N. 279 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 novembre 1996
N. 279 Ordinanza emessa l'11 novembre 1996 dal tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra Stabile Carmine e la societa' editrice Il Messaggero s.p.a. ed altro Processo civile - Competenze per territorio - Procedimenti per risarcimento dei danni derivanti da un reato, riguardanti i magistrati - Mancata applicabilita' del criterio di competenza territoriale stabilito per il processo penale (art. 11 del c.p.p.) - Ingiustificata disparita' di trattamento - Lesione del diritto di difesa con incidenza sul principio del giudice naturale precostituito per legge, posta l'alternativita' dell'esercizio dell'azione civile per i danni da reato, tanto nel giudizio penale, tanto nel giudizio civile - Violazione del principio di indipendenza ed imparzialita' del giudice. (C.P.C., artt. 18, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 32, 33, 34, 35 e 36). (Cost., artt. 3, 24, 25 e 101).(GU n.22 del 28-5-1997 )
IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza nella causa civile iscritta al n. 11176 del ruolo generale per gli affari contenziosi dell'anno 1995, posta in deliberazione all'udienza collegiale del 21 ottobre 1996 e vertente tra Stabile Carmine, elettivamente domiciliato in Roma, lungotevere Mellini, 24, presso lo studio del proc. avv. Giovanni Giacobbe che lo rappresenta e difende per procura in calce all'atto di citazione, attore, e la Societa' editrice Il Messaggero S.p.a., in persona del legale rappresentante Anselmi Giulio, Martinelli Massimo, elettivamente domiciliati in Roma, via Giuseppe Avezzana, 6, presso lo studio dei proc. avv. Adolfo e Luigi Di Majo che li rappresentano e difendono per procura in calce all'atto di citazione notificato, convenuti nonche' Vilardo Pasquale, elettivamente domiciliato in Roma via Flavia, 47, presso il proprio studio, difeso jure proprio ex art. 86 c.p.c., terzo intervenuto. Oggetto: responsabilita' civile da diffamazione a mezzo stampa. Conclusioni Per l'attore, i convenuti ed il terzo intervenuto: come da verbale della udienza in data 28 giugno 1996. Svolgimento del processo Con atto notificato in data 8 febbraio 1995 Carmine Stabile conveniva in giudizio, avanti questo tribunale, la Societa' editrice Il Messaggero S.p.a., in persona del legale rappresentante, Giulio Anselmi, quale direttore responsabile del quotidiano Il Messaggero, e Massimo Martinelli, assumendo di essere stato diffamato nel suo onore e nella sua reputazione di magistrato da un articolo pubblicato il 7 dicembre 1994 dal quotidiano Il Messaggero, a firma del convenuto Martinelli e con il titolo "Polemiche in pretura, giudici denunciati" e il sottotitolo "Dopo la lettera di richiamo per i ritardi, emergono alcuni episodi per cui si indaga". A tale riguardo, il dott. Stabile esponeva che l'autore del pezzo, dopo aver ricordato la lettera circolare di alcuni giorni prima con cui il procuratore della Repubblica presso la pretura circondariale, aveva richiamato i suoi sostituti al rispetto degli orari di inizio delle udienze, affermava che "... oltre alle accuse generiche, sono venute fuori le denunce precise. Non dal procuratore capo ... ma da cittadini qualsiasi, rimasti scottati dopo aver trascorso il loro giorno in pretura", dando atto, quindi, che "l'avvocato Pasquale Vilardo ha accusato senza mezzi termini un sostituto procuratore circondariale, Carmine Stabile, di aver occultato atti che documentavano prove a suo favore", precisando che della vicenda si sarebbe "gia' occupata la magistratura con una inchiesta a carico del magistrato archiviata dalla procura presso il tribunale ... e con un'altra inchiesta tuttora pendente" mentre "della faccenda si sta interessando anche il Ministero di grazia e giustizia, grazie all'intervento dell'ex guardiasigilli Conso, che raccolse un appello dello stesso Vilardo". L'attore esponeva, altresi', che, successivamente alla pubblicazione di tali notizie false e diffamatorie, aveva chiesto ed ottenuto dal quotidiano la rettifica di tali affermazioni, effettivamente apparsa su Il Messaggero del 9 gennaio 1995, contestualmente alla quale, tuttavia, il giornale pubblicava una risposta del giornalista Martinelli che, con riguardo alla vicenda della sparizione di documenti