N. 1283 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 giugno 1996

                                N. 1283
  Ordinanza  emessa  il  18  giugno  1996  dal  pretore di Brescia sul
 ricorso proposto da Rosa Elisa contro l'I.N.P.S.
 Previdenza e  assistenza  sociale  -  Pensioni  I.N.P.S.  -  Previsto
    pagamento  dei  rimborsi in sei annualita' e mediante emissione di
    titoli di Stato - Estinzione dei giudizi  pendenti  alla  data  di
    entrata  in  vigore  della  normativa  impugnata  -  Incidenza sul
    diritto  di   difesa,   sui   principi   del   giudice   naturale,
    dell'autonomia  ed  indipendenza  della magistratura e le relative
    attribuzioni, della copertura finanziaria - Abuso dello  strumento
    del  decreto-legge  in  assenza  dei  presupposti di necessita' ed
    urgenza - Violazione del  diritto  al  lavoro,  del  principio  di
    uguaglianza,  del  principio  della  tutela  del  lavoro  e  della
    retribuzione (anche differita) proporzionata ed adeguata.
 Previdenza e assistenza sociale - Pensioni  I.N.P.S.  -  Pensione  di
    riversibilita'  -  Calcolo, per effetto della sentenza della Corte
    costituzionale n. 495/1993, in proporzione alla  pensione  diretta
    integrata  al trattamento minimo gia' liquidato o che l'assicurato
    ha diritto di percepire - Ritenuta illegittimita'  delle  pronunce
    additive  ed  interpretative  della Corte costituzionale - Lesione
    delle attribuzioni del potere legislativo e del potere giudiziario
    - Violazione del principio di copertura finanziaria.
 Giudizio di legittimita' costituzionale - Sentenze di  illegittimita'
    costituzionale - Indebita attribuzione di efficacia retroattiva.
 Giudizio  di legittimita' costituzionale in via incidentale - Nozione
    di rilevanza della  questione  nel  giudizio  a  quo  -  Nesso  di
    necessaria   pregiudizialita'   della   questione  stessa  per  la
    definizione del giudizio - Compressione del sindacato della  Corte
    costituzionale - Violazione della sfera di attribuzioni del potere
    giudiziario.
 Giudizio   di   legittimita'  costituzionale  in  via  incidentale  -
    Condizioni e  forme  di  proponibilita'  -  Previsione  con  legge
    ordinaria  -  Violazione  del  principio  della  riserva  di legge
    costituzionale.
 (D.-L. 27 maggio 1996, n. 295, art. 1; legge 21 luglio 1965, n.  903,
    art. 22; legge 11 marzo 1953, n. 87, artt. 30, terzo comma, e 23).
 (Cost.,  artt.  77,  ultimo  comma, 1, primo e secondo comma, 70, 72,
    136, primo comma, 102, primo comma, 24,  primo  comma,  25,  primo
    comma,  81,  quarto comma, 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 36,
    primo comma, 101, 102, primo comma, 104, primo comma, 111,  134  e
    137, primo comma).
(GU n.48 del 27-11-1996 )
                              IL PRETORE
   Visti:
     il ricorso;
     il d.-l. 26 marzo 1996, n. 166;
     il d.-l. 27 maggio 1996, n. 295;
     l'art. 22 della legge 21 luglio 1963, n. 903;
     la   sentenza   29-31   dicembre   1993,   n.   493  della  Corte
 costituzionale;
     l'art. 11, comma 22, legge 24 dicembre 1993, n. 537;
     la sentenza Corte costituzionale 10 giugno 1994, n. 240;
     gli artt. 23 e 30, terzo comma, legge 11 marzo 1953, n. 87;
     l'art. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1;
     l'art. 1 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1;
     gli  artt.  1,  3, 4, 24, 25, 35, 36, 70, 71, 72, 73, 76, 77, 81,
 101, 102, 104, 111, 134, 136 e 137 della Costituzione.
   Ha pronunciato, dandone integrale lettura, la seguente ordinanza di
 rimessione alla Corte costituzionale  di  questioni  di  legittimita'
 costituzionale,  rilevate  d'ufficio, nella causa r.g. n. 80087/1995,
 in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria, promossa da Rosa
 Elisa, elettivamente domiciliata in Brescia presso l'avv. Luciano
  Nardino, il quale la rappresenta e difende in  farza  di  procura  a
 margine del ricorso, ricorrente, contro I.N.P.S. - Istituto nazionale
 della  previdenza  sociale,  in  persona  del presidente pro-tempore,
 convenuto.
                               PREMESSA
   Nel corso del presente giudizio,  nel  quale  la  parte  ricorrente
 chiede  l'applicazione  in  suo  favore  dell'art.  22 della legge 21
 luglio 1963, n. 903 (ovviamente nella versione "creata"  dalla  Corte
 costituzionale con la sentenza n. 495/1993, e' stato emanato il d.-l.
 26 marzo 1996, n. 166, nei confronti del quale e' stata sollevata una
 notevole  serie  di  questioni  di  legittimita'  costituzionale gia'
 trasmesse al giudice delle  leggi;  com'era  prevedibile,  stante  la
 situazione  patologia  (non  certo  determinata  da  un'insufficienza
 dell'art. 77 della Costituzione,  come  di  recente  e'  stato  anche
 sostenuto, ma dalla costante violazione della stessa disposizione, la
 quale  non  necessita  di modifiche, ma solo del doveroso rispetto da
 parte del Governo e delle due Camere) nella quale versa il Parlamento
 a  causa  dell'enorme  quantita'  di  decreti-legge  in   attesa   di
 conversione,  il  citato  decreto  non e' stato convertito in legge e
 cosi' il Governo ora in carica ha  provveduto  a  reiterarlo  con  il
 decreto-legge  n.  295  del 27 maggio 1996, pubblicato nella Gazzetta
 Ufficiale n. 123 del 28 maggio.
   Poiche' devono essere sollevate d'ufficio  numerosissime  questioni
 di  legittimita'  costituzionale,  in  primo luogo, in relazione alla
 normativa soppravvenuta, costituita dal  d.-l.  27  maggio  1996,  n.
 295,  con il quale e' stato reiterato il decreto-legge n. 166/1996, e
 in secondo luogo, con riferimento al precedente quadro normativo,  la
 presente  ordinanza  deve  essere  distinta  in due parti specifiche,
 seguite  da  alcune  generali  considerazioni  conclusive,  cosi'  da
 consentire   la   piu'   razionale  esposizione  degli  argomenti  da
 sviluppare.
                              PRIMA PARTE
  La normativa sopravvenuta art. 1 del d.-l. 27 maggio 1996, n. 295 di
 reiterazione del d.-l. 28 marzo 1996, n. 166
   Tale ultimo provvedimento governativo non  e'  affetto  solo  dalle
 stesse gravi e plurime violazioni della Costituzione gia' riscontrate
 a  carico  del  decreto-legge  n.  166/1996,  ma  anche  da  un vizio
 congenito, ulteriore e specifico, direttamente dipendente  dal  fatto
 di essere la reiterazione del n. 166/1996.
   Invero,   a  fronte  dell'esistenza  di  un  nuovo  (nel  senso  di
 successivo,  ulteriore)  atto  del  Governo  avente  la   forma   del
 decreto-legge,  questo  giudice  rileva  che  tale  atto,  per quanto
 riguarda l'art. 1 - qui esaminato in modo puntuale e specifico, ma e'
 chiaro sin dalla prima lettura che il discorso  puo'  e  deve  essere
 esteso  a  tutto  il provvedimento - nei suoi contenuti e' totalmente
 identico al decreto-legge n. 166/1996.
   Non  solo: l'art. 1, nei commi 3 e 4, del decreto-legge n. 295/1996
 si presenta anche nella sua lettera  come  un  "clone"  perfetto  dei
 corrispondenti  commi  dell'art.  1 del decreto-legge n. 166/1996, in
 quanto nessuna minima differenza e' riscontrabile.
   Non basta: il  secondo  comma  dell'art.  1  del  decreto-legge  n.
 295/1996  differisce  da  quello  del  decreto-legge n. 166/1996 solo
 nella  sostituzione  del  sostantivo   "rimborso"   con   quello   di
 "pagamento": trattasi di "clonazione imperfetta" (tanto imperfetta da
 essere  quasi  impercettibile, posto che altrove ancora permane l'uso
 improprio del  termine  "rimborso"  e  del  verbo  "rimborsare",  che
 presumibilmente   verranno   man   mano   sostituiti  nelle  prossime
 duplicazioni del decreto-legge n. 166/1996,  alle  naturali  scadenze
 bimensili).
   Ancora:  il  comma  1,  sempre  dell'art.  1  del  decreto-legge n.
 295/1996, puo' essere descritto con l'espressione "clone mutante  per
 innesto",  poiche'  mantiene  inalterata  l'intera  lettera  del  suo
 omologo  del  decreto-legge  n.  166/1996,   con   in   piu'   alcune
 interpolazioni  del  tutto  superflue  e puramente di comodo (1 - nel
 primo  periodo,  l'ovvia  precisazione  che  i  titoli  di  Stato  da
 assegnare  agli  aventi  diritto  sono "sottoposti allo stesso regime
 tributario dei titoli di debito pubblico", quasi  che  sia  possibile
 ipotizzarne  uno  diverso;  2 - nel terzo periodo, l'ancor piu' ovvia
 affermazione che l'assegnazione dei titoli  di  Stato  deve  avvenire
 "sulla  base  della vigente normativa" agli aventi diritto, "anche se
 residenti   all'estero",   come   fosse   pensabile   un'assegnazione
 effettuata  mediante  una normativa non vigente e come se fosse prima
 prevista da una dispositzione di legge l'esclusione del  diritto  dei
 residenti  all'estero)  e,  infine,  con  l'aggiunta  alla fine dello
 stesso comma di un nuovo sibillino periodo ("L'emissione dei  titoli,
 per   l'anno   1996,  non  puo'  superare  l'importo  di  lire  3.135
 miliardi."), l'utilita', ragione e fine del quale  e' davvero oscura,
 in relazione alla previsione immutata del quarto comma,  ove  l'onere
 per l'anno 1996 resta di lire 3.276 miliardi.
   Traendo  le naturali conclusioni, appare chiaro che tutti i rilievi
 appena  sopra   esposti   evidenziano   in   modo   incontrovertibile
 l'inesistenza  nell'art.  1  del  decreto-legge  n.  295/1996 di quel
 minimo quid novi che puo'  giustificare  (astrattamente,  ma  non  e'
 certo   questo   il  caso)  la  reiterazione  del  decreto-legge  non
 convertito nei sessanta giorni.
   L'ultimo comma dell'art. 77 della Costituzione  cosi'  dispone:  "I
 decreti  perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in
 legge entro sessanta  giorni  dalla  loro  pubblicazione.  Le  Camere
 possono  tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla
 base dei decreti non convertiti."
   Non puo' essere messo in dubbio che l'art.  77  limita  l'efficacia
 temporale  del  "provvedimento  provvisorio  avente  forza  di legge"
 emanato dal Governo a soli sessanta giorni  e  ci  si  deve  chiedere
 quali  conseguenze giuridiche derivino da tale limitazione temporale,
 quando allo spirare del termine il decreto-legge  perde  efficacia  a
 causa  della  mancata  conversione  in legge; possono ipotizzarsi tre
 soluzioni:
     a)  non  sussiste  piu'  il  potere  del  Governo   di   adottare
 provvedimenti  provvisori  sulla stessa materia e, dunque, e' vietata
 la reiterazione del decreto-legge  non  convertito,  con  conseguente
 inapplicabilita'  dell'eventuale  decreto di replica, in quanto privo
 di forza di legge;
     b)  l'eventuale  reiterazione  nasce  priva di efficacia, perche'
 "geneticamente"  affetta  dall'inefficacia  del  decreto  che   viene
 reiterato;
     c)   il   provvedimento   provvisorio   di   reiterazione   viola
 "semplicemente" la  Costituzione,    con  conseguente  necessita'  di
 sollevare questione di legittimita' costituzionale.
   Deve  subito  essere  chiarito che la problematica qui discussa non
 riguarda i decreti di reiterazione nei quali siano  presenti  vere  e
 reali,    non marginali e non meramente formali, modifiche, che diano
 luogo  ad  una  sostanzialmente  diversa  regolamentazione  del  caso
 straordinario  di  necessita'  ed  urgenza,  rispetto  agli  omologhi
 decreti reiterati (restando, comunque, impregiudicati  altri  profili
 d'illegittimita').
   L'art. 77, ultimo comma, della Costituzione, la ragione e la logica
 inducono  o  a ritenere escluso il potere del Governo di emettere con
 diverso numero e in diversa data un nuovo "provvedimento  provvisorio
 avante  forza  di  legge",  o  a  sostenere  automaticamente priva di
 efficacia la reiterazione di un decreto-legge non convertito,  quando
 il  contenuto del decreto successivo non contenga quel minimo livello
 di novita' e  diversita'  sostanziale,  rispetto  al  precedente,  da
 consentire  di affermarne l'autonoma esistenza.  In verita', puo' ben
 ritenersi - ai sensi del disposto direttamente  precettivo  dell'art.
 77,  ultimo  comma,  che  sanziona  con l'inefficacia i provvedimenti
 provvisori del Governo non convertiti nel termine di sessanta  giorni
 e  nel  rispetto  della  certa ed inequivoca volonta' del legislatore
 costituzionale diretta a precludere  al  Governo  di  sottrarre  alle
 Camere la funzione legislativa - negato dalla Costituzione al Governo
 il potere di adottare, nella stessa materia regolata da decreti-legge
 decaduti,  nuovi  provvedimenti  provvisori  e vietato l'artificio di
 duplicare decreti-legge divenuti inefficaci.  Conseguentemente,  puo'
 affermarsi   l'inesistenza  della  forza  di  legge  del  decreto  di
 reiterazione, per carenza assoluta del potere del Governo di adottare
 provvedimenti provvisori dopo  il  verificarsi  dell'inefficacia  del
 decreto  reiterato.    Cosi  come  puo'  sostenersi  che,  in caso di
 reiterazione  di  decreti-legg    e  senza   modifiche   sostanziali,
 l'inefficacia  del decreto decaduto si trasferisce automaticamente al
 decreto di reiterazione, con sua conseguente inapplicabilita'.  Poste
 tali premesse,  e'  naturale  chiedersi  se  sussista  la  violazione
 dell'art.  101 della Costituzione da parte dell'Autorita' giudiziaria
 che non applichi un  decreto-legge  di  duplicazione  di  un  decreto
 divenuto  inefficace  (in  assenza, si ripete, di reali modifiche del
 contenuto normativo), oppure se la violazione consista nel suo esatto
 contrario e cioe' nel dare applicazione al decreto-legge che, con  il
 mezzo  della  reiterazione,  di  fatto porta da sessanta a centoventi
 giorni  (e  cosi'  via  moltiplicando  a  seconda  del  numero  delle
 reiterazioni)  il  termine  di  efficacia sancito nella Costituzione.
 Questo pretore, come reso palese dalle argomentazioni che  precedono,
 tendenzialmente  propende  per  l'affermazione  del  dovere giuridico
 dell'Aiutorita' giudiziaria di non dare applicazione al decreto-legge
 che risulti meramente ripetitivo e carente  di  qualsivoglia  novita'
 normativa,  rispetto  a quello non convertito in legge, come nel caso
 dell' art.  1  del  decreto-legge  n.  295  del  1996,  perfettamente
 corrispondente  nei contenuti e quasi identico nella lettera all'art.
 1 del decreto-legge n.166/1996.  Eppure, nonostante tutto, permane un
 dubbio di natura puramente formale: il  Governo  che  ha  emanato  il
 decreto-legge  n.  295/1996  e' il legittimo Governo della Repubblica
 italiana e il medesimo decreto non e' - quanto meno nel numero, nella
 data e, sia pure in minima parte, nella  sua  forma  esteriore  -  lo
 stesso  decreto-legge  n.  166/1996:   se non nella sostanza e se non
 pienamente nella lettera, il decreto-legge n. 295/1996 e' pur  sempre
 in apparenza un provvedimento provvisorio del Governo avente forza di
 legge  e, cosi', questo pretore, per il doveroso rispetto della legge
 e degli atti aventi forza di legge, non puo' allo stato senza percio'
 escludere un futuro ripensamento) che rinunciare alle  piu'  radicali
 soluzioni,  sopra ipotizzate sub a) e b), per trasferire dinanzi alla
 Corte  costituzionale  la   stessa   problematica   con   le   stesse
 argomentazioni   sopra   ampiamente  sviluppate,  nella  veste  della
 questione di legittimita'  costituzionale,  in  aderenza  alla  terza
 ipotesi di soluzione sopra individuata alla lettera c).
    Rileva, pertanto, d'ufficio la seguente:
   A1)  Questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'  art. 1 del
 decreto-legge n. 295 del 1996 per  violazione  dell'art.  77,  ultimo
 comma,  della  Costituzione.   Fissata, nei termini sopra esposti, la
 prima  questione  di  legittimita'  costituzionale  in  relazione  al
 decreto-legge  n.  295/1996 di reiterazione del decaduto n. 166/1996,
 si possono ora reiterare tutte le questioni gia'  rilevate  a  carico
 del decreto-legge n. 166/1996 in precedenti ordinanze.
   A2)  Questione  di  legittimiya'  costituzionale  dell'art.  1  del
 decreto-legge n. 295  del  1996  per  violazione  degli  articoli  1,
 secondo  comma,  70,  72,  77,  primo e secondo comma, e 136, secondo
 comma, della Costituzione.   L'art.  77  della  nostra  Costituzione,
 testualmente,  dispone: "Il Governo non puo', senza delegazione delle
 Camere, emanare  decreti  che  abbiano  valore  di  legge  ordinaria.
 Quando,  in  casi  straordinari di necessita' e d'urgenza, il Governo
 adotta, sotto la sua responsabilita',  provvedimenti  provvisori  con
 forza  di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione
 alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e  si
 riuniscono  entro  cinque  giorni.    I decreti perdono efficacia sin
 dall'inizio, se non sono convertiti in legge  entro  sessanta  giorni
 dalla  loro  pubblicazione.  Le  Camere possono tuttavia regolare con
 legge  i  rapporti  giuridici  sorti  sulla  base  dei  decreti   non
 convertiti."     Il  divieto  di  carattere  generale  sancito  dalla
 Costituzione all'emissi  one di decreti aventi  forza  di  legge  del
 Governo  in assenza (come nella fattispecie in esame) di delega delle
 Camere, trova eccezione, regolata  dal  secondo  comma  dell'art.  77
 della  Costituzione,  solo  in  casi  straordinari  di  necessita'  e
 d'urgenza; sono, dunque, tre i requisiti da valutare per  determinare
 se  il  provvedimento  provvisorio avente forza di legge, emanato dal
 Governo senza  delegazione  delle  Camere,  rispetti  il  preciso  ed
 inequivoco   dettato   costituzionale:  1)  l'esistenza  di  un  caso
 straordinario, 2) che richieda un necessario intervento  governativo,
 3)  di  tale  urgenza  da  imporre  immediatezza  di  risposta  e  di
 soluzione, cosi' da escludere i tempi del normale iter  parlamentare.
