N. 124 ORDINANZA (Atto di promovimento) 24 gennaio 1997

                                N. 124
  Ordinanza  emessa  il  24  gennaio  1997 dal giudice per le indagini
 preliminari presso il tribunale di Piacenza nel procedimento penale a
 carico di Carella Giuseppe
 Reati contro la pubblica amministrazione - Abuso di ufficio  -  Fatto
    commesso  al  fine  di  procurare  a  se'  o  ad altri un ingiusto
    vantaggio   patrimoniale   -   Asserita   indeterminatezza   della
    fattispecie   incriminatrice,   non  superabile  per  effetto  del
    previsto dolo specifico, per difetto  di  elementi  oggettivamente
    verificabili - Conseguente possibilita' di inizio del procedimento
    penale   senza   previo  accertamento  della  notitia  criminis  -
    Ipotizzata indebita ingerenza nella sfera  della  discrezionalita'
    della  p.a.  -  Lesione del principio di legalita' e di quello del
    buon andamento della p.a.
 (C.P., art. 323, secondo comma).
 (Cost., artt. 25, secondo comma, e 97, primo comma).
(GU n.13 del 26-3-1997 )
                IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale   n.
 1083/1995 g.i.p. e n. 219/1995 p.m. a carico di Carella Giuseppe.
   Il  pubblico  ministero chiedeva il rinvio a giudizio dell'imputato
 indicato in epigrafe per il reato di cui agli artt. 81 cpv.,  e  323,
 secondo comma, c.p.
   Il g.u.p. fissava l'udienza preliminare.
   Cio'   premesso,  questo  giudice,  ripropone  anche  nel  presente
 procedimento (tenuto  conto  dei  principi  fissati    dal  combinato
 disposto  dagli  artt.  23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 159 del
 c.p.) la questione (gia' sollevata  d'ufficio nel procedimento penale
 n. 255/1995 g.i.p.  e n. 625/1994 p.m. in  data  16  aprile  1996  in
 ordine   all'art.   323,   secondo   comma,   c.p.)  di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  323,  secondo  comma,  c.p.   perche'   in
 contrasto con gli artt. 25, secondo comma e 97, primo comma, Cost.
   Esaminando  innanzitutto  il  primo  profilo,  l'art.  323, secondo
 comma, c.p. (ma un discorso analogo puo' farsi per l'art. 323,  primo
 comma,  c.p.  che  prevede,  secondo l'orientamento giurisprudenziale
 prevalente, una autonoma ipotesi di reato) non  pare  rispettare  uno
 degli  aspetti  del  principio  di  legalita'  sancito  dall'art. 25,
 secondo comma, Cost.  e cioe' quello della tassativita' e sufficiente
 determinatezza della fattispecie  incriminatrice;  si  tratta  di  un
 aspetto  che,  come e' noto, tende a salvaguardare i cittadini contro
 eventuali abusi del potere giudiziario, a  restringere  i  poteri  di
 interpretazione del giudice.
   Non  si  intende  certo  mettere in discussione che nella redazione
 delle  fattispecie   incriminatrici   il   legislatore   possa   fare
 riferimento  ad  elementi  normativi e non solo descrittivi. Si vuole
 invece  evidenziare  che  l'art.  323  c.p.  incentra   la   condotta
 esclusivamente sull'abuso d'ufficio rinviando all'elemento soggettivo
 (dolo specifico) la rilevanza penale del fatto.
   Senonche',  come  autorevole  dottrina ha osservato, l'abuso e' una
 figura che non possiede, di per se stessa,  connotati  oggettivamente
 verificabili,  essendo  il risultato di un giudizio che si esprime su
 un comportamento spesso solo in ragione del fine che lo ha  ispirato;
 si  e' osservato che si tratta di un concetto abbastanza generico, di
 una locuzione inderminata, di un termine neutro, incolore.
   La norma, allora, si presta a  facili  manipolazioni  e  ad  essere
 applicata   a   qualsiasi   forma   di  vizio-irregolarita'  di  tipo
 amministrativo (che possono essere legati alle ragioni piu'  varie  e
 differenti   dalla   commissione   di   un   reato);  ne  conseguono,
 inevitabilmente,    incertezze    interpretative,    indeterminatezza
 applicativa.
   Impostando correttamente il discorso in relazione all'attivita' del
 giudice  fin dall'inizio del procedimento (perche' sarebbe certamente
 riduttivo  prospettarsi  la  questione  guardando   all'epilogo   del
 processo)  ha  ancora  osservato  autorevole  dottrina che il giudice
 penale  puo'  dire  di  trovarsi  dinanzi  ad  una  notitia  criminis
 allorche'  e' posto alla sua attenzione un fatto che, ad una sommaria
 valutazione, corrisponda nella sua materialita'  ad  una  ipotesi  di
 reato.
   Orbene,  in  relazione all'art. 323 c.p., il carattere neutro della
 condotta rende poco agevole la sussunzione  nell'ambito  della  norma
 dei  comportamenti  piu' vari che possono essere sottoposti al vaglio
 del giudice.
   Ne consegue il fondato  rischio  che,  in  concreto,  l'inizio  del
 procedimento  possa  precedere l'accertamento di una notitia criminis
 ed essere  diretto,  spesso  in  presenza  di  una  mera  ipotesi,  a
 verificare  se  nella  situazione  in esame ci sia effettivamente una
 tale notitia.