dall'ufficio del dott. Stabile, osservava conclusivamente: "allora delle due l'una: o Stabile ha subito un furto nel suo studio oppure ha una qualche responsabilita' nella sparizione delle carte. Ho cercato tracce di denunce di Stabile relative a furti nei suoi uffici, ma non ho trovato nulla". Per quanto sopra premesso, l'attore chiedeva che i convenuti venissero condannati a risarcirgli i danni patrimoniali e morali subiti in conseguenza delle pubblicazioni denunciate. I convenuti, costituitisi, negavano fondamento alla domanda attrice e ne chiedevano la reiezione, invocando il diritto di cronaca. Pasquale Vilardo e' intervenuto volontariamente in giudizio, chiedendo di provare la verita' dei fatti riportati nell'articolo de Il Messaggero denunciato dall'attore e da lui riferiti al giornalista. Quindi, la causa, rimessa al Collegio sulle conclusioni in epigrafe indicate, era posta in decisione alla udienza del 21 ottobre 1996. Motivi della decisione Il tribunale, chiamato a decidere sulla domanda sopra precisata, ritiene che sussistano i presupposti di rilevanza e non manifesta infondatezza, prescritti dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, per rimettere alla Corte costituzionale, di ufficio, la questione di legittimita' costituzionale degli artticoli da 18 a 36 del c.p.c., nella parte in cui non prevedono l'applicabilita' dello speciale criterio di competenza territoriale previsto dall'art. 11 c.p.p., anche ai giudizi civili nei quali sia attore o convenuto un magistrato e che abbiano ad oggetto una domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla commissione di un fatto-reato di cui il magistrato, parte del giudizio civile, si assume essere l'autore ovvero la persona offesa o danneggiata. Quanto al requisito della rilevanza della questione di costituzionalita', il Collegio osserva che il presente giudizio civile ha ad oggetto la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e morali derivanti dalla pubblicazione di un articolo di stampa e, pertanto, presuppone l'accertamento incidenter tantum del reato di diffamazione a mezzo stampa di cui all'art. 596-bis c.p. L'attore e' un magistrato che, al momento in cui fu commesso il fatto-reato di cui assume essere la persona offesa, svolgeva le funzioni di sostituto procuratore presso la pretura circondariale di Roma, ricompresa nello stesso distretto di Corte d'appello di questo tribunale. Da tanto consegue che l'eventuale accoglimento della questione di legittimita' costituzionale in oggetto, mediante una pronuncia additiva, nel sistema delle regole di competenza applicabili al presente giudizio, della norma contenuta nell'art. 11 c.p.p., attribuendo la causa al tribunale di Perugia, nel rispetto di un criterio di competenza territoriale non derogabile (pertanto rilevabile di ufficio in ogni grado e stato del giudizio ai sensi dell'art. 38 c.p.c. previgente, applicabile nel presente giudizio in quanto pendente alla data del 30 aprile 1995), determinerebbe una pronuncia di incompetenza di questo tribunale. Quanto alla non manifesta infondatezza della predetta questione di costituzionalita', il Collegio osserva che la denunciata lacuna normativa, per l'assenza nel sistema del processo civile di una regola uguale a quella dell'art. 11 c.p.p., risulta in contrasto con gli artt. 3, 24, 25 e 101 della Costituzione. L'art. 11 c.p.p. dispone che "i procedimenti in cui un magistrato assume la qualita' di imputato ovvero di persona offesa o danneggiato dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto in cui il magistrato esercita le sue funzioni ovvero le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte di appello piu' vicino, salvo che in tale distretto il magistrato stesso sia venuto successivamente ad esercitare le sue funzioni". Con riferimento all'invocato parametro dell'art. 3 della Costituzione, il tribunale rileva che sussiste una assoluta identita' di presupposti sostanziali tra la fattispecie legale delineata dalla norma dell'art. 11 c.p.p. e la fattispecie concreta oggetto del presente giudizio, riguardante l'accertamento di un reato che la domanda assume essere commesso ai danni di un magistrato il quale, all'epoca del fatto, esercitava le sue funzioni nell'ambito del distretto di Corte d'appello del tribunale