N. 1171 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 maggio 1996

                                N. 1171
  Ordinanza  emessa  il  10  maggio  1996  dal  pretore di Brescia sul
 ricorso proposto da Manni Narciso contro l'I.N.P.S.
 Previdenza e  assistenza  sociale  -  Pensioni  I.N.P.S.  -  Rimborsi
    conseguenti  alle sentenze della Corte costituzionale nn. 495/1993
    e 240/1994 - Previsione del pagamento in sei annualita' e mediante
    emissione di titoli di Stato -  Estinzione  dei  giudizi  pendenti
    alla  data  di  entrata  in  vigore  della  normativa  impugnata -
    Incidenza sul principio della copertura finanziaria.
 Previdenza e assistenza sociale - Pensioni  I.N.P.S.  -  Pensione  di
    riversibilita'  -  Calcolo,  per efetto della sentenza della Corte
    costituzionale n. 495/1993, in proporzione alla  pensione  diretta
    integrata  al trattamento minimo gia' liquidato o che l'assicurato
    ha diritto di percepire - Violazione del  principio  di  copertura
    finanziaria.
 (D.L.  28  marzo  1996  n. 166, art. 1; legge 21 luglio 1965, n. 903,
    art. 22).
 (Cost., art. 81, quarto comma).
(GU n.43 del 23-10-1996 )
                              IL PRETORE
   Visti:
     gli atti difensivi delle parti;
     l'art. 1 del d.-l. 28 marzo 1996, n. 166;
     l'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903;
     la sentenza della Corte costituzionale n. 485 del 1993;
     l'art.  11,  ventiduesimo comma, della legge 24 dicembre 1993, n.
 537;
     la sentenza della Corte costituzionale n. 240 del 1994;
     l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
     l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1;
     l'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1;
     gli artt. 81 e 134 della Costituzione.
   Ha pronunciato, dandone integrale lettura, la seguente ordinanza di
 rimessione alla Corte costituzionale, di  questione  di  legittimita'
 costituzionale,  rilevata  d'ufficio, nella causa r.g. n. 6661/95, in
 materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, promossa  da  Manni
 Narciso,  elettivamente  domiciliato  in  Brescia  presso  l'avvocato
 Maffezzoni, il quale lo rappresenta e difende in forza di  procura  a
 margine   del  ricorso,  ricorrente,  contro  l'I.N.P.S.  -  Istituto
 nazionale  della  previdenza  sociale,  in  persona  del   presidente
 pro-tempore,  rappresentato  e difeso dai dott. procc. Oreste Manzi e
 Alfonso Faienza, procuratori per mandati alle liti a rogito del dott.
 Lupo, notaio in Roma, con domicilio eletto  nel  proprio  ufficio  di
 avvocatura in Brescia, via Cefalonia n. 49, convenuto.
   Nel  presente  giudizio la parte ricorrente, richiamata la sentenza
 n.  495/1993   della   Corte   costituzionale   che   ha   dichiarato
 l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 22 della legge n. 903 del
 1965  "nella  parte  in  cui  non  prevede   che   la   pensione   di
 riversibilita'  sia  calcolata  in  proporzione alla pensione diretta
 integrata al trattamento minimo gia' liquidata al  pensionato  o  che
 l'assicurato avrebbe avuto il diritto di percepire", chiede di vedere
 riconosciuto  il  proprio  diritto  alla  riliquidazione, nei termini
 stabiliti dalla Corte, della pensione di riversibilita'  della  quale
 e' titolare, con la conseguente condanna dell'INPS al pagamento della
 prestazione  nella misura risultante dovuta, con gli arretrati, oltre
 rivalutazione monetaria ed interessi legali.
   Con il decreto-legge 28 marzo 1996, n. 166, in vigore dal 30  marzo
 1996,  e'  stato  modificato  il  quadro  normativo di riferimento e,
 poiche' l'art. 1 del decreto risulta non conforme all'art.  81  della
 Costituzione, deve essere rilevata d'ufficio la relativa questione di
 legittimita' costituzionale.
