N. 279 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 novembre 1996

                                N. 279
  Ordinanza  emessa  l'11  novembre  1996  dal  tribunale  di Roma nel
 procedimento civile  vertente  tra  Stabile  Carmine  e  la  societa'
 editrice Il Messaggero s.p.a. ed altro
 Processo  civile  -  Competenze  per  territorio  -  Procedimenti per
    risarcimento dei  danni  derivanti  da  un  reato,  riguardanti  i
    magistrati  -  Mancata  applicabilita'  del criterio di competenza
    territoriale stabilito per il processo penale (art. 11 del c.p.p.)
    - Ingiustificata disparita' di trattamento - Lesione  del  diritto
    di  difesa  con  incidenza  sul  principio  del  giudice  naturale
    precostituito per  legge,  posta  l'alternativita'  dell'esercizio
    dell'azione  civile  per  i  danni  da  reato,  tanto nel giudizio
    penale, tanto nel giudizio civile - Violazione  del  principio  di
    indipendenza ed imparzialita' del giudice.
 (C.P.C.,  artt.  18,  19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30,
    31, 32, 33, 34, 35 e 36).
 (Cost., artt. 3, 24, 25 e 101).
(GU n.22 del 28-5-1997 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta  al  n.
 11176  del  ruolo generale per gli affari contenziosi dell'anno 1995,
 posta in deliberazione all'udienza collegiale del 21 ottobre  1996  e
 vertente  tra  Stabile  Carmine,  elettivamente  domiciliato in Roma,
 lungotevere Mellini, 24, presso lo studio  del  proc.  avv.  Giovanni
 Giacobbe  che  lo rappresenta e difende per procura in calce all'atto
 di citazione, attore, e la Societa' editrice Il Messaggero S.p.a., in
 persona del legale rappresentante Anselmi Giulio, Martinelli Massimo,
 elettivamente domiciliati in Roma, via Giuseppe Avezzana,  6,  presso
 lo  studio dei proc. avv. Adolfo e Luigi Di Majo che li rappresentano
 e difendono per procura in calce all'atto  di  citazione  notificato,
 convenuti nonche' Vilardo Pasquale, elettivamente domiciliato in Roma
 via Flavia, 47, presso il proprio studio, difeso jure proprio ex art.
 86 c.p.c., terzo intervenuto.
   Oggetto: responsabilita' civile da diffamazione a mezzo stampa.
                              Conclusioni
   Per  l'attore, i convenuti ed il terzo intervenuto: come da verbale
 della udienza in data 28 giugno 1996.
                       Svolgimento del processo
   Con atto  notificato  in  data  8  febbraio  1995  Carmine  Stabile
 conveniva  in giudizio, avanti questo tribunale, la Societa' editrice
 Il Messaggero S.p.a., in persona del  legale  rappresentante,  Giulio
 Anselmi, quale direttore responsabile del quotidiano Il Messaggero, e
 Massimo Martinelli, assumendo di essere stato diffamato nel suo onore
 e  nella sua reputazione di magistrato da un articolo pubblicato il 7
 dicembre 1994 dal quotidiano Il Messaggero,  a  firma  del  convenuto
 Martinelli e con il titolo "Polemiche in pretura, giudici denunciati"
 e il sottotitolo "Dopo la lettera di richiamo per i ritardi, emergono
 alcuni episodi per cui si indaga".  A tale riguardo, il dott. Stabile
 esponeva  che  l'autore  del  pezzo,  dopo  aver ricordato la lettera
 circolare di  alcuni  giorni  prima  con  cui  il  procuratore  della
 Repubblica  presso  la pretura circondariale, aveva richiamato i suoi
 sostituti al rispetto degli orari di inizio delle udienze,  affermava
 che  "...  oltre  alle accuse generiche, sono venute fuori le denunce
 precise. Non dal procuratore capo  ...  ma  da  cittadini  qualsiasi,
 rimasti  scottati  dopo  aver  trascorso  il loro giorno in pretura",
 dando atto, quindi, che  "l'avvocato  Pasquale  Vilardo  ha  accusato
 senza  mezzi  termini un sostituto procuratore circondariale, Carmine
 Stabile, di  aver  occultato  atti  che  documentavano  prove  a  suo
 favore",  precisando  che  della vicenda si sarebbe "gia' occupata la
 magistratura con una inchiesta a  carico  del  magistrato  archiviata
 dalla  procura  presso  il  tribunale  ...  e  con un'altra inchiesta
 tuttora pendente" mentre "della faccenda si sta interessando anche il
 Ministero  di  grazia  e  giustizia,  grazie  all'intervento  dell'ex
 guardiasigilli  Conso, che raccolse un appello dello stesso Vilardo".