competente secondo gli ordinari criteri di competenza territoriale e che, successivamente, non risulta aver svolto le proprie funzioni nell'ambito del distretto di Corte d'appello piu' vicino ad esso. Cio', in difetto di validi criteri di giustificazione della diversa disciplina applicabile, determina una ingiustificata disparita' di trattamento, con violazione del principio di eguaglianza costituzionalmente garantito. Trattandosi di dedotta identita' dei presupposti sostanziali non e' utilmente richiamabile la giurisprudenza costituzionale formatasi con riguardo al previgente art. 41-bis c.p.p. (tra le altre, si vedano Corte cost., sentenza n. 232 del 1984; ordinanza n. 164 del 1987; sentenza n. 390 del 1990), alla quale si deve il principio secondo cui spetta alla discrezionalita' del legislatore, stante la molteplicita' delle situazioni nelle quali puo' sorgere il dubbio che, a causa di rapporti interpersonali di vario genere, possa verificarsi una turbativa della serenita' e imparzialita' dei giudici, statuire se e in quale misura i rapporti, che all'interno dell'organizzazione giudiziaria si creano tra organi e singoli, debbano influire sulla determinazione della competenza e quali siano le soluzioni piu' idonee a garantire l'indipendenza del giudizio e il prestigio della magistratura. Applicando questa regola di giudizio, infatti, la Corte costituzionale ha dichiarato l'inammissibilita delle questioni di legittimita' costituzionale con le quali si chiedeva di estendere lo speciale criterio di competenza territoriale vigente nel processo penale, ai casi in cui l'imputato o la persona offesa dal reato fosse un pretore o un giudice onorario ovvero in cui il magistrato fosse danneggiato dal reato senza avere la qualita' di persona offesa o, ancora, nei quali si creasse, in virtu' dell'applicazione del criterio derogatorio, una soluzione di reciprocita' tra i giudici competenti. Casi in cui i presupposti erano diversi o per la situazione sostanziale rispetto al fatto reato (non presunto autore o persona offesa, bensi' danneggiato dal reato) o per la particolare posizione del magistrato (esercizio di funzioni giurisdizionali da parte di un giudice onorario o di un magistrato applicato in virtu' di un provvedimento temporaneo; possibile situazione di reciprocita' tra i giudici indicati come competenti), mentre invece, nel caso in esame, i presupposti, sia con riferimento alla qualita' sostanziale, sia con riferimento alla posizione professionale del magistrato, sono assolutamente coincidenti con la fattispecie legale della norma di cui si invoca l'estensione. La presente questione di costituzionalita', infatti, mira ad ottenere dalla Corte costituzionale una pronuncia additiva "a rime obbligate", la cui ammissibilita', in via di principio, e' ampiamente riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale ed il cui precedente piu vicino, nella materia che ci occupa, e' costituito dalla sentenza n. 390 del 1991, che ha dichiarato la illegittimita' costituzionale dell'art. 11, terzo comma, c.p.c., nella parte in cui faceva salva dall'applicazione del criterio di competenza territoriale ivi previsto, l'ipotesi del reato commesso in udienza, pur al ricorrere degli identici presupposti (essere il magistrato imputato, persona offesa o danneggiato dal reato per cui si procede). Sempre considerando il profilo di violazione dell'art. 3 della Costituzione, questo tribunale ricorda le pronunce giurisdizionali che, anche di recente, hanno ritenuto di non sollevare la questione di costituzionalita' in oggetto per il rilevato difetto del requisito di non manifesta infondatezza, sul presupposto principale della non comparabilita' della disciplina del processo civile con la disciplina del processo penale (Cass., sez. III, 16 settembre 1983, n. 5604; trib. Napoli, 22 marzo 1996 e trib. Roma, 19 giugno 1985). Con riguardo alle ricordate argomentazioni, il tribunale esprime l'avviso che la non negabile diversita' di natura del processo civile e di quello penale non e' idonea a giustificare la dedotta disparita' di trattamento, atteso che la norma del processo penale, di cui si denuncia come contrastante con i pricipii costituzionali la omessa previsione nel processo civile, e' espressione del valore di imparzialita' del giudice