N. 88 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 ottobre 1996
N. 88 Ordinanza emessa il 22 ottobre 1996 al pretore di Camerino nel procedimento penale a carico di Sordoni Rosanna ed altri Paesaggio (tutela del) - Divieto di modificazione del territorio in zone di valore paesaggistico ed ambientale, senza la prescritta autorizzazione - Previste sanzioni penali - Lamentato egual trattamento in caso di autorizzazione sopravvenuta - Irragionevolezza - Ritenuta indeterminatezza della fattispecie penale - Unicita' della norma penale incriminatrice con varie (o variamente interpretabili) sanzioni - Conseguente possibile egual trattamento per situazioni diverse o diverso trattamento per eguali situazioni - Estensione della tutela paesaggistica a beni privi di tale carattere - Possibile incidenza sulla liberta' personale, in funzione promozionale del diritto penale. (Legge 8 agosto 1985, n. 431, artt. 1-ter e 1-sexies; legge 29 giugno 1939, n. 1497, art. 7). (Cost., artt. 3, 9, 13, 25 e 27).(GU n.10 del 5-3-1997 )
IL PRETORE Ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo, la seguente ordinanza nei confronti di Sordoni Rosanna, nata il giorno 15 luglio 1955 ad Ancona, ivi residente in via Candia n. 140/H; libera, presente; Fiori Stefania, nata il giorno 17 gennaio 1963 a Porto Potenza Picena (Macerata), ivi residente in via G.B. Pergolesi n. 5; libera, contumace; Gravina Renato, nato il giorno 15 novembre 1954 a Montecassiano (Macerata), ivi residente in via A. Manzoni n. 16/A; libero, contumace; Gravina Pasquale, nato il giorno 1 dicembre 1951 a Battipaglia (Salerno), residente in Montecassiano (Macerata), via Mattei n. 14; libero, presente; imputati del reato p. e p. di cui agli artt. 1-ter, 1-sexies legge n. 431/1985, perche', le prime due quali committenti, gli altri quali esecutori dei lavori realizzavano abusivamente una veranda in legno sopra il terrazzo di copertura del garage, in zona sottoposta a vincolo paesaggistico in forza di decreto ministeriale del 9 febbraio 1976 e di delibera del consiglio regionale n. 8 del 23 dicembre 1985. In Ussita acc. Il 26 luglio 1995. Con l'intervento del p.m. in persona della dott.ssa Lorella Appignanesi, vice procuratore onorario, all'uopo delegato. Le parti concludevano nel modo che segue: il p.m. chiede affermarsi la penale responsabilita' degli imputati in relazione alla fattispecie loro ascritta e condannarsi ciascuno degli stessi al minimo edittale della pena. Il difensore dell'imputato Gravina Pasquale, avv. Claudio Netti, del foro di Macerata, chiede dichiararsi non doversi procedere a carico del suo assistito in relazione alla fattispecie ascrittagli per estinzione del reato a seguito di intervenuta autorizzazione in sanatoria. Il difensore degli imputati Sordoni Rosanna, Fiori Stefania e Gravina Renato, dott.ssa proc. Letizia Cimini, del foro di Macerata, si associa alle conclusioni dell'avv. Netti. Fatto e diritto In data 9 marzo 1996, l'ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale di Camerino emetteva decreto di citazione a giudizio, recante il n. 992/1995 registro generale notizie di reato (mod. 22), con cui Sordoni Rosanna, Fiori Stefania, Gravina Renato e Gravina Pasquale, meglio qualificati in epigrafe, venivano convocati dinanzi a questa A. G. per rispondere della fattispecie, meglio individuata in rubrica. In particolare, si contestava ai quattro, le prime due in qualita' di proprietarie committenti, il terzo ed il quarto, invece, in veste di esecutori dei lavori, di aver realizzato una veranda al di sopra di una tettoia di copertura di un garage in territorio del comune di Ussita in assenza delle preventive autorizzazioni a fini edilizi ed a fini ambientali. All'odierna udienza, avuta la presenza dei soli imputati Sordoni Rosanna e Gravina Pasquale, veniva aperto il dibattimento. In esito all'esposizione introduttiva, si procedeva all'espletamento dell'istruttoria dibattimentale, che si compendiava nell'esame