 L'attore esponeva, altresi', che, successivamente alla  pubblicazione
 di  tali  notizie false e diffamatorie, aveva chiesto ed ottenuto dal
 quotidiano la rettifica di tali affermazioni, effettivamente  apparsa
 su  Il  Messaggero  del  9  gennaio 1995, contestualmente alla quale,
 tuttavia,  il  giornale  pubblicava  una  risposta  del   giornalista
 Martinelli  che,  con  riguardo  alla  vicenda  della  sparizione  di
 documenti dall'ufficio del dott. Stabile, osservava  conclusivamente:
 "allora delle due l'una:  o Stabile ha subito un furto nel suo studio
 oppure  ha  una qualche responsabilita' nella sparizione delle carte.
 Ho cercato tracce di denunce di Stabile relative  a  furti  nei  suoi
 uffici, ma non ho trovato nulla".
   Per  quanto  sopra  premesso,  l'attore  chiedeva  che  i convenuti
 venissero condannati a risarcirgli  i  danni  patrimoniali  e  morali
 subiti in conseguenza delle pubblicazioni denunciate.
   I convenuti, costituitisi, negavano fondamento alla domanda attrice
 e ne chiedevano la reiezione, invocando il diritto di cronaca.
   Pasquale   Vilardo  e'  intervenuto  volontariamente  in  giudizio,
 chiedendo di provare la verita' dei fatti riportati nell'articolo  de
 Il   Messaggero   denunciato   dall'attore   e  da  lui  riferiti  al
 giornalista.
   Quindi, la causa, rimessa al Collegio sulle conclusioni in epigrafe
 indicate, era posta in decisione alla udienza del 21 ottobre 1996.
                        Motivi della decisione
   Il tribunale, chiamato a decidere sulla  domanda  sopra  precisata,
 ritiene  che  sussistano  i  presupposti di rilevanza e non manifesta
 infondatezza, prescritti dall'art. 23 della legge 11 marzo  1953,  n.
 87, per rimettere alla Corte costituzionale, di ufficio, la questione
 di legittimita' costituzionale degli artticoli da 18 a 36 del c.p.c.,
 nella  parte  in  cui  non  prevedono l'applicabilita' dello speciale
 criterio di competenza territoriale  previsto  dall'art.  11  c.p.p.,
 anche  ai  giudizi  civili  nei  quali  sia  attore  o  convenuto  un
 magistrato e che abbiano ad oggetto una domanda di  risarcimento  dei
 danni  derivanti  dalla  commissione  di  un  fatto-reato  di  cui il
 magistrato, parte del giudizio  civile,  si  assume  essere  l'autore
 ovvero la persona offesa o danneggiata.
   Quanto   al   requisito   della   rilevanza   della   questione  di
 costituzionalita', il  Collegio  osserva  che  il  presente  giudizio
 civile   ha   ad   oggetto  la  domanda  di  risarcimento  dei  danni
 patrimoniali e morali derivanti dalla pubblicazione di un articolo di
 stampa e, pertanto, presuppone l'accertamento incidenter  tantum  del
 reato  di  diffamazione  a  mezzo stampa di cui all'art. 596-bis c.p.
 L'attore e' un magistrato che, al  momento  in  cui  fu  commesso  il
 fatto-reato  di  cui  assume  essere  la  persona offesa, svolgeva le
 funzioni di sostituto procuratore presso la pretura circondariale  di
 Roma,  ricompresa nello stesso distretto di Corte d'appello di questo
 tribunale.
   Da tanto consegue che l'eventuale accoglimento della  questione  di
 legittimita'   costituzionale  in  oggetto,  mediante  una  pronuncia
 additiva, nel sistema  delle  regole  di  competenza  applicabili  al
 presente   giudizio,  della  norma  contenuta  nell'art.  11  c.p.p.,
 attribuendo la causa al tribunale di  Perugia,  nel  rispetto  di  un
 criterio   di   competenza   territoriale  non  derogabile  (pertanto
 rilevabile di ufficio in ogni grado e stato  del  giudizio  ai  sensi
 dell'art.  38 c.p.c. previgente, applicabile nel presente giudizio in
 quanto pendente alla data del 30  aprile  1995),  determinerebbe  una
 pronuncia di incompetenza di questo tribunale.
