N. 370 SENTENZA 17 ottobre - 2 novembre 1996

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Reato  in  genere  -  Cosi'ddetti  "reati  di  sospetto"  -  Possesso
 ingiustificato di oggetti e valori - Possesso di attrezzi  atti  allo
 scasso  riferimento  alla  sentenza  della  Corte  n.  48/1994,  alla
 sentenza n.  110/1968  e  alla  sentenza  n.  16/1971  -  Deficit  di
 tassativita'  confermante  l'irragionevolezza della limitazione delle
 condizioni  soggettive  punibili,  a  una  particolare  categoria  di
 persone  - Violazione del principio di uguaglianza - Discrezionalita'
 del legislatore nella determinazione delle quantita' e qualita' della
 sanzione - Illegittimita' costituzionale - Non fondatezza.
 
 (C.P., artt. 708 e 707).
 
 (Cost., artt. 3, 25, 27 e 27, terzo comma).
(GU n.45 del 6-11-1996 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: avv. Mauro FERRI;
  Giudici:  prof.  Luigi  MENGONI,  prof.  Enzo  CHELI,   dott. Renato
 GRANATA, prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
 Cesare MIRABELLI,
  avv.  Massimo  VARI,   dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA,
 prof.  Gustavo  ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,    prof.   Carlo
 MEZZANOTTE;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei  giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 707 e 708 del
 codice penale, promossi con ordinanze emesse  l'11  maggio  1994  dal
 tribunale  per i minorenni dell'Aquila, il 19 aprile 1995 dal pretore
 di Varese, il 4 luglio, il 20 settembre, il 1 giugno, il  9  ottobre,
 il  20  settembre  ed  il  29  giugno  1995  dal  pretore  di Milano,
 rispettivamente iscritte ai nn. 374, 445, 746, 898,  947  e  948  del
 registro  ordinanze  1995  ed  ai  nn. 19 e 20 del registro ordinanze
 1996, e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn.  26,
 35 e 47, prima serie speciale, dell'anno 1995, e nn. 1, 4 e 5,  prima
 serie speciale, dell'anno 1996;
   Visti  gli  atti  di  intervento  del  Presidente del Consiglio dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio  del  12  giugno  1996  il  giudice
 relatore Francesco Guizzi.
                           Ritenuto in fatto
   1.  - Nel corso del procedimento penale a carico di Stankovic Beta,
 trovata in possesso d'un cacciavite della lunghezza di 38 centimetri,
 il tribunale per i minorenni dell'Aquila ha sollevato,  in  relazione
 agli  artt.  3, 25 e 27 della Costituzione, questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 707 del codice penale.
   Pur non ignorando che la  denunciata  disposizione  e'  stata  piu'
 volte sottoposta al vaglio di questa Corte (la quale, con la sentenza
 n. 14 del 1971, mentre espungeva le condizioni personali ritenute non
 compatibili  con  l'art.  3  della  Costituzione, dichiarava tuttavia
 l'infondatezza delle altre questioni sollevate),  il  giudice  a  quo
 ritiene di poterla riproporre sotto nuovi profili.
   1.1.  -  Alle origini del diritto penale moderno vi sarebbe, per il
 Collegio rimettente, la dialettica fra il principio  di  offensivita'
 del  reato e la concezione dell'illecito penale quale mera violazione
 d'un  dovere  giuridico;  fra  la  concezione  oggettiva   e   quella
 soggettiva del reato. In base alla prima, verrebbe punita l'offesa al
 bene  protetto  a  prescindere  dall'intenzione  dell'agente;  per la
 seconda, il reato consisterebbe essenzialmente nella violazione delle
 norme morali, fino ad appiattirsi  sul  peccato.  Il  diritto  penale
 moderno  dovrebbe  ricercare  invece, a parere del giudice a quo, una
 sintesi fra i  due  estremi,  privilegiando  pero'  il  principio  di
 offensivita', secondo cui il reato dovrebbe estrinsecarsi nell'offesa
 o,  quanto  meno,  nella  messa in pericolo di un bene giuridico, non
 essendo concepibile un reato senza  l'offesa  di  un  bene:  onde  la
 necessaria  materialita' del fatto, vera e propria garanzia contro le
 incriminazioni degli atteggiamenti umani che toccano la sfera interna
 del soggetto.
