N. 110 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 dicembre 1996
N. 110 Ordinanza emessa il 12 dicembre 1996 dal tribunale amministrativo regionale della Calabria sul ricorso proposto da Primaverile Antonio contro il questore di Vibo Valentia Sicurezza pubblica - Autorizzazioni di polizia - Licenza di porto d'armi - Possibilita' di revoca a chi non dia affidamento di non abusare delle armi - Dedotta genericita' ed indeterminatezza dei parametri di verifica - Lesione dei diritti inviolabili dell'uomo - Violazione dei principi di eguaglianza e di imparzialita' e buon andamento della pubblica amministrazione - Riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 440/1993. (R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 11 e 43). (Cost., artt. 2, 3 e 97).(GU n.12 del 19-3-1997 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso n. 2037 del 1996, proposto da Primaverile Antonio, rappresentato e difeso dall'avv. Antonio Fusca', per il presente giudizio elettivamente domiciliato in Catanzaro, alla via dei Bizantini, presso lo studio dell'avv. Maurizio Arabia, contro, il questore di Vibo Valentia, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Catanzaro per l'annullamento del decreto emesso dal questore di Vibo Valentia in data 2 luglio 1996 e notificato il successivo 8 luglio, con il quale veniva revocata la licenza di porto di fucile rilasciata dal commissariato di P.S. di Vibo Valentia il 22 settembre 1994; nonche' di ogni altro atto connesso, presupposto e conseguenziale; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'amministrazione resistente; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Relatore alla camera di consiglio del 12 dicembre 1996 il dott. Roberto Politti; uditi altresi l'avv. dello Stato Scaramuzzino per l'amministrazione residente; Ritenuto in fatto ed in diritto quanto segue: F a t t o Espone il ricorrente che in data 13 marzo 1996 il figlio Primaverile Francesco veniva tratto in arresto con contestazione del reato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti; al medesimo venivano concessi gli arresti domiciliari presso l'abitazione paterna. I carabinieri della stazione di Briatico procedevano quindi al sequestro di talune armi di pertinenza del ricorrente Primaverile Antonio, avuto riguardo alla possibilita' che il figlio Francesco potesse abusarne durante la durata della misura restrittiva. Con provvedimento del 5 aprile 1996 il g.i.p. presso il tribunale di Roma revocava gli arresti domiciliari. Il successivo 27 giugno l'odierno ricorrente rivolgeva al prefetto di Vibo Valentia istanza di dissequestro delle armi dal medesimo legittimamente detenute. Avverso l'impugnato provvedimento - con il quale la predetta autorita', in luogo di accedere alla predetta richiesta, ha invece disposto la revoca della licenza di porto di fucile rilasciata al Primaverile Antonio nel 1994 - vengono dedotti i seguenti profili di censura: Violazione di legge. Carenza di motivazione. Eccesso di potere, illogicita' manifesta. Illustra in proposito il ricorrente come nell'atto adottato dal questore di Vibo Valentia sarebbe stata operata una non corretta interpretazione delle disposizioni di cui agli artt. 11 e 43 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (approvato con r.d. 18 giugno 1931 n. 773), nella parte in cui viene disciplinata la revocabilita' del gia' rilasciato porto d'armi. Contesta l'interessato che, fuori dall'ipotesi del ricorrere di condanna penale, possa essere configurata nella fattispecie all'esame la possibilita' che il titolare della licenza non dia affidamento di abusare delle armi (contemplata dall'ultimo comma del menzionato art. 43). Osserva infatti il ricorrente come il provvedimento in esame sia stato giustificato dalla sola circostanza della coabitazione del medesimo con il figlio Francesco, condannato dal tribunale di Roma per detenzione di sostanze stupefacenti con sentenza del 16 settembre 1996 (reato che non rientra, peraltro, nella casistica contenuta nelle disposizioni in precedenza richiamate). Nel