   Quanto  alla non manifesta infondatezza della predetta questione di
 costituzionalita', il  Collegio  osserva  che  la  denunciata  lacuna
 normativa,  per  l'assenza  nel  sistema  del  processo civile di una
 regola uguale a quella dell'art. 11 c.p.p., risulta in contrasto  con
 gli artt. 3, 24, 25 e 101 della Costituzione.
   L'art.  11  c.p.p. dispone che "i procedimenti in cui un magistrato
 assume la qualita' di imputato ovvero di persona offesa o danneggiato
 dal reato, che secondo le norme di questo capo  sarebbero  attribuiti
 alla  competenza  di un ufficio giudiziario compreso nel distretto in
 cui il magistrato esercita le sue funzioni ovvero  le  esercitava  al
 momento  del  fatto,  sono  di  competenza  del  giudice,  ugualmente
 competente per materia, che ha sede nel capoluogo  del  distretto  di
 Corte  di  appello  piu'  vicino,  salvo  che  in  tale  distretto il
 magistrato stesso sia venuto successivamente  ad  esercitare  le  sue
 funzioni".
   Con   riferimento   all'invocato   parametro   dell'art.   3  della
 Costituzione, il tribunale rileva che sussiste una assoluta identita'
 di presupposti sostanziali tra la fattispecie legale delineata  dalla
 norma  dell'art.    11  c.p.p.  e la fattispecie concreta oggetto del
 presente giudizio, riguardante l'accertamento  di  un  reato  che  la
 domanda  assume  essere  commesso ai danni di un magistrato il quale,
 all'epoca del fatto,  esercitava  le  sue  funzioni  nell'ambito  del
 distretto  di  Corte  d'appello  del tribunale competente secondo gli
 ordinari criteri di competenza territoriale e  che,  successivamente,
 non risulta aver svolto le proprie funzioni nell'ambito del distretto
 di Corte d'appello piu' vicino ad esso.
   Cio', in difetto di validi criteri di giustificazione della diversa
 disciplina  applicabile,  determina  una ingiustificata disparita' di
 trattamento,   con   violazione   del   principio   di    eguaglianza
 costituzionalmente garantito.
   Trattandosi di dedotta identita' dei presupposti sostanziali non e'
 utilmente richiamabile la giurisprudenza costituzionale formatasi con
 riguardo  al  previgente  art. 41-bis c.p.p. (tra le altre, si vedano
 Corte cost., sentenza n. 232 del 1984; ordinanza  n.  164  del  1987;
 sentenza  n.  390  del 1990), alla quale si deve il principio secondo
 cui  spetta  alla  discrezionalita'  del   legislatore,   stante   la
 molteplicita'  delle  situazioni  nelle  quali puo' sorgere il dubbio
 che, a causa  di  rapporti  interpersonali  di  vario  genere,  possa
 verificarsi   una  turbativa  della  serenita'  e  imparzialita'  dei
 giudici, statuire se e in quale misura i  rapporti,  che  all'interno
 dell'organizzazione  giudiziaria  si  creano  tra  organi  e singoli,
 debbano influire sulla determinazione della competenza e quali  siano
 le soluzioni piu' idonee a garantire l'indipendenza del giudizio e il
 prestigio della magistratura.