   Il  principio  di  offensivita'  troverebbe il suo fondamento nella
 Costituzione, che ha costruito una nozione  di  reato  come  illecito
 tipico,  comprensiva  fra  l'altro del requisito dell'offesa del bene
 tutelato. Si' che la categoria del bene giuridico si  porrebbe  quale
 limite  all'arbitrio  del  legislatore,  restringendo  la cerchia dei
 fatti  meritevoli   di   trattamento   penale   soltanto   a   quelli
 effettivamente dannosi per la convivenza sociale.
   La  costituzionalizzazione del principio nullum crimen sine iniuria
 verrebbe desunta dal principio  generale  della  liberta'  personale,
 sancito  nell'art.  13 della Costituzione, e potrebbe essere limitata
 dalla sanzione penale solo quando ricorra l'esigenza di  tutelare  un
 altro  interesse  di  rango  costituzionale  (l'integrita' fisica, la
 proprieta', ecc.). Ma la costituzionalizzazione - postulando entrambi
 gli articoli una distinzione ontologica dei fatti  -  si  ricaverebbe
 altresi'  dall'art.  25,  ove  si fa uso del termine "fatto" in senso
 materiale, e dall'art. 27, ove si distingue fra la pena e  la  misura
 di sicurezza.
   1.2. - La fattispecie incriminatrice denunciata consisterebbe in un
 comportamento  non  lesivo  (e  non  pericoloso)  per  gli  interessi
 meritevoli di tutela penale,  in  tal  modo  enucleando,  pero',  una
 figura  tipica  del  diritto  penale sintomatico o preventivo, che e'
 limite estremo al diritto penale. E cio' non  tanto  perche'  sarebbe
 violato  il  principio di materialita' (non essendo tale figura priva
 di una condotta esteriore e non  colpendo,  percio',  un  mero  stato
 personale  o  una  semplice  intenzione),  quanto perche' la condotta
 verrebbe punita in se', come indizio della commissione d'un  illecito
 qualora  esso  risulti  in  connessione  con  determinate  condizioni
 personali dell'agente.   In mancanza di  prova  per  fatti  criminosi
 ipotetici,  non  ancora  compiuti,  l'imputato  verrebbe  punito  per
 l'eventuale intenzione di commetterli (anche se, nella specie, avesse
 voluto ad esempio servirsi del cacciavite sequestrato per riparare un
 ciclomotore). Di qui, l'opportunita' - sottolineata dal giudice a quo
 - d'un  riesame  del  reato  di  pericolo  presunto,  alla  luce  del
 principio   di   offensivita',  giacche'  questo  tipo  di  reato  si
 giustificherebbe  soltanto  in  una  visione  formalistica  volta   a
 sanzionare  la  violazione  del  dovere  di  obbedienza  delle  norme
 statali.
   1.3. - E' intervenuto il Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per
 l'infondatezza della questione.
   Il reato di cui all'art. 707 del codice penale avrebbe,  ad  avviso
 dell'Avvocatura,  una  funzione  finalistica  di prevenzione, essendo
 teso a evitare la commissione di delitti  contro  il  patrimonio.  Un
 reato   di   pericolo,   senza   dubbio,  che  parte  della  dottrina
 ricomprende,  pero',  nella   categoria   dei   reati   di   pericolo
 relativamente  presunto,  nei quali il legislatore presumerebbe iuris
 et de  iure  la  messa  in  pericolo  del  bene  giuridico  protetto,
 ammettendo   nel   contempo   l'imputato   a  provare,  in  concreto,
 l'inesistenza del pericolo.
   2. - Nel corso del procedimento penale a carico di Ferraresi Bruno,
 gia' condannato per il reato di emissione di assegno senza  provvista
 e  colto  in  possesso di valuta angolana (477.500 kwansaz, pari a un
 controvalore di circa 27.000 lire, all'epoca del fatto,  e  di  circa
 1200   lire,  al  momento  del  giudizio),  imputato  pertanto  della
 contravvenzione  di cui all'art. 708 del codice penale, il pretore di
 Varese ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo  comma,
 e  25,  secondo  comma, della Costituzione, questione di legittimita'
 costituzionale del predetto articolo.
   Il giudice a quo premette  che  questo  tipo  di  incriminazione  -
 classificabile  nell'ambito  dei  cosiddetti  reati di sospetto - era
 presente nella legislazione degli Stati preunitari, con la  finalita'
 di  rafforzare  l'attivita'  di  polizia,  e sarebbe stato di recente
 rivitalizzato  per  un  breve  periodo  dalla  previsione   dell'art.