   Nella  previsione  di una dichiarazione d'incostituzionalita' (come
 anche nell'ipotesi di una mancata conversione in legge) dell'art.   1
 del  decreto-legge  n.  166/1996 deve essere altresi', in rapporto di
 causa   -   effetto,   sollevata   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale dell'art. 22 della legge n. 903/1965, come "riscritto"
 nella  sentenza  n.  495  del 1993, per contrasto con l'art. 81 della
 Costituzione.
   Prima, pero', di entrare nel  merito  delle  anticipate  questioni,
 deve  essere  chiarito  che la presente ordinanza (come le altre gia'
 emesse e da emettere in ogni processo avente il medesimo oggetto)  e'
 solo  una versione ridotta delle due precedenti pronunciate in data 1
 aprile 1966, nelle cause promosse da  Rossi  Giacomina  e  Manfredini
 Antonia    contro    l'INPS,    ed    e'    necessariamente   imposta
 dall'impossibilita' di operare dei rinvii "tecnici" in  attesa  della
 decisione  della  Corte  costituzionale  sulle due citate rimessioni,
 visto che il solo residuo atto - oltre quello qui doverosamente posto
 in essere - di giurisdizione previsto dall'art. 1, terzo  comma,  del
 decreto-legge n. 166/1996 impone di dichiarare d'ufficio l'estinzione
 di tutti i giudizi pendenti.
                     L'art. 81 della Costituzione
                ed il principio di "realismo economico"
   La  legge  fondamentale  della Repubblica italiana contiene tutti i
 principi piu' alti di civilta' e tutela tutte le liberta';  le  norme
 che  li  contemplano  vengono  ritenute  le  piu'  importanti,  ma si
 dimentica che, nella consapevolezza  del  necessario  rispetto  della
 realta'  economica,  quale  limite  e  strumento  essenziale  per  la
 possibile e sempre tendenziale attuazione concreta dei grandi  ideali
 di  giustizia,  uguaglianza  e  liberta',  la  Costituzione  pone  un
 principio ancora superiore, presente nell'art. 81 della Costituzione:
 la compatibilita' delle concrete risorse economiche quale  limite  di
 realta'  al  "sogno"  di  perfezione, quale strumento di difesa della
 realizzabilita' dei grandi principi ideali etici e  materiali,  quale
 freno  alla  spesa  illimitata  di risorse future al fine di tutelare
 l'esistenza stessa della societa' organizzata,  quale  monito  etico,
 infine,  alla responsabilita' verso le future generazioni e alla piu'
 corretta distribuzione della ricchezza per quelle presenti.
   Cosi', se si volesse proporre  una  diversa  classificazione  delle
 norme  costituzionali,  l'art.  81 dovrebbe essere definito "norma di
 realta'" in contrapposizione alle "norme di  ideale"  e  dovrebbe  in
 questa   prospettiva   essere  collocato  al  vertice  di  una  nuova
 graduatoria  d'importanza,  dovendosi  riconoscere   che,   pur   non
 affermando  elevati  principi  "sacrali",  si  pone  a garanzia della
 realizzabilita' (invero  pur  sempre  tendenziale)  delle  "norme  di
 ideale",  statuendo  l'obbligatorio rispetto dei limiti delle risorse
 disponibili, in modo tale da consentire al  sistema  economico  dello
 Stato  di sostenere il costo della continua evoluzione dei bisogni di
 civilta' nei confini del possibile, senza superare  ricchezze  future
 non  ancora prodotte, cosi' da evitare il grande rischio (oggi sempre
 piu' drammaticamente concreto) di allontanare sempre piu' nel tempo e
 forse da precludere  definitivamente  l'attuazione  delle  "norme  di
 ideale" della Costituzione.