rilevare come l'intervenuta cessazione della predetta coabitazione abbia comunque determinato il venir meno della circostanza sulla quale e' fondato l'impugnato provvedimento, conclude la parte ricorrente insistendo per l'accoglimento del gravame ed il conseguente annullamento del censurato atto. L'ammistrazione resistente, costituitasi in giudizio, ha eccepito l'infondatezza delle esposte doglianze, invocando la reiezione del gravame. La domanda di sospensione dell'esecuzione dell'atto impugnato, dalla parte ricorrente proposta in via incidentale, e' stata da questo tribunale accolta con ordinanza pronunziata in pari data. Il ricorso viene ritenuto per la decisione alla camera di consiglio del 12 dicembre 1996. D i r i t t o 1. - l'impugnato provvedimento in data 2 luglio 1996 - con il quale il questore di Vibo Valentia ha revocato la licenza di porto di fucile rilasciata in favore del ricorrente Primaverile Antonio il 22 settembre 1994 dal commissariato di P.S. del predetto capoluogo - e' motivato con riferimento alla coabitazione del citato soggetto con il figlio Francesco, "detenuto agli arresti domiciliari con ordinanza emessa dal tribunale di Roma, perche' responsabile del reato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti" ed alla conseguente valutazione, operata dall'autorita' emanante, che quest'ultimo "possa abusare delle armi detenute legalmente dal padre". Le disposizioni nella fattispecie applicate dal questore di Vibo Valentia sono contenute negli artt. 11 e 43 del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (approvato con r.d. 18 giugno 1931 n. 773). Il primo dei menzionati articoli di legge prevede (conuni III e IV) che "le autorizzazioni di polizia possono essere negate a chi ha riportato condanna per delitti contro la personalita' dello Stato o contro l'ordine pubblico, ovvero per delitti contro le persone commessi con violenza, o per furto, rapina, estorsione, sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, o per violenza o resistenza all'autorita', e a chi non puo' provare la sua buona condotta", ulteriormente disponendosi che "le autorizzazioni devono essere revocate quando nella persona autorizzata vengono a mancare, in tutto o in parte, le condizioni alle quali sono subordinate, e possono essere revocate quando sopraggiungono o vengono a risultare circostanze che avrebbero imposto o consentito il diniego della autorizzazione". Il successivo art. 43, nel contemplare talune fattispecie di condanna penale, al ricorrere delle quali non puo' essere conceduta la licenza di portare armi, prevede altresi' (ultimo comma) che siffatta licenza possa essere ricusata ai condannati per delitto diverso da quelli sopra menzionati e a chi non possa provare la sua buona condotta o non dia affidamento di non abusare delle armi. 2. - Cosi' individuato il quadro normativo di riferimento ai fini della delibazione della sottoposta vicenda contenziosa, ritiene il tribunale che la controversia non possa essere definita indipendentemente dalla previa sottoposizione al giudizio di legittimita' costituzionale delle illustrate previsioni di cui agli artt. 11 e 43 del T.U.L.P.S., nella parte in cui consentono alla pubblica autorita' di disporre la revoca della licenza di portare armi nei confronti di soggetti che non diano affidamento di non abusare delle armi. La rilevanza della questione che questo tribunale intende sottoporre al giudizio della Corte costituzionale appieno viene in considerazione dal momento che il provvedimento nella fattispecie impugnato si fonda appunto sull'asserita presenza dell'illustrata circostanza: al ricorrere della quale il questore di Vibo Valentia ha disposto la revoca della licenza di porto di fucile in precedenza rilasciata al ricorrente Primaverile Antonio. Il presupposto tenuto presente dall'autorita' emanante vieppiu' rileva ove si tenga conto che, secondo quanto esposto nella motivazione del provvedimento impugnato, il soggetto per il quale viene manifestato il convincimento circa la possibilita' di abuso delle armi non e' il titolare