dei testi indotti dal p.m. e nell'acquisizione della documentazione prodotta dalla difesa degli imputati. Terminata l'istruttoria dibattimentale, le parti concludevano come da separato verbale. L'esame delle risultanze dell'istruttoria dibattimentale consente di apprezzare quanto segue. In data 26 luglio 1995, Puccia Vincenzo, mandante della stazione dei carabinieri di Ussita, compiva, a seguito di segnalazione telefonica, un'ispezione in localita' Cuore di Sorbo del comune di Ussita, ove si stavano svolgendo dei lavori di costruzione di una veranda, in legno "pino di Svezia", al di sopra di tettoia di copertura di un garage di un immobile, gia' edificato in loco; i lavori erano condotti dalla ditta di Gravina Renato e Pasquale: i lavori medesimi erano stati commissionati alla ditta summenzionata dalle proprietarie dell'immobile, le signore Sordoni Rosanna e Fiori Stefania. Secondo le successive indagini, i lavori di edificazione della veranda erano stati intrapresi in assenza di autorizzazione edilizia e di autorizzazione paesaggistica. Le circostanze storiche or ora riferite sono state narrate con estrema precisione dal teste Puccia Vincenzo (v. in atti) e trovano conferma nelle dichiarazioni della testimone Ortenzi Patrizia, dirigente dell'ufficio tecnico del comune di Ussita, esaminata nel corso dell'odierna udienza (v. in atti). Orbene, quanto precede fonda il convincimento di questo giudicante circa la sussistenza della materialita' della fattispecie contestata agli odierni imputati: nessun dubbio puo' nutrirsi che i lavori intrapresi, relativi all'edificazione della veranda sopra identificata, non formava oggetto di alcun provvedimento di autorizzazione ovvero concessione, rilasciato dalle competenti autorita'. Si consideri, infatti, che la veranda suddetta ricadeva in zona soggetta alla tutela paesaggistica, alla stregua di d.m. 9 febbraio 1976 e di delibera del Consiglio regionale del 23 dicembre 1985, recante il numero 8 (v., in atti, dichiarazioni, rese dalla teste Ortenzi Patrizia). L'autorizzazione ambientale, di cui all'art. 7 legge n. 1497/1939, ha per oggetto, a seguito delle innovazioni apportate con legge n. 431/1985, tutti gli interventi effettuati nelle zone vincolate, oggetto della peculiare tutela predisposta dal legislatore: nessun dubbio, pertanto, che i lavori di edificazione della veranda al di sopra della tettoia di copertura del garage dovessero essere oggetto di nuova autorizzazione e che senza l'apposito provvedimento amministrativo i lavori prefati si sarebbero presentati come illegittimi. La sussistenza dell'elemento subbiettivo della fattispecie in disamina appare desumibile dalla circostanza che i responsabili dei lavori si attivarono per ottenere dalla competente autorita' l'autorizzazione, di cui all'art. 7 legge n. 1497/1939, relativa ai lavori oggetto dell'imputazione (intrapresi, lo si rammenti, prima del rilascio del provvedimento autorizzatorio): cio' appare indice della consapevolezza della necessita' del provvedimento surrichiamato al fine del compimento dei lavori, sicche' non puo' dubitarsi che l'inizio degli stessi in assenza di autorizzazione sia comportamento ascrivibile alla volontarieta' dei prevenuti, dovendosi ravvisare nella condotta degli stessi, quanto meno, un profilo di colpevole leggerezza. A nulla rileva che, in epoca successiva al controllo operato dal comando della Stazione dei Carabinieri di Ussita, l'Amministrazione comunale di Ussita (rectius: il sindaco del comune di Ussita) ebbe a rilasciare l'autorizzazione richiesta, relativa ai lavori sopra identificati (v., in atti, copie fotostatiche delle delibere, recanti i nn. 29 e 15 del 1995, rispettivamente rese in data 27 settembre 1995 ed in data 28 settembre 1995). Si consideri, a tal proposito, che la fattispecie preveduta dall'art. 1-sexies della legge 8 agosto 1985, n. 431, costituisce, secondo le acquisizioni della consolidata giurisprudenza di legittimita' e della maggioritaria dottrina, reato di pericolo e non di danno, tendendo la normativa in disamina a vietare tutti gli interventi tout court, i quali abbiano potenzialita' di immutazione dello stato dei luoghi, oggetto della protezione legislativa. Proprio quanto precede, peraltro, impone di valutare la questione concernente l'illegittimita' costituzionale dell'art. 1-sexies della legge 8 agosto 1985, n. 431. La norma incriminatrice contestata infatti, l'art. 1-sexies del d.