   In  forza delle superiori premesse e' logico e conseguente desumere
 dall'art.  81  un  forte  principio   costituzionale   sinteticamente
 definibile  principio  di  "realismo economico", che, pur non scritto
 (come  altri  fondamentali:  quello,  immanente  nell'art.   38,   di
 "solidarieta'"  e  quello  di "ragionevolezza", presente nell'art. 3,
 per citare i piu' noti), deve concorrere con  gli  altri  principi  e
 norme  costituzionali per una corretta valutazione della legittimita'
 della legge e degli atti aventi forza di legge.
   L'ineludibile  rinoscimento  dei  valori  costituzionali   presenti
 nell'art.    81  deve determinare a carico del legislatore - ma anche
 del giudice delle leggi, quando le questioni  portate  al  suo  esame
 siano  tali  da  lasciare  spazio  a  decisioni,  non necessariamente
 "addittive", che  comportino  una  nuova  spesa  priva  di  copertura
 finanziaria   -   un   particolare   rispetto   dell'art.   81  della
 Costituzione, quale norma di primaria e vitale importanza.
                       La normativa sopravvenuta
            art. 1 del decreto-legge 28 marzo 1996, n. 166
   Come  si  e'  gia' detto, il Governo ha emanato il decreto-legge n.
 166 del 28 marzo 1996 - entrato in vigore il giorno 30  dello  stesso
 mese  e,  dunque,  applicabile  alla presente controversia - ove sono
 dettate, nell'art. 1, una serie di disposizioni dirette  a  risolvere
 in  via definitiva, sia l'annoso problema della copertura finanziaria
 necessaria per il pagamento del "rimborso" (non si puo' non notare la
 forte atecnicita' del  termine)  delle  somme  maturate  fino  al  31
 dicembre   1995   in  favore  degli  aventi  diritto  in  conseguenza
 dell'applicazione  delle  sentenze  della  Corte  costituzionale   n.
 495/1993   e  n.  240/1994,  sia  l'ancora  piu'  antico  contenzioso
 giurisdizionale legato all'accertamento del diritto al calcolo  delle
 pensioni  di  riversibilita'  nella  misura  del  60% del trattamento
 minimo effettivamente goduto dal pensionato deceduto  o  che  sarebbe
 spettato   all'assicurato,  nonche'  alla  "cristallizzazione"  delle
 pensioni a decorrere dal 1 ottobre 1983 nella misura  erogata  al  30
 settembre  1983,  sui  quali sono intervenute le due citate decisioni
 del giudice delle leggi.
   La realta' del decreto-legge pero'  non  e'  minimamente  idoena  a
 raggiungere  gli scopi sperati, poiche' da' luogo a numerosi dubbi di
 legittimita'   costituzionale,   tutti   traducibili   in   questioni
 rilevabili (e gia' rilevate, come si e' detto prima) d'ufficio.
   Tra  le  tante  - senza che a cio' possa attribuirsi significato di
 ripensamento sulla fondatezza delle altre - qui  ne  viene  sollevata
 una  sola,  soprattutto  al  fine  di  ridurre  il  costo complessivo
 dell'intera  "operazione"  che,   come   si   e'   detto,   coinvolge
 singolarmente  tutti i giudizi pendenti aventi il medesimo oggetto, a
 causa della  previsione  di  cui  al  terzo  comma  dell'art.  1  del
 decreto-legge n. 166/1996.
               Questione di legittimita' costituzionale
             dell'art. 1 del decreto-legge n. 166 del 1966
     per violazione dell'art. 81, quarto comma, della Costituzione
   Il primo comma dell'art. 1 del decreto-legge n. 166 del 1996 pevede
 in  applicazione delle sentenze n. 495/1993 e n. 240/1994 della Corte
 costituzionale il "rimborso" delle somme maturate alla  data  del  31
 dicembre 1995 mediante sei annualita', ma il suo quarto comma (ove si
 individuano    i    mezzi    di   copertura   dell'"onere   derivante
 dall'applicazione  del  presente  articolo")  omette  totalmente   di
 indicare  la copertura finanziaria per gli anni 1999, 2000 e 2001: il
 dato e' certo e non opinabile, poiche' vengono  contemplate  solo  le
 annualita' dal 1996 al 1988.