della licenza, ma il figlio con il medesimo convivente. Tale elemento di fatto consente di argomentare, con carattere di assorbente e preliminare pregnanza rispetto alla configurazione normativa delle anzidette previsioni, come esse comportino una nozione "estesa" - quanto "indeterminata" - della fattispecie sostanziata dall'"idoneita' all'abuso delle armi" suscettibile di essere interpretata (come comprovato dal provvedimento in esame) con riferimento non gia' alla sola persona (rectius: alle qualita' e condizioni personali) del titolare dell'autorizzazione di polizia, ma anche ad altri soggetti ad esso legati da rapporti di parentela o di mera convivenza. Proprio l'applicazione che il questore di Vibo Valentia ha inteso operare con riferimento alle illustrate disposizioni di cui agli artt. 11 e 43 del T.U.L.P.S. - e nell'ambito dell'ampio apprezzamento che tali disposizioni consentono - induce questo tribunale a dubitarne della legittimita' costituzionale: avuto riguardo alla presenza di un'indicazione a "fattispecie generica" (quali appunto "il mancato affidamento di non abusare delle armi") la quale ben puo' indurre, in assenza di sicuri parametri di riferimento, ricadute applicative idonee a vulnerare posizioni giuridiche garantite a tutti i cittadini dalla Carta costituzionale. 3. - Non puo' non darsi preliminarmente atto della presenza di un costante orientamento della giurisprudenza amministrativa, in base al quale viene riconosciuto all'esercizio del potere attribuito dalle disposizioni in esame un'ampia latitudine di discrezionale apprezzamento, la cui sindacabilita' nell'ambito del giudizio di legittimita' viene ad essere, per l'effetto, significativamente limitata. Tale convincimento e' stato ribadito anche da una recente decisione del Consiglio di Stato (sez. IV, 17 luglio 1996 n. 858), il quale ha rilevato come le misure di polizia abbiano carattere preventivo e perseguano finalita' di prevenire la commissione di reati e, in generale, di fatti lesivi della pubblica sicurezza; con la conseguenza che, in base agli artt. 11 e 43 del regio decreto n. 773/1931, per la revoca della licenza di porto d'armi non si richiede che vi sia stato un oggettivo ed accertato abuso delle armi, essendo sufficiente che il soggetto non dia affidamento di non abusarne sulla base di circostanze oggettive. Con riserva di successiva disamina in ordine alla configurazione della "oggettivita'" delle circostanze di che trattasi - la cui presenza non viene in alcun modo richiesta, ne' postulata dalle disposizioni all'esame - va fin d'ora osservato come gli orientamenti maturati in giurisprudenza confortino la presenza di ambiti valutativi in capo alla pubblica amministrazione significativamente estesi: a fronte dei quali, come in precedenza accennato, le concrete possibilita' di sollecitazione del sindacato giurisdzionale vengono corrispondentemente a restringersi. Con particolare riferimento alla disposizione di cui all'art. 39 del regio decreto n. 773/31 - che riguarda la possibilita' di inibire la detenzione di armi, munizioni e materie esplodenti nei confronti dei soggetti che, analogamente a quanto previsto dall'art. 43, vengano ritenute capaci di abusarne - e' infatti maturato un convincimento che attribuisce all'Amministrazione un ampio potere discrezionale, la cui sindacabilita' ad opera del giudice amministrativo transita attraverso la rilevabile emersione di determinazioni manifestamente illogiche e irrazionali (T.A.R. Lazio, sez. I, 30 giugno 1982 n. 685; T.A.R. Toscana, 19 ottobre 1984 n. 1237; T.A.R. Lazio, sez. I, 22 maggio 1985 n. 618; T.A.R. Emilia Romagna, 9 settembre 1986 n. 494), ovvero di una carenza assoluta di motivazione (T.A.R. Lazio, sez. I, 30 novembre 1992 n. 1530, 9 ottobre 1993 n. 1444 e 2 novembre 1993 n. 1542). Anche per quanto concerne la necessaria ostensione dell'apparato giustificativo (che, per effetto dell'art. 3 della legge 7 agosto 1990 n. 241, e' ora presidiata da un espresso obbligo normativo), e' stato affermato che la legge, ai fini dell'adozione di un