 Tutti  tali  requisiti  devono  sussistere, reali e verificabili.  Il
 decreto in esame non rispetta nessuno dei  tre  suddetti  ineludibili
 presupposti.
   1) Il caso straordinario.
   Il  decreto-legge n.295/1996, art. 1, non risponde ad alcun caso di
 straordinarieta': la situazione alla  quale  vorrebbe  porre  rimedio
 risale  a  due anni e cinque mesi addietro, per quanto concernente la
 sentenza n. 495 del dicembre 1993, e ad un anno e  undici  mesi,  con
 riferimento  alla  n.  240  del giugno 1994, mentre il Governo che ha
 emanato il decreto-legge in discorso  e'  gia'  il  terzo  ad  essere
 coinvolto  dalle  problematiche  derivanti  dalle  due sentenze della
 Corte, senza considerare, per la sola sentenza  n.  495/1993,  quello
 dei primi mesi dell'anno 1994: il caso non riveste alcun carattere di
 straordinarieta'  intesa  nel  senso  previsto  dall'art. 77, secondo
 comma, della Costituzione e puo' solo parlarsi di colpevole ritardo o
 di assenza di capacita' e di volonta' del Governo e  soprattutto  del
 Parlamento  (anche  se  non  puo'  farsi a meno di notare, per quanto
 concerne la sola sentenza n. 240/1994  e  la  notissima  problematica
 sulla  cosi'  detta  "cristallizzazione", che la volonta' manifestata
 dal Parlamento con l'art. 11, comma 22, della legge 24 dicembre 1993,
 n. 537, e' inequivoca nel senso di escludere il diritto  in  tutti  i
 casi,  cosicche'  il  mancato  intervento  delle  due Camere puo' ben
 essere inteso come preciso rifiuto di  accettare  i  contenuti  della
 sentenza   della   Corte)   a   trovare  una  soluzione  giuridica  e
 costituzionalmente ineccepibile ad un enorme contenzioso che  incombe
 sull'amministrazione  della giustizia da lustri, sempre irrisolto, ma
 non nuovo, ne' straordinario, bensi' noto ed ordinario.
   2) La necessita'.
   Nel  caso  in  discussione  la  necessita'  di   un   provvedimento
 provvisorio  del  Governo avente forza di legge e' negata alla radice
 dalla  semplice  considerazione   (ulteriore,   rispetto   a   quella
 precedente)    dell'ovvia    insufficienza    -    ma   anche   della
 irragionevolezza (con violazione, dunque, anche dell'  art.  3  della
 Costituzione)  -  di un atto provvisorio destinato ad incidere, forse
 inconsapevolmente,  ma  direttamente  e  senza  pero'   offrire   una
 definitiva soluzione, sulla complessa problematica giuridica relativa
 alla  legittimita'  costituzionale delle stesse disposizioni di legge
 colpite dalle  decisioni  "legislative"  della  Corte  costituzionale
 "addittive"  e  "manipolatrici":  appare  davvero  incongruo ritenere
 necessario un decreto-legge per risolvere una problematica  complessa
 ed  estremamente articolata che tocca questioni essenziali della vita
 democratica della nostra Repubblica, gia' portata  all'  esame  della
 Consulta da questo pretore con numerose ordinanze di rimessione.  Non
 puo'  inoltre  tacersi  che  anche  sotto  un  altro  profilo  non e'
 possibile riscontrare il requisito della necessita' a giustificazione
 dell' art. 1 del decreto-legge in  esame:  non  esiste,  infatti,  la
 certezza  del  diritto  a  quei  crediti da soddisfare "in consegueza
 dell'applicazione delle sentenze della Corte  costituzionale  n.  495
 del  1993  e  n.  240 del 1994".   Si deve osservare, infatti, che il
 decreto non opera una recezione nel vigente diritto positivo  scritto
 del  contenuto  "normativo" (peraltro, contraddittoriamente, in parte
 disatteso)  delle   suddette   sentenze,   ne'   espressamente,   ne'
 implicitamente,  ma  si  limita  a  ricercare senza successo, come si
 vedra' piu' avanti, trattando del merito del provvedimento)  i  mezzi
 di  finanziamento  per "il rimborso delle somme, maturate fino ai' 31
 dicembre 1995,  sui  trattamenti  pensionistici  erogati  dagli  enti
 previdenziali  interessati,  in  conseguenza  dell'applicazione delle
 sentenze  della  Corte  costituzionale  n.  495 del 1993 e n. 240 del
 1994", senza minimamente curarsi del fatto che si applicano le  leggi
 e  non  le  sentenze  (per  le  quali  si  deve,  invece,  parlare di
 esenzione, concetto ben  diverso)  da  qualunque  organo  emesse,  ma
 sopratutto   non   tenendo   conto  del  fatto  gravissimo  che,  con
 l'applicazione  delle  decisioni  "addittive"  della  Corte  mediante
 decreto-legge,  la  funzione legislativa delle Camere viene ad essere
 espropriata ben due volte, la prima volta dalla Corte  costituzionale
 e  la seconda dal Governo.  Nel decreto-legge, in realta' si pretende
 di soddisfare dei crediti la cui esistenza non e' certa,  poiche'  la
 problematica  attinente  l'efficacia di quelle sentenze richiamate in
 quanto tali, deve essere ben  ciaro,  e  non  tradotte  in  norme  di
 diritto  positivo)  della  Corte  costituzionale  e' stata rimessa al
 controllo di legittimita' dello stesso giudice delle leggi e, dunque,
 non si ha neppure certezza in  ordine  alla  validita'  delle  stesse
 decisioni  e  ai  loro  effetti  sulle disposizioni di legge ritenute
 incostituzionali in  parte  qua,  ma  senza  che  si  sia  verificato
 l'effetto  della  caducazione,  come  previsto  e  voluto  dal  testo
 inequivoco dell'art. 136 della Costituzione.
   3) L'urgenza.
   Quanto all'urgenza (smentita gia' dai tempi  evidenziati  al  primo
 punto)  puo' dirsi che non se ne ravvisa l'esistenza nel caso oggetto
 del decreto: ben sarebbe  stato  gradito  ai  titolari  di  legittime
 aspettative, legate alle due, piu' volte citate, sentenze della Corte
 costituzionale, un organico e ponderato disegno di legge d'iniziativa
 del  Governo  ai  sensi  dell'art.  71  della  Costituzione,  essendo
 sicuramente  corretta  e  costituzionalmente  legittima  sempre  tale
 soluzione  e davvero doverosa dopo la mancata conversione del decreto
 gemello, trascurando per ora che essa e' l'unica legittima  ai  sensi
 dell'art. 136, secondo comma, della Costituzione, come si vedra' piu'
 avanti.   Ma non basta: appare piu' che chiara l'assenza di una reale
 urgenza in questo caso specifico, se solo si consideri che nel  primo
 comma  dell'art.  1  del  decreto-legge n. 295/1996 viene previsto un
 pagamento in sei annualita' e  per  di  piu'  mediante  emissione  di
 titoli  di  Stato,  soluzione  del tutto incompatibile con il fine di
 regolare  un  (in  verita'  artificiosamente   affermato)   caso   di
 straordinaria  necessita'  ed  urgenza,  che impone razionalmente una
 risposta efficiente, pronta ed immediata e non un piano di estinzione
 del debito diluito in ben sei anni (dei quali tre, per di piu', privi
 di copertura finanziaria).  L'urgenza, invero, non deve  essere  solo
 un  astratto  presupposto  per  consentire  al  Governo  di  adottare
 provvedimenti provvisori, ma deve trovare  riscontro  oggettivo,  sia
 esterno  come causa idonea a legittimare l'emissione dell'atto avente
 forza di  legge,  sia  interno  come  risposta  efficiente  per  dare
 soluzione  efficace  ed immediata al caso di straordinaria necessita'
 sul quale si interviene.  Tutto cio' che si e' sin qui  esposto  vale
 per  far  risaltare la totale inesistenza dei requisiti espressamente
 richiesti dall'art.   77, secondo comma,  della  Costituzione  e  per
 dimostrare  gia' con riferimento a tale solo profilo l'illegittimita'
 costituzionale dell'intero art.  1 del decreto-legge n. 295/1976.  E'
 poi di solare evidenza che la  palese  violazione,  gia'  rilevata  e
 diffusamente  argomentata,  dei limiti posti al Governo dall'art.  77
 della  Costituzione determina un'altrettanto  chiara  usurpazione  da
 parte  del  potere  esecutivo  delle attribuzioni del Parlamento, con
 lesione  degli  artt. 1, secondo comma, 70 e 72 della Costituzione, e
 questa  ulteriore  illegittimita'  costituzionale  non  puo'   essere
 taciuta,   a  nulla  rilevando  una  eventuale  "condiscendenza"  del
 Parlamento  ad  subirla,  perche'  la  violazione  dei  limiti  delle
 attribuzioni  di  un  potere e' fatto che incide in modo insuperabile
 sulla legittimita' costituzionale dei provvedimenti emessi in difetto
 di attribuzione e non e' solo un evento che riguarda in via esclusiva
 i rapporti di "buon vicinato" tra i poteri  dello  Stato,  poiche'  a
 sommesso   (ma   convinto)   avviso  di  questo  giudice  costituisce
 gravissima violazione della Costituzione  anche  il  solo  permettere
 tacitamente   che   un   potere  privo  delle  relative  attribuzioni
 costituzionali supplisca ai compiti e funzioni  istituzionali  propri
 di un altro potere.  E' sufficiente ricordare il fondamentale dettato
 del  secondo  comma  dell'art.  1  della Costituzione ("La sovranita'
 appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei  limiti  della
 Costituzione")   in   correlazione   con   l'art.  70  ("La  funzione
 legislativa e' esercitata collettivamente dalle due  Camere")  e  con
 l'art.   72,   primo  comma  soprattutto  ("Ogni  disegno  di  legge,
 presentato ad una Camera e', secondo le norme  del  suo  regolamento,
 esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa che lo approva
 articolo  per  articolo  e  con  votazione finale."), per comprendere
 quanto   grave   sia   la   loro   violazione   e,   dunque,   quanto
 intollerabilmente  sia  vulnerata  la  Costituzione dall'art.   1 del
 decreto-legge  n.  295/1996,  come  conseguenza  diretta  della  gia'
 rilevata non conformita' del detto decreto legge all'art. 77, secondo
 comma.  Ma ancora non basta.  L'art. 136, secondo comma, dispone: "La
 decisione  e'  pubblicata  e  comunicata  alle  Camere ed ai Consigli
 regionali  interessati,  affinche',  ove  lo  ritengano   necessario,
 provvedano  nelle  forme  costituzionali":    la  norma  e'  speciale
 rispetto agli artt. 70 e seguenti della sezione II (Formazione  delle
 leggi)  della  Costituzione  che  disciplinano  la  normale attivita'
 legislativa e, logicamente, non consente in nessun caso  di  ritenere
 attribuito   al   Governo  il  potere  di  adottare  i  provvedimenti
 provvisori previsti nel secondo comma dell'art. 77,  essendo  sancita
 solo  e  soltanto  la  possibilita' di regolare con legge nelle forme
 costituzionali gli eventuali problemi derivanti dalle decisioni della
 Corte costituzionale che dichiarano l'illegittimita' di una norma  di
 legge o di un atto avente forza di legge ed essendo individuato nelle
 sole  Camere  il  potere  dello  Stato  competente in via esclusiva a
 stabilire se ricorrano le condizioni di necessita'  per  intervenire,
 come  chiaramente  sancito  dal secondo comma dell'art. 136.  Dunque,
 solo a seguito di specifica delega delle Camere  con  riferiment    o
 all'attivita'  legislativa  di  cui all'art. 136, secondo comma, puo'
 essere ritenuto legittimo un atto del Governo avente forza di  legge.
 Poiche', nel caso presente le Camere non hanno delegato il Governo ai
 sensi dell'art. 76 della Costituzione e poiche' non e' previsto, anzi
 e'  escluso  come sopra chiarito, il potere del Governo di adottare i
 provvedimenti provvisori di  cui  all'art.  77,  secondo  comma,  per
 l'ipotesi formulata nell'art. 136, secondo comma, e' del tutto palese
 la  sussistenza  della  violazione di quest'ultima disposizione della
 Costituzione, con  conseguente  e  necessario  rilievo  d'ufficio  di
 quest'ulteriore     (ma     in     realta'     priontario)    profilo
 d'incostituzionalita' dell'intero art. 1 del decreto-legge 27  maggio
 1996,  n 295.   E' vero, peraltro, che l'art. 2, comma settimo, della
 legge  11  marzo  1968,  n.  67 testualmente prevede che "Qualora nel
 corso dell'attuazione delle leggi si verifichino scostamenti rispetto
 alle previsioni di spesa e di entrate,  il  Governo  ne  da'  notizia
 tempestivamente al Parlamento con relazione del Ministro del tesoro e
 assume le conseguenti iniziative. La stessa procedura e' applicata in
 caso  di  sentenze definitive di organi giurisdizionali e della Corte
 costituzionale  recanti  interpretazioni  della   normativa   vigente
 suscettibili di determinare maggiori oneri", ma tale disposizione non
 contrasta   con   quanto   sopra  affermato  ed,  anzi,  ne  conterma
 l'esattezza, giacche' non consente di ritenere attribuito al  Governo
 il potere di emanare decreti-legge, bensi' gli impone di dare notizia
 al  Parlamento  della  nuova situazione verificatasi e di assumere le
 conseguenti iniziative, da intendersi,  in  relazione  alle  sentenze
 della  Corte costituzionale, limitate obbligatoriamente (giacche' una
 diversa interpretazione porrebbe l'art. 2, comma 2,  della  legge  n.
 67/1988   in   contrasto   con   l'art.  136,  secondo  comma,  della
 Costituzione) alla presentazione di disegni di legge ai  sensi  dell'
 art. 71 della Costituzione.
   A3)  Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 1,
 2 e 3, del decreto-legge n. 295/1996 per violazione degli artt.  102,
 primo comma, 24, primo comma, e 25, primo comma, della  Costituzione.
 In  primo  luogo  deve  essere  messo  in  piena  luce che mai si era
 verifica   to nella  legislazione  italiana,  pur  tormentata  da  un
 eccessivamente   anomalo  ricorso  alla  decretazione  d'urgenza  del
 Governo, un caso si' palesemente evidente di abuso di potere da parte
 del Potere esecutivo con grave violazione del principio di  legalita'
 e   delle   attribuzioni   del  Parlamento  (in  proposito,  qui,  e'
 sufficiente  richiamare  gli  articoli  70,  72,   76,   e   136)   e
 dell'Autorita' giudiziaria.  Questa Autorita' giudiziaria non intende
 sollevare  un  conflitto  di  attribuzione  con  il Potere esecutivo,
 nonostante la sussistenza di fondate ragioni  per  dar  vita  a  tale
 procedimento,   poiche'   ritiene   (ancora  oggi,  cosi'  come  dopo
 l'emanazione del decreto-legge n.166/1996, e nonostante la  crescente
 gravita'  del  contrasto, per effetto della reiterazione del predetto
 decreto nel successivo  decreto-legge  n.    295/1996,  che  conserva
 immutate   tutte   le   disposizioni  che  sottraggono  all'Autorita'
 giudiziaria il potere giurisdizionale  e  che  violano  le  esclusive
 attribuzioni   della   stessa  Autorita'  giudiziaria)  eccessivo  ed
 improprio il ricorso a tale lacerante  rimedio  giuridico,  a  fronte
 della  ravvisata  possibilita'  di pervenire al medesimo risultato di
 cancellare  dall'ordinamento  le  parti  illegittime  del  contestato
 decreto-legge  mediante  il  piu'  "normale"  e  fisiologico  rilievo
 d'ufficio di questioni di costituzionalita'.  Tra le quali vi  e'  la
 presente:  il  Governo  ha  emanato  il decreto-legge n. 295/1996 (di
 reiterazione del decreto legge n.166/1996) per imporre una  specifica
 soluzione  (nei  commi  1  e  2  dell'  art.  1)  alle  numerosissime
 controversie pendenti in primo e secondo grado dinanzi ai giudici del
 lavoro di tutta Italia e dinanzi alla Corte di cassazione,  soluzione
 che  non  si  presenta pero' con i connotati della norma di legge, ma
 piuttosto con quelli tipici della  sentenza  del  giudice  ordinario,
 giacche'  risponde  alle  domande  formulate dai tanti ricorrenti con
 accoglimento parziale di molte di esse, ma non di tutte  (poi  se  ne
 parlera'   piu'  chiaramente),  giungendo  addirittura  a  dichiarare
 l'estinzione dei processi e a compensare tra le  parti  le  spese  di
 causa:  una  vera  e  propria sentenza collettiva (per di piu', ma e'
 poco  rilevante,  priva  di  motivazione  che  sottrae  all'Autorita'
 giudiziaria  la  funzione  giuridizionale,  con  conseguente e palese
 contrasto dei primi  tre  commi  dell'art.  1  del  decreto-legge  n.
 295/1996  con  l'art. 102, primo comma, della Costituzione.  Inoltre,
 con  spcifico  riferimento  al  terzo  comma   dell'   art.   1   del
 decreto-legge  n.  295/1996,  non  puo'  farsi  a meno di notare come
 disporre che (si riporta testualmente) "I giudizi pendenti alla  data
 di  entrata  in vigore del presente decreto legge aventi a oggetto le
 questioni  di  cui  al  presente  articolo  sono  dichiarati  estinti
 d'ufficio con compensazione delle spese fra le parti. I provvedimenti
 giudiziali   non  ancora  passati  in  giudicato  restrano  privi  di
 effetto.", a fronte di una soluzione inidonea  a  definire  in  senso
 positivo  o  negativo  per tutti coloro che hanno una controversia in
 corso in sede  giudiziaria  -  in  via  solo  esemplificativa  e  non
 esaustiva,  infatti,  non  si  comprende perche' l'accertamento delle
 eventuali decadenze e prescrizioni e dei requisiti  reddituali  e  di
 ogni  altro  elemento  di  fatto costitutivo del diritto debba essere
 trasferito in sede amministrativa, quando di  certo  costituisce  uno
 degli  elementi  da  valutare  per  accogliere o respingere i ricorsi
 giudiziari, come non e' chiaro se realmente si e' voluto escludere il
 diritto degli eredi con la previsione degli aventi diritto di cui  al
 secondo  comma,  mentre  e' certo che, esclusi o meno, agli eredi non
 puo' essere precluso di coltivare le azioni  gia'  proposte  in  sede
 giurisdizionale   -   viola,   sia  l'art.  24,  primo  comma,  della
 Costituzione poiche' vieta agli interessati "di agire in giudizio per
 la tutela dei propri diritti", sia l'art. 25, primo  comma,  poiche',
 eliminando  la  giurisdizione,  distoglie  gli odierni ricorrenti dal
 giudice naturale precostituito per legge.
