N. 40 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 19 luglio 1997
N. 40 Ricorso per conflitto di attribuzione depositato in cancelleria il 19 luglio 1997 (del giudice per le indagini preliminari del tribunale di Roma) Parlamento - Immunita' parlamentari - Delibera del Senato della Repubblica, nella seduta del 7 maggio 1997, con la quale, relativamente alla richiesta di pronuncia in materia di insindacabilita' ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, nell'ambito del procedimento penale nei confronti del signor Erminio Boso, all'epoca senatore, per il reato di cui all'art. 595 del cod. pen., trasmessa con nota 28 novembre 1996, si e' ritenuto che il fatto diffamatorio attribuito al signor Boso concerne opinioni espresse da un menbro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e ricade pertanto nell'ipotesi di cui all'art. 68, comma primo, della Costituzione - Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato, in seguito a tale delibera, con ordinanza-ricorso del tribunale penale di Roma, sezione giudice per le indagini preliminari, ritenuto ammissibile, in sede di esame delibativo, con ordinanza n. 251/1997, e in ottemperanza a questa, notificato in termini al Senato - Ritenuta impossibilita' - in base al principio, enunciato in materia dalla Corte costituzionale, per cui "non tutti i comportamenti dei membri delle Camere, ma solo quelli strettamente funzionali all'esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo, sono coperti dall'immunita'" - di affermare, nel caso, che le espressioni per cui il processo penale e' stato promosso, che il Boso e' accusato di aver proferito nella dichiarazione rilasciata alla agenzia di stampa AGI il 15 gennaio 1996, nei riguardi di Cioffredi Giampiero, che pur il Boso assume di non sapere chi sia, definendolo "negriero", "pifferaio di quartiere" ecc., siano connotabili come "opinioni" riconducibili ad un atto - come richiesto dall'art. 68, comma primo, della Costituzione, - che il parlamentare possa essere riconosciuto libero di compiere nell'espletamento delle proprie attribuzioni - Conseguente richiesta alla Corte di dichiarazione di non spettanza al Senato del potere esercitato - Richiamo alle sentenze nn. 1150/1988, 443/1993, 129 e 379 del 1996. (Nota del Senato della Repubblica di Roma del 7 maggio 1997, num. 4373/S). (Cost., art. 68, primo comma).(GU n.35 del 27-8-1997 )
Il giudice per le indagini preliminari dott. Alberto Macchia all'udienza del 16 maggio 1997 ha pronunziato la seguente ordinanza. 1. - Questo giudice procede nei confronti di Boso Erminio Enzo nato a Pieve Tesino (Trento) il 9 luglio 1945, quale imputato del reato di cui agli articoli 595 c.p. e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47, per aver offeso la reputazione di Cioffredi Giampiero, rilasciando all'agenzia di stampa AGI una dichiarazione, diffusa da tale agenzia in data 15 gennaio 1996 e ripresa e pubblicata in sintesi dal quotidiano "La Nazione" in data 16 gennaio 1996, dal seguente tenore: "Cioffredi chi e'? Sicuramente un fannullone della burocrazia romana e di sinistra. Gente che non ha il concetto del lavoro, responsabilita' sociale e del denaro altrui. Questi sono i negrieri che insieme con la Caritas, i comunisti ed i sindacati hanno derubato i lavoratori italiani promettendo l'Eldorado alla gente del terzo mondo. Sono pifferai da banda di quartiere, veri nemici dei nostri connazionali che sopravvivono con 300 mila lire di pensione al mese. Io non faccio folklore e dico a questa marionetta che per regolarizzare un extracomunitario, secondo l'eta', ci vogliono da 400 ai 600 milioni. La solidarieta' si fa con i soldi e non con le chiacchiere e le balle di questi negrieri che si vogliono spartire i 3 mila miliardi dei contribuenti, fuori bilancio dello Stato, e messi nelle mani della Caritas". Con ordinanza del 27 novembre 1996 e' stata disposta la trasmissione di copia degli atti al Senato della Repubblica per la deliberazione in ordine alla questione relativa alla applicabilita' dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, a norma dell'art. 2, comma 4, del d.