenziario, anno 1986, prevedeva, quindi, due possibilita' di intervento "particolare" dell'Amministrazione penitenziaria, attraverso l'art. 14-bis, introduttivo del regime di sorveglianza particolare ad personam e l'art. 41-bis, comma primo, portatore di un regime differenziato inerente l'istituto penitenziario, o una parte di esso. Nel sistema, peraltro, era gia' inserita la possibilita' di reclamo al giudice ordinario, ex art. 14-ter, introdotto dall'art. 2 della legge n. 663/1986. Successivamente, con il d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356, viene inserito il comma nell'art. 41-bis, che prevede la sospensione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge penitenziaria nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma primo dell'art. 4-bis, articolo introdotto nel medesimo decreto-legge. Ritorna, quindi, il regime, differenziato ad personam, generalizzato, e ritorna quella tipizzazione del detenuto, per taluno dei delitti di cui al comma primo dell'art. 4-bis due "sistemi operativi di intervento" ad opera dell'Amministrazione penitenziaria, avverso i quali gia' la dottrina nonche' la giurisprudenza precedente si era gia' innumerevoli volte pronunziata. E rileggiamo insieme nuovamente il secondo comma dell'art. 41-bis: "Quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministero dell'interno, il Ministro di grazia e giustizia ha altresi' la facolta' di sospendere, in tutto o in parte, nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma primo dell'art. 4-bis, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza". Come puo' notarsi, anche ad una lettura superficiale, e' scomparso qualunque richiamo temporale; laddove si passa dal regime differenziato per istituto al regime differenziato personale, scompare la limitazione della "durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto". Temporaneita', che non solo, e' presente nel comma primo dell'art. 41-bis, ma che ritorna anche nel disposto dell'art. 14-bis, regime di sorveglianza particolare, laddove il comma primo cita letteralmente: "Possono essere sottoposti a regime di sorveglianza particolare per un periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche piu' volte in misura non superiore ogni volta a tre mesi, i condannati...". Abbiamo gia' visto come la Corte costituzionale nella sentenza n. 410/1993 ha riconosciuto "la notevole identita' di presupposti" in una al "contenuto largamente coincidente" tra l'art. 14-bis e l'art. 41-bis, comma secondo, e il limite temporale? L'applicazione del regime differenziato ex art. 41-bis, comma secondo, opera senza possibilita' di limitazioni temporali, sia per dettato normativo, sia per concreta fattispecie, atteso che i decreti ministeriali di sospensione delle regole di trattamento si susseguono, di sei mesi in sei mesi, dal 1993, senza che peraltro sia indicata, nelle successive proroghe, alcuna motivazione nuova o diversa rispetto alla prima, origine dell'applicazione del regime differenziato. A cio' aggiungasi, che mentre l'art. 29 del decreto legge n. 306/1992, istitutivo del regime differenziato, prevedeva la cessazione dell'efficacia delle disposizioni di cui all'art. 19, ossia 41-bis, comma secondo, trascorsi tre anni dalla entrata in vigore della legge di conversione del decreto, l'art. 1 della legge 16 febbraio 1995, n. 36, ha prorogato tale efficacia fino al 31 dicembre 1999. Pertanto, dal combinato disposto delle leggi suindicate, si puo' dedurre che il nostro ordinamento prevede l'esistenza di un regime differenziato di esecuzione della pena per una particolare tipologia di detenuto, determinato per legge, che ha possibilita' di applicazione, al momento, dal 1993 al 1999. Nel caso di specie, per esempio, il Mariano corre il rischio di continuare ad espiare la sua pena, per i delitti per cui e' gia' stato condannato, o solo, a vedersi privato della liberta' personale in stato di custodia cautelare, nella veste di solo imputato, in condizioni di regime differenziato dal 1993, come gia' accade, al 1999, sulla base di una normativa attale del nostro ordinamento penale e in presenza di una motivazione di fatto che e' la stessa del 1993, tirata in ballo e rivestita di nuovo ogni sei mesi. Sembra inevitabile la contestazione della incostituzionalita' del dettato dell'art. 41-bis, comma secondo, in relazione agli artt. 3, 13, 24, 25, 27, 113 della Costituzione, come ora andremo a motivare. E cio', per sfatare strumentali o strategiche interpretazioni, non in difesa di questa o quella modalita' operativa o di qualsivoglia tipicita' di intervento proprie della magistratura di sorveglianza, come