 12-quinquies  del d.-l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge
 7 agosto 1992, n. 356, e dichiarato costituzionalmente illegittimo da
 questa Corte con la sentenza n. 48 del 1994.
   2.1. - Osserva il  rimettente  che  tale  figura  non  puo'  essere
 censurata sotto il profilo della mancanza d'una qualsivoglia condotta
 -  nonostante  l'opinione della prevalente dottrina e malgrado alcuni
 precedenti giurisprudenziali -  riflettendo  il  reato  una  condotta
 addirittura   complessa,   perche'   comprensiva   sia  dell'atto  di
 acquisizione delle cose sia del loro consapevole possesso.  Dubbi  di
 costituzionalita'   si   dovrebbero  invece  appuntare,  con  maggior
 fondamento, sull'oggetto del possesso. Se, infatti, il "denaro" e gli
 "oggetti   di   valore"   sembrano   rinviare   a   dati   oggettivi,
 naturalistici,  tali da soddisfare il principio di tassativita' della
 fattispecie  penale,  le  "cose"  -  parimenti  ivi   contemplate   -
 paleserebbero  un  difetto  assoluto  di tassativita' di questa parte
 della  norma.  Sotto  siffatto  aspetto  la  disposizione  denunciata
 contrasterebbe  con  l'art.  25, secondo comma, della Costituzione (e
 con l'art. 3 per i motivi gia' esaminati nella sentenza  n.  110  del
 1968   che   dichiaro'   la  parziale  illegittimita'  costituzionale
 dell'art. 708 del codice penale). Il riferimento generico alle "cose"
 comporterebbe invero la necessita', per il giudice, d'una valutazione
 relazionale con lo "stato"  del  soggetto,  amplificando  la  portata
 incriminatrice  della  norma,  fino a incentrarla in modo esclusivo e
 irragionevole  sullo  stato  sociale  (attuale)   del   soggetto   in
 precedenza condannato.
   La  questione  sarebbe  rilevante  nel giudizio a quo, essendosi il
 pubblico ministero riferito al possesso della  valuta  angolana,  non
 confacente  a  suo  avviso  allo  stato  di  indigenza  dell'imputato
 derivante dalla disoccupazione; e cio' come se si trattasse di "cose"
 e non d'una "somma di denaro".
   2.2. - L'art. 708 del codice  penale  contrasterebbe  altresi'  con
 l'art.  24,  secondo  comma,  della  Costituzione, per violazione del
 principio sostanziale (e processuale) secondo  cui  nemo  tenetur  se
 detegere.  Seguendo  l'orientamento  giurisprudenziale in ordine alla
 giustificazione   richiesta   dalla   disposizione    denunciata    -
 l'attendibile  e  circostanziata spiegazione del possesso di valori -
 si  obbligherebbe  di  fatto  l'accusato  a   fornire   all'autorita'
 giudiziaria  la  notizia  della commissione di un altro reato, pur di
 essere scagionato da quell'accusa. Ogni qual volta la provenienza  di
 cose,  oggetti di valore e danaro sia illecita, la persona sottoposta
 a   controllo   potra'   infatti   evitare   di   rispondere    della
 contravvenzione  di  cui  all'articolo  708,  dichiarando  l'avvenuta
 commissione (da parte propria o di altri) di un diverso reato; quanto
 al momento temporale, la portata  del  principio  costituzionale  del
 diritto di difesa non potrebbe essere confinato alla fase processuale
 del giudizio.
   La   disposizione   censurata  violerebbe  infine  l'art.  3  della
 Costituzione, perche' creerebbe un irragionevole obbligo di  denuncia
 - sanzionato in via indiretta - in capo al soggetto colto in possesso
 di valori.
   2.3.   -   L'articolo  in  esame  dovrebbe,  in  subordine,  essere
 dichiarato  costituzionalmente  illegittimo,  ancora  in  riferimento
 all'art.  3,  per l'eccessivita' - cosi' conclude l'ordinanza - della
 pena edittale minima prevista.