di cui partecipano tanto il processo penale tanto il processo civile, per essere entrambi finalizzati alla realizzazione dell'interesse pubblico al corretto esercizio della funzione statale giurisdizionale, nel rispetto dei principii costituzionali all'uopo fissati. Ne' la preordinazione dell'uno alla realizzazione della potesta punitiva dello Stato, da un lato, e la preordinazione dell'altro alla realizzazioni di situazioni soggettive individuali, dall'altro lato, attenua la primarieta' di questo valore, garantito dalla Costituzione principalmente negli artt. 24, 25 e 101. Se, invece, si intendesse desumere la non necessita' per il processo civile di un criterio di competenza uguale a quello previsto dall'art. 11 c.p.p., dalla diversa disponibilita delle parti rispetto al processo penale, va ricordato che anche il processo civile conosce criteri di competenza territoriale non derogabili. E' stato infatti riconosciuto che la disciplina del foro erariale di cui all'art. 25 c.p.c. ha una giustificazione sufficientemente adeguata nell'esigenza di concentrare, in vista di un minor costo e di un migliore svolgimento del servizio, e percio' a vantaggio della collettivita', gli uffici dell'avvocatura dello Stato presso un numero ristretto di sedi giudiziarie, sicche' l'eccepibilita' in ogni stato e grado di giudizio del relativo criterio di competenza e' apparsa compatibile con il principio di uguaglianza (Corte cost., sentenze nn. 118 del 1964 e 97 del 1967). Pertanto, se la Corte costituzionale ha giudicato non in contrasto con i principi costituzionali un criterio di competenza territoriale non derogabile, giustificato da ragioni organizzative della pubblica amministrazione, ancorche' traducentesi in un privilegio per l'Amministrazione stessa, a maggior ragione deve riconoscersi la possibilita' di ingressso nel sistema del processo civile di un criterio di competenza inderogabile collegato alla preservazione del valore costituzionale di serenita' e imparzialita' del giudizio. Infine, va ricordato che, anche se per il caso affatto particolare dell'azione proposta nei confronti dello Stato per il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie, l'art. 4 della legge 13 aprile 1988, n. 117, ha riprodotto lo stesso criterio di competenza territoriale dell'art. 11 c.p.p. Con particolare riferimento al valore di terzieta' ed imparzialita' del giudice, sancito dagli artt. 25 e 101 della Costituzione, il tribunale ricorda, inoltre, che la giurisprudenza costituzionale, anche con riguardo alla disciplina previgente all'art. 11 c.p.p. (ossia l'art. 41-bis e, ancor prima, 60 c.p.p., che pure non assicurava la stessa automaticita' e predeterminazione garantita dall'art. 11 c.p.p. per l'individuazione del giudice competente nei procedimenti in cui un magistrato sia imputato o persona offesa del reato), ha affermato che il fondamento di tale normativa risiede nella suprema esigenza di giustizia e di indipendenza del giudice (Corte cost., n. 109 del 1963). Piu' precisamente, riferendosi all'art. 11 c.p.p., invocato in questo giudizio come tertium comparationis, la Corte costituzionale ha riconosciuto che la garanzia della serenita' e obiettivita' dei giudizi, l'imparzialita' e la terzieta' del giudice, la salvaguardia del diritto di difesa e del principio di uguaglianza dei cittadini sono valori prevalenti anche sull'esigenza di immediatezza e celerita' dei giudizi, in quanto, a differenza di ogni altro principio, hanno fondamento nella Costituzione (Corte cost., sentenza n. 390 del 1991). Per quanto esposto, il tribunale ritiene che non possa addursi come motivo della manifesta infondatezza della quesione di costituzionalita sin qui illustrata, la circostanza che nel processo civile tali principii siano adeguatamente tutelati dalle norme sull'astensione e sulla ricusazione di giudici di cui agli artt. da 51 a 54 c.p.c.. E cio', non soltanto perche' anche il processo penale conosce questi istituti (artt. da 36 a 44 c.p.p.) accanto alla regola dell'art. 11 c.p.p. L'astensione e la ricusazione mirano a preservare l'imparzialita' del giudice dai condizionamenti che potrebbero derivare dalle particolari condizioni personali in cui il singolo giudice si trova rispetto alle parti. L'istituto in parola non ha lo stesso ambito di