gia' sussurrato di fronte agli innumerevoli ricorsi alla Corte costituzionale proposti in riferimento all'art. 41-bis, ma solo per salvaguardare quei principi fondamentali della nostra carta costituzionale anche nella fase della esecuzione della pena, nella fase in cui, in pratica, "si fa diritto". A) In particolare, puo' affermarsi che l'art. 41-bis, comma secondo, si pone in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui ipotizza una specifica categoria di detenuti, imputati e condannati, predeterminati per dettato normativo, costretti ad una esecuzione della pena, o anche solo della custodia cautelare, comunque diversa da quella disposta per la criminalita' ordinaria. Del resto la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 349/1993 aveva espresso la sua perplessita' dinanzi ad una individuazione, per titolo dei reati, dei destinatari dei provvedimenti restrittivi ex art. 41-bis, evidentemente poco coerente con il principio di individualizzazione della pena. Ed infatti la stessa Corte ribadiva: ... "deve ritenersi implicito - anche in assenza di una previsione espressa della norma, ma sulla base dei principi generali dell'ordinamento - che i provvedimenti ministeriali debbano comunque recare una puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti cui sono rivolti (in modo da consentire poi all'interessato un'effettiva tutela giurisdizionale), che non possano disporre trattamenti contrari al senso di umanita', e, infine, che debbano dar conto dei motivi di una eventuale deroga del trattamento rispetto alle finalita' rieducative della pena...". In breve, nelle parole della Corte ritorna tutto lo spettro di situazioni di incostituzionalita' ipotizzabili, nonche' qui richiamate, dall'art. 3 all'art. 27 Costituzione. E' opportuno ricordare ancora, che la Corte, sentenza n. 349/1993, continua sottolineando che le medesime ragioni che consentono di escludere l'illegittimita' costituzionale dell'art. 41-bis, delimitandone l'ambito applicativo ed integrandone il portato con il richiamo ai principi generali dell'ordinamento, conducono alla conclusione che taluni dei rilievi dei giudici remittenti, nelle precedenti eccezioni di incostituzionalita' prospettate, trovano la loro causa non nell'articolo di legge ma solo nel decreto amministrativo di applicazione, atteso che una corretta interpretazione dell'art. 41-bis secondo comma, non consente l'adozione di provvedimenti suscettibili di incidere sul grado di liberta' personale del detenuto. Tesi accettabilissima, fin quando pero' non ci si trova dinanzi alla proroga immotivata e ripetuta del decreto ministeriale stesso. Anche a voler riconoscere con la suprema Corte che ... "la corretta lettura della norma non puo' che limitare il potere attribuito al Ministro alla sola sospensione di quelle medesime regole ed istituti che gia' nell'Ordinamento penitenziario appartengono alla competenza di ciascuna amministrazione penitenziaria e si riferiscono al regime di detenzione in senso stretto"..., non puo' non suscitare perplessita' l'evidente contrasto con il dettato dell'art. 3, primo comma, 13, secondo comma, 27, secondo e terzo comma, Costituzione, laddove la proroga ripetuta e immotivata del decreto esula di fatto da quei caratteri di "uguaglianza, necessita', urgenza, provvisorita' e umanita'" costituzionalmente rilevanti. E' evidente che in tale situazione deve, estrema ratio, ricorrersi all'attribuzione dell'intera responsabilita' al dettato normativo, che solo se diversamente scritto, potrebbe evitare il monotono susseguirsi di anomalie giuridiche. L'art. 41-bis, comma secondo, opera indipendentemente e al di la' di situazioni di eccezionalita' e emergenza, nonche' da ogni previsione temporale, concetti che pure compaiono nel comma primo del medesimo articolo; ne', del resto, risulta ancorato ad atteggiamenti particolarmente significativi del detenuto sia soggettivi che oggettivi, comunque inerenti la sua condotta intramuraria ovvero i suoi rapporti con il mondo esterno. Nei decreti ministeriali successivamente notificati, con proroghe di sei mesi in sei mesi, dal 1993 in poi, unico elemento "giustificativo" della proroga, ossia, nuovo rispetto alla motivazione di base , appare la "polemica" pseudogiuridica innestata con i tribunali di sorveglianza sulla interpretazione giurisprudenziale dei decreti stessi. Del resto nei decreti ministeriali che si allegano, appare evidente che la motivazione strettamente collegata alla persona del Mariano esula da riferimenti a fatti o persone comunque successivi nel tempo a quanto indicato nel d.m. del 1993, nonche' da qualunque riferimento