   Pur a conoscenza dell'indirizzo della giurisprudenza costituzionale
 in  senso  preclusivo  circa  la  possibilita'  d'intervenire   sulla
 qualita'  e  misura della pena, il giudice a quo richiama la sentenza
 n. 49 del 1989 (di parziale fondatezza) che concerne altro  reato  di
 sospetto,   e  la  contrappone  al  precedente  specifico  costituito
 dall'ordinanza n. 270 del 1984.  L'irragionevolezza  del  trattamento
 minimo  stabilito nella disposizione denunciata si manifesterebbe con
 riguardo al diverso  regime  edittale  riservato  ad  alcuni  delitti
 contro  il  patrimonio,  rispetto  ai  quali  la  contravvenzione  al
 presente vaglio di legittimita' costituzionale costituirebbe un minus
 (il furto e altre figure criminose, la cui  punibilita'  sarebbe,  in
 concreto,  opportunamente  modulabile  sia  attraverso il giudizio di
 valenza delle circostanze, sia attraverso gli spazi  attribuiti  alla
 discrezionale   qualificazione  del  fatto,  com'e'  nel  caso  della
 ricettazione di particolare tenuita').
   2.4. - E' intervenuto il Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per
 la non fondatezza di entrambe le questioni sollevate dal  pretore  di
 Varese,  la  prima delle quali appare identica a quella decisa con la
 sentenza n. 464 del 1992.
   3. - Nel corso del procedimento penale  a  carico  di  Leone  Marco
 Luciano,  imputato  del  reato di cui all'art. 707 del codice penale,
 nonche' nel corso di altri cinque procedimenti penali  relativi  alla
 stessa  ipotesi  criminosa,  il  pretore  di  Milano ha sollevato con
 altrettante ordinanze, riferite tutte agli artt. 3,  primo  comma,  e
 27,   terzo   comma,   della   Costituzione,  identica  questione  di
 legittimita' costituzionale del citato articolo, nella parte  in  cui
 prevede  il  minimo  edittale  di  sei  mesi di reclusione (recte: di
 arresto), anziche' di cinque giorni,  stabilito  dall'art.  25  dello
 stesso codice.
   Osserva  il  pretore che la pena minima prevista dalla disposizione
 di cui dubita  determinerebbe  conseguenze  risolvibili  soltanto  in
 seguito  alla  declaratoria di illegittimita' costituzionale. Con una
 previsione generale,  valida  qualora  specificamente  non  derogata,
 l'art.   25   del  codice  penale  stabilisce  infatti  che  la  pena
 dell'arresto ha una soglia minima di cinque giorni; e l'art. 708, che
 ha in comune con la incriminazione de qua il presupposto  soggettivo,
 statuisce  che  il  minimo non superi la pena di tre mesi di arresto.
 Infine, il furto semplice viene punito  con  un  minimo  di  quindici
 giorni   di  pena  detentiva  che  finisce  per  essere  applicabile,
 attraverso il giudizio di equivalenza fra le  circostanze  di  reato,
 anche  quando  sia  stato  ipotizzato  un  furto  aggravato  ai sensi
 dell'art. 625 dello stesso codice. Ne  conseguirebbe  un  trattamento
 sicuramente  deteriore per coloro che pongono in essere quei semplici
 atti preparatori, in se'  non  punibili,  ma  sottoposti  a  sanzione
 dall'art.   707   in   considerazione   dei  soli  precedenti  penali
 dell'imputato, e si tratterebbe, certo,  di  una  sanzione  detentiva
 assai  piu'  severa  di quella che e' normalmente irrogabile nel caso
 dell'esecuzione  di  un  furto  semplice  (quand'anche  sia  commesso
 mediante  l'uso  di  piccole  pinze,  o  strumenti  analoghi,  o  con
 l'asportazione della piastra magnetica applicata agli oggetti esposti
 sui banchi dei grandi magazzini).
   Il possesso anche di un unico attrezzo (cacciavite, forbici, chiave
 inglese), che in se' non sarebbe significativo di alcuna  particolare
 pericolosita'  del soggetto, oltre a essere sottoposto a una sanzione
 sproporzionata vanificherebbe la finalita'  rieducativa  della  pena.
 Di  contro  a quanto questa Corte ha affermato con la sentenza n. 341
 del 1994, riferendo l'art. 27, terzo comma, della  Costituzione  pure
 alla  fase  cognitiva  del processo e sostenendo che "il principio di
 proporzionalita' nel campo  del  diritto  penale  equivale  a  negare
 legittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee
 a   raggiungere   finalita'   statuali   di  prevenzione,  producono,
 attraverso  la   pena,   danni   all'individuo   ed   alla   societa'
 sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da
 quest'ultima  con  la  tutela dei beni o valori offesi dalle predette
 incriminazioni".