-l. 27 giugno 1985, n. 312 (convertito nella legge 8 agosto 1985, n. 431), nell'interpretazione che di essa fornisce il cosiddetto droit vivant, colpisce con le sanzioni penali previste dall'art. 20 legge n. 47/1985 la violazione delle disposizioni introdotte dalla legge n. 431/1985, indipendentemente dalla circostanza che, nell'ipotesi in cui l'opera eseguita non sia stata preventivamente autorizzata, l'autorizzazione - e con essa l'accertamento della inesistenza di qualsivoglia minaccia all'integrita' del bene tutelato - intervenga successivamente. Tale e' infatti la conclusione ricavabile dalla norma in esame, siccome oggetto dell'ormai cristallizzata interpretazione fornitane dalla suprema Corte (v., in proposito, Cass., sez. III penale, 5 maggio-11 giugno 1992, Ferrero: "la legge n. 431 del 1985 ha dettato un complesso di disposizioni particolarmente restrittive, dirette a tutelare in modo rigoroso non soltanto l'aspetto paesistico del territorio, in coincidenza con l'interesse garantito dalla Carta fondamentale all'art. 9, ma l'intero assetto ambientale, sia pure sotto il prevalente profilo de quo", v. Cass., 3 gennaio 1991, Francucci; "In questa prospettiva la costruzione del reato di violazione della legge de qua (...) prescinde completamente dall'accertamento di un reale danno al tessuto preesistente. (...) In siffatto quadro la sopravvenienza dell'atto da' luogo ad una sanatoria soltanto amministrativa e non anche penale. Questa interpretazione ha anche una sua coerenza coincidente con la ratio della legge. Si vuole stimolare il cittadino al rispetto dell'ambiente e delle regole all'uopo predisposte, inducendolo a far transitare ogni sua piu' rilevante iniziativa attraverso il vaglio dell'autorita' competente". Cass., 5 maggio-11 giugno 1992, Ferrero, cit.). Si consideri, ancora, che il legislatore non ha espressamente attribuito efficacia estintiva del reato al provvedimento amministrativo favorevole sopravvenuto, a differenza di quanto ha fatto in materia urbanistica con l'art. 22 della legge n. 47/l985. Cio' costituirebbe il chiaro indice di una voluntas legis improntata a disfavore nei confronti di provvedimenti di "sanatoria" post operas in materia paesaggistica. La legittimita' costituzionale di questa disposizione, nell'interpretazione ora riferitane, e' stata sottoposta al vaglio della Consulta in piu' occasioni e con riferimento a diversi profili, onde appare opportuno - oltreche' metodologicamente doveroso - ripercorrerne brevemente la vicenda. L'ordinanza n. 431 del 1991, affrontando il problema della difformita' del trattamento sanzionatorio delle diverse, possibili violazioni della disciplina di tutela del paesaggio (nel senso che l'art. 1-sexies sarebbe applicabile soltanto alle violazioni relative ai beni individuati per categorie astratte dalla stessa legge n. 431/1985, e non anche a quelle relative a beni la cui rilevanza paesaggistica e' stata in concreto accertata dall'autorita' amministrativa come previsto dal sistema introdotto dalla legge n. 1497/1939), ha giustificato l'indicata difformita' sulla base della considerazione che la legge n. 431/1985 ha introdotto un regime di tutela paesaggistica completamente diverso - quanto ai criteri di individuazione dei beni tutelati ed alle caratteristiche della tutela - rispetto a quello stabilito dalla legge n. 1497/1939, per cui, trattandosi di "violazioni operanti su piani diversi", ben si giustifica la difformita' del trattamento sanzionatorio. Peraltro