   Va poi evidenziato che, come  emerge  dai  lavori  preparatori,  il
 legislatore del 1990 si era espressamente posto l'obiettivo di meglio
 tipicizzare  i  comportamenti lesivi dei beni da tutelare nella p.a.;
 senonche' in tema di abuso, gli stessi lavori rendono chiaro  che  la
 formulazione   attuale   dell'art.   323  c.p.  fu  dettata  anche  e
 soprattutto da motivazioni non tecniche (incentrando la condotta solo
 sull'abuso e  non  inserendo  un  evento  di  tipo  naturalistico  si
 anticipava  la  soglia  di  punibilita'  "per  evitare  rimproveri di
 eccessiva indulgenza").
   L'insufficiente determinatezza dell'art. 323 c.p. appare piu' grave
 se si considera che la norma viene ad assumere  un  ruolo  cardine  e
 centrale  nel sistema penale della p.a.: essa non ha piu' la funzione
 sussidiaria dell'originario abuso innominato; ha inglobato (e  si  e'
 parlato  di  fattispecie  "onnivora"  il  peculato  per  distrazione,
 l'interesse  privato in atti d'ufficio, l'abuso innominato;  e  tutto
 cio' con la previsione di pene certamente non lievi.
   Ad  avviso  di  questo  giudice,  inoltre, non si puo' ritenere che
 l'art. 323 c.p. sia sufficientemente determinato per la presenza  del
 dolo  specifico;  si  tratta,  come  e'  noto, di uno degli argomenti
 centrali con il quale nella ormai datata sentenza n. 7/1965 la  Corte
 costituzionale  dichiaro'  non  fondata  la  questione  sollevata  in
 relazione alla vecchia fattispecie di  abuso  innominato.  Senonche',
 come  pure  e'  stato  sostenuto  in  dottrina,  la  fattispecie  non
 acquisisce maggiore tassativita' attraverso il mero  dolo  specifico;
 in   proposito   non   va   trascurato   che   nella  interpretazione
 giurisprudenziale (anche se in verita' nelle pronunce piu' recenti la
 suprema Corte ha posto un freno a tale orientamento),  la  prova  del
 dolo   specifico   viene  tratta  spesso  dalla  mera  illegittimita'
 dell'atto e del comportamento:  l'elemento soggettivo diviene un mero
 corollario di quello oggettivo.
   Passando  all'esame  del  secondo  profilo  di  incostituzionalita'
 denunciato,   va  ribadito  che  sarebbe  riduttivo  prospettarsi  la
 questione  guardando  solo  al  risultato  finale  del   procedimento
 (l'applicazione  "discrezionale"  della norma di abuso ai fini di una
 eventuale condanna): nella realta' giudiziale, anzi, pare  prevalgano
 decisioni in senso assolutorio.
   Occorre  invece  considerare  quella che una autorevole dottrina ha
 definito una invadenza giudiziale "primaria", che si esprime, di  per
 se', attraverso la sola attivazione dei meccanismi processuali.
   In   questo  senso  l'art.  323  c.p.,  con  la  sua  insufficiente
 determinatezza  costituisce  una   facile   chiave   di   accesso   a
 disposizione  del  giudice  penale per penetrare nel territorio della
 p.a. ed instaurare un processo penale: e gia' soltanto questo, si  e'
 giustamente  osservato,  e'  fonte  di  immediato  discredito  per  i
 pubblici amministratori e di riflesso per la p.a.
   L'art. 323 c.p. costituisce allora "una spada di Damocle" che grava
 sulla testa anche dell'amministratore piu' onesto.
   Tutto cio' compromette seriamente "il buon  andamento  della  p.a."
 voluto  dall'art. 97 Cost.: da un lato perche' consente con facilita'
 incursioni  giudiziali  in  una  normativamente  riservata  sfera  di
 valutazione  discrezionale  della  p.a.; dall'altro perche' genera un
 clima non favorevole alla serenita' dell'attivita' amministrativa  ed
 una  situazione  quindi,  come pure si e' detto in dottrina, che puo'
 stimolare l'immobilismo, favorire mancanza  di  iniziativa,  seminare
 preoccupazioni anche fra gli amministratori piu' onesti.
   Tutto cio' compromette seriamente, si ripete, lo svolgimento di una
 azione  amministrativa  in  modo  efficiente;  appropriato, adeguato,
 spedito.
   Paradossalmente l'art. 323 c.p. pare minare proprio quel  bene  che
 costituisce l'oggetto specifico della tutela penale.
   La   questione,   che   si   solleva   d'ufficio,   oltre  che  non
 manifestamente infondata, e' poi, di tutta evidenza rilevante per  la
 decisione, attesa la concreta incidenza sul corso del processo.
                                P. Q. M.
   Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 dichiara rilevante
 nel   presente   procedimento  e  non  manifestamente  infondata,  in
 relazione agli artt. 25, secondo comma,  e  97,  primo  comma,  della
 Costituzione,  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 323, comma secondo, del c.p.;
   Sospende il presente procedimento;
   Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
   Dispone che la presente ordinanza  sia  notificata,  a  cura  della
 cancelleria  al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al
 Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della  Camera
 dei deputati.
     Piacenza, addi' 24 gennaio 1997
            Il giudice per le indagini preliminari: Picciau
 97C0255