   Applicando   questa   regola   di   giudizio,   infatti,  la  Corte
 costituzionale ha dichiarato  l'inammissibilita  delle  questioni  di
 legittimita'  costituzionale con le quali si chiedeva di estendere lo
 speciale criterio di competenza  territoriale  vigente  nel  processo
 penale, ai casi in cui l'imputato o la persona offesa dal reato fosse
 un  pretore  o  un giudice onorario ovvero in cui il magistrato fosse
 danneggiato dal reato senza avere la qualita' di  persona  offesa  o,
 ancora,  nei  quali  si  creasse,  in  virtu'  dell'applicazione  del
 criterio derogatorio, una soluzione di  reciprocita'  tra  i  giudici
 competenti.  Casi  in  cui  i  presupposti  erano  diversi  o  per la
 situazione sostanziale rispetto al fatto reato (non presunto autore o
 persona offesa, bensi' danneggiato dal reato) o  per  la  particolare
 posizione  del  magistrato  (esercizio di funzioni giurisdizionali da
 parte di un giudice onorario o di un magistrato applicato  in  virtu'
 di  un provvedimento temporaneo; possibile situazione di reciprocita'
 tra i giudici indicati come competenti), mentre invece, nel  caso  in
 esame,  i presupposti, sia con riferimento alla qualita' sostanziale,
 sia con riferimento alla posizione professionale del magistrato, sono
 assolutamente coincidenti con la fattispecie legale  della  norma  di
 cui si invoca l'estensione.
   La  presente  questione  di  costituzionalita',  infatti,  mira  ad
 ottenere dalla Corte costituzionale una pronuncia  additiva  "a  rime
 obbligate", la cui ammissibilita', in via di principio, e' ampiamente
 riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale ed il cui precedente
 piu vicino, nella materia che ci occupa, e' costituito dalla sentenza
 n.  390  del 1991, che ha dichiarato la illegittimita' costituzionale
 dell'art.  11, terzo comma, c.p.c., nella parte in cui  faceva  salva
 dall'applicazione   del   criterio  di  competenza  territoriale  ivi
 previsto, l'ipotesi del reato commesso in udienza, pur  al  ricorrere
 degli  identici  presupposti  (essere il magistrato imputato, persona
 offesa o danneggiato dal reato per cui si procede).
   Sempre considerando il profilo  di  violazione  dell'art.  3  della
 Costituzione,  questo  tribunale  ricorda le pronunce giurisdizionali
 che, anche di recente, hanno ritenuto di non sollevare  la  questione
 di costituzionalita' in oggetto per il rilevato difetto del requisito
 di  non  manifesta infondatezza, sul presupposto principale della non
 comparabilita' della disciplina del processo civile con la disciplina
 del processo penale (Cass., sez. III, 16  settembre  1983,  n.  5604;
 trib. Napoli, 22 marzo  1996 e trib. Roma, 19 giugno 1985).
   Con  riguardo  alle  ricordate argomentazioni, il tribunale esprime
 l'avviso che la non negabile diversita' di natura del processo civile
 e di quello penale non e' idonea a giustificare la dedotta disparita'
 di trattamento, atteso che la norma del processo penale,  di  cui  si
 denuncia  come  contrastante  con i pricipii costituzionali la omessa
 previsione  nel  processo  civile,  e'  espressione  del  valore   di
 imparzialita' del giudice di cui partecipano tanto il processo penale
 tanto  il  processo  civile,  per  essere  entrambi  finalizzati alla
 realizzazione dell'interesse pubblico  al  corretto  esercizio  della
 funzione   statale   giurisdizionale,   nel  rispetto  dei  principii
 costituzionali all'uopo fissati. Ne' la preordinazione dell'uno  alla
 realizzazione  della  potesta  punitiva dello Stato, da un lato, e la
 preordinazione dell'altro alla realizzazioni di situazioni soggettive
 individuali,  dall'altro  lato,  attenua  la  primarieta'  di  questo
 valore,  garantito  dalla Costituzione principalmente negli artt. 24,
 25 e 101.
   Se, invece,  si  intendesse  desumere  la  non  necessita'  per  il
 processo civile di un criterio di competenza uguale a quello previsto
 dall'art.    11  c.p.p.,  dalla  diversa  disponibilita  delle  parti
 rispetto al processo penale,  va  ricordato  che  anche  il  processo
 civile conosce criteri di competenza territoriale non derogabili.