l'ordinanza in esame, pur affermando la radicale diversita' del nuovo regime di tutela sotto il profilo dei meccanismi di individuazione dei beni tutelati ex art. 9 della Costituzione, non si e' discostata, quanto al fondamento costituzionale di detta tutela ed ai conseguenti criteri valutativi che consentono al legislatore ordinario di vincolare questo o quel bene, dalla precedente giurisprudenza costituzionale in materia: l'esplicito riconoscimento, operato mediante rinvio alla precedente sentenza n. 151 del 1986, del "valore estetico-culturale" quale fondamento costituzionale della tutela del paesaggio, e' perfettamente coerente con l'impostazione culturale fatta propria dalla Corte costituzionale in materia di individuazione dei caratteri differenziali delle tutele, ad un tempo differenziate ed interferenti, insistenti sul medesimo ambito territoriale, nel senso che tra i possibili regimi di tutela quello che trova il suo fondamento nell'art. 9, secondo comma, della Costituzione si caratterizza per il fatto di avere ad oggetto la cura dell'interesse estetico-culturale (cosi' Corte cost., 26 aprile 1971, n. 79; 6 luglio 1972 n. 142; e, in particolare, 29 dicembre 1982, n. 239, dove l'affermazione che la Costituzione "... accomuna la tutela del paesaggio a quella del patrimonio storico ed artistico e detta il suo precetto, come gia' rilevato da parte della dottrina, ai fini di proteggere e migliorare i beni (culturali) suddetti e contribuire cosi' all'elevazione intellettuale della collettivita'"). Questa ricostruzione, pertanto, prende posizione nel dibattito fra le contrapposte tesi, tendenti rispettivamente a qualificare come beni paesaggisticamente rilevanti - e come tali legittimamente assoggettabili alla relativa disciplina - soltanto i cosiddetti quadri naturali, ovvero a ritenere imprescindibile l'azione della comunita' nella definizione di una nozione di paesaggio individuata nella cosiddetta forma del paese: il superamento di queste posizioni, mediante la valorizzazione del profilo dell'interesse posto a fondamento della tutela, consente di affermare che il dato materiale costituito dal suolo assume rilevanza paesaggistica (e diviene pertanto meritevole dell'apposita tutela) a seguito di un giudizio di carattere estetico-culturale, che nel sistema della legge n. 1497/1939 era rimesso alla competente autorita' amministrativa. Nella successiva sentenza n. 67 del 1992, la Corte costituzionale precisa ulteriormente tale profilo: il criterio di individuazione dei beni paesaggisticamente rilevanti introdotto dalla legge n. 431 del 1985, e basato non sull'effettivo accertamento della rilevanza estetico-culturale ma sulla indicazione di una serie di categorie di beni che in via astratta e presuntiva dovrebbero avere tali caratteri (che ne giustificano l'assoggettamento al regime di tutela siccome previsto dall'art. 9 della Costituzione), ha il suo necessario presupposto nel completamento della disciplina ad opera dell'attivita' di pianificazione demandata alle regioni, sulla base della quale "... possono essere disposte discipline differenziate". Questa impostazione e' stata poi coerentemente sviluppata nelle successive pronunzie relative alla disposizione in esame. Nella sentenza n. 122 del 1993, con riferimento al fatto che il richiamo operato quoad poenam dall'art. 1-sexies legge n. 431/1985 all'art. 20 legge n. 47/1985 non consente di individuare con esattezza quale delle sanzioni contemplate dalla norma richiamata si applichi alla violazione del precetto, si e' affermato che, in ogni caso, "... l'accentuata severita' di trattamento, che puo' aversi in taluni casi per effetto del carattere non differenziato della disciplina, trova giustificazione nella entita' sociale dei beni protetti e nel carattere generale, immediato e interinale della tutela che la legge ha inteso apprestare". Nella sentenza n. 269 del 1993, che affronta direttamente l'ipotesi di costruzione in zona vincolata in