   A4)  Questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1  del
 decreto-legge  n.  295  del  1966 per violazione dell'art. 81, quarto
 comma,  della  Costituzione,  nonche'  del  principio  di   "realismo
 economico"  desumibile  dal  medesimo  art.  81.    Il    primo comma
 dell'art. 1 del decreto-legge n. 295 del 1996 prevede  il  "rimborso"
 del  quale gia' si e' detto mediante sei annualita', mentre il quarto
 comma (ove si individuano i mezzi di copertura dell'"onere  derivante
 dall'applicazione   del  presente  articolo")  omette  totalmente  di
 indicare la copertura finanzaria per gli anni 1999, 2000 e 2001:   e'
 dato  certo  e  non  opinabile,  poiche'  venono  contemplate solo le
 annuallta' dal 1996 al 1998.  La violazione dell'ultimo  comma  dell'
 art.   81  della  Costituzione,  per  quanto  possa  sembrar  strano,
 riconosciuta nella stessa disposizione sopra citata, ove  il  Governo
 si  fa  carico  di  determinare  la  copertura solo per tre delle sei
 annualita' previste per il "rimborso", lasciando  cosi'  scoperte  le
 restanti,    con    conseguente    incontrovertibile   illegittimita'
 costituzionale dell'intero art. 1 del decreto-legge n.295/1996.
   Nulla puo' opporsi alla constatazione appena espressa, poiche',  al
 fine  del  rispetto  dell'art.  81, ultimo comma, della Costituzione,
 devono essere totalmente individuate  e  precisate  nella  legge  che
 prevede  nuove  spese  le  risorse finanziarie per la copertura piena
 delle medesime spese e non puo' ritenersi soddisfatto  tale  obbligo,
 qualora,  come  nel caso qui sottosposto a critica, l'indicazione dei
 "mezzi per farvi fronte" non sia completa e precisa.  Sin qui  si  e'
 in  presenza  della  tipica  violazione della norma espressa e palese
 dell'art.  81  ultimo  comma,  della  Costituzione,  ma  deve  essere
 rilevato che l'art. 1 del decreto-legge n.  295/1996  vulnera  ancora
 piu'  gravemente  quel  principio  di "realismo economico" desumibile
 dall'art. 81, che, benche' gia' portato al giudizio del giudice delle
 leggi in numerose precedenti ordinanze, deve essere riproposto  anche
 in questa odierna.
                  Il principio di "realismo economico"
   La  Costituzione  contiene tutti i principi piu' alti di civilta' e
 tutela tutte le liberta' ed e' logico e naturale che le  disposizioni
 che  contemplano  gli  uni  e le altre vengano ritenute fondamentali:
 nessun dubbio sussiste a tal riguardo; occorre, pero', affermare  che
 il valore costituzionale dell'art. 81 non e' inferiore a nessun'altra
 norma  ed  e',  forse,  superiore.    Non puo', infatti, omettersi di
 rilevare  che  la  legge   fondamentale   della   Repubblica,   nella
 consapevolezza  del  necessario  rispetto  della  realta'  economica,
 impone proprio nell'art. 81 la compatibilita' delle concrete  risorse
 economiche,  quale  limite  e  condizione  essenziale per la concreta
 attuabilita'  dei  grandi  principi  di  giustizia,   uguaglianza   e
 liberta'.    Non puo' negarsi che anche la realizzabilita' dei grandi
 principi ideali, etici e materiali,  e'  vincolata  all'esistenza  di
 adeguati  mezzi  di  finanziamento  e  che ogni singola legge, o atto
 avente forza di legge, che prevede una nuova spesa deve indicare  con
 precisione  i  mezzi  reali  di  copertura  finanziaria (ai sensi del
 quarto comma dell'art. 81 della Costituzione) e cio' anche quando  la
 spesa   sia   correlata   all'attuazione  dei  fondamentali  principi
 costituzionali.    Ma  non  solo:  il   necessario   rispetto   della
 compatibilita'  delle  concrete  risorse economiche - quale limite di
 realta' al "sogno" di perfezione, quale  strumento  di  difesa  della
 realizzabilita'  di  quei principi, quale freno alla spesa illimitata
 di ricchezze non ancora prodotte, quale monito  alla  responsabilita'
 verso  le future generazioni e alla piu' corretta distribuzione della
 ricchezza prodotta ed esistente per quelle presenti, quale  mezzo  di
 tutela  della societa' organizzata - impone, non solo l'obbedienza al
 dettato del quarto comma dell' art. 81, ma anche la valutazione degli
 effetti, sul bilancio dello  Stato  e  degli  Enti  pubblici,  legati
 all'attribuzione  di  diritti  comportanti una forte espansione della
 spesa, in  relazione  a  tutti  gli  altri  interessi  concorrenti  e
 tutelati  da  norme  costituzionali,  valutazione essenziale che deve
 presiedere alla scelta delle priorita' di  spesa,  in  modo  tale  da
 garantire  prima  i  diritti  essenziali  e  solo  poi  attribuire ed
 estendere privilegi, anche se contemplati nei  fondamentali  principi
 costituzionali.    Sviluppo compatibile, conservazione delle risorse,
 solidarieta' tra generazioni: sono  concetti  che  chiariscono  nella
 loro  concisione la complessita' dei problemi che il legislatore deve
 affrontare ed i limiti che deve rispettare nel decidere a quali  dare
 valore  normativo  tra  le  mille istanze di tutela, fondate tutte su
 forti  principi  costituzionali,  eppure   concorrenti   e   talvolta
 antagoniste,  che provengono dalla societa' reale: il legislatore, in
 assenza di risorse sufficienti, deve operare delle scelte di spesa  e
 tali  scelte  non  possono dipendere dalla mera volonta' politica, ma
 devono discendere dalla forza della realta' economica, restando cosi'
 limitata l'area  di  discrezionalita'  nell'individuazione  dei  fini
 prioritari  da  perseguire  e dei mezzi economici per farvi fronte e,
 dunque,  oggetto  al  controllo  di  legittimita'  costituzionale  il
 rispetto  dei  confini  della stessa discrezionalita'.   Cosi', se si
 volesse   proporre   una   diversa   classificazione   delle    norme
 costituzionali, l'art. 81 dovrebbe essere definito "norma di realta'"
 in  contrapposizione  alle  "norme  di  ideale" e dovrebbe, in questa
 prospettiva, essere collocato al vertice  di  una  nuova  graduatoria
 d'importanza  dovendosi  riconoscere  che, pur non affermando elevati
 principi "sacrali", si pone a garanzia della realizzabilita'  invero,
 sempre tendenziale) delle norme di "ideale", statuendo l'obbligatorio
 rispetto  dei limiti oggettivi delle risorse disponibili in modo tale
 da consentire al sistema economico dello Stato di sostenere il  costo
 della  continua  evoluzione  dei  bisogni di civilta' nei confini del
 possibile, senza sperperare ricchezze future non ancora prodotte,  al
 fine  di evitare il grande rischio (ogni giorno che passa sempre piu'
 drammaticamente concreto, come impietosamente evidenzia la  cresscita
 inarrestabile  del  debito  pubblico)  di allontanare sempre piu' nel
 tempo e forse di precludere definitivamente l'attuazione delle  norme
 di  "ideale".    In  forza  delle  superiori  premesse,  e'  logico e
 conseguente desumere dall'art. 81 un forte principio  costituzionale,
 sinteticamente  definibile  "principio  di  realismo economico", che,
 benche' non scritto  (come  altri  fondamentali:  quello,  immanente,
 nell'  art.  38,  di  "solidarieta'"  e  quello  di  "razionalita'  e
 ragionevolezza", presente nell' art.   3, per citare  i  piu'  noti),
 deve  concorrere con gli altri principi e norme costituzionali per la
 completa e corretta valutazione  della  legittimita'  della  legge  e
 degli  atti  aventi forza di legge.  L'ineludibile riconoscimento dei
 valori costituzionali presenti nell'art. 81 deve determinare a carico
 del legislatore -  ma  anche  del  giudice  delle  leggi,  quando  le
 questioni  portate  al  suo  esame  siano  tali  da lasciare spazio a
 decisioni, non necessariamente "addittive", che comportino una  nuova
 spesa  priva  di  copertura  finanziaria  -  un  particolare rispetto
 dell'art. 81 della Costituzione, quale norma  di  primaria  e  vitale
 importanza.    E'  allora  evidente,  ritornando  alla  questione  di
 legittimita' costituz    ionale  dell'art.  1  del  decreto-legge  n.
 295/1996 sotto il profilo della violazione del principio di "realismo
 economico",  che  non sembra possibile ritenere che la previsione del
 pagamento delle somme arretrate mediante assegnazione  di  titoli  di
 Stato costituisca corretto mezzo di copertura finanziaria degli oneri
 ai quali il decreto-legge vorrebbe dare esecuzione, poiche' altro non
 e'  che  nuovo  indebitamento  dello  Stato  e quindi non puo' essere
 considerato come  nuova  risorsa  per  finanziare  il  pagamento  del
 debito:  la  sostituzione  di  un  debito  con un altro debito non e'
 copertura finanziaria di una spesa, ma  solo  operazione  ambigua  di
 puro  equilibrismo  contabile,  del  tutto  priva di limpidezza.   Se
 dovesse  passare  indenne  all'esame  del  giudice  delle  leggi  una
 siffatta  artificiosa  e  solo apparente copertura delle nuove spese,
 allora dovremmo riconoscere che l'art. 81 della Costituzione e' norma
 inutile, o, peggio, abrogata con il decreto-legge che qui si critica.
 Puo' anche essere sostenuto che  la  legge  di  bi  lancio  non  deve
 rispettare la parita' tra entrate e uscite e puo' essere accettata la
 tesi  secondo  la  quale  e'  sufficiente  la previsione dei mezzi di
 finanziamento per la copertura delle nuove spese, per cui vi  sarebbe
 il  rispetto  dell'art.  81,  ultimo comma, anche se la previsione si
 rivelasse erronea ed ottimistica (salva restando  la  obbligatorieta'
 della  conseguente manovra di aggiustamento), ma non si puo' accedere
 a  soluzioni,  come quella adottata dal Governo nel decreto in esame,
 nelle quali non vi  sia  neppure  l'ombra  dell'effettivita'  teorica
 delle  nuove  risorse, limitandosi l'operazione a spostare la carenza
 di copertura finanziaria ad  un'epoca  futura,  con  una  sostanziale
 rinnovazione del debito, senza estinzione dell'obbligazione reale, la
 quale  resta,  comunque,  sempre a carico del debito pubblico, sempre
 priva di copertura finanziaria.  Inoltre, a sommesso avviso di questo
 giudice  remittente,  la  stessa  previsione  del   pagamento   degli
 arretrati  viola  l'art.  81  della  Costituzione  nel  principio  di
 "realismo economico", essendo ben palese  (e  non  da  oggi)  che  il
 bilancio dello Stato non e' in grado di rendere effettivi i privilegi
 (assai  discutibilmente)  concessi  dalla Corte costituzionale con le
 sentenze "addittive di spesa" delle quali trattasi: non e'  questione
 di  stabilire  in  astratto  se  sia  legittimo  lasciare immutata, o
 estendere, o ridurre l'area di applicazione di determinati  benefici,
 ma  piu' semplicemente (e, nel contempo, in obbedienza ai principi di
 uguaglianza, ragionevolezza e solidarieta', valutati coerentemente al
 principio di "realismo  economico",  soprattuto  con  etico  rispetto
 verso  le  future  generazioni) di accertare in concrto se esistano i
 mezzi economici (reali, si badi bene, e non virtuali e sperati,  come
 quello scelto nel decreto-legge n. 295/1996 idoneo solo a determinare
 un  nuovo  aggravamento  del deficit di bilancio, in danno dei nostri
 figli e nipoti) per  conservare,  ampliare  o  eliminare  i  medesimi
 benefici, operando poi di conseguenza.
   A5)  Questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  1  del
 decreto-legge n. 295  del  1996  per  violazione  dell'art.  3  della
 Costituzione.    Inoltre,  deve essere posto in luce che gli artifici
 finanziari gia' criticati nella  precedente  questione,  non  possono
 essere  ritenuti  legittimi, non solo perche' violano l'art. 81 della
 Costituzione, sotto tutti i profili gia' discussi, ma  anche  perche'
 essi  sono  privi  di  ragionevolezza  e  di  razionalita' e, dunque,
 vulnerano l'art. 3:  in un sistema giuridico che voglia rispettare ed
 affermare il principio di legalita', lo Stato non puo', nell'assumere
 nuove  obbligazioni,  prevedere  contestualmente   di   onorarle   ed
 estinguerle  mediante nuovo indebitamento, ma solo con l'acquisizione
 della necessaria provvista  attraverso  il  ricorso  alla  fiscalita'
 generale,  o  con l'aggravamento della contribuzione previdenziale, o
 ancora con risparmi di spesa in altri settori che liberino i relativi
 fondi ad essi destinati, o quant'altro possibile che,  comunque,  non
 comporti ulteriore debito.  Se quanto precede e' fondato, ne consegue
 che,  quando  lo  Stato  non  puo'  ricorrere  piu' all'aumento della
 pressione  fiscale  e  contributiva,  i  principi  di   razionalita',
 ragionevolezza, realismo economico, solidarieta' intergenerazionale e
 legalita'  dovrebbero  imporre  al  Governo e al Parlamento di negare
 qualunque privilegio e  vietare  l'assunzione  di  obbligazioni,  per
 onorare le quali non esistono risorse; ma ne segue, altresi, che, una
 volta   assunte,  tali  obbligazioni  devono  essere  rispettate  con
 pagamento di moneta vera  e  attuale.    Se  quanto  appena  rilevato
 costituisce, ad avviso di questo giudice, la piu' evidente violazione
 dell'art.   3  della  Costituzione,  altre  lacune,  imprecisioni  ed
 incoerenze presenti nell'art. 1 del decreto-legge 27 maggio 1966,  n.
 295,  contrastano  con il principio di ragionevolezza e razionalita',
 immanente nell'art. 3 e devono essere qui evidenziate.
   1) Si parla ancora reiteratamente di "rimborsi" nel primo e secondo
 comma  dell'  art.  1  del  decreto-legge  n. 295/1996, ma nulla deve
 essere rimborsato.
   2) Tra  i  (presunti)  aventi  diritto  al  pagamento  delle  somme
 arretrate,  nel  secondo comma dello stesso articolo, si individua la
 categoria  dei  "superstiti   (aventi   titolo   alla   pensione   di
 riversibilita'  alla  data  del  30  marzo  1996") dei "soli soggetti
 interessati", ma non  e'  chiaro  se  tale  riferimento  sia  davvero
 diretto  ad  escludere  il  diritto  degli  eredi, anche se questa e'
 l'opinione comune.
   3) Si parla nel decreto  di  attuazione  e  di  applicazione  delle
 sentenze  della  Corte  costituzionai'e n. 495/1993 e 240/1994, pero'
 non si detta alcuna norma di legge idonea a  recepirne  i  contenuti,
 mentre  contemporaneamente  si  tenta,  come  si  e'  ipotizzato,  di
 escludere i diritti degli eredi,  in  palese  contraddizione  con  le
 suddette  decisioni della Corte costituzionale, nelle quali nulla del
 genere viene affermato.
   4) Nel terzo comma si ha la pretesa di eliminare la  giurisdizione,
 senza  pero'  risolvere  per  tutti  gli  attuali  ricorrenti in modo
 univoco ed unitario il contenzioso in atto e senza  considerare  che,
 dopo  l'estinzione  dei  giudizi  pendenti,  coloro  che non vedranno
 soddisfatte le loro aspettative in sede amministrativa  per  mancanza
 dei   requisiti   reddituali,   per  decadenza,  per  prescrizione  e
 quant'altro) si rivolgeranno nuovamente all'autorita' giudiziaria per
 cercare, ancora una volta, di  ottenere  in  giudizio  quanto  negato
 dall'istituto previdenziale.
   5)  Nel  quarto  comma,  destinato  ad  individuare  i mezzi per la
 copertura finanziaria della nuova legge  di  spesa,  si  indica  tale
 copertura  per  tre  sole  delle  sei  annualita'  nelle  quali viene
 dilazionato il pagamento.   Tutto cio' conduce ad  affermare  che  il
 decreto-legge  n.  295 del 27 maggio 1996 (come gia' il precedente n.
 166/1996) e' "intriso"  in  ogni  sua  parte  di  irrazionalita',  in
 contrasto insanabile con l'art. 3 della Costituzione.