provvedimento negativo di rinnovo di licenza di licenza di porto di fucile, non richieda una puntuale motivazione circa la sussistenza di elementi che escludano l'affidabilita' di un soggetto nell'uso delle armi addirittura escludendosi l'esigenza di una motivazione particolarmente penetrante, che finirebbe con l'incidere negativamente sul destinatario del provvedimento, arrecandogli nocumento, senza idonee garanzie procedimentali (T.A.R. Toscana, 21 novembre 1986 n. 1359). Quanto alle consistenza che devono assumere le circostanze atte a comprovare l'"inaffidabilita'" ai fini dell'applicazione delle disposizioni all'esame, trovasi ulteriormente affermata la legittimita' del diniego di rilascio della licenza di porto di fucile basato sull'affermazione che il richiedente non e' in grado di dare sufficiente affidamento di fare dell'arma l'uso consentito dalla legge (cioe' di non abusarne) in considerazione della sua personalita' e della disistima che lo circonda (Cons. Stato, sez. IV, 28 novembre 1972 n. 1165). Nell'osservare come il riferimento a labili ed ambigui parametri di giudizio - quali integrati dall'estimazione sociale del soggetto o dalla considerazione nella quale il medesimo viene tenuto (per la valorizzazione dei quali, cfr. anche T.A.R. Marche, 1 agosto 1985 n. 282) - offra un ulteriore spunto per critiche riflessioni in ordine alla compatibilita' costituzionale di previsioni il cui contenuto appare suscettibile di essere delineato da una indefinita ed indeterminata varieta' di elementi, va ulteriormente rammentato come la revocabilita' della licenza di portare armi nei confronti di colui il quale non dia affidamento di non abusarne sia stata affermata escludendosi la necessita' che i fatti ascritti all'interessato costituiscano reato o che la responsabilita' in ordine ad essi sia stata accertata con sentenza penale di condanna (T.A.R. Calabria, Catanzaro, 22 agosto 1991 n. 521). Le giustificazioni addotte in giurisprudenza a conforto di un orientamento che ha accentuato il carattere di "norma in bianco" delle disposizioni all'esame - con esso propiziando una (di fatto) incensurabile latitudine determinativa della p.a., la cui ratio giustificativa viene individuata in un apprezzamento svincolato da riscontrabili ed oggettivi parametri di riferimento, ma piu' semplicemente rimesso alla valutazione dell'autorita' di P.S. - trovano un consapevole (ma per questo non meno discutibile) fondamento nel convincimento che siffatto potere si riveli in armonia con tutta la regolamentazione data alla materia. E' ben vero che la detenzione di armi si caratterizza, da un lato, per una intrinseca pericolosita' e, dall'altro, per la mancanza o la tenuita' di un interesse socialmente apprezzabile, presente in altre attivita' pure soggette ad autorizzazione amministrativa. Cio' nondimeno, va tuttavia rilevato come la concreta esercitabilita' della potesta' repressiva (che si sostanzia nella revoca del porto d'armi) debba comunque essere ricondotta nell'alveo delle regole proprie di ogni potere discrezionale. E postuli, conseguentemente, l'assolvimento dell'obbligo di motivazione, al quale accede l'esternazione delle ragioni che sono alla base del provvedimento adottato e che non possono essere indicate con la semplice testuale ripetizione della formula legislativa (cfr. T.A.R. Lazio, sez. I, 4 marzo 1985 n. 281). 4. - Ma anche la riaffermazione delle note coordinate di legittimita' dell'esercizio del potere amministrativo - identificabili, fra l'altro, nella presenza di un congruo apparato giustificativo e motivazionale che dia piena contezza, in fatto quanto in diritto, delle scelte operate dall'amministrazione - si rivela inidonea a garantire la piena attuazione delle garanzie previste dall'ordinamento, ove il fondamento normativo della potesta' non corrisponda - come nel caso in esame questo giudice ha motivo di ritenere - ai principi dettati da talune disposizioni della Carta costituzionale. Ben e' consapevole il tribunale remittente come, per costante giurisprudenza, la licenza di porto