   E'  stato  infatti riconosciuto che la disciplina del foro erariale
 di cui all'art. 25 c.p.c.  ha  una  giustificazione  sufficientemente
 adeguata  nell'esigenza  di concentrare, in vista di un minor costo e
 di un migliore svolgimento del servizio, e percio' a vantaggio  della
 collettivita',  gli  uffici  dell'avvocatura  dello  Stato  presso un
 numero ristretto di sedi giudiziarie, sicche' l'eccepibilita' in ogni
 stato e grado di giudizio del  relativo  criterio  di  competenza  e'
 apparsa  compatibile  con  il  principio di uguaglianza (Corte cost.,
 sentenze nn. 118 del 1964 e 97  del  1967).  Pertanto,  se  la  Corte
 costituzionale   ha   giudicato  non  in  contrasto  con  i  principi
 costituzionali un criterio di competenza territoriale non derogabile,
 giustificato da ragioni organizzative della pubblica amministrazione,
 ancorche' traducentesi in un privilegio per l'Amministrazione stessa,
 a maggior ragione deve riconoscersi la possibilita' di ingressso  nel
 sistema del processo civile di un criterio di competenza inderogabile
 collegato alla preservazione del valore costituzionale di serenita' e
 imparzialita' del giudizio.
   Infine,  va ricordato che, anche se per il caso affatto particolare
 dell'azione proposta nei confronti dello Stato  per  il  risarcimento
 dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, l'art.
 4  della  legge  13  aprile  1988,  n.  117,  ha riprodotto lo stesso
 criterio di competenza territoriale dell'art. 11 c.p.p.
   Con particolare riferimento al valore di terzieta' ed imparzialita'
 del giudice, sancito dagli artt. 25  e  101  della  Costituzione,  il
 tribunale  ricorda,  inoltre,  che  la giurisprudenza costituzionale,
 anche con riguardo alla  disciplina  previgente  all'art.  11  c.p.p.
 (ossia  l'art.  41-bis  e,  ancor  prima,  60  c.p.p.,  che  pure non
 assicurava la  stessa  automaticita'  e  predeterminazione  garantita
 dall'art.  11  c.p.p. per l'individuazione del giudice competente nei
 procedimenti in cui un magistrato sia imputato o persona  offesa  del
 reato),  ha  affermato  che  il  fondamento di tale normativa risiede
 nella suprema esigenza di giustizia e  di  indipendenza  del  giudice
 (Corte  cost.,  n.  109  del  1963).  Piu'  precisamente, riferendosi
 all'art.  11  c.p.p.,  invocato  in  questo  giudizio  come   tertium
 comparationis,   la  Corte  costituzionale  ha  riconosciuto  che  la
 garanzia della serenita' e obiettivita' dei giudizi,  l'imparzialita'
 e  la  terzieta' del giudice, la salvaguardia del diritto di difesa e
 del principio di uguaglianza dei  cittadini  sono  valori  prevalenti
 anche  sull'esigenza  di  immediatezza  e  celerita'  dei giudizi, in
 quanto, a differenza di ogni altro principio, hanno fondamento  nella
 Costituzione (Corte cost., sentenza n. 390 del 1991).
   Per quanto esposto, il tribunale ritiene che non possa addursi come
 motivo    della    manifesta    infondatezza    della   quesione   di
 costituzionalita sin qui illustrata, la circostanza che nel  processo
 civile  tali  principii  siano  adeguatamente  tutelati  dalle  norme
 sull'astensione e sulla ricusazione di giudici di cui agli  artt.  da
 51 a 54 c.p.c.. E cio', non soltanto perche' anche il processo penale
 conosce questi istituti (artt. da 36 a 44 c.p.p.) accanto alla regola
 dell'art. 11 c.p.p.
   L'astensione  e  la ricusazione mirano a preservare l'imparzialita'
 del  giudice  dai  condizionamenti  che  potrebbero  derivare   dalle
 particolari  condizioni  personali in cui il singolo giudice si trova
 rispetto alle parti. L'istituto in parola non ha lo stesso ambito  di
 efficacia,  tanto  e'  vero che potrebbe ipotizzarsene la concorrenza
 con gli altri due, ma impedisce  il  verificarsi  di  una  situazione
 obiettiva (l'essere un magistrato giudicato in relazione ad un reato,
 da  parte di un ufficio ricompreso nello stesso distretto di Corte di
 appello in cui lo stesso ha esercitato  o  esercita  tuttora  le  sue
 funzioni)  che  riguarda  l'ufficio, e non la persona che lo ricopre,
 tutelandone l'immagine di imparzialita' e di  indipendenza,  mediante
 l'applicazione di un criterio di competenza territoriale obiettivo ed
 automatico.