   La violazione dell'ultimo comma dell'art. 81 della Costituzione e',
 per  quanto possa sembrar strano, scritta e riconosciuta nella stessa
 disposizione sopra citata, ove il Governo palesemente si fa carico di
 determinare la copertura solo per tre delle sei  annualita'  previste
 per  il  pagamento  degli  arretrati,  lasciando  cosi'  scoperte  le
 restanti,   con    conseguente    incontrovertibile    illegittimita'
 costituzionale  dell'intero  art.  1  del  decreto-legge n. 166/1996,
 poiche', al fine del rispetto  dell'art.  81,  quarto  comma,  devono
 essere   totalmente   individuate  e  precisate  nella  legge  (anche
 nell'atto avente forza di legge del Governo) che prevede nuove  spese
 le  risorse finanziarie per la copertura piena delle medesime spese e
 non puo' ritenersi soddisfatto tale obbligo, qualora, come  nel  caso
 qui  sottoposto a critica, l'indicazione dei "mezzi per farvi fronte"
 non sia completa e precisa.
   Sin  qui  si  e'  in  presenza della tipica violazione del disposto
 espresso dell'art. 81, ultimo  comma,  della  Costituzione,  ma  deve
 essere  rilevato  che  l'art. 1 del decreto-legge n. 166/1996 vulnera
 ancor  piu'  gravemente  il  principio   di   "realismo   economico",
 desumibile dall'art. 81, quale sopra individuato e precisato.
   Infatti  non sembra possibile ritenere che l'assegnazione di titoli
 di Stato costituisca corretto mezzo di  copertura  finanziaria  degli
 oneri  ai  quali  il  decreto-legge vorrebbe dare esecuzione, poiche'
 altro non e' che nuovo indebitamento dello Stato e  quindi  non  puo'
 essere considerato come nuova risorsa per finanziare il pagamento del
 debito:  la  sostituzione  di  un  debito  con un altro debito non e'
 copertura finanziaria di una spesa, ma solo operazione poco limpida.
   Se dovesse passare indenne all'esame del giudice  delle  leggi  una
 siffatta  artificiosa  e  solo apparente copertura delle nuove spese,
 allora dovremmo  riconoscere  che  l'art.  81,  ultimo  comma,  della
 Costituzione   e'   norma   inutile,   o,  peggio,  abrogata  con  il
 dereto-legge che qui si critica.
   Puo' anche essere sostenuto che  la  legge  di  bilancio  non  deve
 rispettare la parita' tra entrate e uscite e puo' essere accettata la
 tesi  secondo  la  quale  e'  sufficiente  la previsione dei mezzi di
 finanziamento per la copertura delle nuove spese, per cui vi  sarebbe
 il  rispetto  dell'art.  81,  ultimo comma, anche se la previsione si
 rivelasse  erronea  ed  ottimistica,  ma  non  si  puo'  accedere   a
 soluzioni,  come  quella adottata dal Governo, nelle quali non vi sia
 neppure  l'ombra  dell'effettivita'  teorica  delle  nuove   risorse,
 limitandosi   l'operazione   a   spostare  la  carenza  di  copertura
 finanziaria ad un'epoca futura, con una sostanziale rinnovazione  del
 debito,  senza  estinzione  dell'obbligazione  reale, la quale resta,
 comunque, sempre a  carico  del  debito  pubblico,  sempre  priva  di
 copertura finanziaria.