efficacia, tanto e' vero che potrebbe ipotizzarsene la concorrenza con gli altri due, ma impedisce il verificarsi di una situazione obiettiva (l'essere un magistrato giudicato in relazione ad un reato, da parte di un ufficio ricompreso nello stesso distretto di Corte di appello in cui lo stesso ha esercitato o esercita tuttora le sue funzioni) che riguarda l'ufficio, e non la persona che lo ricopre, tutelandone l'immagine di imparzialita' e di indipendenza, mediante l'applicazione di un criterio di competenza territoriale obiettivo ed automatico. Quanto alla censura relativa all'art. 24 della Costituzione, il tribunale non concorda con l'interpretazione, secondo la quale l'introduzione della norma dell'art. 11 c.p.c. nel processo civile comprimerebbe ingiustificatamente la situazione soggettiva dei magistrati che agiscono per la tutela di un loro diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla commissione di un reato. In primo luogo, perche' nessun valore sanzionatorio puo' ricollegarsi all'art. 11 c.p.p., che, al contrario, come sopra affermato, si riconnette al valore supremo di imparzialita' della funzione giurisdizionale che viene esercitata in maniera diffusa da tutti i magistrati, con parita' di prestigio e di garanzie. In secondo luogo, perche' l'assenza di questa regola nel processo civile attribuisce al magistrato che sia parte in un giudizio civile una posizione di privilegio, essa si' non giustificatamente lesiva dell'equilibrio garantito dall'art. 24 della Costituzione. L'effetto segnalato assume una particolare evidenza in conseguenza della nuova disciplina dei rapporti tra azione civile e azione penale tratteggiata dal codice di procedura penale del 1988, il quale ha posto il principio della assoluta alternativita' dell'esercizio dell'azione civile per i danni da reato, tanto nel giudizio penale tanto nel giudizio civile senza preclusioni rispetto al giudicato penale. Questa disciplina amplia le possibilita' di difesa della persona danneggiata dal reato, ammettendo l'immediato esercizio dell'azione civile sia nel giudizio civile che in quello penale e rimettendo ad essa la scelta in ordine all'opportunita' di avvalersi, per l'accertamento del fatto illecito da cui si assume la derivazione del danno di cui e' chiesto il risarcimento, degli strumenti di indagine e dei mezzi di acquisizione delle prove propri del processo penale, ovvero di utilizzare, in sede civile, le presunzioni probatorie stabilite dalla legge in determinate materie (Corte cost., sentenza n. 60 del 1996). Tuttavia, per il magistrato che intenda agire per il risarcimento di un danno derivante dalla commissione di un reato, la scelta che gli consente il sistema vigente, in quanto incide anche sul distretto di Corte d'appello nel quale e' ricompreso il giudice competente, espone la parte convenuta (la quale, per la regola dello svolgimento autonomo dei due giudizi, penale e civile, potrebbe anche doversi difendere contemporaneamente in due sedi giudiziarie diverse) ad una conseguente non giustificata violazione del proprio diritto di difesa, anche con riferimento al principio del giudice naturale, non potendo fare affidamento su un criterio di competenza territoriale uniforme e predeterminato.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, nel giudizio indicato in epigrafe, solleva, di ufficio, la questione di legittimita' costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 24, 25 e 101 della Costituzione, degli artt. da 18 a 36 del c.p.c., nella parte in cui non prevedono l'applicabilita' del criterio di competenza territoriale stabilito dall'art. 11 del c.p.p., anche ai giudizi civili nei quali sia attore o convenuto un magistrato e che abbiano ad oggetto una domanda di risarcimento dei danni derivanti da un reato, di cui il magistrato, parte del giudizio civile, si assume essere l'autore ovvero la persona offesa o il danneggiato; Sospende il giudizio fino alla decisione della Corte costituzionale, cui ordina siano immediatamente trasmessi gli atti; Dispone che la presente ordinanza sia notificata a cura della cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso nella camera di consiglio della prima sezione civile del tribunale di Roma, l'11 novembre 1996. Il presidente: Bucci L'estensore: Mangano 97C0508