   A6)  Questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 1, terzo
 comma, del decreto-legge n. 295/1996, per violazione degli artt.   1,
 primo  comma,  4,  primo  comma,  35,  primo  comma, 36, primo comma,
 nonche' 24, primo  comma,  della  Costituzione.    Per  ultima  nella
 sequenza qui prescelta, ma non certo ultima in termini di importanza,
 viene  rilevata  la questione di costituzionalita' dell'art. 1, terzo
 comma, del   decreto-legge n. 295/1996 che  impone  la  compensazione
 delle  spese  del  giudizio nelle cause in corso in spregio del primo
 comma dell'art. 1 della Costituzione  ("L'Italia  e'  una  Repubblica
 democratica   fondata  sul  lavoro"),  dell'art.  4  ("La  Repubblica
 riconosce a tutti i cittadini il diritto  al  lavoro  e  promuove  le
 condizioni  che rendono effettivo questo diritto"), dell'art. 35 ("La
 Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed  applicazioni"),
 dell'art.   36   ("Il  lavoratore  ha  diritto  ad  una  retribuzione
 proporzionata alla quantita' e qualita' del suo lavoro  ..."),  norme
 fondamentali  tutte  della  nostra  Carta  costituzionale  dirette  a
 riconoscere e tutelare il lavoro in se',  senza  distinzioni  tra  le
 molteplici  espressioni  dell'attivita' lavorativa umana, la quale ha
 pari dignita' nella Costituzione, qualunque sia la sua natura  ed  in
 qualunque  regime  si  attui  e  realizzi.    Il lavoro (subordinato,
 autonomo,  professionale,  artistico,  intellettu     ale,   manuale,
 imprenditoriale  e  qualunque  altra  sua  forma  ipotizzabile) trova
 tutela   paritaria   e  piena  nella  nostra  Costituzione,  giacche'
 "L'Italia e' una Repubblica democratica fondata sul lavoro" (art.  1,
 primo comma) e "La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue  forme
 ed  applicazioni"  (art. 35, primo comma) e "Il lavoratore ha diritto
 ad una retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita'  del  suo
 lavoro":   ogni   intervento  legislativo  finalizzato  a  creare  le
 condizioni per un piu' agevole  svolgimento  di  un  tipo  di  lavoro
 rispetto   agli   altri  si  pone  in  potenziale  contrasto  con  la
 Costituzione.  L'affermazione della compensazione ex lege delle spese
 processuali, in fattispecie, come quella presente del tutto normale e
 generale nelle controversie aventi ad oggetto domande di  prestazioni
 previdenzial   ed  assistenziali  -,  nelle  quali  i  difensori  dei
 ricorrenti  hanno  anticipato  le  spese  e  non  riscosso   onorari,
 nell'ambito  di  notori  accordi  con  i  patronati  che prevedono lo
 svolgimento gratuito dell'attivita' professionale nei  confronti  dei
 clienti   inviati   dagli  stessi  patronati,  costituisce  negazione
 illegittima dei diritti fondamentali  sanciti  dalla  Costituzione  a
 tutela  del  lavoro,  poiche'  determina  in  danno  dei difensori la
 perdita certa, sia delle spese gia' affrontate, sia del corrispettivo
 (pur se solo potenziale,  essendo  legato  all'esito  favorevole  dei
 processi   e   alla   liquidazione  del  giudice)  delle  prestazioni
 professionali rese in favore dei ricorrenti, ai  quali  non  potranno
 essere  richieste, stante la preclusione originaria della quale si e'
 detto.  Vi e' poi un altro profilo d'illegittimita' costituzionale  a
 carico del terzo comma dell'art. 1 del decreto-legge n. 295/1996, gia
 messo  in luce dalla Corte di cassazione con l'ordinanza n. 382/1996,
 emessa in data 1  aprile  1996  (in  relazione  al  decreto-legge  n.
 166/1996,  ma  certamente trasferibile integralmente a carico del suo
 "clone",  totalmente  da  condividere  e,  percio',   da   riprodurre
 testualmente,  senza  ulteriore commento: "Il dubbio investe anche il
 terzo  comma  dell'art.  1,  nella  parte  in  cui   stabilisce   che
 all'estinzione dei giudizi consegue "la compensazione delle spese tra
 le  parti".    Attraverso  tale  disposizione si sottrae, infatti, al
 giudice della  pretesa  sostanziale  dedotta  in  giudizio  un  punto
 accessorio della controversia che, ad ogni modo, anche per i riflessi
 di   ordine   economico   sull'entita'  dell'incremento  in  concreto
 realizzato dal soggetto vittorioso, non puo' esserne  distolto  senza
 che ne resti vulnerato, ancora una volta, l'art. 24 Cost.".
 Considerazioni  sulla non manifesta infondatezza e sulla rilevanza in
 causa delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale  rilevate  a
 carico  del  decreto-legge  n. 295 del 27 maggio 1996 Le questioni in
 discorso non sono manifestamente infondate e  sono  tutte  rilevanti,
 poiche'    il   presente   giudizio   non   puo'   "essere   definito
 indipendentemente" dalla loro risoluzone: e' piu' che chiaro  che  la
 dichiarazione  della  illegittimita' costituzionale del decreto-legge
 n. 295/1996 in uno o piu'  dei  profili  sopra  evidenziati  (escluso
 soltanto  quello  sub  A6,  per il suo carattere particolare) avrebbe
 l'effetto di ripristinare  la  vigenza  della  normativa  precedente,
 restituendo nel contempo a questa Autorita' giudiziaria competente la
 funzione attribuitale dalla Costituzione di amministrare la giustizia
 secondo la legge costituzionalmente vigente.  Peraltro anche la sesta
 questione  risponde in pieno, anche se limitata  mente alla decisione
 sulle spese processuali, al disposto (del resto, sospettato anch'esso
 d'incostituzionalita', come si vedra' piu'  avanti)  dell'art.    23,
 secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87.
                             SECONDA PARTE
   Conclusa   la  disamina  delle  molteplici  ragioni  che  impongono
 l'affermazione dell'incostituzionalita' del decretolegge n.  295  del
 27 maggio 1996, devono essere ancora una volte rimesse, reiterate con
 minime  variazioni,  al  giudizio della Corte costituzionale tutte le
 altre questioni che verrano nel prosieguo esposte  e  che  gia'  sono
 state    oggetto   di   numerose   ordinanze,   poiche'   l'eventuale
 dichiarazione   di   illegittimita'   costituzionale   del   predetto
 provvedimento  governativo  con conseguente ripristino del precedente
 quadro normativo di  riferimento  restituirebbe  valore  alle  stesse
 questioni, ad ognuna di esse e alla loro globalita'.  Sul presupposto
 dell'eventualita'  (assai  vicina alla certezza, a sommesso avviso di
 questo giudice remittente) di una decisione del giudice  delle  leggi
 che  accolga  in  tutto  o  in  parte  le  questioni  di legittimita'
 costituzionale sopra proposte (ma non  e'  da  escludere  neppure  un
 auspicabile  ripensamento  del  Governo,  o  da parte delle Camere un
 opportuno, meglio se voluto ed esplicito, diniego  della  conversione
 in  legge),  e' evidente che conservano attualita' tutte quelle altre
 questioni gia' sollevate nelle ordinanze sopra  citate  e,  pertanto,
 devono  essere  di  nuovo essere rilevate d'ufficio, contestualmente,
 anche al fine di rendere quanto piu' rapido possibile il giudizio  di
 costituzionalita'.
   1.     -     Considerazioni     introduttive     sulle    questioni
 d'incostituzionalita' rilevanti per  la  decisione  della  causa  con
 riferimento  al quadro normativo precedente l'emanazione del d.-l. 28
 marzo 1996, n. 166 reiterato nel successivo  n.  295  del  27  maggio
 1996.      La  giurisprudenza  di  questo  giudice  nega  l'efficacia
 vincolante per l'Autorita' giudiziaria  delle  sentenze  della  Corte
 costituzionale  di natura interpretativa, addittiva, manipolativa (di
 tutte le decisioni, cioe', che possono essere definite "legislative",
 essendo tali di fatto), perche' ritenute non  conformi  all'art.  136
 Costituzione.    A tale proposito non sembra fuori luogo ammettere il
 disagio provato sin dall'inizio nel pronunciare  sentenze  fortemente
 in  contrasto  con  varie  decisioni  del  giudice  delle  leggi,  ma
 soprattutto appare importante riconoscere  che  tale  disagio  si  e'
 andato  sempre  piu'  aggravando, man mano che, nell'evoluzione della
 propria giurisprudenza critica, questo pretore si e' reso conto della
 vera portata  e  gravita'  del  problema  costituito  dalle  sentenze
 interpretative,   addittive,   manipolative,   su  tutto  il  sistema
 normativo, poiche' il fenomeno  dell'intervento  "legislativo"  della
 Corte  costituzionale  e'  diffuso e di enorme dimensione e determina
 l'esistenza di una vera e propria legislazione parallela della Corte.
 Le cause storiche sono molteplici,  ma  possono  individuarsi  quelle
 piu'  evidenti:  il  sempre piu' marcato allontanamento dalla lettera
 dell'art. 136, primo comma, della Costituzione, dopo una  prima  fase
 di   corretta   applicazione  della  stessa  norma;  la  "fuga  dalla
 responsabilita'" del legislatore, sovente  spettatore  passivo  della
 progressiva    sottrazione   della   funzione   attribuitagli   dalla
 Costituzione e, quanto meno, inefficiente nell'esercitare  il  potere
 specifico  previsto  nel  secondo comma dell'art.  136; la diffusione
 nella dottrina e nella giurisprudenza di  merito  e  di  legittimita'
 prevalenti di una concezione evoluzionistica del diritto, con base di
 pura  natura  giusnaturalistica,  non  rispettosa dei dati testuali e
 della  rigidita'  della  legge fondamentale della Repubblica.  Non e'
 neppure estraneo alla problematica che si affronta affermare che, sia
 al fine di sanare, per il passato, quella situazione sopra  descritta
 di  doppia  normativa  e  sia  al fine di precluderne il ripetersi in
 futuro, le varie  autorita'  dello  Stato  responsabili  e  coinvolte
 hanno,  nell'ambito  delle  proprie  attribuzioni, ampia possibilita'
 d'intervento, ma non  puo'  tacersi  che  solo  il  Legislatore  puo'
 risolvere,  con  l'emanazione  delle  norme  di  legge  ritenute piu'
 idonee, in modo definitivo, organico e generale il problema qui messo
 in risalto, riaffermando con forza e chiarezza le  proprie  esclusive
 attribuzioni   fissate  nella  legge  fondamentale  dello  Stato,  in
 particolare negli artt. 70, 71, 72, 73, 76 e 136 cosi' da  ricondurre
 la  Corte  costituzionale, il Governo e l'Autorita' giudiziaria nello
 stretto  ambito  delle  loro  specifiche  e   altrettanto   esclusive
 competenze.   Tali considerazioni di portata generale non sono fini a
 se stesse, ma riguardano direttamente  i  temi  che  vengono  ora  in
 esame,  poiche'  questo  giudice  remittente,  benche' convinto della
 fondatezza giuridica degli argomenti che gli hanno imposto dl  negare
 l'efficacia delle decisioni "legislative" della Corte costituzionale,
 non  puo' trascurare la ben diversa realta' del "diritto vivente" che
 applica   tali   decisioni   come   se   fossero   norme   di   legge
 d'interpretazione   autentica,   affermandone   in   senso   assoluto
 l'obbligatorieta'   (lo   stesso   decreto   legge   sopra   imputato
 d'incostituzionalita'  sembra  seguire questa dottrina).   Ne' poteva
 evitarsi di mettere in piena luce la rilevanza di carattere  generale
 sul  diritto  positivo  vigente  delle questioni che il giudice delle
 leggi e' chiamato a risolvere, poiche' (deve ssere affermato  con  la
 massima  chiarezza) una pronuncia di accoglimento di una o piu' delle
 questioni, tra quelle qui sollevate, attinenti le problematiche sopra
 evidenziate non potrebbe limitare i  suoi  effetti  alle  sole  norme
 direttamente    e    specificamente   colpite   dalla   dichiarazione
 d'illegittimita' costituzionale, ma comporterebbe la  caducazione  di
 quell'intero  sistema  di  "diritto  vivente"  (o  almeno, di una sua
 grande parte) - del quale si e'  gia'  detto,  parallelo  al  diritto
 scritto    e    codificato    -   che   nella   realta'   applicativa
 giurisprudenziale domina da piu' decenni.   In verita' (anche  a  non
 voler  tener  conto  di  quanto  sin  qui  esposto),  tutta  la vasta
 problematica   legata   al   non   facile   e   traumatico,   rifiuto
 dell'efficacia  delle sentenze "legislative" della Corte non  di poco
 conto e non e' superabile agevolmente - contrariamente a quanto si e'
 affermato in dottrina - con la, forse corretta, ma sicuramente troppo
 semplicistica   e   non   sufficientemente   meditata    affermazione
 dell'assoluta  prevalenza delle decisioni della Corte costituzionai'e
 su quelle pretorili, poiche' non puo'  dubitarsi  del  fatto  che  il
 giudice  deve,  sempre e solo, applicare la legge e non e' questio da
 poco identificare la legge vigente nell'attuale paradosso  normativo,
 gia'  ampiamente  descritto:  e'  ben  lecito,  anzi e' assolutamente
 doveroso, per il giudice, nel dubbio sul testo delle disposizioni  da
 applicare (se quello promulgato dal legislatore, o quello revisionato
 dalla   Corte),  ricercare  la  soluzione  piu'  vicina  ai  principi
 fondamentali  sanciti  nella  nostra  Costituzione  per  regolare   e
 tutelare   la   funzione  dell'amministrazione  della  giustizia  con
 necessaria scelta in favore della Legge, anche al doloroso prezzo  di
 negare  l'efficacia  delle  sentenze  del  giudice  delle leggi.   Si
 possono  giustificare  e  comprendere  le  propensioni di parte della
 dottrina   favorevoli   alle   interpretazioni    (piu'    o    meno)
 giusnaturalistiche  -  indubitabilmente  in  buona  misura  frutto di
 spinte ideologiche - del diritto, in chiaro  antagonismo  con  quello
 che  e'  stato  da  taluno definito, con malcelato disprezzo, sterile
 positivismo,  ma  non  puo',  ne'  deve  essere  ritenuta   legittima
 l'assunzione  generalizata da parte dell'Autorita' giudiziaria di una
 scelta  evoluzionistica  nell'applicazione  della   legge,   poiche',
 invero,  mentre  la  dottrina non e' vincolata al rispetto di nessuna
 norma nell'elaborazioni delle sue teorie e per affermarle puo' con la
 massima disinvoltura superare anche il testo, normativo  piu'  chiaro
 ed  univoco,  altrettanto non e' consentito al giudice, il quale deve
 interpretare la legge in obbedienza ai canoni normativamente previsti
 (dalle disposizioni sulla legge in generale, in particolare nell'art.
 12)  per  darne  corretta  applicazione  nelle  concrete  fattispecie
 portate  al  suo esame.  Tutto cio' che si e' sinora rappresentato in
 via generale vale anche in relazione  alla  sentenza  29-31  dicembre
 1993,  n. 495 che ha modificato l'art. 22 della legge 21 luglio 1965,
 n. 903 nonche' rispetto alla sentenza 10 giugno 1994, n.  240,  della
 Corte  costituzionale  che  ha  modificato  l'art. 11, comma 22 della
 legge 24 dicembre 1993, n. 537) determinando l'esistenza di una forma
 "virtuale" ormai divenuta (in tempi  brevissimi)  "diritto  vivente",
 della  quale  questo pretore, benche' non ravvisi, allo stato, alcuna
 ragione di natura giuridica  per  mutare  la  propria  giurisprudenza
 contraria  (gia' ricordata), deve tenere conto, purche' nella realta'
 applicativa la predetta versione dell'art. 22 della legge n. 903/1965
 (come dell'art. 11, comma 22, legge n. 537/1993) ha  sinora  prevalso
 su  quella  approvata dal Parlamento.   Poiche' deve darsi atto della
 realta' suddetta e poiche' appare vulnerato l'art. 136, primo  comma,
 della  Costituzione,  non  resta  altro  che  sollevare  questione di
 legittimita' costituzionale a carico  della  norma  "virtuale"  sopra
 individuata.    In  forza  delle stesse argomentazioni che precedono,
 risulta   anche   rilevante   l'accertamento    della    legittimita'
 costituzionale  dell'art.    30,  terzo  comma, della legge n. 97 del
 1953, in relazione all'art.   136, primo comma,  della  Costituzione,
 poiche'  e' in particolare con riferimento al testo del predetto art.
 30  che  viene  affermata  l'efficacia   ex   tunc   della   sentenze
 dichiarative  d'incostituzionalita', in aperta e piena violazione del
 dettato costituzionale.  E', invero, piu' che evidente  che,  qualora
 venisse dichiarata l'incost  ituzionalita' dell'art. 30, terzo comma,
 della  legge n. 87/53, la tesi dell'efficacia ex tunc delle decisioni
 d'incostituzionalita',   sostenuta    dalla    dottrina    e    dalla
 giurisprudenza  dominanti,  perderebbe  l'unico (per quanto labile ed
 insignificante  e  gia'  disatteso  da  questo   pretore)   argomento
 testuale,  cosi'  rendendo  chiaro  a  tutti,  anche  ai piu' fervidi
 fautori  della  "costituzione  materiale",   che   le   norme   della
 Costituzione   formale   sono  le  uniche  vigenti  e  devono  essere
 rispettate, fino a che non intervenga  una  loro  modifica  ai  sensi
 dell'art.    138.       Nella   presente   causa   la   dichiarazione
 d'incostituzionalita'  dell'art.    30  renderebbe  indiscutibile  la
 pronuncia  di  rigetto della domanda proposta in ricorso, per assenza
 di norma regolatrice del diritto,  risultando  applicabile  il  testo
 originario  dell'art.  22 della legge n. 903 del 1965, poiche' la sua
 parziale inefficacia (ancora una volta si tiene conto  della  realta'
 del  "diritto  vivente",  senza  riconoscerne  pero'  la fondatezza),
 prendendo decorrenza dal giorno successivo alla  pubblicazione  della
 sentenza  n.  495  del 1993, non avrebbe alcun effetto nella presente
 controversia, precedente la pubblicazione della decisione della Corte
 costituzionale: constatazione questa che chiarisce in modo inequivoco
 la rilevanza (anche se non esclusiva)  nel  giudizio  della  medesima
 questione.    Sempre  avendo  presenti le considerazioni appena sopra
 sviluppate, e', altresi',  necessario,  nella  presente  fattispecie,
 sollevare  un ulteriore rilievo di incostituzionalita' di particolare
 carattere:    dubita,  infatti,  questo  pretore  della  legittimita'
 costituzionale   dell'art.   22   della   legge   n.  903/1965,  come
 "manipolato"  dalla  sentenza  n.  495/1993  (e  naturalmente   anche
 dell'art.  11,  comma  22,  della legge n. 537/1993, come "riscritto"
 dalla sentenza n. 240/1994), in relazione all'art. 91, ultimo  comma,
 della  Costituzione e tale dubbio, deve essere risolto dal necessario
 intervento della Corte costituzionale.
   2.  -  Considerazioni  generali  in  ordine   alle   questioni   di
 legittimita'  costituzionale  di  natura  preliminare.    Poiche'  la
 controversia - cio'  ovviamente  dopo  l'eventuale  dichiarazio    ne
 d'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  1  del  d.--l. 27 maggio
 1996, n. 295, o,  comunque,  dopo  la  piu'  agevolmente  presumibile
 cessazione   della  sua  efficacia  per  mancata  conversione  ed  il
 conseguente ripristino della situzione normativa ad esso precedente -
 puo' essere risolta sotto molteplici profili, ciascua'no dei quali da
 solo sufficiente per motivare  (l'obbligatorieta'  della  motivazione
 dei  provvedimenti  giurisdizionali  e'  sancita  nell'art. 111 della
 Costituzione,  tra  i  principi  fondamentali   delle   norme   sulla
 giurisdizione)  la  pronuncia,  con  consequenziale  possibilita' per
 questo pretore di scegliere, se fondare la propria decisione su uno o
 piu' argomenti, senza vincoli o limitazioni (si tratta,  infatti,  di
 scelta  insindacabile,  perche', nell'obbedienza al dettato dell'art.