assenza dell'autorizzazione paesaggistica, poi sopravvenuta, nell'estendere - peraltro con motivazione assolutamente tautologica - le ragioni poste a fondamento delle precedenti dichiarazioni di infondatezza all'indicata fattispecie, si afferma che in dette pronunzie la Corte "... non ha mancato di precisare di riconoscere congruita' e ragionevolezza alla disciplina anche in relazione al suo palese carattere interinale. Non puo' negarsi infatti che l'applicazione della normativa sulla protezione ambientale abbia posto in evidenza alcuni problemi, segnalando in particolare l'opportunita' di definire le previsioni sanzionatorie in modo che consentano di discriminare meglio il trattamento punitivo in relazione alla effettiva gravita' dei fatti. E' dunque auspicabile che, tenuto conto dell'ormai prolungata vigenza della disciplina, il legislatore provveda ad un adeguato riesame della stessa alla luce delle questioni che via via si sono andate ponendo". Orbene, non essendo intervenuto, nel frattempo, l'auspicato intervento legislativo, e permanendo pertanto gli indicati profili di incongruita' della normativa in esame, sono venute meno, ad avviso di questo giudicante, le ragioni poste a fondamento della giurisprudenza costituzionale fin qui riportata. Il primo dei profili di incostituzionalita' e' relativo al principio di legalita' di cui all'art. 25, secondo comma, della Costituzione, ed in particolare alla sua proiezione in termini di sufficiente determinatezza della fattispecie con riferimento al richiamo operato quoad poenam dall'art. 1-sexies all'art. 20 legge n. 47/1985. Nell'escludere il contrasto con tale principio della norma in esame, la Corte costituzionale, nella richiamata sentenza n. 122 del 1993, ha motivato sulla base del richiamo al diritto vivente, con riferimento al fatto che il carattere univoco della giurisprudenza, nel senso di ritenere applicabile la sanzione di cui all'art. 20, lettera c), "... fuga ogni preoccupazione di incertezza circa le conseguenze penali della violazione della norma impugnata". L'affermazione surriportata non ha evidentemente tenuto conto della sentenza 5 maggio-11 giugno 1992 della terza sezione penale della Corte di cassazione (ricorrente Ferrero), la quale ha affermato che il richiamo de quo non riguarda la sola lettera c) ma tutte le ipotesi contemplate nell'art. 20 legge n. 47/1985, giacche' "... il legislatore non ha voluto inserire alcun puntuale richiamo alle varie lettere dell'art. 20, lasciando tale compito all'attivita' interpretativa del giudice". La conseguenza e' che giudici diversi potrebbero applicare a fatti diversi le stesse sanzioni ed agli stessi fatti sanzioni diverse, unica essendo la norma penale incriminatrice contenente il precetto, ma varie (e variamente interpretabili: la decisione citata ne e' un esempio) le sanzioni. Il secondo profilo attiene al contrasto fra la disposizione in esame e l'art. 9, secondo comma, della Costi-tuzione. La sentenza n. 239 del 1982 della Corte costituzionale, di cui si e' riportato un passo significativo, aveva con chiarezza evidenziato come il fondamento costituzionale della tutela paesaggistica implicasse la legittimita' esclusivamente di quei regimi di tutela che di tale fondamento estetico-culturale tenessero conto, o, meglio, che ad esso preordinassero il loro contenuto ed il loro scopo. Ora, non puo' dirsi che l'art. 1-sexies della legge n. 431/1985, nel colpire con la sanzione penale anche gli interventi di cui sia stata accertata - con autorizzazione sopravvenuta - la compatibilita' con i valori estetico-culturali del bene su cui insistono, persegua una finalita' di tipo paesaggistico, nel senso ora visto. L'equivoco di fondo che consente la sopravvivenza di questa palese violazione della Carta fondamentale nasce, forse, per effetto dell'aggiunta dell'aggettivo ambientale alla nozione di tutela paesaggistica: il metodo generalizzante utilizzato dal legislatore della legge n. 431/1985 