d'armi debba essere intesa come una deroga al generale divieto posto dall'ordinamento di girare armati e vada rilasciata solo nei casi di effettiva e comprovata necessita'. Nondimeno, l'esercizio della potesta' di revoca, impingendo in situazioni giuridiche soggettive la cui espansione riviene dall'adozione di un atto permissivo adottato dalla stessa autorita' pubblica, non puo' ritenersi legittimamente connesso allo svolgimento di unilaterali apprezzamenti i quali, per quanto rivolti a dimostrare l'affidabilita' del soggetto (in relazione al "corretto uso delle armi"), finiscono per atteggiarsi quale ricadute applicative di una fattispecie dispositiva a contenuto indeterminato. A fronte di tale tipologia normativa (ed in relazione alle circostanze invocabili dall'amministrazione procedente ai fini dell'esercizio del potere consentito dalle norme in discorso) viene ad emergere una limitata sindacabilita' del convincimento al riguardo espresso dall' autorita' di Pubblica Sicurezza: il quale, non necessariamente tributario di obiettivi e circostanziati riscontri, sfugge al giudizio di legittimita' ove l'atto, come in precedenza sottolineato, non si dimostri macroscopicamente inficiato. Tale circostanza, in assenza di previsioni normative che configurino le concrete fattispecie in base alle quali possa essere espresso il giudizio di "inaffidabilita'" consente una revocabilita' della licenza concretamente adottabile ad nutum: potendo essere il presupposto apprezzamento basato ora su mere informazioni di polizia (non confortate dalla necessaria ostensione di elementi e circostanze di fatto), ora su generiche considerazioni ostative fondate sulla diminuita estimazione e considerazione sociale del soggetto (la cui indimostrata concludenza appieno rileva ove si consideri l'eterogeneita' e la vaghezza di tale fondamento giustificativo). Va a questo punto rammentato come codesta Corte, con sentenza n. 440 del 2-16 dicembre 1993, ebbe a rilevare il contrasto degli artt. 11 e 43 del regio decreto n. 773/1931 con le previsioni di cui agli artt. 3 e 97 della Costituzione, nella parte in cui l'originaria formulazione delle relative disposizioni postulava in capo al richiedente il porto d'armi la presenza del requisito della "buona condotta", ovvero poneva l'obbligo di dimostrazione di tale requisito a carico del soggetto vulnerato da un provvedimento di revoca della gia' rilasciata licenza. In tale circostanza fu osservato come "l'estrema varieta' dei criteri in grado di pervenire ad un'operazione di riempimento e di conseguente tipizzazione del requisito della buona condotta" implicasse "l'insorgere di zone di assoluta incertezza quanto alla verifica dei parametri sui quali la pubblica amministrazione deve attestarsi nel valutare la sussistenza del detto requisito"; ulteriormente rilevandosi come - interna di dimostrazione del requisito della "buona condotta" - si dimostrasse "intrinsecamente irragionevole addebitare all'interessato un onere che talora neppure l'amministrazione e' in grado di adempiere proprio per la varieta' dei parametri di verifica dai quali puo' scaturire la preclusione alla realizzazione di posizioni soggettive di cui il privato e' titolare". Siffatta "varieta' dei parametri di verifica" e' analogamente riscontrabile anche per quanto riguarda i presupposti sulla base dei quali un soggetto dell'ordinamento puo' essere ritenuto "inaffidabile" circa l'uso delle armi: e, conseguentemente, privato della licenza gia' posseduta. E', ancora una volta analogamente, la dimostrazione del requisito della "buona condotta", rispetto alla dimostrazione di "affidabilita'" onde trattasi, appare rivelare la presenza di una ricaduta concettuale particolarmente omogenea ad un sistema istituzionale (quale quello fascista) rispetto al quale il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza rappresenta un corpo di disposizioni di coerente ispirazione repressiva, all'interno di un complessivo ordito normativo precipuamente finalizzato ad esigenze di controllo sociale e politico dei cittadini (peraltro all'epoca ristretti al rango di "sudditi"). L'indeterminatezza delle disposizioni dettate ai fini del mantenimento dell'ordine e della sicurezza pubblici - nell'ambito delle quali le norme ora in esame rappresentano una tipica, ancorche' non isolata, esemplificazione dispositiva - appare, in tale ottica, particolarmente consona ad assolvere le funzioni che il legislatore dell'epoca intendeva perseguire nel definire un penetrante e capillare strumentario di repressione delle liberta' fondamentali dei cittadini, al fine di mantenere, attraverso l'amplissima latitudine discrezionale riconosciuta all'esercizio dei poteri facenti capo all'autorita' di pubblica sicurezza, un autoritario e rigido controllo della societa'. Tale esteso - e tendenzialmente incensurabile - apprezzamento discrezionale, nelle sue concrete ricadute limitative sulla liberta' dei singoli, non appare al tribunale remittente ulteriormente compatibile con i principi ispiratori della Carta repubblicana. Va al riguardo dato atto delle affermazioni esplicitate dalla Corte costituzionale con la rammentata pronunzia n. 440/1993, in base alle quale, "se e' vero che resterebbe preclusa la possibilita' che il potere discrezionale dell'amministrazione trasmodi in arbitrio non soltanto esaminando la progressiva evoluzione giurisprudenziale e dottrinale che ha svincolato la nozione di buona condotta dalle incrostazioni socio-politiche caratterizzanti il sistema precostituzionale, tentando di storicizzarne la portata, e' anche vero che si e' trattato, di frequente, di un'operazione interpretativa priva di risultati favorevoli in concreto, rimanendo demandato ai soli titolari della potestas decidendi il compito di determinare il contenuto dei presupposti e imponendosi cosi' all'interessato un prova talora diabolica volta a contrastare la forza cogente". Nell'osservare, ancora una volta, come i principi affermati nella rammentata pronunzia rivelino precipue e singolari idoneita' applicative anche per quanto riguarda la previsione ora in esame, va ulteriormente ribadito come la genericita' del disposto normativo di che trattasi, nel consentire lo svolgimento di apprezzamenti che si risolvono in una pratica incensurabilita' in sede giudiziale (in quanto privi di un concreto ed obiettivo fondamento di fatto, che le disposizioni in esame non richiedono, ne' postulano in alcun modo), privi il cittadino di efficaci e reali strumenti di difesa, inibendo la possibilita' di un concludente ricorso alla tutela giurisdizionale: il cui esercizio rischia, proprio in conseguenza dell'assenza di parametri di riferimento, di arrestarsi di fronte alla rilevata carenza di clamorose (e percio' stesso limitate) fattispecie inficianti sub specie della manifesta illogicita' ed incongruita' determinativa, del travisamento dei fatti, ovvero della assoluta carenza motivazionale. Nel mutuare, ancora una volta, i principi ermeneutici da codesta Corte esemplarmente esplicitati nella ripetuta pronunzia n. 440/1993, va rilevato come, per effetto della mancata predeterminazione dei "canoni cui la pubblica autorita' deve uniformarsi", nonche' degli "schemi attraverso i quali il privato e' posto in condizione di ribaltare la detta valutazione", sussista sempre, "per un verso, un'ampia possibilita' di abuso dell'organo decidente, solo in parte ovviabile attraverso l'accesso alla giurisdizione; e, per altro verso, la necessita' per il privato di addurre elementi dimostrativi in grado di superare il giudizio negativo formulato nei suoi confronti e di cui non sempre e' posto in condizione di disporre". 