 111 citato, indiscutibile manifestazione di  autonomia  e  di  libera
 determinazione  dell'Autorita'  giudiziaria,  secondo  la  previsione
 degli artt. 101 e 104, primo comma, della Costituzione),  il  giudice
 delle  leggi non dovrebbe esaminare nel merito le suddette questioni,
 negandone l'ammissibilita', perche' non rilevanti, potendo certamente
 il giudizio "essere  definito  indipendentemente  dalla  risoluzione"
 delle  qui  sollevate  questioni di legittimita' costituzionale, come
 chiaramente recita l'art. 23, secondo comma, della legge  n.  97  del
 1953.     Deve,  pertanto,  essere  sollevata  d'ufficio  l'ulteriore
 questione di legittimita' costituzionale, a  carico  della  specifica
 disposizione,  come sopra riportata nella sua testualita', del citato
 art. 23, secondo comma, della legge n. 87/1953, per violazione  dell'
 art.  134,  nonche'  degli  artt.  101, 104, primo comma, e 111 della
 Costituzione.   Questione  che  la  Corte  dovra'  esaminare  in  via
 preventiva al fine di passare, in caso di suo accoglimento, all'esame
 delle  questioni precedentemente individuate.  Per le stesse ragioni,
 appena sopra esposte, con le  stesse  finalita'  e  con  il  medesimo
 carattere preliminare, deve altresi' essere sollevata la questione di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  23  della legge ordinaria 11
 marzo 1953, n. 87, limitatamente a quelle sue parti  (quali  verranno
 esattamente  evidenziate  in  seguito)  che stabiliscono condizioni e
 forme di proponibilita' dei giudizi di  legittimita'  costituzionale,
 per  palese violazione della riserva di legge costituzionale prevista
 dall'art. 137, primo comma, della Costituzione.
   3.  -  Precisazione  delle questioni di legittimita' costituzionale
 rilevate  d'ufficio  ed  attinenti  il  quadro  normativo  precedente
 l'entrata  in vigore del d.-l. 28 marzo 1996, n. 166 reiterato con il
 d.-l.  27 maggio 1996, n. 295.
   B1) Questione di legittimita' costituzionale dell' art.  22,  legge
 21 luglio 1965, n. 903, come modificato dalla sentenza 29-31 dicembre
 1993,  n.  495  della  Corte costituzionale, per violazione dell'art.
 136, primo comma, nonche' degli artt. 101 e 104, primo  comma,  della
 Costituzione.
   B2)  Questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 30, terzo
 comma, della legge 11 marzo 1953 n. 87,  per  violazione  dell'  art.
 136, primo comma, della Costituzione.
   B3) Questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, legge 21
 luglio  1965, n. 903/1965, come modificato dalla sentenza n. 495/1993
 della Corte  costituzionale,  per  violazione  dell'art.  81,  ultimo
 comma, della  Costituzione.
   B4)  In  via  preliminare  rispetto  alle  precedenti, questione di
 legittimita' costituzionale dell'art. 23, comma secondo, della  legge
 11  marzo  1953, n. 97, ove prevede che "il giudizio non possa essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale"  e  limitatamente  a  tale  parte,  per
 violazione dell'art.  134, nonche' 101, 104, primo comma, e 111 della
 Costituzione.
   B5) Sempre in via preliminare e con gli stessi riferimenti indicati
 in quella sub B4), questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 23 della legge ordinaria 11  marzo  1953,  n.  87,  nelle  parti  che
 stabiliscono  condizioni  e  forme  di  proponibilita' dei giudizi di
 legittimita' costituzionale, per palese violazione della  riserva  di
 legge  costituzionale  prevista  dall'art.  137,  primo  comma, della
 Costituzione.
   4. - Motivazione delle singole questioni.
   B1) In relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  22,  legge  21  luglio 1965, n. 903, come modificato dalla
 sentenza   29-31   dicembre   1993,   n.   495/1993    della    Corte
 costiutuzionale,  per  violazione dell'art. 136, primo comma, nonche'
 degli artt. 101 e 104, primo comma, dalla Costituzione.  La Corte  ha
 dichiarato  l'illegittimita'  costituzionale del citato art. 22 della
 legge n. 903/1965 "nella parte in cui non prevede che la pensione  di
 riversibilita'  sia  calcolata  in  proporzione alla pensione diretta
 integrata al trattamento minimo gia' liquidata al  pensionato  o  che
 l'assicurato  avrebbe  avuto  comunque  diritto  di  percepire".   Si
 ritiene nella dottrina e nella  giurisprudenza  prevalenti  che  tale
 decisione della Corte costituzionale (come le altre del genere che e'
 stato  gia' in precedenza qualificato "legislativo" per ricomprendere
 in un'unica definizione tutte le sentenze del giudice delle leggi  di
 natura interpretativa, addittiva, manipolativa, cioe' di tutte quelle
 che  non  si  limitano a sancire semplicemente l'illegittimita' delle
 norme  che  violano  la   Costituzione)   abbia   valore   correttivo
 dell'incostituzionalita'  della  norma ed efficacia erga omnes, cosi'
 da dover essere applicata (per  di  piu'  ex  tunc,  ma  di  cio'  si
 trattera'  piu'  avanti) dall'Autorita' giudiziaria.   Questo giudice
 (abbandonata ormai da tempo la  propria  giurisprudenza  che  aderiva
 all'erronea tesi dominante appena sopra sintetizzata) e' di contrario
 avviso  e  deve  confermare anche in questa sede senza esitazione, in
 piena coerenza con le proprie precedenti  decisioni,  che  l'art.  22
 della  legge  n.  903/1965  e'  rimasto in vigore nella sua integrale
 formulazione  letterale,  quale   norma   di   legge   dello   Stato,
 regolarmente  approvata (art. 72 della  Costituzione) dal Parlamento,
 regolarmente   promulgata   dal   Presidente   della   Repubblica   e
 regolarmente  pubblicata  (art.  73  della  Costituzione), poiche' la
 sentenza "legislativa" n. 495/1993 della Corte costituzionale non  e'
 giuridicamente  idonea  a  determinare  la  cessazione dell'efficacia
 della norma dichiarata illegittima in una parte  non  scritta  (nella
 parte  in  cui non prevede ...), posto che l'evento della inefficacia
 si  realizza  solo  quando   la   dichiarazione   di   illegittimita'
 costituzionale  colpisce  la  letteralita' dell'intera norma o di una
 sua parte (scritta: deve essere  ribadito),  causandone  la  semplice
 caducazione.  In altri termini: le sentenze "legislative" non possono
 (ma  si  veda  anche  la diversa ipotesi di soluzione giuridica della
 questione, piu' avanti prospettata) dar luogo agli  effetti  previsti
 dall'art.   136, primo comma, della Costituzione, ne' hanno efficacia
 modificativa  del  diritto  positivo,  poiche'  (il  rilievo   sembra
 paciflico   ed   incontestabile)   non   e'   attribuito  alla  Corte
 costituzionale  il  potere   legislativo,   ne'   una   funzione   di
 interpretazione   autentica   della   legge.  E',  infatti,  al  solo
 legislatore che la nostra Costituzione attribuisce il potere, in  via
 generale  (art. 70 e seguenti, nonche' art. 117 per cio' che concerne
 le regioni) e in via specifica (art. 136, secondo comma),  di  creare
 la  norma di legge, giuridicamente vincolante.  Tutto cio' vale anche
 per  quelle  decisioni  addittive  che  vengono  definite   "a   rime
 obbligate"  -  e' chiaro che l'argomento viene esposto per ragioni di
 completezza del discorso,  giacche'  potrebbe  assumere  qui  rilievo
 concreto  solo  qualora  si  affermasse che la sentenza n.   495/1993
 appartiene a tale categoria, anche se davvero non si intravede  nella
 motivazione  una  valida indicazibne in proposito -, le quali vengono
 ritenute  "autoapplicative"   e   cogenti   in   quanto   connaturate
 all'ordinamento   giuridico:   se   le  sentenze  addittive  "a  rime
 obbligate" fossero veramente idonee di immediata applicazione per  la
 loro   diretta  derivazione  dal  diritto  positivo  dovrebbe  essere
 possibile rinvenire, se non la norma di riferimento  suscettibile  di
 interpretazione estensiva o di applicazione analogica, quanto meno il
 principio  assoluto  da  applicare  per  la  correzione  dell'aspetto
 d'incostituzionalita',  con  la  conseguenza  che,  se   cio'   fosse
 possibile,  l'intervento  addittivo "a rime obbligate" della Corte si
 rivelerebbe, a maggior ragione non  solo  illegittimo  rispetto  alla
 previsione  dell'art.  136, primo comma, della Costituzione, ma anche
 inutile e ridondante,  essendo  logicamente  sufficiente  una  tipica
 sentenza  caducatoria,  poiche'  sarebbe  (anche in tal caso, come in
 ogni caso) di  esclusiva  competenza  dell'Autorita'  giudiziaria  la
 decisione sulla possibilita' di riempire, ai sensi dell'art. 12 delle
 Disposizioni   sulla   legge   in   generale,   il   vuoto  normativo
 (eventualmente ritenuto intollerabile) conseguente  alla  caducazione
 della  disposizione  dichiarata  costituzionalmente illegittima dalla
 Corte.  Tanto rilevato e rappresentato con riferimento al primo comma
 dell'art  .  136, si deve passare alla discussione  inerente  l'altro
 aspetto  d'incostituzionalita'  dell'art. 22 della legge n. 903/1965,
 come  modificato  dall'intervento  del  giudice  delle   leggi,   per
 violazione  degli  artt.  101 e 104, primo comma, della Costituzione.
 Deve subito essere affermata la  natura  anche  interpretativa  della
 sentenza  "legilstiva"  n. 495/1993 e deve precisarsi che tale natura
 non puo' essere razionalmente negata, poiche' in  detta  sentenza  la
 Corte  costituzionale propone una lettura del contenuto dell'art.  22
 della legge n. 903/1965 in contrasto  con  quella  offerta  da  parte
 della  Corte di cassazione e della giurisprudenza di merito: se tutto
 cio' non e' interpretazione, allora non si addice  alla  sentenza  n.
 495/1993   l'appellativo   di  interpretiva,  ma  pare  arduo  negare
 l'evidenza.  L'interpretazione della legge e' attivita' intellettuale
 non riservata   :    ogni  operatore  del  diritto  ed  ogni  singolo
 cittadino  e'  ovviamente  libiro  di  interpretare la normativa, per
 tutti i fini possibili, senza limiti.  Ma quando l'interpretazione e'
 correlata all'applicazione della  legge  in  sede  giudirisdizionale,
 quando  cioe'  e' legata alla funzione specifica dell'amministrazione
 della giustizia in nome del popolo e nella soggezione alla sola legge
 (101 della Costituzione),  allora  l'attivita'  d'interpretazione  e'
 riservata  ed  esclusiva  perche'  demandata  al  giudice  (102 della
 Costituzione per quello ordinario), autonomo ed indipendente da  ogni
 altro  potere  (104,  primo comma, della Costituzione).   Ne discende
 che, qualora  una  norma  di  legge  trovi  (o  possa  trovare  nella
 giurisprudenza  di  metito  e,  soprattutto, di legittimita', diverse
 soluzioni interpretative, non  puo'  essere  ritenuto  conforme  alla
 Costituzione  un  intervento  di  sostanziale  natura  interpretativa
 autentica della Corte costituzionale, che (come nel  caso  di  specie
 determini  una  modifica del contenuto della norma, pur non incidendo
 sul suo tenore letterale, cosi'  da  imporre  una  specifica  scelta,
 fondata su una delle possibili interpretazioni del dettato normativo,
 o  (e  sembra  essere  questa  l'ipotesi  che meglio si attaglia alla
 sentenza n. 495/1993) da  precludere  ogni  diversa  interpretazione,
 togliendo  al  giudice competente spazio per esercitare pienamente la
 propria funzione, poiche' in tal modo viene concretamente violato  il
 principio  della  divisione dei poteri, con la compressione di quello
 giudiziario, in evidente contrasto con gli artt. 101  e  104,  quarto
 comma,  della Costituzione.   Cio' non significa che il giudice delle
 leggi  non  possa  interpretare  la  legge  (negarlo   sarebbe   pura
 assurdita')  ma  significa solo che non e' consentito a nessun potere
 (inteso in senso lato) dello Stato e, pertanto,  neppure  alla  Corte
 costituzionale  di  superare i confini delle proprie attribuzioni.  E
 la Corte soprattutto deve esercitare la  sua  elevatissima  funzione,
 posta  al  vertice  delle  garanzie costituzionali, nel piu' assoluto
 rispetto delle attribuzioni degli  altri  poteri  (il  termine  viene
 usato  sempre nel significato piu' ampio e non strettamente tecnico),
 poiche' ogni sua decisione che comporti il  superamento  della  sfera
 delle    specifiche  competenze,  rischia  di  scardinare il delicato
 equilibrio  istituzionale  voluto  dalla  legge  fondamentale   della
 Repubblica,  senza  neppure  la possibilita' di un rimedio giuridico,
 poiche' "contro le decisioni  della  Corte    costituzionale  non  e'
 ammessa   alcuna   impugnazione"   (art.  137,  ultimo  comma,  della
 Costituzione)   e   poiche'      deve   escludersi   l'ammissibilita'
 dell'istituto  del  giudizio  "sui  conflitti  di  attribuzione tra i
 poteri dello Stato" (art. 134, secondo comma, della Costituzione), se
 non altro, perche' La Corte costituzionale ne sarebbe nel    contempo
 parte  e giudice.   Se questa questione, in uno o piu' dei rilievi di
 legittimita'  costituzionale prospettati, venisse accolta dal giudice
 delle leggi, la dichiarazione d'illegittimita'  costituzionale  della
 versione  normativa  dell'art.  22  della  legge  n.  903/1965,  come
 risultante dalla sentenza n. 495/1993, dovrebbe comportare la perdita
 di efficacia della stessa versione ed il ripristino (deve  presumersi
 e  preferirsi) della versione originale della norma, quella approvata
 dal legislatore del 1965, con ovvia rilevanza nel  presente  giudizio
 pretorile.   Per il vero, pero', la Corte costituzionale - come anche
 la stessa Autorita' giudiziaria, ma soprattutto il Parlamento con una
 legge chiarificatrice, decisamente auspicabile -  potrebbe  dare  una
 diversa  soluzione  giuridica  in ordine agli effetti delle decisioni
 "legislative", affermando in  modo  esplicito  che  queste  non  sono
 idonee  a  modificare,  integrare  e  correggere  le norme dichiarate
 incostituzionali, bensi' puramente  e  semplicemente  determinano  la
 radicale  perdita  di  efficacia delle medesime norme, poiche', lo si
 puo'  ben  sostenere  con  piena  logica  giuridica  e  razionalita',
 l'accertata  ed  affermata illegittimita' della norma "nella parte in
 cui ..." si ripercuote sull'intera norma,  giacche'  questa  nel  suo
 complesso ed in tutte le sue parti "prevede" o "non prevede" cio' che
 la   Corte   rispettivamente   afferma   essere   costituzionalemente
 illegittimo o legittimo.  Le conseguenze di tale  soluzione  radicale
 potrebbero essere assai meno dirompenti di quelle causate dalla prima
 scelta  indicata sopra, se non altro, perche' eviterebbero al sistema
 giuridico  il  rischio  di  una  paralizzante  crisi  interpretativa,
 dipendente  dalla  difficolta'  di  stabilire, se la norma dichiarata
 incostituzionare  dalla  Corte  con  intervento  "legislativo"  possa
 ritenersi  ripristinata in tutta la sua primigenia portata, ovvero se
 debba considerarsi implicitamente travolta in toto dalla  chiarazione
 d'illegittimita'  costituzionale  della lettura volutane dalla Corte,
 ovvero ancora se sia necessario (ipotesi questa, pero', da  escludere
 recisamente)  attendere  un  intervento  del  legislatore  diretto  a
 confermare, o abrogare, o modificare la norma.
   B2) In relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  30,  terzo  comma,  della  legge 11 marzo 1953, n. 87, per
 violazione dell'art. 136, primo comma, della  Costituzione.    L'art.
 136,  primo  comma,  della Costituzione cosi' dispone testualmente  :
 "Quando la Corte  dichiara  l'illegittimita'  costituzionale  di  una
 norma  di  legge  o  di atto avente forza di legge, la norma cessa di
 avere  efficacia  dal  giorno  successivo  alla  pubblicazione  della
 decisione".    L'art.  30,  terzo  comma, della legge n. 87 del 1953,
 prevede: "Le norme  dichiarate  incostituzionali  non  possono  avere
 applicazione   dal   giorno   successivo   alla  pubblicazione  della
 decisione".  Sono possibili due soluzioni interpretative dell'art. 30
 in esame:   una  fedele  al  dettato  costituzionale,  l'altra    non
 rispettosa   della  lettera  e  del  contenuto  dell'art.  136  della
 Costituzione: la prima attribuisce un  puro  significato  esplicativo
 all'art.  30,  evidenziando  l'ovvia  conseguenza  della  perdita  di
 efficacia della  norma  dichiarata  incostituzionale,  cioe'  la  sua
 inapplicabilita'  per  regolamentare  le  situazioni giuridiche sorte
 successivamente alla pubblicazione della decisione  della  Corte;  la
 seconda  tenta  di  modificare  la  Costituzione  formale  per  farla
 soggiacere alla volonta' dei fautori della "costituzione  materiale",
 sostenendo    che    il   divieto   di   applicazione   delle   norme
 incostituzionali,  derivante  dalla  originaria   incostituzionalita'
 delre  norme  stesse, determina necessariamente   l'efficacia ex tunc
 delle sentenze della Corte.   A  contrastare  la  tesi  che  sostiene
 l'efficacia  ex  tunc  delle  sentenze  della Corte costituzionale si
 ergono insuperabili, non solo la lettera del  primo  comma  dell'art.