per individuare i beni paesaggisticamente rilevanti avrebbe avuto l'effetto, secondo tale prospettazione, di mutare i connotati (e la natura) della tutela in questione, consentendo l'utilizzazione dei relativi strumenti (anche) per la protezione di una non meglio definita nozione di ambiente. Questa conclusione non puo' essere accolta. In primo luogo perche' la nozione di ambiente, da un punto di vista giuridico, ha valore puramente convenzionale, indicando il fenomeno della compresenza in un medesimo spazio fisico di diversi elementi materiali, a ciascuno dei quali corrisponde una tutela giuridica differenziata in ragione non gia' (o non solo) delle caratteristiche ontologiche di ogni singolo elemento, ma piuttosto del profilo dell'interesse ad esso afferente (la riferita impostazione della dottrina e' accolta da Corte cost., n. 239 del 1982). In secondo luogo, perche' mai una legge ordinaria che modificasse i criteri di individuazione dei beni tutelati potrebbe mutare l'oggetto della tutela siccome individuato dalla Costituzione. L'accertamento del carattere estetico-culturale puo', in altre parole, essere condotto in tutte le forme che la discrezionalita' del legislatore ritenga di individuare, ma deve pure esserci, affinche' siano legittimamente esercitate le potesta' - compresa quella punitiva - finalizzate (soltanto) alla tutela di tale valore. L'estensione, operata dal legislatore ordinario sul presupposto di una temporaneita' rimasta ormai lettera morta, degli strumenti di tutela paesaggistica a beni (e ad interventi su beni) privi di tale carattere, e per finalita' ad esso estranee (il controllo dell'uso del territorio, o di parti di esso), non autorizza ad affermare una pretesa evoluzione della materia del paesaggio verso gli incerti (e in realta' inesistenti) confini della nozione giuridica di ambiente, implicando semmai - ove si ritenesse, appunto, che i vincoli e le sanzioni dettati dalla disciplina paesaggistica colpiscano fattispecie in cui difetta, rispettivamente, il pregio estetico-culturale ovvero la lesione di esso - l'illegittimita' costituzionale, per violazione dell'art. 9, secondo comma, della Costituzione delle relative disposizioni della legge ordinaria. Il profilo di illegittimita' costituzionale ora indicato determina una importante conseguenza. Chiarita la natura del bene tutelato dalla norma incriminatrice, che non e' dunque l'integrita' del tessuto ambientale (tutelata, nelle sue diverse componenti, dalla disciplina urbanistica, da quella sull'inquinamento, ecc.) ma il patrimonio estetico-culturale del paese, occorre verificare le implicazioni della ricostruzione giurisprudenziale della fattispecie criminosa in esame nei termini descritti dalle richiamate decisioni della Corte di cassazione. Non puo' non rilevarsi una irragionevolezza della disposizione in esame, nella parte in cui sottopone alla medesima sanzione sia l'ipotesi di esecuzione di un'opera priva di autorizzazione (perche' non richiesta o per essere l'opera medesima non assentibile), sia quella in cui l'opera eseguita sia stata successivamente autorizzata. La precedente pronunzia di rigetto non presenta, sul punto, una motivazione particolarmente approfondita. La giurisprudenza della Corte di cassazione citata allega invece motivazioni del tutto formalistiche, fondate su un parallelo fra autorizzazione paesaggistica e concessione edilizia che pare improponibile, attesa la profonda differenza strutturale dei vincoli che ciascuno di tali provvedimenti e' chiamato a rimuovere (Corte costituzionale, sentenza n. 56 del 1968), e prima ancora la diversita' delle materie - e dei relativi principi - cui detti provvedimenti afferiscono "... diversita di scopi, di presupposti e di oggetto..." evidenziata peraltro nella sentenza n. 269 del 1993 della Corte costituzionale). La sopravvenienza dell'autorizzazione, se non e' tale da escludere la messa in pericolo del bene tutelato (sia pure con tutte le riserve