5. - Ribadite le considerazioni svolte ai precedenti punti, dubita pertanto il tribunale che le rammentate disposizioni di cui agli artt. 11 e 43 del r.d. 18 giugno 1931 n. 773 rivestano i caratteri della legittimita' costituzionale - segnatamente per quanto concerne la compatibilita' con le previsioni di cui agli artt. 2, 3 e 97 della Costituzione - nella parte in cui consentono alla pubblica autorita' di revocare la licenza di portare armi nei confronti di colui il quale non dia affidamento di non abusare delle armi; per l'effetto valutandosi l'esigenza, in relazione alla non manifesta infondatezza ed alla rilevanza della relativa questione, di devolverne d'ufficio - ai sensi degli artt. 11 legge cost. 9 febbraio 1948 n.1 e 23 legge 11 marzo 1953 n. 87 - l'esame alla Corte costituzionale. In particolare, rileva il giudice remittente che le ripetute norme del regio decreto n. 773/1931 appaiono porsi in contrasto: con l'art. 2 della Costituzione, nella parte in cui la Repubblica riconosce e garantisce lo svolgimento della personalita' dell'individuo sia uti singulus, sia all'interno delle formazioni sociali delle quali faccia parte: al riguardo osservandosi come la consentita facolta' di portare anni ben possa integrare, ancor piu' ove preordinata all'esercizio dell'attivita' venatoria, una manifestazione della personalita' del cittadino, la cui estimazione sociale verrebbe inoltre ad essere gravemente vulnerata dall'adozione di un atto di revoca della licenza; con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui garantisce a tutti i cittadini pari dignita' sociale ed eguaglianza di fronte alla legge, altresi' imponendo alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana; tale disposizione non potendo non trovare applicazione in presenza di posizioni giuridiche, delle quali si rivelino portatori i soggetti dell'ordinamento, aventi contenuto anche meramente oppositivo (relativamente ai provvedimenti con i quali l'autorita' pubblica revochi la gia' rilasciata autorizzazione); con l'art. 97 della Costituzione, nella parte in cui viene imposto all'amministrazione di operare secondo canoni improntati al buon andamento ed alla correttezza; la vulnerazione di tale principio venendo a configurarsi, con ogni evidenza, attraverso la consentita adottabilita' di provvedimenti che, lungi dall'essere necessariamente fondati su presupposti e circostanze certi e dimostrabili, possano consentire l'adozione di determinazioni permeate da caratteri di arbitrarieta', propiziando la consolidazione di abusi a danno delle posizioni giuridiche soggettive delle quali siano legittimamente portatori i soggetti dell'ordinamento. Considerata dunque la non manifesta infondatezza - ai sensi dei richiamati artt. 2, 3 e 97 della Costituzione - nonche' la rilevanza della questione (atteso che la presente vicenda contenziosa e' insuscettibile di essere decisa indipendentemente dalla valutazione della compatibilita' costituzionale del ripetuto disposto di cui agli artt. 11 e 43 del T.U.L.P.S.), determina il Tribunale di rimettere all'esame della Corte costituzionale il giudizio di legittimita' delle anzidette previsioni, nella parte in cui consentono la revocabilita' della licenza di portare armi laddove il soggetto interessato non dia affidamento di non abusare delle armi. La rimessione dell'esposta questione all'esame della Corte costuzionale impone, a termini di legge, di disporre la sospensione del presente giudizio.
P. Q. M. Il tribunale amministrativo regionale per la Calabria-Catanzaro: visti gli artt. 134 della Costituzione, 1 della legge cost. 9 febbraio 1948 n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87; ritenuta rilevante e non manifestamente infondata - in relazione agli artt. 2, 3 e 97 della Costituzione - la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 11 e 43 del r.d. 18 giugno 1931 n. 773, nella parte in cui consentono la revocabilita' della licenza di portare armi laddove il soggetto interessato non dia affidamento di non abusare delle armi; Sospende il giudizio in corso; Ordina l'immediata remissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la presente ordinanza, a cura dell'ufficio di segreteria di questo tribunale, sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri ed alle parti in causa, nonche' comunicata ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Cosi' deciso in Catanzaro, nella camera di consiglio del 12 dicembre 1996. Il presidente: Bozzi Il consigliere estensore: Politi Il consigliere: Vinciguerra 97C0240