alla posizione giuridica stessa del detenuto, che nel frattempo, per esempio, risulta assolto con formula piena da una delle imputazioni per omicidio, fondandosi essenzialmente sulle aggiornate, ma solo in quanto al tempo, informazioni delle forze dell'ordine sulla pericolosita' del detenuto. Ci troviamo, di fatto, di fronte ad una tipizzazione del detenuto, "speciale" in quanto ha commesso uno o piu' reati indicati nell'art. 4-bis della legge penitenziaria; tipizzazione, che, al limite, potrebbe avere anche una sua ratio nella particolare pericolosita' sociale dimostrata da taluni soggetti, refrattari a qualsiasi trattamento riabilitativo, ed anzi cosi' spiccatamente pericolosi da rendere indispensabile l'adozione di un regime differenziato nei loro confronti, ma che in quanto tale, pero', trova spazio giuridico solo se ancorata a precisi e predeterminati criteri di eccezionalita', sia oggettiva che soggettiva, comunque riprodotti in una severa e dettagliata motivazione. Sembra superfluo ribadire che una corretta stesura della norma, proprio nel rispetto di quei principi costituzionali gia richiamati e dell'interpretazione rigorosamente restrittiva delle norme di carattere eccezionale, implica, necessariamente, una indicazione netta di temporaneita' nonche' la esigenza di una verifica costante e continua degli sviluppi della situazione. B) Ne' la riconosciuta possibilita' di impugnazione del decreto dinanzi al giudice ordinario, nel rispetto dell'art. 113, comma primo, Costituzione, e' sufficiente a colmare il disagio legislativo. La situazione di fatto creata dalla proroga inopinata del decreto ministeriale, infatti, e' evidente, non puo' non creare serissimi ostacoli a quel diritto di difesa, pur riconosciuto come "inviolabile in ogni stato e grado del procedimento" dall'art. 24 Costituzione. Difesa che, ne' in diritto ne' in fatto, trova possibilita' di esplicazione di fronte al ripetersi monotono e immotivato di contestazioni consolidate ancorate a episodi storici ormai datati, di fronte a decreti ministeriali in cui unico elemento innovativo risulta essere l'adeguamento o meno alle ultime decisioni giurisprudenziali. La stessa Corte aveva ipotizzato il verificarsi di tali incresciose ipotesi quando aveva evidenziato la necessita' che i decreti ministeriali contenessero una puntuale motivazione per ciascuno dei detenuti cui rivolti, "in modo da consentire poi all'interessato un'effettiva tutela giurisdizionale" sentenza n. 410/1993 richiamata. E' sintomatico, nel caso di specie, che Mariano Ciro, di fronte al sesto decreto ministeriale ex art. 41-bis non ha ritenuto opportuno neppure piu' procedere alla nomina del difensore di fiducia. C) L'art. 41-bis, comma secondo, l.p. si pone in contrasto con l'art. 27 Costituzione laddove la continua incidenza di restrizioni comunque influenti "sulla pena" e sul grado di liberta' personale del detenuto, residua e "ancora piu' preziosa in quanto costituisce l'ultimo ambito nel quale puo' espandersi la sua liberta' individuale", non puo' non concretizzarsi in un trattamento, di fatto, contrario al senso di umanita' e opporsi a quel fine di rieducazione del condannato, che l'art. 27, comma secondo, Costituzione tutela. In effetti il decreto ministeriale, prevedendo la sospensione dell'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall'ordinamento penitenziario, preclude al detenuto la possibilita' di fruire di quel trattamento rieducativo di cui all'art. 13 della legge n. 354/1975, nonche' la partecipazione a quelle attivita' culturali, ricreative e sportive, indicate nell'art. 27, legge medesima, sistemi finalizzati alla realizzazione della personalita' del detenuto e alla sua risocializzazione. Equivale a riconoscere che determinate categorie di soggetti sfuggono, di fatto, a qualunque tentativo di risocializzazione. Nessuna obiezione nell'accettare la fondatezza e la razionalita' di una tale scelta operativa; occorre tenere presente, pero', che il nostro ordinamento giuridico si basa su principi generali ben precisi e immodificabili, con i quali e' sempre opportuno confrontarsi nella ricerca di momenti di mediazione, ma dai quali, comunque, e' impossibile prescindere. L'art. 41-bis, comma secondo, in particolare, si pone in contrasto anche con il primo comma dell'art. 27 Costituzione, laddove introduce la possibilita' di applicazione del regime differenziato anche al solo imputato per taluno dei delitti ex art. 4-bis, ordinamento penitenziario. Cio' inevitabilmente rappresenta una violazione gravissima e immotivata del dettato dell'art. 27 Costituzione, primo comma. Paradossalmente, l'imputato, non