 136  della  Costituzione,  ma  anche  il  secondo  comma dello stesso
 articolo.   Per chiarire quanto sopra  affermato  sembra  sufficiente
 riportare quanto gia' sostenuto da questo pretore in varie precedenti
 decisioni  (tra  le  altre,  nella  sentenza n. 1534/1995 emessa il 3
 luglio 1995, nella causa Zeni Angela contro  INPS)  "Il  primo  comma
 dell'art   136  della  Costituzione  cosi'  testualmente  afferma"  -
 Omissis: la norma e' sopra  riprodotta  -  ":  e'  evidente,  per  il
 significato      inequivocabile      della      disposizione,     che
 corrispondentemente viene negata qualsiasi  efficacia  ex  tunc  alla
 dichiarazione   d'incostituzionalita'   e  che  la  norma  dichiarata
 incostituzionale e' perfettamente efficace (e, per quanto cio'  possa
 apparire  paradossale,  anche  legittima)  sino  al giorno, compreso,
 della pubblicazione della decisione della  Corte  costituzionale."  -
 Omissis  -  "L'esattezzza  della tesi qui sostenuta trova conferma di
 forte valore giuridico nell'assenza di una previsione  (difficile  da
 ipotizzare, peraltro) di legge che limiti, imponendo alla Consulta il
 rispetto  dell'art.  81  della  Costituzione,  gli  effetti  talvolta
 dirompenti  (da  molti  denunciati   e   da   tutti   indistintamente
 riconosciuti)   sul  bilancio  dello  Stato  della  valenza  ex  tunc
 attribuita contra legem  alle  sentenze  della  Corte  costituzionale
 sulle norme dichiarate incostituzionali: e', ancor piu' che evidente,
 lapalissiano  che l'unica esatta interpretazione dell'art. 136, primo
 comma, della  Costituzione,  nel  senso  imposto  dalla  sua  univoca
 formulazione   letterale   e   qui   sostenuto,  rende  superflua  ed
 insussistente l'esigenza di ridurre o regolamentare  l'impatto  sulla
 finanza pubblica delle sentenze del giudice delle leggi, poiche', non
 essendo  lecito  attribuire  efficacia  ex  tunc  alle  dichiarazioni
 d'illegittimita' costituzionale, nessun danno  puo'  derivarne,  cio'
 che  spiega  razionalmente  perche'  il legislatore, costituzionale e
 ordinario, non abbia previsto e  ritenuto  di  dover  creare  qualche
 strumento  giuridico  per imporre alla Corte il rispetto dell'art. 81
 della  Costituzione."  "In  altri  termini:  nessuna  necessita'   di
 limitare   gli   effetti   economici   delle   sentenze  della  Corte
 costituzionale sussiste, poiche' esse non  sono  idonee,  secondo  la
 previsione del primo comma dell'art. 136, a determinare situazioni di
 danno."    "Il  rigore  logico e la piena razionalita' dell'art. 136,
 primo  comma,  trova  ulteriore  conferma  nel  secondo  comma:   "La
 decisione  della  Corte  e'  pubblicata e comunicata alle Camere e ai
 Consigli  regionali  interessati,   affinche',   ove   lo   ritengano
 necessario provvedano nelle forme costituzionali": e' quasi superfluo
 far  notare  che  questa  disposizione  e' diretta ad imporre (non si
 dimentichi mai  che  il  potere  attribuito  alle  istituzioni  della
 Repubblica  e'  potere-dovere  e  non  arbitrio)  al  legislatore  di
 provvedere alla soluzione dei problemi  causati  dalle  dichiarazioni
 d'incostituzionalita',   problemi   derivanti,  per  il  futuro,  dal
 possibile vuoto normativo e, per  il  passato,  dalla  necessita'  od
 opportunita'  di  riparare  (secondo la discrezionalita' politica del
 legislatore  e,  dunque,  anche  e  soprattutto  nei   limiti   delle
 compatibilita'  di  bilancio i danni eventual determinati dalle norme
 incostituzionali." "Cio' che congerma l'esattezza  dell'affermazione,
 secondo la quale l'esigenza e l'obbligo di rispettare l'art. 81 della
 Costituzione  e',  come  solo  puo'  e  deve  essere,  a  carico  del
 legislatore".    Per  tentare  di  superiare  il  ragionamento  sopra
 riprodotto,    si   dovrebbe   spiegare,   perche'   il   legislatore
 costituzionale avrebbe previsto, nel secondo comma dell'art. 136,  la
 comunicazione alle Camere della decisione della Corte "affinche', ove
 lo  ritengano  necessario  provvedano nelle forme costituzionali", se
 non avesse voluto chiarire con  forza  che  solo  al  legislatore  e'
 attribuito  il potere di provvedere, nelle forme costituzionali, alla
 produzione legislativa  eventualmente  necessaria  per  risolvere  le
 conseguenze dell'inefficacia delle norme dichiarate incostituzionali,
 posto  che altre norme della Costituzione (artt.  70 e seguenti) gia'
 regolano l'attivita' legislativa e non si puo' certo  ridurre  l'art.
 136, secondo comma, a norma puramente ripetitiva senza valore alcuno.
 A  tali  argomenti  non sembra superfluo aggiungere brevemente alcuni
 elementi di  fatto  storici,  con  lo  scopo  dichiarato  di  rendere
 difficilmente  praticabili  possibili  obiezioni  fondate su discorsi
 inerenti la volonta' del  legislatore  e  la  ratio  legis,  cari  ai
 giusnaturalisti,  anche  a  fronte  di  norme  esemplari  per la loro
 assoluta limpidezza di lettera e  di  contenuto,  qual'e'  certamente
 l'art.  136  della  Costituzione.   Nelle fasi iniziali dell'iter per
 l'introduzione della Corte costituzi  onale nel  nostro  ordinamento,
 la  sottocomissione  per i problemi costituzionali della "Commissione
 per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato", istituita
 dal Ministero per la Costituente, negli studi e  proposte  pubblicati
 nel  1946, tra l'altro, aveva espressamente ipotizzato l'annullamento
 ex  tunc  delle  leggi,   quale   conseguenza   della   dichiarazione
 d'incostituzionalita'.      Tale   soluzione  in  sede  di  Assemblea
 costituente venne chiaramente abbandonata dalla commissione  dei  75,
 alla   quale   era   stata   affidata   la   redazione  del  progetto
 costituzionale: nel progetto presentato il 31 gennaio 1947,  infatti,
 nell'art.  128,  al  terzo  comma,  era  previsto  che  "Se la Corte,
 nell'uno o nell'altro caso,  dichiara  la  incostituzionalita'  della
 norma,  questa  cessa di avere efficacia. La decisione della Corte e'
 comunicata  al  Parlamento,  perche',  ove  lo  ritenga   necessario,
 provveda  nelle forme istituzionali".  Da quell' art. 128 e' derivato
 l'attuale art. 136, nel quale pero' e' stato opportunamente  previsto
 anche  il  momento  iniziale  (fissato  nel  giorno  successivo  alla
 pubblicazione) della perdita  di  efficacia  delle  norme  dichiarate
 incostituzionali.
   Nessun commento e' necessario.
   Anche  se  possono  ritenersi sufficienti le considerazioni sin qui
 sviluppate, l'esigenza di massima completezza del discorso impone  di
 tenere  conto  di una possibile critica alla tesi qui sostenuta della
 efficacia solo ex nunc delle  sentenze  della  Corte  che  dichiarano
 l'illegittimita'  costituzionale  di  norme di legge o di atti aventi
 forza di legge: si  sostiene,  infatti,  che  le  predette  decisioni
 sarebbero  naturaliter  retroattive  in  ragione,  sia  del carattere
 incidentale del giudizio di costituzionalita', sia  della  nec|ssita'
 che  le pronuncie del giudice delle leggi siano produttive di effetti
 ex tunc nel  giudizio  a  quo  (ed  ovviamente  anche  per  tutte  le
 posizioni giuridiche similiari), giacche', altrimenti, non vi sarebbe
 alcun  interesse  delle  parti  in  causa  a  sollevare  eccezioni di
 legittimita' costituzionale, non potendo trarre alcun vantaggio dalle
 eventuali  pronuncie  favorevoli,  con conseguente certo inaridimento
 della fonte privata  delle  eccezioni  e  parallela  contrazione  del
 controllo  di costituzionalita'.  La contestazione sopra sintetizzata
 ha  indubbie  ragioni  sostanziali,  giacche'  e'   sussistente,   in
 astratto, il rischio paventato di una perdita d'interesse delle parti
 in    causa    nel    giudizio    a   quo   a   sollevare   eccezioni
 d'incostituzionalita',  in  assenza  della  certezza  di   conseguire
 immediati  vantaggi  (di  natura  economica  soprattutto, se pure non
 esclusivamente) anche per il passato, ma non certo per questo  motivo
 puo' ritenersi fondata, come si dimostrera' nel  prosieguo.  In primo
 luogo,   e'   doveroso   e  necessario  notare  che  il  giudizio  di
 costituzionalita' delle leggi e degli atti aventi forza di legge  non
 ha  il fine di accertare la sussistenza di diritti vantati da singoli
 o da gruppi organizzati per dare loro tutela diretta,  bensi'  quello
 diverso,   ben   superiore   ed   imprescindibile,  di  garantire  la
 legittimita'  del   sistema   giuridico,   rendendo   inefficaci   ed
 inapplicabili  per  il  futuro  le  disposizioni  di legge dichiarate
 incostituzionali,  cosicche'  le  eventuali   posizioni   d'interesse
 particolare radicate (anche, o soltanto) nel passato e correlate alle
 questioni   di  legittimita'  costituzionale  portate  all'esame  del
 giudice delle leggi sono totalmente ininfluenti ed irrilevanti,  come
 irrilevante  ed  ininfluente  e'  il rischio che le parti private del
 giudizio  a  quo  non  sollevino  piu'  eccezioni   di   legittimita'
 costituzionale.  In secondo luogo, deve dirsi che l'interesse riposto
 nel  valore  retroattivo  delle  sentenze  della Corte costituzionale
 dipende  in  gran  parte  (e  forse  solo)  dal   fatto   che   molte
 dichiarazioni  d'incostituzionalita'  hanno riguardato ed ancora oggi
 riguardano, direttamente - e' il caso della sentenza n. 495/1993 -  o
 indirettamente  - come, ad es.  a proposito della sentenza n. 240 del
 1994, trattandosi di decisione che tende a  ripristinare  per  talune
 categorie   di   titolari   di   piu'   pensioni   il   diritto  alla
 "cristallizzazione", previsto  dal  settimo  comma  dell'art.  6  del
 decreto-legge  n.  463/1983,  convertito nella legge n. 638/1983, poi
 negato, nei termini ivi precisati, dall'art.   11,  comma  22,  della
 legge  n.  537/1993  -, disposizioni di legge vigenti da lungo tempo,
 dando  cosi'  origine   alla   legittima   aspettattiva   di   vedere
 riconosciuti   benefici   prima  preclusi,  oppure  negati  da  leggi
 successive, e cio' anche per il passato e non solo per il futuro.  Le
 cause di tale situazione sono sicuramente molteplici  e  non  possono
 qui  essere  tutte  individuate  e valutate, ma due sono evidenti: a)
 l'enorme ritardo con il quale  la  Corte  ha  iniziato  a  funzionare
 nell'anno  1956,  dopo  l'entrata  in  vigore della Costituzione e b)
 l'"invenzione" e  l'affermazione  nella  giurisprudenza  della  Corte
 delle   sentenze  "legislative"  gia'  ampiamente  contestate),  che,
 pretendendo di sostituire le parti  ritenute  incostituzionali  delle
 disposizioni  di legge con nuovi contenuti normativi stabiliti (senza
 potere) dalla Corte, hanno determinato  nella  generale  opinione  il
 "credo" sull'assoluta obbligatorieta' erga omnes (anche per il potere
 legislativo   ed   esecutivo)   delle   scelte   della   Consulta   e
 contestualmente  una  lettura  "distratta"  dell'art.     136   della
 Costituzione,  del quale si e' (volutamente) omesso di valutare nella
 sua interezza il dettato, chiaro e  razionale.    In  forza  di  tali
 rilievi,  risulta  palese  che  l'interesse  delle  parti  in causa a
 sollevare   questioni   di   legittimita'    costituzionale    legate
 preminentemente  all'aspettattiva  di  ottenere vantaggi anche per il
 passato (tanto da affievolirsi e scomparire in assenza di efficia  ex
 tunc della dichiarazione di illegittimita' costituzionale) non deriva
 da  una  situazione  di normalita, ma e' radicato nella patologia del
 sistema, come  e'  altrettanto  evidente  che  costituisce  una  vera
 anomalia  giuridica attribuire efficacia naturaliter retroattiva alle
 sentenze della Corte.  In terzo luogo, non e'  vero  che  certamente,
 sicuramente,  necessariamen    te  ed  ineluttabilmente debba mancare
 l'interesse alla dichiarazione di illegittimita'  costituzionale  che
 determini  (come  voluto  nella  legge  fondamentale  dello Stato) la
 perdita di efficacia della norma di legge solo a decorrere dal giorno
 successivo alla pubblicazione della relativa decisione  della  Corte,
 poiche'  deve  ritenersi  che,  se il giudice delle leggi riterra' di
 accogliere le eccezioni sollevate  ai  punti  B4  e  B5,  la  maggior
 facilita'  di attivare il giudizio di costituzionalita', liberato dai
 vincoli  e  dalle  illegittime  condizioni  ostative  oggi   presenti
 nell'ordinamento,  produrra'  una  maggiore estensione e una notevole
 accelerazione   del   controllo   di   legittimita'   costituzionale,
 consentendo  alle  parti  private  di  sollevare,  con largo anticipo
 rispetto ad oggi, eccezioni non direttamente rilevanti  in  causa  ed
 essenziali  per  la decisione della controversia (essendo sufficiente
 la loro non manifesta infondatezza), con conseguente nuovo e maggiore
 interesse a proporre anticipatamente  le  questioni  di  legittimita'
 costituzionale.    In quarto luogo: anche se tutto cio' che si e' fin
 qui detto fosse errato, resta sempre l'ultima e piu' forte  obiezione
 di diritto positivo costituzionale: e' al legislatore (le Camere) che
 compete  in  via  esclusiva, ai tuensi' dell'art. 136, secondo comma,
 della Costituzione - qualora rilevi  un'intollerabile  violazione  di
 legittime   aspettative  degli  interessati  (singoli  o  collettivi,
 organizzati o meno) correlate alla  dichiarazione  di  illegittimita'
 costituzionale,  aventi radici anche nel passato - di intervenire con
 discrezionale  ed   insindacabile,   se   razionale   e   realistica,
 valutazione  politica  delle  compatibilita' di bilanci o e, percio',
 non necessariamente in  totale  corrispondenza  con  le  aspettattive
 delle  quali  si  e'  detto, utilizzando gli strumenti legislativi di
 gestiohe della finanza  pubblica  piu'  idonei)  per  riconoscere  ed
 estendere  anche  alle  situazioni  giuridiche  sorte  nel passato il
 diritto affermato dalle decisioni della Corte  costituzionale  aventi
 giuridica  efficacia  solo per il futuro.  Anche in tale prospettiva,
 dunque, risulta confermato che ben puo' sussistere l'interesse  delle
 parti   in  causa  del  giudizio  a  quo  a  sollevare  eccezioni  di
 legittimita'    costituzionale,     pur     nella     consapevolezza.
 dell'efficacia  caducatoria  solo per il futuro delle decisioni della
 Consulta,  poiche'  permane   la   possibilita'   di   ottenere   dal
 Legislatore,  almeno  in  qualche misura, il riconoscimento normativo
 delle istanze dirette a trasferire anche  nel  passito  il  contenuto
 sostanziale  delle  sentenze  della Corte.   Se quanto si e' detto e'
 minimamente vero (e non si riescono ad intravedere serie  ragioni  in
 contrario), allora e' ben chiaro che il sistema costituzionale - come
 qui  interpretatato,  grazie  alla  sua  semplice ed agevole lettura,
 fortemente ancorata al senso univoco delle parole -  e'  perfetto  ed
 e', invece, solo la triste realta' storica dell'insufficienza cronica
 delle  istituzioni a rispondere con rigore alle richieste di certezza
 del diritto del paese reale a determinare le  asintonie  che  vengono
 ritenute naturaliter implicanti il valore retroattivo delle decisioni
 della  Corte,  sicuramente non voluto ed, anzi, espressamente escluso
 dal legislatore costituzionale.   Per quanto,  poi,  riguarda  quella
 parte  della  contestazione  fondata  sul carattere incidentale della
 questione di legittimita' costituzionalita' nel giudizio a quo,  deve
 solo dirsi che essa nulla dimostra, poiche', lo si e' gia' detto e lo
 si  dira'  piu'  avanti,  il  giudizio  di  costituzionalita'  non e'
 istituito per dare ragione o torto a  chi  e'  portatore  d'interessi
 particolari,  ma  solo  per  garantire la legittimita' costituzionale
 della legge, cosicche' il sistema incidentale previsto per  sollevare
 le questioni non assume rilievo sostanziale nel giudizio a quo, ma e'
 solo   lo   strumento   procedurale   prescelto   (uno  tra  i  tanti
 costituzionalmente possibili, ed e' davvero  superfluo  elencare  gli
 altri  ipotizzabili) e da esso non puo' alcunche' validamente dedursi
 per affermare l'efficacia ex tunc  delle  decisioni  della  Corte,  a
 fronte  di  precisi  dati  normativi  contrari.   E', infatti, certo,
 pacifico ed incontestabile che il giudizio di  costituzionalita'  non
 e' finalizzato a dirimere  una controversia tra parti in causa, ne' a
 dare  ragione  o  torto  ad una delle parti del giudizio a quo, ne' a
 formare un giudicato in senso tecnico, ne' ad affermare il  principio
 giuridico al quale deve attenersi l'Autorita' giudiziaria remittente.
 Se,  in  tutto o in parte, cio' che precede e' vero, l'art. 30, terzo
 comma, della legge 11  marzo  1953,  n.  87  deve  essere  dichiarato
 illegittimo   per   contrasto  con  l'art.  136,  primo  comma,  dela
 Costituzione,  in  quanto  consente   un'interpretazione   totalmente
 difforme dal dettato costituzionale divenuta "diritto vivente", cosi'
 da   rendere  estremamente  difficoltosa,  se  pur  non  impossibile,
 l'affermazione   della   lettura   legittima   della    disposizione.
 Certamente  e'  nel  potere  della  Corte  costituzionale  negare  la
 fondatez  za della questione di  legittimita'  costituzionale  teste'
 esposta,  eventualmenta  anche  in  forza  del principio, esattamente
 affermato, che impone nello scontro tra due  o  piu'  interpretazioni
 posibili  l'affermazine  della  prevalenza  di  quella  conforme alla
 Costituzione (e non vi e' dubbio che la  relativa  decisione  sarebbe
 giuridicamente  perfetta  ed inattaccabile), ma, a sommesso avviso di
 questo giudice remittente, una siffatta soluzione non potrebbe  avere
 valore   definitivo,   poiche'   lascerebbe   sempre   spazio  aperto
 all'interpretazione non costituzionalmente corretta.  Ne' e'  poi  il
 caso di porsi scrupoli particolari, nel caso di specie, sugli effetti
 della  dichiarazione d'illegittimita' costituzionale:  la conseguente
 perdita di efficacia del terzo comma  dell'art.  30  della  legge  n.