   3.1. - E' intervenuto il Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per
 l'inammissibilita' - in  considerazione  della  discrezionalita'  del
 legislatore  con riguardo alla politica di prevenzione dei reati - o,
 in subordine, per l'infondatezza della questione.
   Nella specie, comunque, la condotta sanzionata  dall'art.  707  del
 codice  penale  avrebbe  una  potenzialita' plurioffensiva rispetto a
 quella  dell'art.  708;  ne'  la  predetta  ipotesi  potrebbe  essere
 comparata  con  quella  del  furto semplice, in quanto il legislatore
 avrebbe valutato la maggiore pericolosita'  della  detenzione  di  un
 grimaldello  da  parte  d'un pregiudicato rispetto al danno criminale
 derivante dal furto semplice. E cio' anche  a  voler  tralasciare  la
 diversita' fra i due tipi di pena (reclusione e arresto) fra loro non
 comparabili.
                        Considerato in diritto
    1.  - Il tribunale dei minorenni dell'Aquila, il pretore di Varese
 e il pretore di Milano ripropongono alcune questioni di  legittimita'
 costituzionale  concernenti i cosiddetti "reati di sospetto", come la
 dottrina cataloga le previsioni di cui  agli  artt.  707  e  708  del
 codice penale. In particolare questa Corte e' chiamata a valutare:
     1)  se  l'art.  707  del codice penale contrasti con il principio
 nullum  crimen   sine   iniuria,   a   dire   del   giudice   a   quo
 costituzionalizzato dagli artt. 25, 27 e 3 (quest'ultimo in relazione
 all'art.  13) della Costituzione, perche' attraverso di esso, secondo
 una visione formalistica del  reato,  costituirebbe  illecito  penale
 anche la violazione del dovere di obbedienza alle norme statali, pure
 in  mancanza  di  un  pericolo  concreto (come per tutte le figure di
 reato di pericolo presunto);
     2)  se  l'art.  708  del  codice  penale  sia  costituzionalmente
 illegittimo, in quanto:
      a)  violerebbe  il  principio di tassativita' delle norme penali
 contenuto nell'art. 25, secondo comma, della Costituzione, poiche' il
 riferimento alla nozione generica di "cose" di  valore  costringe  il
 giudice a motivare sul carattere di esse;
      b)  contrasterebbe con l'art. 3 per la traslazione della portata
 incriminatrice della norma, incentrata in via esclusiva (e,  percio',
 irragionevolmente)  sullo  stato  sociale,  attuale,  del soggetto in
 precedenza condannato;
      c) lederebbe il principio per  cui  nemo  tenetur  se  detegere,
 enucleabile    dall'art.   24,   secondo   comma,   giacche'   impone
 indirettamente a chi abbia commesso un altro reato  di  assumerne  la
 responsabilita'  o  di  indicare il responsabile al fine di sottrarsi
 all'accusa mossagli, in tal modo costruendo un irragionevole  obbligo
 alla  confessione,  o  alla  denuncia  dell'autore  del fatto, per il
 soggetto  colto  in  possesso  "non  giustificato"   di   un   valore
 (irragionevolezza ex art. 3 della Costituzione);
     3)  se  l'art.  708  del  codice  penale,  nel prevedere una pena
 edittale minima  di  tre  mesi  di  arresto,  sia  costituzionalmente
 illegittimo,  perche'  in tal modo verrebbe paradossalmente riservato
 al reo di alcuni gravi delitti contro il patrimonio un trattamento in
 concreto piu' favorevole rispetto a  questa  contravvenzione,  grazie
 alla  possibilita'  d'un  giudizio  di  valenza delle circostanze (ad
 esempio nel furto aggravato) o in ipotesi di reati  affini,  ma  meno
 gravi come la ricettazione di particolare tenuita', per effetto della
 qualificazione del fatto nella sentenza;
     4) se l'art. 707 del codice penale, nella parte in cui stabilisce
 il  minimo edittale di sei mesi di arresto, anziche' quello di cinque
 giorni previsto dall'art. 25 del codice penale, violi i  principi  di
 ragionevolezza  e della funzione rieducativa della pena con riguardo,
 come tertium comparationis, alla previsione generale del citato  art.