fin qui espresse in ordine alla sussistenza di questo), pur tuttavia ne esclude certamente la lesione. Ne consegue che il trattamento sanzionatorio risulta il medesimo, pur in presenza di una cosi' rilevante difformita' delle modalita' di aggressione al bene tutelato. Se cio' si riveli ancora giustificato e giustificabile in considerazione dell'asserito carattere temporaneo della disciplina, ovvero della fiducia nell'intervento riequilibratore del legislatore, e' questione ormai di agevole soluzione. La configurazione del reato in esame come reato di pericolo, e precisamente di pericolo astratto o presunto, anche in considerazione delle argomentazioni fin qui sviluppate con riferimento alle difficolta' di individuazione del bene tutelato, pone un problema di compatibilita' con il principio di necessaria offensivita' del reato, desumibile dal plesso normativo costituito dagli artt. 3, 25, 27 e 13 della Costituzione. La teorica dell'offensivita' del reato si fonda, come e' noto, su diversi percorsi ermeneutici. Da un lato si ritiene che gli artt. 25 e 27 della Costituzione, nel prevedere come conseguenze della violazione della legge penale una duplice tipologia di sanzioni, in funzione del tipo di violazione (nel senso di escludere l'applicazione della pena ai fatti di mera disubbidienza), impedirebbero la punibilita' (ma non l'irrogazione di misure di sicurezza) dei fatti inoffensivi. D'altro canto si sostiene che il sacrificio della liberta' personale, garantita dall'art. 13 della Costituzione, non possa ammettersi se non per l'esigenza di tutelare un concreto interesse. Quale che sia l'impostazione preferibile, la dottrina concorda su di un punto: il principio di necessaria offensivita' del reato puo' subire deroghe, laddove sia necessario anticipare la tutela sino alla soglia della astratta pericolosita' in considerazione della natura del bene, salvo pero' a recuperare sul piano della tipicita' il deficit di lesivita' delle condotte incriminate. Al contrario la normativa in esame si rivela estremamente carente sotto questo profilo, sia con riferimento al precetto che alla sanzione. Il rischio e' che la limitazione del bene inviolabile della liberta' personale non avvenga, nella materia de qua agitur, in un'ottica di bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti, ma piuttosto nella prospettiva di una funzione promozionale del diritto penale, evocata dalla giurisprudenza della Cassazione citata in precedenza, al punto che, al di la' dell'affermazione o meno della sua incostituzionalita', v'e' da chiedersi quanto tale regime sia di effettivo giovamento alla tutela del bene protetto. Si consideri che, in tale ottica, si finirebbe per punire in maniera sproporzionata all'effettiva lesivita' della condotta criminosa, con lesione anche del finalismo rieducativo della sanzione criminale, che impone la comminatoria di pene adeguate al disvalore sociale delle fattispecie illecite. Inoltre, si ponga mente alla circostanza che, laddove un danno ambientale si sia verificato e risulti applicabile la norma di cui all'art. 734 c. p., il soggetto verrebbe sanzionato con una pena che potrebbe risultare inferiore a quella comminabile al soggetto che ha posto in essere una condotta che, seppur formalmente priva dei requisiti di legge, appare, in concreto, tutt'affatto sfornita delle caratteristiche lesive dell'interesse giuridico tutelato, proprie del comportamento sanzionato dall'art. 734 c. p., con evidente conflitto con il principio di eguaglianza sostanziale di cui al secondo comma dell'art. 3 della Costituzione.
P. Q. M. Visti gli artt. 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87 dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 1-ter e 1-sexies della legge 8 agosto 1985, n. 431, 7 della legge 29 giugno 1939, n. 1497 per violazione del disposto degli articoli 3, 9, 13, 25 e 27 della Costituzione, come da motivazione. Camerino, addi' 22 ottobre 1996 Il pretore: Semeraro 97C0200