   Quanto  alla  censura  relativa  all'art. 24 della Costituzione, il
 tribunale  non  concorda  con  l'interpretazione,  secondo  la  quale
 l'introduzione  della  norma  dell'art. 11 c.p.c. nel processo civile
 comprimerebbe  ingiustificatamente  la  situazione   soggettiva   dei
 magistrati  che  agiscono  per  la  tutela  di  un  loro  diritto  al
 risarcimento dei danni derivanti dalla commissione di un reato.
   In  primo  luogo,  perche'   nessun   valore   sanzionatorio   puo'
 ricollegarsi  all'art.  11  c.p.p.,  che,  al  contrario,  come sopra
 affermato, si riconnette al valore  supremo  di  imparzialita'  della
 funzione  giurisdizionale  che viene esercitata in maniera diffusa da
 tutti i magistrati, con parita' di prestigio e di garanzie.
   In secondo luogo, perche' l'assenza di questa regola  nel  processo
 civile  attribuisce al magistrato che sia parte in un giudizio civile
 una posizione di privilegio, essa si'  non  giustificatamente  lesiva
 dell'equilibrio garantito dall'art. 24 della Costituzione.
   L'effetto  segnalato assume una particolare evidenza in conseguenza
 della nuova disciplina dei rapporti tra azione civile e azione penale
 tratteggiata dal codice di procedura penale del  1988,  il  quale  ha
 posto  il  principio  della  assoluta  alternativita'  dell'esercizio
 dell'azione civile per i danni da reato, tanto  nel  giudizio  penale
 tanto  nel  giudizio  civile  senza preclusioni rispetto al giudicato
 penale. Questa disciplina amplia  le  possibilita'  di  difesa  della
 persona  danneggiata  dal  reato,  ammettendo  l'immediato  esercizio
 dell'azione civile sia nel giudizio civile che  in  quello  penale  e
 rimettendo ad essa la scelta in ordine all'opportunita' di avvalersi,
 per l'accertamento del fatto illecito da cui si assume la derivazione
 del  danno  di  cui  e'  chiesto  il risarcimento, degli strumenti di
 indagine e dei mezzi di acquisizione delle prove propri del  processo
 penale,   ovvero  di  utilizzare,  in  sede  civile,  le  presunzioni
 probatorie stabilite dalla legge in determinate materie (Corte cost.,
 sentenza n. 60 del 1996).
   Tuttavia, per il magistrato che intenda agire per  il  risarcimento
 di  un  danno  derivante dalla commissione di un reato, la scelta che
 gli consente il sistema vigente, in quanto incide anche sul distretto
 di Corte d'appello nel quale e'  ricompreso  il  giudice  competente,
 espone  la parte convenuta (la quale, per la regola dello svolgimento
 autonomo dei due giudizi, penale e  civile,  potrebbe  anche  doversi
 difendere  contemporaneamente in due sedi giudiziarie diverse) ad una
 conseguente  non  giustificata  violazione  del  proprio  diritto  di
 difesa,  anche con riferimento al principio del giudice naturale, non
 potendo fare affidamento su un criterio  di  competenza  territoriale
 uniforme e predeterminato.
                               P. Q. M.
   Visto  l'art.  23  della  legge  11 marzo 1953, n. 87, nel giudizio
 indicato  in  epigrafe,  solleva,  di  ufficio,   la   questione   di
 legittimita'  costituzionale,  con riferimento agli artt. 3, 24, 25 e
 101 della Costituzione, degli artt. da 18  a  36  del  c.p.c.,  nella
 parte   in   cui  non  prevedono  l'applicabilita'  del  criterio  di
 competenza territoriale stabilito dall'art. 11 del c.p.p.,  anche  ai
 giudizi  civili  nei quali sia attore o convenuto un magistrato e che
 abbiano ad oggetto una domanda di risarcimento dei danni derivanti da
 un reato, di cui il magistrato, parte del giudizio civile, si  assume
 essere l'autore ovvero la persona offesa o il danneggiato;
   Sospende    il   giudizio   fino   alla   decisione   della   Corte
 costituzionale, cui ordina siano immediatamente trasmessi gli atti;
   Dispone che la presente  ordinanza  sia  notificata  a  cura  della
 cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai
 Presidenti delle due Camere del Parlamento.
     Cosi' deciso nella camera di consiglio della prima sezione civile
 del tribunale di Roma, l'11 novembre 1996.
                          Il presidente: Bucci
                                                  L'estensore: Mangano
 97C0508