 25,  a quella particolare dell'art. 708 del codice penale (in base al
 presupposto soggettivo comune) e  alla  previsione  degli  artt.  624
 (furto  semplice,  nel cui ambito la giurisprudenza include l'ipotesi
 di furto  nei  grandi  magazzini  con  l'asportazione  della  piastra
 magnetica)  e 625 (furto aggravato, nell'ipotesi in cui il giudicante
 ravvisi le attenuanti generiche).
   1.1. - Sono dunque al vaglio di legittimita' costituzionale quattro
 distinte questioni sulle menzionate figure  dei  reati  di  sospetto:
 due  attengono  alla  struttura  dei  reati,  e  due  al  trattamento
 sanzionatorio minimo che si assume irrazionale rispetto  alla  tavola
 degli  altri  valori  penalistici.  Conviene  quindi  che  i relativi
 giudizi siano riuniti; e pare opportuno,  per  comodita'  espositiva,
 che  si muova dall'esame della questione concernente la struttura del
 reato di possesso ingiustificato  di  valori  (art.  708  del  codice
 penale).
   2. - La questione e' fondata.
   La  contravvenzione  del  possesso  ingiustificato  di valori venne
 introdotta  nella  moderna  legislazione   penalistica   dal   codice
 napoleonico  del  1810 per colpire (o almeno arginare) la piaga della
 mendicita',  com'e'   desumibile   dall'art.   378,   che   si   cita
 nell'edizione ufficiale per il Regno d'Italia in vigore dal 1 gennaio
 1811:  "Ogni mendicante o vagabondo a cui saranno trovati indosso uno
 o piu' oggetti di un valore che ecceda le lire cento, e  che  non  ne
 giustifichera' la provenienza, sara' punito", ai sensi dell'art. 276,
 "con detenzione da sei mesi a due anni".
   La  norma  non  costituiva invero una novita' assoluta, dal momento
 che in altre forme si era  gia'  fatto  impiego,  nelle  legislazioni
 preunitarie, di analoghi schemi punitivi per coloro che fossero colti
 nel  possesso di valori anche "rurali", segnatamente i prodotti della
 terra, secondo una disposizione rinvenibile nella codificazione dello
 Stato  pontificio.  Ispirandosi  al  modello  francese   -   con   la
 significativa  dissonanza del codice per gli Stati di Parma, Piacenza
 e Guastalla del  1820  -  quasi  tutte  le  codificazioni  successive
 adottarono   la  statuizione  incriminatrice.  L'acquisi'  il  codice
 albertino del 1839, allargando pero' il novero dei soggetti attivi in
 un ambito piu' composito, quello delle "persone sospette",  tanto  da
 ricomprendere,  agli  artt.  460  e  462,  gli oziosi, i vagabondi, i
 mendicanti validi, i sorvegliati speciali, gli stranieri clandestini,
 i  diffamati  per  crimini  o  per  delitti,  e   singolarmente   per
 grassazioni, estorsioni, furti e truffe.
   Essa  e'  stata quindi recepita nell'art. 708 del codice vigente, e
 prima negli artt. 449 del codice penale del Regno sardo del 1859 (poi
 esteso al Regno d'Italia) e 492  del  codice  Zanardelli,  intitolato
 "Del  possesso ingiustificato di oggetti e valori", ma caratterizzato
 da sanzioni meno severe, quale l'arresto di soli due mesi.
   Le legislazioni penali europee - compresa la Francia che si  e'  di
 recente  uniformata  con  il  nuovo  codice adottato mediante quattro
 leggi del 22 luglio 1992 - hanno eliminato  il  reato  del  "possesso
 ingiustificato  di  valori", mentre hanno conservato, in varia guisa,
 la disciplina del possesso di grimaldelli,  chiavi  false  e  oggetti
 simili.   E   in   una  prospettiva  adeguatrice  ai  principi  della
 Costituzione,  questa  Corte  dichiaro'  significativamente,  con  la
 sentenza  n.  110 del 1968, l'illegittimita' costituzionale dell'art.
 708 del codice penale, limitatamente pero'  "alla  parte  in  cui  fa
 richiamo  alle  condizioni personali di condannato per mendicita', di
 ammonito, di sottoposto a misure di sicurezza personale o a  cauzione
 di buona condotta" (decisione poi ripetuta, con la sentenza n. 16 del
 1971,  anche  per  la  figura  del  reato di cui all'art. 707), cosi'
 depurando la  norma  incriminatrice  da  tutte  quelle  categorie  di
 soggetti  nei  cui  confronti  il  "sospetto"  si sarebbe potuto dire
 ingiustificato.