   Esaurito   l'esame   della   questione   attinente   l'art.  1  del
 decreto-legge n. 166 del 1996, si puo' passare  alla  discussione  di
 quella attinente la precedente normativa.
               Questione di legittimita' costituzionale
         dell'art. 22 della legge 21 luglio 1965, n. 903, come
         modificato dalla sentenza n. 495 del 1993 della Corte
    costituzionale, per violazione dell'art. 81 della Costituzione
   Il  giudice  delle  leggi  con  la  sentenza  n.  495  del  1993 ha
 dichiarato l'incostituzionalita', per contrasto  con  i  principi  di
 ragionevolezza e di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione,
 dell'art.    22  della  legge n. 903 del 1965 "nella parte in cui non
 prevede  che  la  pensione  di  riversibilita'   sia   calcolata   in
 proporzione  alla  pensione  diretta  integrata al trattamento minimo
 gia' liquidata al pensionato o  che  l'assicurato  avrebbe  avuto  il
 diritto di percepire".
   La  norma  in  discorso,  come  modificata per effetto del suddetto
 intervento della Consulta, determina per l'INPS una forte esposizione
 debitoria,  priva  di  finanziamento  (e'  fatto  notorio  comprovato
 dall'art.    1,  quarto  comma, del decreto-legge n. 166 del 28 marzo
 1996, per quanto si e' gia' detto);  la  causa  di  tutto  cio'  deve
 rinvenirsi  nell'opinione  (erronea)  secondo la quale le sentenze di
 natura  addittiva  della  Corte  costituzionale  avrebbero  efficacia
 vincolante  erga  omnes  ed  ex  tunc  opinione tuttora prevalente in
 dottrina e nella giurisprudenza di merito e di legittimita'.
   Nessun  atto  legislativo  delle  due  Camere  (unico  possibile  e
 costituzionalmente legittimo ai sensi dell'art. 136,  secondo  comma,
 della  Costituzione)  e' sinora intervenuto per reperire la copertura
 finanziaria necessaria al fine di consentire all'INPS di  provvedere,
 previa  riliquidazione  delle  pensioni  di riversibilita' secondo il
 dettato  della  sentenza  n.  495/1993,  al  pagamento  delle   somme
 arretrate,   con   gli   accessori   di  legge,  derivanti  da  detta
 riliquidazione.
   E'  piu'  che  evidente  che  il  legislatore,  a   tutt'oggi   (il
 decreto-legge n. 166 del 28 marzo 1996 ne e' riprova) non ha avuto la
 forza  di  dare  attuazione  in senso conforme alla Costituzione alla
 sentenza in discorso, emanando le norme di legge idonee ad acquisirne
 i principi nel diritto positivo  (e  il  ragionamento  vale  identico
 anche con riferimento alla sentenza n. 240/1994 nonostante la vigenza
 dell'art.  2,  settimo  comma,  della legge 11 marzo 1988, n. 67, che
 cosi'  dispone:  "Qualora  nel  corso  di  attuazione  di  leggi   si
 verifichino  scostamenti  rispetto  alle  previsioni  di  spesa  o di
 entrate, il Governo ne da' notizia tempestivamente al Parlamento  con
 relazione del Ministro del tesoro e assume le conseguenti iniziative.
 La  stessa  procedura  e' applicata in caso di sentenze definitive di
 organi  giurisdizionali  e   della   Corte   costituzionale   recanti
 interpretazioni  della  normativa vigente suscettibili di determinare
 maggiori oneri".
   Potrebbe essere affermata la responsabilita' politica  dei  Governi
 (e'  chiaro,  per  non  aver  obbedito  al  disposto  sopra riportato
 testualmente dell'art. 2, settimo comma, della legge n. 67 del  1988)
 che  si  sono succeduti dalla data di pubblicazione della sentenza n.