 87/1953  non  causerebbe un grave vuoto normativo (e' sempre presente
 nella giurisprudenza della Corte la preoccupazione  di  evitare,  per
 quanto  possibile, tale evento), poiche' tale disposizione (come gia'
 notato) nulla aggiunge al disposto del primo  comma  dell'art.    136
 della  Costituzione,  limitandosi  a  esplicitare l'ovvia conseguenza
 della perdita di efficacia delle  norme  dichiarate  incostituzionali
 "dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione" e cioe' la
 loro  inapplicabilita'  (nei  termini gia' chiariti a decorrere dallo
 stesso giorno.
   B3) In relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  22  della  legge  21  luglio 1965, n. 903, come modificato
 dalla citata sentenza n. 495 del 1993 della Corte costituzionale, per
 violazione dell'art. 81, ultimo comma, della Costituzione.  La Corte,
 con  la  sentenza n. 493/1993 (si riporta ancora qui per comodita' di
 esposizione) ha dichiarato l'incostituzionalita', per contrasto con i
 principi di ragionevolezza e di uguaglianza di cui all'art.  3  della
 Costituzione,  dell'art.  22 della legge n. 903 del 1965 "nella parte
 in cui non prevede che la pensione di riversibilita' sia calcolata in
 proporzione alla pensione diretta  integrata  al  trattamento  minimo
 gia'  liquidata  al  pensionato  o  che l'assicurato avrebbe avuto il
 diritto di percepire".   La norma in discorso,  come  modificata  per
 effetto  del suddetto intervento della Consulta, determina per l'INPS
 una forte esposizione debitoria, priva di finanziamento (non solo  e'
 fatto notorio, ma anche accertato ai sensi dell'art. 1, quarto comma,
 del  decreto-legge n. 295 del 27 maggio 1996, come gia' si e' detto);
 la causa  di  tutto  cio'  deve  rinvenirsi  nell'opinione  (erronea)
 secondo  la  quale  le  sentenze  di  natura  addittiva  della  Corte
 costituzionale avrebbero efficacia vincolante erga omnes ed ex  tunc,
 opinione  tuttora  prevalente  in  dottrina e nella giurisprudenza di
 merito e di legitimita'.  Nessun atto legislativo  delle  due  Camere
 (unico,  come si e' avuto modo di affermare trattando dell'art. 1 del
 decreto-legge n.  295/1996,  costituzionalmente  legittimo  ai  sensi
 dell'art.   136,   secondo   comma,  della  Costituzione)  e'  sinora
 intervenuto per reperire la copertura finanziaria necessaria al  fine
 di  consentire  all'INPS  di  provvedere, previa riliquidazione delle
 pensioni di riversibilita'  secondo  il  dettato  della  sentenza  n.
 495/1993,  al  pagamento  delle somme arretrate, con gli accessori di
 legge, derivanti da detta riliquidazione.  E' piu' che  evidente  che
 il  legislatore,  a  tutt'oggi (il decreto-legge n. 295 del 27 maggio
 1996 ne e' riprova) non ha avuto la forza di dare attuazione in senso
 conforme alla Costituzione alla sentenza  in  discorso,  emanando  le
 norme  di  legge idonee ad acquisirne i principi nel diritto positivo
 (e il ragionamento vale identico anche con riferimento alla  sentenza
 n.  240/1994  nonostante la vigenza dell'art. 2, comma 7, della legge
 11 marzo 1988, n. 67,  che  cosi'  dispone:  "Qualora  nel  corso  di
 attuazione   di   leggi  si  verifichino  scostamenti  rispetto  alle
 previsioni  di  spesa  o  di  entrate,  il  Governo  ne  da'  notizia
 tempestivamente al Parlamento con relazione del Ministro del tesoro e
 assume le conseguenti iniziative. La stessa procedura e' applicata in
 caso  di  sentenze definitive di organi giurisdizionali e della Corte
 costituzionale  recanti  interpretazioni  della   normativa   vigente
 suscettibili  di  determinare maggiori oneri."  Potrebbero ricercarsi
 le responsabilita' politiche dei Governi e dei Parlamenti che si sono
 succeduti dalla data di pubblicazione della sentenza n.  495/1993  ad
 oggi,  ma  nessun  risultato giuridico potrebbe conseguirne, restando
 certo il fatto che nessun intervento rispettoso della Costituzione e'
 stato posto in essere  per  la  copertura  finanziaria  dei  maggiori
 oneri,  ne'  totalmente,  ne' parzialmente, non potendosi valutare in
 modo positivo il decreto-legge n. 295/1996, gia' sottoposto a critica
 ed imputato di plurime  violazioni  della  legge  fondamentale  della
 Repubblica  italiana.    Peraltro, con riferimento alla sorte (invero
 assai incerta) del decreto-legge n. 295 del 27 maggio  1996  in  sede
 parlamentare, non appare lecito attendere che il legislatore eserciti
 sino  in  fondo  i  suoi poteri, prima di procedere alla trasmissione
 della  presente  questione  di  legittimita'  costituzionale:   deve,
 infatti,  rilevarsi  con  estrema  chiarezza  che  una futura, ancora
 possibile  e  sempre  auspicabile  soluzione  legislativa al problema
 della copertura finanziaria degli effetti economici della sentenza n.
 495 del 1993,  avra'  (se  pienamente  e  finalmente  rispettosa  dei
 principi costituzionali, e' ovvio) naturalmente efficacia anche sulla
 presente  questione di legittimita' costituzionale, facendole perdere
 ogni attualita', rilevanza e fondatezza.   Deve altresi'  essere  con
 forza  notato  che  autorita'  giudiziaria  non puo', in nessun caso,
 correlare  i  provvedimenti  previsti  dalla  legge  per  amministare
 giustizia   ad   indebite   ed   illecite  valutazioni  di  opinabile
 opportunita' politica, neppure in particolari  situazioni  temporali.
 Dal  riscontrato  attuale  dato  di  fatto  storico  dell'assenza  di
 copertur  a finanziaria, a parere di questo  pretore,  non  puo'  che
 discendere   obbligatoriamente   l'affermazione   dell'illegittimita'
 costituzionale dell'art. 22 della legge n. 903/1965, come  modificato
 dal  giudice  delle leggi, per violazione dell'ultimo comma dell'art.
 81 della Costituzione, a nulla rilevando sapere  se  tale  violazione
 dipenda  da  semplice inerzia, o assenza di volonta' del legislatore,
 ovvero (ed e',  purtroppo,  questa  l'ipotesi  piu'  veritiera  dalla
 realta'  di una situazione critica delle finanze dello Stato, tale da
 aver reso, sino ad oggi, impossibile  il  reperimento  delle  risorse
 finanziare  necessarie,  senza  determinare un ulteriore aggravamento
 nel desolante bilancio della nostra Repubblica.  Unica conseguenza  e
 soluzione   possibile   sembra   essere   quella   di  una  pronuncia
 dichiarativa dell'illegittimita' costituzionale dell' art.  22  della
 legge  n. 903 del 1965 nella nuova formulazione creata dalla sentenza
 n. 495 del 1993,  con  conseguente  cessazione  dell'efficacia  della
 medesima   norma   ai   sensi   dell'art.  136,  primo  comma,  della
 Costituzione e ripristino  della  situazione  normativa  preesistente
 l'intervento  del  giudice  delle  leggi.    Ne'  puo', in contrario,
 sostenersi con giuridica fondatezza che le  norme  "virtuali"  create
 dalle  sentenze  "leggi"  della Corte costituzionale siano avulse dal
 sistema giuridico costituzionale, cosi' da non dover obbedire (anche)
 al dettato dell'art. 81, ultimo comma, della Costituzione, ovvero che
 siano, senza alcuna fondata ragione (ma in dottrina si  e'  elaborata
 una  tesi  contraria,  che  varra'  pia avanti sottoposta a critica),
 "refrattarie" al controllo  di  legittimita'  costituzionale,  ovvero
 ancora  che  il legislatore debba dare esecuzione, sempre e comunque,
 alla volonta' della Corte e che abbia tempi illimitati per provvedere
 alla copertura finanziaria: se  le  sentenze  di  natura  legislativa
 della  Corte  hanno davvero forza innovativa nel diritto positivo con
 obbligo  di  applicazione  (ipotesi,  deve  ribadirsi   ancora,   qui
 fortemente  negata),  tanto  da  fondersi,  in  modo  simile a quanto
 avviene per le leggi  di  interpretazione  autentica,  con  la  norma
 dichiarata   incostituzionale,  determinandone  un  nuovo  contenuto,
 ebbene, allora, queste  norme  "virtuali"  devono  essere  totalmente
 conformi  alla  Costituzione  e  soggiacere al vaglio del giudizio di
 legittimita' costituzionale, come qualsivoglia altra norma di  legge.
 Ne'  puo',  sempre  in  contrario, avere valore la tesi, sostenuta da
 parte  illustre  della  dottrina,  della   obbligatorieta'   per   il
 legislatore  di provvedere, comunque, al reperimento delle necessarie
 risorse finanziarie  per  l'attuazione  delle  sentenze  cosi'  dette
 "addittive  di  spesa"  (ma  il  discorso vale per tutte) del giudice
 delle leggi, obbligatorieta' dalla quale di necessita'  discenderebbe
 l'inapplicabilita'  dell'art.  61,  ultimo  comma, della Costituzione
 alla  norma    "corretta"  dalla Corte, sul presupposto di una minore
 forza  costituzionale  dell'art.    81  rispetto  alle  norme   della
 Costituzione   portatrici  di  principi  fondamentali,  quali  quelli
 d'uguaglianza, di razionalita' e di solidarieta',
  per quanto qui interessa: se pure deve riconoscersi che la tesi  non
 manca  di  fascino,  la sua erroneita' e' totale, poiche' svilisce il
 contenuto vero dell'art. 81, non riconoscendovi il  valore  di  norma
 essenziale  per tutela del sistema  giuridico-economico-sociale-etico
 dello Stato.  Appare sufficiente richiamare quanto gia' si e'  detto,
 trattando della questione di legittimita' costituzionale  sub A3, sul
 principio  di  "realismo  economico"  per  ulteriormente  evidenziare
 l'infondatezza della tesi qui criticata.  Se poi si dovesse porre  la
 domanda  se  sia  lecito  che  il legislatore rifiuti - in tutto o in
 parte, per ragioni legate allo stretto rispetto di una grave  realta'
 di  deficit  di  bilancio  non  piu'  espandibile  -  di dare piena e
 concreta attuazione alle decisioni "addittive di spesa" della  Corte,
 la  risposta  dovrebbe  essere  affermativa  (cfr.,  in proposito, la
 recente sentenza della Corte costituzionale 28 giugno-13 luglio 1995,
 n. 320, nella quale si rinvengono argomenti in parte coincidenti  con
 quelli qui espressi), sia nel caso che si vogliano ritenere legittime
 le  sentenze  "legislative"  della  Corte,  sia  che si neghi la loro
 efficacia per palese contrasto con  l'art.  136  della  Costituzione,
 poiche' la discrezionalita' politica del legislatore - se sorretta da
 insuperabili  e  provate  ragioni  imposte  dalla realta', non ultima
 delle quali  potrebbe  essere  legata  alla  considerazione  che  "le
 generazioni  future  non  possono essere gravate oltre misura facendo
 vivere quelle attuali a loro spese",  come  sottolineato  da  attenta
 dottrina  -  non  puo'  essere  limitata  da  nessun'altra  volonta',
 trovando  fondamento  nell'art.  81  della  Costituzione,  norma   di
 "realta'"  posta  a  tutela  della  conservazione dello Stato e delle
 prospettive della  sua  stessa  evoluzione.    Poiche'  ai  fini  del
 decidere  e'  importante,  anche  se non essenziale (che', come si e'
 gia'   detto,   la    controversia    puo'    ben    essere    decisa
 "indipendentemente"  sotto  vari  altri  profili),  avere certezza in
 ordine alla vigenza o meno dell'art. 22 della legge n. 903/1965, come
 determinata nell'opinione prevalente, qui contrastata dalla  sentenza
 n.  495/1993,  e  poiche'  tale  certezza  puo'  derivare, con valore
 assoluto (che'  le  tesi  di  questo  giudice  sono  rimaste  davvero
 minoritarie  e  marginali  solo  salvo ovviamente un sempre possibile
 intervento legislativo) da una decisione della Corte  costituzionale,
 risulta  necessario  investire il giudice delle leggi della questione
 di costituzionalita' come sopra precisata, essendone, penaltro,  piu'
 che palese per le argomentazioni che precedono, senza altro superfluo
 commento,   anche   la   rilevanza  nel  presente  giudizio,  poiche'
 l'eventuale   dichiarazione   d'illegittimita'   costituzionale   per
 violazione  dell'art.    81  sarebbe, senza possibilita' di contrasto
 neppure negli eventuali gradi  successivi  del  giudizio,  motivo  di
 rigetto  della  domanda  proposta  in  causa,  anche  se,  in ipotesi
 estrema, solo concorrente, o anche solo subordinato e residuale.
   B4) In relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  23,  comma  secondo, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ove
 prevede che "il giudizio non possa essere definito  indipendentemente
 dalla  risoluzione della  questione di legittimita' costituzionale" e
 limitatamente a tale parte, per  violazione  dell'art.  134,  nonche'
 degli  artt. 101, 104, primo comma, e 111 della Costituzione.  L'art.
 134, per  quanto  qui  interessa,  dispone  testualmente:  "La  Corte
 costituzionale giudica: sulle controversie relative alla legittimita'
 costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello
 Stato  e  delle  regioni".    L'art.  1  della legge costituzionale 9
 febbraio 1948, n. 1, emessa in attuazione dell'art. 137, primo comma,
 della  Costituzione,  recita:     "La   questione   di   legittimita'
 costituzionale  di una legge o di un atto avente forza di legge della
 repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da  una  delle  parti  nel
 corso  di  un  giudizio  e  ritenuta  dal  giudice non manifestamente
 infondata,  e'  rimessa  alla  Corte  costituzionale   per   la   sua
 decisione".    A  fronte  di  tali  norme  costituzionali, l'art. 23,
 secondo comma, della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  invece,  cosi
 dispone:  "L'autorita' giurisdizionale, qualora il giudizio non possa
 essere definito indipendentemente dalla risoluzione  della  questione
 di  legittimita'  costituzionale  e  non  ritenga  che  la  questione
 sollevata sia  manifestamente  infondata,  emette  ordinanza  con  la
 quale,  riferiti  i  termini ed i motivi dell'istanza con la quale fu
 sollevata la questione, dispone l'immediata trasmissione  degli  atti
 alla  Corte  costituzionale e sospende il giudizio in corso".  Il ben
 diverso contenuto  sostanziale  del  secondo  comma  dell'art.    23,
 contrastante  con  le disposizioni dell'art. 134 della Costituzione e
 dell'art. 1 della legge costituzionale n. 1/1948,  risalta  evidente:
 la  previsione  della  neccesita'  che  "il giudizio non possa essere
 definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale"  al  fine  di introdurre il giudizio di
 costituzionalita' dinanzi al giudice delle  leggi  non  trova  minimo
 riscontro  a  livello  di normativa costituzionale.  Non solo: appare
 anche chiaro, tanto da risultare quasi superfluo parlarne, che quella
 previsione dell'art. 23, ben individuata sopra, riduce enormemente la
 possibilita' di attivare il controllo della Corte sulla  legittimita'
 costituzionale  "delle  leggi  e  degli  atti, aventi forza di legge,
 dello Stato", poiche' impone che  la  rilevanza  della  questione  di
 costituzionalita'  sia  tale da comportare da sola la definizione del
 giudizio, rendendo in tal modo irrilevanti e, percio',  inammissibili
 tutte  le  questioni  di  legittimita' costituzionale l'oggetto delle
 quali sia solo concorrente nella decisione della causa.  Viene  cosi'
 incatenato  il  controllo della costituzionalita' delle leggi e degli
 atti  normativi  di  pari  forza  e  contestualmente  mortificata  la
 garanzia  costituzionale  di  tale  controllo,  svilito  nell'attuale
 realta' a strumento di tutela  di  interessi  puramente  privati  (di
 singoli  o di collettivita', come gia' si e' avuto modo di rilevare),
 mentre la sua ragion d'essere risponde al ben superiore interesse  di
 mantenere  la  normativa  all'interno  dei  principi  e  delle  norme
 costituzionali,  restando   irrilevante,   o   solo   eventuale,   la
 contestuale soddisfazione di aspettative particolari.  In forza delle
 considerazioni  che precedono, appare consequenziale riconoscere che,
 nel sistema vigente della legislazione ordinaria  in  relazione  alle
 norme  della  legge fondamentale della Repubblica in tema di garanzie
 costituzionali, sussistono troppi vincoli alla piena  attuazione  dei
 principi  costituzionali  e  cio'  con  particolare  riferimento alla
 possibilita' di accesso al giudizio di  legittimita'  costituzionale,
 tanto  da  rendere  possibile  la  permanenza nel diritto positivo di
 numerose norme contrarie alla Costituzione, senza che queste  possano
 trovare  controllo e verifica di legittimita', posto che la struttura
 procedimentale che consente di  giungere  dinanzi  al  giudice  delle
 leggi e' eccessivamente limitativa.  Non e' certo nella competenza di
 questo  giudice,  ne'  del  giudice  delle  leggi,  la  ricerca delle
 soluzioni   normative   necessarie   per   la   realizzazione   della
 Costituzione,  ma  la  constatazione  della difficolta' di accesso al
 giudizio  dinanzi  alla  Corte  costituzionale  doveva   qui   essere
 chiaramente  manifestata, non soltanto perche' direttamente attinente
 la questione di legittimita' costituzionale ora prospettata, ma anche
 perche' non puo' negarsi che numerose norme della legge n. 87/1953, e
 non il solo secondo comma dell'art. 23 nella  parte  specifica  sopra
 individuata,  violano  l'art.  134  della  Costituzione,  riducendo a
 minimi livelli la possibilita' del  controllo  di  conformita'  delle
 leggi  e  degli  atti  aventi  forza  di  legge,  mentre  il  sistema
 costituzionale  nasce  con  un  impianto  assai  vasto,  che  appare,
 comunque,   illecitamente   compresso   e   mortificato  dalla  legge
 ordinaria, e non solo nella sostanza, ma anche nella forma  normativa
 utilizzata,  come  risultera'  piu' che evidente nello sviluppo della
 successiva questione sub B5.   Prima di passare  oltre,  pero',  deve
 essere  chiarito  ancora  in  quali  termini si ritengono violati gli
 artt. 101 e 104  della  Costituzione  dall'art.  23  della  legge  n.