   2.1. - Il ragionamento svolto nelle due decisioni menzionate va ora
 sviluppato e portato a compimento.
   E' oggi visibile nella societa' un nuovo dato,  ch'era  in  passato
 piu'  difficile  da cogliere: l'esistenza di preoccupanti fenomeni di
 arricchimento personale ottenuto mediante vie illecite e occulte.  Di
 fronte a queste tendenze degenerative della vita economica e  civile,
 la  previsione  incriminatrice  contenuta  nell'art.  708  del codice
 penale e' una ipotesi assolutamente marginale e  ormai  irragionevole
 nella sua esclusiva riferibilita' a coloro che sono pregiudicati "per
 delitti   determinati  da  motivi  di  lucro  e  per  contravvenzioni
 concernenti la prevenzione  di  delitti  contro  il  patrimonio".  La
 crescita  della  ricchezza  mobiliare,  la sua circolazione in ambito
 internazionale e l'uso dello schermo societario per il suo  controllo
 rendono  infatti  questo strumento ottocentesco di difesa sociale del
 tutto  inadeguato   a   contrastare   le   nuove   dimensioni   della
 criminalita', non piu' rapportabile, necessariamente, a uno "stato" o
 a   una   "condizione   personale".   Irragionevole  e',  dunque,  la
 discriminazione nei confronti d'una categoria di soggetti composta da
 pregiudicati per reati di varia natura o entita' contro il patrimonio
 (a  volte  assai  risalenti nel tempo) che siano colti in possesso di
 "denaro o di oggetti di valore o di  altre  cose  non  confacenti  al
 (loro)  stato".  Riferimento, questo, che si palesa indeterminato per
 la  genericita'  del  disposto  normativo  e  non  piu'  adeguato   a
 perseguire  i  fenomeni  degli arricchimenti illeciti quali risultano
 dall'osservazione della realta' criminale di questi  ultimi  decenni.
 Ed  e'  evidente  che  i  danni all'economia e alla convivenza civile
 provengono da persone che  -  svolgendo  professionalmente  attivita'
 legate  alla  circolazione  della  ricchezza  mobiliare  o  a  questa
 prossime - hanno modo di eludere, anche per lunghi periodi di  tempo,
 i controlli legali.
   Di  tali  mutamenti  si e' peraltro reso conto pure il legislatore,
 che ha introdotto nell'ordinamento giuridico (con il d.-l.  8  giugno
 1992, n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356) una nuova
 figura di reato con cui si puniva la disponibilita' di beni di valore
 sproporzionato  al  reddito  o  alla  propria attivita' economica. Ma
 modellando la previsione sulla falsariga  dell'art.  708  del  codice
 penale  ha  finito  per travalicarlo, poiche' ha esteso la  categoria
 dei "sospetti" ai semplici indagati di alcuni  e  piu'  gravi  reati,
 violando il principio della presunzione di non colpevolezza affermato
 nell'art. 27, secondo comma, della Costituzione. Si' che questa Corte
 ne  ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale, sostenendo che "il
 fatto penalmente rilevante deve essere tale a prescindere dalla
  circostanza che il suo autore  sia  o  meno  indagato  o  imputato",
 perche' siffatte "condizioni, instabili come ogni status processuale,
 non   legittimano   alcun  apprezzamento  in  termini  di  disvalore"
 (sentenza n. 48 del 1994). In    cio'  ravvisando  una  significativa
 differenza  strutturale  rispetto alla sua matrice contravvenzionale,
 individuata appunto nell'art. 708.