colpevole per dettato costituzionale, comma primo art. 27, proprio in quanto imputato, per quei determinati delitti, e' soggetto alle limitazioni disposte ex art. 41-bis: sembra una contraddizione di parole, ma corrisponde ad una situazione di fatto, che resta innegabile nella sua anomala concretezza. D) E vale la pena di ricordare qui anche il dettato costituzionale dell'art. 25, laddove, al comma secondo, sancisce che "Nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". Crediamo che sia pacifica l'interpretazione che vede il termine "punire" non strettamente connesso alla sola sanzione penale prevista legislativamente. Se "punire" equivale a punizione, il decreto ministeriale, che, comunque, aggiunge "pena a pena", che comunque restringe ulteriormente lo spazio vitale del detenuto, e questo sembra innegabile, trova la propria fonte normativa in un decreto legge del 1992, 8 giugno, n. 306, ossia successivo al momento dei commessi reati, o dei presunti commessi reati per i quali il detenuto, Mariano, trovasi attualmente detenuto. Sembra innegabile l'irretroattivita' delle disposizioni penali, come principio generale dell'ordinamento, dovrebbe operare verosimilmente in ogni dettato normativo. Nell'ambito delle stesse disposizioni antimafia si potrebbe ricordare il dettato dell'art. 4 d.-l. 13 maggio 1991, n. 152, che statuisce che "Le disposizioni di cui all'articolo 1 condannati per delitti commessi dopo la entrata in vigore del presente decreto". Una dizione del genere poteva essere sufficiente, magari, a salvare l'art. 41-bis, comma secondo, dall'ennesima accusa di incostituzionalita'. In verita', dopo la prima pronunzia della Corte costituzionale di rilievo fondamentale, la sentenza n. 349/1993, il riconoscimento formale della sindacabilita' del decreto ministeriale, emesso ai sensi dell'art. 41-bis, comma secondo, legge penitenziaria, da parte del giudice ordinario sembrava aver fugato perplessita' e dubbi sulla eccezionalita' della norma in oggetto. Successivamente, invece, una numerosa produzione giurisprudenziale si faceva portavoce delle problematiche interpretative della magistratura di sorveglianza, ormai abituata a lavorare sulla base di disposizioni legislative nate sull'onda emozionale collettiva, collegate ad un particolare momento storico-sociale del paese, che comunque si trovano a riverberare i propri effetti, inutilmente malefici, negli anni successivi su situazioni comunque diverse per tempo, luogo e personaggi. Ben altre potevano essere le possibilita' di intervento della autorita' amministrativa per risolvere problemi di ordine e sicurezza pubblica, come gia' evidenziati piu' volte e in varie sedi e in tempi non sospetti dai magistrati di sorveglianza (leggi incontri di studio del Consiglio superiore della magistratura in Frascati, anni 1993-1994-1995). Altri e diversi sistemi operativi avrebbero ottenuto risultati forse piu' efficaci. Con altre modalita' operative si sarebbe potuto forse evitare che, nonostante tutto il clamore politico e giurisprudenziale intorno a questo articolo, la stessa Amministrazione penitenziaria riconoscesse, come accaduto nei primi mesi di questo anno, la ineffacia, di fatto, del decreto stesso. I magistrati di sorveglianza, del resto, si vedono impegnati, ormai semestralmente, nel tentativo di amalgamare le richieste dei detenuti soggetti a tale regime differenziato con le aspettative costituzionali, che, pur sempre, nella qualita' di giudici, sono chiamati a garantire e tutelare. Da qui eccezioni di incostituzionalita' spesso ripetitive e' vero, ma di certo finalizzate in assoluto alla ricerca di una soluzione del problema, che rispetti e difenda i principi generali del nostro ordinamento, e che trovi infine il coraggio del diritto per eliminare situazioni di insostenibile ibridismo giuridico.
P. Q. M. Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1853, n. 87; Sentito il parere conforme del p.g.; Dichiara non manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 41-bis, comma secondo, legge n. 354/1975 e successive modifiche, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25, 27 e 113 Costituzione; Sospende la procedura di sorveglianza in corso relativa alla decisione sul reclamo ex art. 14-ter proposto da Mariano Ciro avverso il provvedimento amministrativo applicativo dell'art. 41-bis, comma secondo, l.p.; Dispone la tramissione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione di merito; Manda alla cancelleria per le comunicazioni, le notificazioni e le forme di pubblicita' ex art. 23 della legge n. 87/1953. Il presidente relatore: Di Giovanni 96C1295