 87/1953,  nella  parte in cui dispone che, per potersi procedere alla
 trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, "il  giudizio  non
 possa  essere  definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della
 questione  di  legittimita'   costituzionale".      La   disposizione
 contestata   e'   illegittima,  poiche'  determina  una  riduzione  e
 compressione dell'autonomia ed indipendenza del giudice, impedendogli
 di valutare tutte le possibili soluzioni giuridiche per la  decisione
 dei   processi,   causando   grave  danno  all'amministrazione  della
 giustizia, poiche' (essendo precluso alle  questioni  non  essenziali
 l'accesso  al  giudizio di costituzionalita' sottrae alla motivazione
 (art. 111 della Costituzione) delle  sentenze  ragioni  ulteriori  di
 potenziale  accoglimento o rigetto della domanda (per quanto concerne
 in  particolare  le  controversie  nella   materia   demandata   alla
 competenza  di questo pretore), idonee a rendere piu' "resistente" la
 motivazione e non e' superfluo qui ricordare che  il  bene  giuridico
 della  certezza  del diritto si fonda anche sulla forza di resistenza
 delle pronuncie giurisdizionali nei successivi gradi di giudizio.
   B5) In relazione  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, nelle parti
 che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita' dei giudizi  di
 legittimita'  costituzionale,  per palese violazione della riserva di
 legge costituzionale prevista dal primo  comma  dell'art.  137  della
 Costituzione.   La riserva di legge imposta dal primo comma dell'art.
 137, viene, per quanto qui interessa,  cosi'  formulata:  "Una  legge
 costituzionale  stabilisce  le  condizioni,  le  forme,  i termini di
 proponibilita'  dei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale":   la
 materia e', dunque, riservata a legge costituzionale e non ordinaria.
 Ed invero sono state approvate e promulgate le leggi costituzionali 9
 febbraio  1948,  n.  1  e  11  marzo  1953,  delle  quali la prima e'
 pienamente conforme  al  dettato  costituzionale,  tant'e'  vero  che
 all'art.  1  la  legge  costituzionale  n.  1/1948  prevede  che  "La
 questione di legittimita' costituzionale di una legge o  di  un  atto
 avente  forza  di  legge, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle
 parti   nel   corso   del   giudizio   e  non  ritenuta  dal  giudice
 manifestamente infondata, e' rimessa alla Corte costituzionale per la
 sua  decisione",  mentre  l'art.  1  della  legge  n.  1/1953  lascia
 perplessi,   poiche'  non  si  limita  ad  affermare  che  "La  Corte
 costituzionale esercita le sue funzioni nelle forme e  nei  limiti  e
 alle   condizioni  di  cui  alla  Carta  costituzionale,  alla  legge
 costituzionale 9  febbraio  1946,  n.  1"  ma  aggiunge  un  richiamo
 generico  e generale anche "alla legge ordinaria emanata per la prima
 attuazione delle predette norme costituzionali", con buona  pace  per
 la  riserva  di legge costituzionale espressamente disposta nell'art.
 137, terzo  comma  della  Costituzione,  tanto  che,  se  si  dovesse
 giungere a ritenere richiamato anche l'art. 23 della legge n. 87/1953
 (ma  questo  giudice deve recisamente negare la validita' di una tale
 ipotesi), allora anche lo stesso art. 1 della legge cost.  n.  1  del
 1953   sarebbe   imputabile   di   violazione   dell'art.  137  della
 Costituzione.  E' palese ed indubbio (nonostante l'ambiguita', per il
 suo eccesso di genericita', dell'errato ed infelice riferimento  alla
 legge  ordinaria  appena  rilevato) che il sistema costituzionale del
 giudizio di legittimita' delle norme di legge  e  degli  atti  aventi
 forza  di  legge, pur stabilendo il chiaro limite della non manifesta
 infondatezza (l'esame della quale e' di prioritaria, quanto meno,  se
 non  anche  esclusiva,  competenza  dell'autorita' giudiziaria) delle
 questioni  di  legittimita'  costituzionale,   quale   barriera   per
 l'accesso  al  giudizio  dinanzi  alla  Corte  costituzionale, non ha
 istituito quegli altri, diversi e assai piu' stringenti, confini  che
 risultano,  invece, nella legge ordinaria.  E' allora certo che tutte
 le disposizioni della legge ordinaria (normale legge ordinaria, priva
 di qualsivoglia abnorme ed atipico carattere di super resistenza  nel
 rapporto  con  le  norme della Costituzione) 11 marzo 1953, n. 87 che
 regolano "le condizioni, le forme, i termini  di  proponibilita'  dei
 giudizi  di legittimita' costituzionale" in modo difforme dal sistema
 costituzionale che si e' sopra  individuato  sono  illegittime  nella
 stessa   fonte   e   forma   legislativa  che  le  pone  (per  quanto
 espressamente riguardante la questione di legittimita' costituzionale
 ora discussa) per palese violazione dell'art. 137, primo comma, della
 Costituzione.  Cosi' risulta illegittimo, in particolare,  l'art.  23
 della  legge 11 marzo 1953, n. 87, al quale solo si vuole limitare la
 trattazione, restando, comunque  ed  ovviamente,  integro  il  potere
 della  Corte,  nell'ipotesi di accoglimento della presente questione,
 di decidere se sussistano gli estremi per procedere  all'applicazione
 dell'ultima parte dell'art. 27 della medesima legge.
   L'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, cosi' dispone:
    "Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorita' giurisdizionale
 una  delle  parti o il pubblico ministero possono sollevare questione
 di legittimita' costituzionale mediante apposita istanza, indicando:
     a) le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di  legge
 dello   Stato   o   di   una   Regione,   viziate  da  illegittimita'
 costituzionale;
     b)   le   disposizioni   della   Costituzione   o   delle   leggi
 costituzionali che si assumono violate.  L'autorita' giurisdizionale,
 qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla
 risoluzione  della  questione  di  legittimita'  costituzionale e non
 ritenga che la  questione  sollevata  sia  manifestamente  infondata,
 emette  ordinanza  con  la  quale,  riferiti  i  termini  ed i motivi
 dell'istanza   con  la  quale  fu  sollevata  la  questione,  dispone
 l'immediata trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale  e
 sospende  il  giudizio  in  corso.    La  questione  di  legittimita'
 costituzionale puo'  essere  sollevata,  di  ufficio,  dall'autorita'
 giurisdizionale  davanti  alla  quale verte il giudizio con ordinanza
 contenente le indicazioni previste alle lettere a)  e  b)  del  primo
 comma  e  le  disposizioni  di cui al comma precedente.   L'autorita'
 giurisdizionale ordina che a cura della  cancelleria  l'ordinanza  di
 trasmissione  degli  atti  alla  Corte costituzionale sia notificata,
 quando non ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle  parti
 in  causa  ed  al  pubblico  ministero  quando  il suo intervento sia
 obbligatorio, nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri od  al
 presidente  della Giunta regionale a seconda che sia in questione una
 legge o un atto avente forza di legge dello Stato o di  una  Regione.
 L'ordinanza  viene  comunicata  dal  cancelliere  anche ai presidenti
 delle Camere del Parlamento e al presidente del  Consiglio  regionale
 interessato".    L'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87
 e' nel  suo  complesso  illegittimo,  per  la  violazione  del  tutto
 evidente dell'art.  137, primo comma, della Carta costituzionale, con
 la sola esclusione delle seguenti specifiche parti, nelle quali nulla
 dispone  in  ordine  alle  condizioni  e forme di accesso al giudizio
 dinanzi alla Corte, o si  limita  a  ribadire  immutato  quanto  gia'
 previsto dalla normativa di livello costituzionale:
     "Nel   corso   di   un   giudizio   dinanzi   ad   una  autorita'
 giurisdizionale una delle  parti  o  il  pubblico  ministero  possono
 sollevare questione di legittimita' costituzionale".
     "L'autorita'  giurisdizionale,  qualora"  ... "non ritenga che la
 questione sollevata sia manifestamente  infondata,  emette  ordinanza
 con  la  quale,  riferiti  i  termini ed i motivi dell'istanza con la
 quale fu sollevata la  questione,  dispone  l'immediata  trasmissione
 degli   atti   alla   Corte  Costituzionale"  ...  "La  questione  di
 legittimita'  costituzionale  puo'  essere  sollevata,  di   ufficio,
 dall'autorita'  giurisdizionale  davanti alla quale verte il giudizio
 con ordinanza".  In tutte le restanti parti l'art. 23 della legge  n.
 87/1953  e'  radicalmente  viziato da illegittimita' costituzionale e
 non vi e' nulla da aggiungere sulla questione ora  discussa,  poiche'
 sorretta  dalla  pura  constatazione di una realta' evidente; si deve
 soltanto chiarire che la  sua  rilevanza  nel  presente  giudizio  e'
 identica  a  quella  individuata  per  la  questione sub B4, giacche'
 anch'essa  presupposto  logico  giuridico  dell'ammissibilita'  delle
 prime tre questioni.
                       Considerazioni conclusive
   Senza  dubbio le questioni di legittimita' costituzionale sollevate
 presentano molti altri aspetti  di  grande  interesse  e,  cosi',  si
 potrebbero  ancora  esaminare  e  discutere  le  diverse elaborazioni
 dottrinarie  e  giurisprudenziali  contrastanti  con  le   tesi   qui
 affermate,   ma  la  dimensione  gia'  troppo  vasta  della  presente
 ordinanza  ne  sconsiglia  ogni  ulteriore   evoluzione,   anche   in
 considerazione del fatto che gli argomenti gia' diffusamente motivati
 non  trarrebbero  maggior  forza  dalla critica di tutte le contrarie
 posizioni.  Questo giudice remittente non intende sostenere che dalla
 trasmissione della presente ordinanza  derivi  un  obbligo  giuridico
 della  Corte costituzionale di procedere alla valutazione di tutte le
 varie  questioni  rilevate  d'ufficio,  poiche'  e'   intuitivo   che
 l'eventuale  decisione  di  accoglimento  o rigetto di alcune di esse
 rende superfluo l'esame di altre, eppure, in ultima analisi,  ritiene
 di  dover mettere l'accento sulla grande importanza e utilita' di una
 pronuncia del giudice delle leggi su tutte le questioni portate  alla
 Sua  attenzione,  considerato  che,  poiche' tutte sono riconducibili
 alla necessita' primaria di ripristinare la legalita' e di  riportare
 le regole di svolgimento del gioco (prendendo in prestito una recente
 espressione  della  dottrina),  per  tutti  gli organi istituzionali,
 all'interno della vera Costituzione della Repubblica italiana, rigida
 e formale, tutte hanno pari rilevanza e valore e tutte sono  tese  al
 fine   di   ricondurre   il   sistema   giuridico  del  controllo  di
 costituzionalita' delle leggi e degli  atti  aventi  forza  di  legge
 nell'alveo  della nostra Carta costituzionale.  Sistema nel quale, e'
 opportuno ricordarlo, se e' vero  che  e'  demandat    o  alla  Corte
 costituzionale  il  potere di decidere sulla legittimita' delle norme
 di legge e degli atti aventi forza di legge, e'  anche  vero  che  il
 primo  controllo  di  legittimita' costituzionale e' attribuito dalla
 legge all'autorita' giudiziaria,  cio'  che  ampiamente  legittima  i
 rilievi  sviluppati nel presente atto e consente di affermare che, ai
 fini della decisione alla quale e' chiamata la Corte, in  particolare
 sulle  questioni sub B1, B2 e B3, non puo' assumere rilievo giuridico
 la constatazione del fatto che da decenni si perpetuino le violazioni
 della Costituzione qui denunciate e che tale realta' sia avallata dai
 paladini  del  "diritto  vivente"  e  della  costituzione  materiale,
 poiche'  il  reiterarsi dell'errore non ne determina il superamento e
 con esso la liceita' di fatto, ma solo la maggior gravita' e la  piu'
 difficile  sanabilita'.    Parimenti  non  puo'  essere  di  ostacolo
 all'accoglimento eventuale delle questioni qui  sollevate  il  timore
 dei  vuoti  normativi conseguenti alle dichiarazioni d'illegittimita'
 costituzionale solo caducatorie, correlato al dubbio non certo  privo
 di riscontri storici della Corte costituzionale sulla reale capacita'
 o  volonta'  del  legislatore  di  riempire  i  vuoti con nuove leggi
 costituzionalmente corrette (quello  che  e'  stato  definito  horror
 vacui  da  valida  dottrina)  giacche'  e',  su tutto, prioritario il
 ripristino della legalita' e, comunque,  anche  in  caso  di  fondato
 timore  sul mancato intervento del legislatore, non e' giustificabile
 ne' la conservazione di  norme  illegittime,  ne'  la  loro  modifica
 tramite  le  sentenze  "leggi"  non  in sintonia con l'art. 136 della
 Costituzione,  poiche'  non  rispondenti  ai   poteri   ed   obblighi
 attribuiti dalla Costituzione al giudice delle leggi, mentre non puo'
 dimenticarsi, in primo luogo, che il sistema giuridico e' in grado di
 sanare  in  parte  i  vuoti normativi in sede giudiziaria, in secondo
 luogo, che  la  responsabilita'  del  legislatore  inadempiente  puo'
 essere  sanzionata  politicamente  in sede di manifestazione del voto
 popolare e,  in  terzo  luogo,  che  esistono  nella  societa'  forti
 strumenti   di  pressione  politica  per  indurre  il  legislatore  a
 legiferare.  Non sembra necessaria una  motivazione  ulteriore  sulla
 fondatezza  e  sulla rilevanza delle questioni sopra trattate, stanti
 gli  argomenti  sviluppati  in  relazione  ai   precisi   riferimenti
 normativi costituzionali indicati sui singoli temi, certo sufficienti
 per  escludere,  quanto  meno,  la  manifesta infondatezza di tutti i
 rilievi d'incostituzionalita' ampiamente discussi, i quali, comunque,
 rivestono grande importanza, sia in ordine alla ricerca della massima
 forza di resistenza della sentenza che dovra' essere emanata  per  la
 risoluzione  della  presente  controversia  (e  delle altre pendenti,
 aventi simile, o identico contenuto), sia in relazione al  necessario
 riesame  delle tesi critiche sopra esposte sulle sentenze legislative
 della Consulta, alla luce degli argomenti giuridici che, in  caso  di
 eventuale  pronuncia  negativa,  la  Corte costituzionale riterra' di
 sviluppare in sede di motivazione, giacche' questo giudice remittente
 - il quale non nasconde le sue perplessita' nel  riscontrare  che  la
 Corte  persevera nel pronunciare sentenze legislative, senza chiarire
 ove reinvenga nella Costituzione il potere di creare norme giuridiche
 vincolanti,  pur  avendo  piena  conoscenza  e  consapevolezza  delle
 critiche  formulate  nei  confronti  di tali decisioni - ben potrebbe
 mutare opinione e di certo dovrebbe, se le considerazioni della Corte
 dovessero evidenziare sostanziali errori di diritto nell'impostazione
 delle tesi qui sostenute, o  gravi  lacune  nell'individuzione  delle
 norme   di   legge   rilevanti   per   la  corretta  soluzione  delle
 problematiche discusse, tali da dimostrare in modo  incontrovertibile
 l'infondatezza   totale   dei   presupposti  logico  giuridici  della
 giurisprudenza  di  questo  pretore  sui  temi  qui  trattati.     In
 dipendenza  delle  questioni  di  legittimita' costituzionare rimesse
 all'esame della Corte costituzionale, il presente giudizio  pretorile
 deve essere sospeso, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953,
 n.    87,    tuttora    vigente,    pur    se    anch'esso   imputato
 d'incostituzionalita'.
                               P. Q. M.
   Solleva   d'ufficio   le   seguenti   questioni   di   legittimita'
 costituzionale:
     A) con riferimento al d.-l. 27 marzo 1996, n. 295:
      A1)  dell'art.  1  del  decreto-legge  n.    295  del  1996, per
 violazione dell'art. 77, ultimo comma, della  Costituzione;
      A2) dell'art. 1 del decreto-legge n.  295/1996,  per  violazione
 degli  artt.  1,  secondo comma, 70, 72, 77, primo e secondo comma, e
 136, secondo comma, della Costituzione;
      A3) dell'art. 1, commi 1, 2 e 3, del decreto-legge n.  295/1996,
 per  violazione degli artt. 102, primo  comma, 24, primo comma e 255,
 primo comma della Costituzione;
      A4) dell'art. 1 del decreto-legge n.  295/1966,  per  violazione
 dell'art.   81,  quarto  comma,  della    Costituzione,  nonche'  del
 principio di "realismo economico" desumibile dallo stesso art. 81;
      A5) dell'art. 1 del decreto-legge n.  295/1996,  per  violazione
 dell'art. 3 della Costituzione;
      A6)  dell'art.  1,  comma  3, del decreto-legge n. 295/1996, per
 violazione degli artt. 1, primo comma,  4,  primo  comma,  35,  primo
 comma, 36, primo comma, nonche' 24, primo comma, della Costituzione;
     B)  con riferimento alla normativa precedente l'entrata in vigore
 del suddetto decreto-legge:
      B1) dell'art. 22 della  legge  21  luglio  1965,  n.  903,  come
 modificato  dalla  sentenza  29-31  dicembre 1993, n. 495 della Corte
 costituzionale, per violazione dell'art. 136, primo comma, 101 e 104,
 primo comma, della  Costituzione;
      B2) dell'art. 30, terzo comma, della legge  11  marzo  1953,  n.
 87, per violazione dell'art. 136, primo comma, della Costituzione;
      B3)  dell'art.  22  della  legge  21  luglio  1965, n. 903, come
 modificato dalla sentenza n. 495/1993 della Corte costituzionale, per
 violazione dell'art. 81, ultimo comma, della Costituzione;
      B4)  in  via  preliminare,  rispetto  alle  questioni precedenti
 individuate sub B1, B2 e B3, ove prevede che  "il giudizio non  possa
 essere  definito  indipendentemente dalla risoluzione della questione
 di legittimita' costituzionale" e limitatamente  a  tale  parte,  per
 violazione dell'art.  134, nonche' degli artt. 101, 104, primo comma,
 e 111 della  Costituzione;
      B5)  sempre  in  via  preliminare  e  con gli stessi riferimenti
 indicati sub B4, dell'art. 23 della legge ordinaria 11 marzo 1953, n.
 87, nelle parti che stabiliscono condizioni e forme di proponibilita'
 dei giudizi di legittimita' costituzionale, come meglio precisato  in
 motivazione,   per   palese   violazione   della   riserva  di  legge
 costituzionale   prevista   dall'art.   137,   primo   comma,   della
 Costituzione;
   Sospende il giudizio e ordina la trasmissione degli atti alla Corte
 costituzionale,  disponendo  la notifica al  Presidente del Consiglio
 dei Ministri, oltre alla comunicazione ai Presidenti delle due Camere
 del Parlamento,   nonche' la notifica  all'Istituto  nazionale  della
 previdenza sociale;
   Manda alla cancelleria per l'esecuzione.
     Brescia, addi' 18 giugno 1996
                            Il pretore: Onni
 96C1785