   2.2. - Con le decisioni menzionate, la Corte doveva  spiegare  come
 mai  il  possesso  di valori mobiliari o la mera detenzione di chiavi
 fossero da ritenere condotte lecite - se poste in  essere  da  alcune
 persone  -  mentre  integrassero  condotte  punibili,  per  se stesse
 considerate, ove realizzate da altre. Si trattava  di  un  dubbio  di
 legittimita'   costituzionale,   in  riferimento  all'art.  25  della
 Costituzione, che penetrava  fin  dentro  alla  conformazione  tipica
 della  figura  di  reato;  dubbio che la Corte sciolse affermando che
 l'indicazione precisa del  fatto  punibile  risiedeva  proprio  nella
 "possibilita'  di  dare una soddisfacente spiegazione del possesso di
 un valore non  confacente  alle  abituali  condizioni  di  vita"  del
 sospettato.  Ma  in tal modo non si elimino' dalla fattispecie quella
 condizione sociale abituale che non e' certo piu' concepibile  in  un
 orizzonte   storico   diverso   da   quello   originario.   Essa  era
 indispensabile per separare i fatti di possesso  punibili  da  quelli
 leciti,  che  si  sottraggono  a  ogni  forma di controllo. E cio' in
 quanto si voleva infliggere comunque una pena per quei fatti sfuggiti
 all'accertamento dell'azione delittuosa del  responsabile  del  reato
 contro  il  patrimonio,  utilizzando  un surrogato contravvenzionale,
 tipizzato attraverso la riferibilita' del fatto, di per se' neutro, a
 un pregiudicato per alcune classi di precedenti penali.
   Tale deficit  di  tassativita'  conferma  l'irragionevolezza  della
 limitazione delle condizioni soggettive punibili a una sola categoria
 di  persone.  La  disposizione  va, pertanto, dichiarata illegittima,
 perche' viola gli artt. 3 e 25 della Costituzione, restando assorbito
 l'ulteriore profilo denunciato.
   3.  -  La  previsione  dell'art.  707 del codice penale conosce una
 storia solo parzialmente analoga.
   Parimenti  trasmessa  alle  moderne  codificazioni   dall'archetipo
 costituito  dall'art.  277  del  codice napoleonico nell'ambito delle
 medesime categorie di "devianti" (ma  con  la  piu'  severa  sanzione
 della  detenzione  da  due  a  cinque  anni),  recepito  nell'attuale
 disposizione attraverso gli artt. 461 del codice albertino  del  1839
 (con  una  pena massima di tre anni), 448 del codice penale del Regno
 sardo del 1859 e 492, secondo comma, del codice  Zanardelli  (ove  la
 pena  detentiva  massima  non  superava  i  sei mesi di arresto), non
 risulta  affatto  abbandonato  dalla  legislazione  europea  vigente,
 compresa quella britannica (Thaft Act del 26 luglio 1968).
   3.1. - La questione non e' fondata.
   La determinazione del fatto-reato circa questa ipotesi criminosa e'
 data  infatti  dalla  tipologia  stessa  degli  oggetti  detenuti (le
 "chiavi alterate o contraffatte", le "chiavi genuine", gli "strumenti
 atti ad aprire o  a  sforzare  serrature")  in  ordine  ai  quali  e'
 pleonastica   la   mancata   giustificazione   della   loro   attuale
 destinazione. Cio', ovviamente, se ben s'intende sia  il  riferimento
 agli  strumenti  atti  allo scasso (in relazione alle caratteristiche
 medie delle serrature o delle difese adottate),  sia  il  presupposto
 soggettivo con riguardo ad altra commissione di fatti specifici.
   4.  -  Delle  residue  questioni, quella concernente il trattamento
 edittale minimo dell'art. 708 del codice penale e'  superata  per  la
 sopravvenuta   illegittimita'   costituzionale   della  disposizione.
 L'altra, quella  relativa  all'art.  707,  va  dichiarata  infondata,
 rientrando  nella  discrezionalita' del legislatore la determinazione
 delle quantita' e qualita' della  sanzione,  purche'  si  osservi  il
 limite  della ragionevolezza.  Che non e' violato nel caso di specie,
 considerando   la   diversita'   delle   situazioni   comparate    e,
 particolarmente,  il  riferimento  a  ipotesi di reato distanti dalla
 contravvenzione esaminata.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti  i  giudizi,   dichiara   l'illegittimita'   costituzionale
 dell'art.  708 del codice penale;
   Dichiara  non  fondate  le questioni di legittimita' costituzionale
 dell'art. 707 del codice penale, sollevate, in relazione  agli  artt.
 3,  25  e  27  della  Costituzione,  dal  tribunale  per  i minorenni
 dell'Aquila, e agli artt. 3, primo comma, e 27,  terzo  comma,  della
 Costituzione, dal pretore di Milano con le ordinanze in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 17 ottobre 1996.
                         Il Presidente: Ferri
                         Il redattore: Guizzi
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 2 novembre 1996.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
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