 495/1993 ad oggi, ma senza valenza giuridica, restando certo il fatto
 che nessun intervento rispettoso della Costituzione e' stato posto in
 essere  per  la  copertura  finanziaria  dei  maggiori   oneri,   ne'
 totalmente, ne' parzialmente, non potendosi valutare in modo positivo
 il decreto-legge n. 166/1996, gia' sottoposto a critica.
   Dal  riscontrato  attuale  dato  di  fatto  storico dell'assenza di
 copertura finanziaria, a parere  di  questo  pretore,  non  puo'  che
 discendere   obbligatoriamente   l'affermazione   dell'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 22 della legge n.  903/65,  come  modificato
 dal  giudice  delle leggi, per violazione dell'ultimo comma dell'art.
 81 della Costituzione, a nulla rilevando sapere  se  tale  violazione
 dipenda  da  semplice inerzia, o assenza di volonta' del legislatore,
 ovvero (ed e', purtroppo,  questa  l'ipotesi  piu'  veritiera)  dalla
 realta'  di una situazione critica delle finanze dello Stato, tale da
 aver reso, sino ad oggi, impossibile  il  reperimento  delle  risorse
 finanziare  necessarie,  senza  determinare un ulteriore aggravamento
 nel desolante bilancio della nostra Repubblica.
   Unica conseguenza e soluzione possibile sembra essere quella di una
 pronuncia dichiarativa dell'illegittimita'  costituzionale  dell'art.
 22  della legge n. 903 del 1965 nella nuova formulazione creata dalla
 sentenza n. 495 del 1993, con conseguente  cessazione  dell'efficacia
 della  medesima  norma  ai  sensi  dell'art.  136, primo comma, della
 Costituzione e ripristino  della  situazione  normativa  preesistente
 l'intervento del giudice delle leggi.
   Ne'  puo', in contrario, sostenersi con giuridica fondatezza che le
 norme  "virtuali"  create  dalle   sentenze   "leggi"   della   Corte
 costituzionale  siano  avulse  dal  sistema giuridico costituzionale,
 cosi' da non dover obbedire (anche) al dettato dell'art.  81,  ultimo
 comma,   della   Costituzione,  ovvero  che  siano  "refrattarie"  al
 controllo  di  legittimita'  costituzionale,  ovvero  ancora  che  il
 legislatore  debba  dare esecuzione, sempre e comunque, alla volonta'
 della  Corte  e  che  abbia  tempi  illimitati  per  provvedere  alla
 copertura  finanziaria:  se  le  sentenze di natura legislativa della
 Corte hanno davvero forza innovativa nel diritto positivo con obbligo
 di applicazione  (ipotesi,  deve  ribadirsi  ancora,  qui  fortemente
 negata),  tanto  da  fondersi, in modo simile a quanto avviene per le
 leggi  di  interpretazione  autentica,  con   la   norma   dichiarata
 incostituzionale,  determinandone un nuovo contenuto, ebbene, allora,
 queste  norme  "virtuali"  devono  essere  totalmente  conformi  alla
 Costituzione  e  soggiacere  al  vaglio  del giudizio di legittimita'
 costituzionale, come ogni norma di legge.
   Ancora  una  volta,  deve  evidenziarsi  anche  la  violazione  del
 principo  di  "realismo  economico",  come sopra teorizzato: la Corte
 costituzionale non ne ha tenuto conto  nel  creare  la  sua  versione
 dell'art.   22  della  legge  n.  903/65,  determinando  nel  sistema
 giuridico l'esistenza di  un  privilegio  che,  benche'  fondato  sui
 principi  di  ragionevolezza ed uguaglianza, si appalesa eccessivo (e
 in  qualche  misura  anche  superfluo)  proprio  perche'  il  sistema
 economico  non  e'  in grado (e non lo era nel 1993) di soddisfare il
 costo del miglior trattamento, senza spendere risorse future.
   Si pone  in  discussione  qui  senza  equivoci  la  realizzabilita'
 economica  della  tutela concessa dalla sentenza n. 495/1993 (nonche'
 dalla n.   240/1994) in assenza di  versamenti  contributivi  che  ne
 sorreggano  interamente  il  costo  ed  in presenza di una situazione
 della finanza pubblica tale da non  consentire  piu'  l'esistenza  di
 privilegi  che  non  si  autofinanzino,  non  essendo  ormai  neppure
 concepibile un aumento,  della  pressione  fiscale  per  reperire  le
 risorse  necessarie  per la soddisfazione di bisogni non essenziali -
 come reso evidente dallo stesso decreto-legge n.  166  del  1996  che
 evita  ogni  ricorso  alla  fiscalita'  generale, scegliendo la, gia'
 criticata, soluzione dell'indebitamento ulteriore dello Stato,  senza
 minimamente  considerare  che  ogni  aggravamento del debito pubblico
 determina ineluttabilmente la  mortificazione  delle  speranze  delle
 future  generazioni,  gravate  dalle conseguenze degli sperperi delle
 precedenti, compresa quella presente.
      Sulla non manifesta infondatezza e sulla rilevanza in causa
     delle sopra esposte questioni di legittimita' costituzionale
   Le questioni in discorso non sono manifestamente infondate  e  sono
 tutte  rilevanti,  poiche'  il  presente  giudizio  non  puo' "essere
 definito indipendentemente" dalla loro risoluzione: e' piu' che ovvio
 che la dichiarazione della illegittimita' costituzionale dell'art.  1
 del  decreto-legge  n.  166/1996 avrebbe l'effetto di ripristinare la
 vigenza della normativa precedente, restituendo nel contempo a questa
 autorita'  giudiziaria  competente  la  funzione  attribuitale  dalla
 Costituzione   di   amministrare   la   giustizia  secondo  la  legge
 costituzionalmente vigente, l'art. 22 della legge n.  903  del  1965,
 con  conseguente  necessita'  dell'esame  di  costituzionalita',  nei
 (limitati) termini oggi proposti, della appena  citata  disposizione,
 come  modificata  dalla sentenza n. 495 del 1993, poiche' ai fini del
 decidere  e'  importante avere certezza in ordine alla vigenza o meno
 dell'art. 22 della legge n.  903/1965, come determinata  nell'erronea
 opinione  prevalente)  dalla  sentenza  n.  495/1993,  e poiche' tale
 certezza puo' derivare, con valore assoluto solo (salvo ovviamente un
 sempre  possibile  intervento  legislativo  delle  due   Camere   del
 Parlamento)  da  una  decisione  della  Corte costituzionale, risulta
 necessario investire  il  giudice  delle  leggi  della  questione  di
 incostituzionalita'  come  sopra precisata, essendone, peraltro, piu'
 che palese per le argomentazioni che precedono, senza altro superfluo
 commento,  anche  la  rilevanza  nel   presente   giudizio,   poiche'
 l'eventuale   dichiarazione   d'illegittimita'   costituzionale   per
 violazione dell'art. 81  sarebbe,  senza  possibilita'  di  contrasto
 neppure  negli  eventuali  gradi  successivi  del giudizio, motivo di
 rigetto della domanda proposta in causa.
                               P. Q. M.
   Solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale:
     dell'art. 1 del decreto-legge n. 166  del  1996,  per  violazione
 dell'art. 81 della Costituzione;
     dell'art. 22, legge 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla
 sentenza  n.  495/1993  della  Corte  costituzionale,  per violazione
 dell'art.  81 della Costituzione;
   Sospende il giudizio;
   Ordina  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale,
 disponendo  la  notifica  al  Presidente  del Consiglio dei Ministri,
 oltre  alla  comunicazione  ai  Presidenti  delle  due   Camere   del
 Parlamento;
   Manda alla cancelleria per l'esecuzione.
     Brescia, addi' 10 maggio 1996
                           Il pretore: Onni
 96C1602