-l. 23 ottobre 1996, n. 555, all'epoca vigente. Con nota dell'8 maggio 1997, il Presidente del Senato ha comunicato che, "relativamente alla richiesta di deliberazione in materia di insindacabilita', ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, nell'ambito del procedimento penale nei confronti del signor Erminio Boso, senatore all'epoca dei fatti, per il reato di cui all'art. 595 del codice penale, trasmessa con nota del 28 novembre 1996, il Senato della Repubblica, nella seduta del 7 maggio 1997, ha deliberato di ritenere che il fatto attribuito al signor Boso concerne opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e ricade, pertanto, nell'ipotesi di cui all'art. 68, comma primo, della Costituzione". La giurisprudenza della Corte costituzionale e', come e' noto, da tempo consolidata nell'interpretare l'art. 68, primo comma, Cost., nel senso che esso attribuisce alla Camera di appartenenza il potere di valutare la condotta addebitata a un proprio membro, con l'effetto, qualora sia ritenuta esercizio delle funzioni parlamentari, di inibire in ordine ad essa una difforme pronuncia giudiziale, sempre che il potere sia stato correttamente esercitato. Qualora reputi che la delibera favorevole all'applicazione dell'art. 68, primo comma, sia il risultato di un esercizio non corretto del potere - per vizi in procedendo oppure per omessa o erronea valutazione dei suoi presupposti, in particolare per manifesta estraneita' della condotta del parlamentare al concetto di "opinione" o di "esercizio delle funzioni" - il giudice, al quale si e' rivolta la persona lesa dalle dichiarazioni diffamatorie contestate, puo' soprassedere dalla dichiarazione immediata di applicabilita' dell'art. 68 sollevando conflitto di attribuzione davanti alla stessa Corte, con effetto sospensivo del giudizio pendente davanti a lui (v. sentenze nn. 1150 del 1988, 443 del 1993 e 129 del 1996). La stessa Corte costituzionale, d'altra parte, non ha mancato di osservare come sul tema delle immunita' parlamentari si registrino due opposte tendenze: da un lato, una rilevante accentuazione del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge conduce a ritenere, in linea di principio, inammissibile la sottrazione dei membri del Parlamento alle regole del diritto comune e a postulare la sottoposizione alla giurisdizione di ogni loro comportamento. Sull'opposto versante, una configurazione della autonomia delle Assemblee rappresentative in termini di assolutezza vorrebbe sottratti a qualsiasi forma di sindacato esterno, in primo luogo al sindacato del giudice penale, tutti i comportamenti dei membri delle Camere dovunque tenuti e in qualunque modo collegati all'esercizio delle loro funzioni, ritenendosi tale prerogativa coessenziale alla sovranita' del Parlamento. A fronte delle accennate, antagoniste tendenze, pero', - ha osservato la Corte - stanno i principi costituzionali dai quali invece risulta un equilibrio razionale e misurato tra le istanze dello stato di diritto, che tendono ad esaltare i valori connessi all'esercizio della giurisdizione, e la salvaguardia di ambiti di autonomia parlamentare sottratti al diritto comune, che valgono a conservare alla rappresentanza politica un suo indefettibile spazio di liberta'. "Sono infatti coperti da immunita' non tutti i comportamenti dei membri delle Camere, ma solo quelli strettamente funzionali all'esercizio indipendente delle attribuzioni proprie del potere legislativo, mentre ricadono sotto il dominio delle regole di diritto comune i comportamenti estranei alla ratio giustificativa dell'autonomia costituzionale delle Camere". E' ben vero, ha ancora puntualizzato la Corte, che la individuazione della linea di confine tra i due distinti valori della autonomia della Camera, da un lato, e della legalita'-giurisdizione, dall'altro, si fa problematica nelle ipotesi in cui - come nella specie - alcuni beni morali della persona, che e' la Costituzione stessa a qualificare inviolabili (onore, reputazione, pari dignita'), vengono a collidere con l'insindacabilita' dell'opinione espressa dal parlamentare, che e' momento insopprimibile (e, ben puo' dirsi, anch'esso inviolabile), della liberta' della funzione. Ma e' altrettanto vero - ha concluso la Corte - che la "fisiologica interferenza tra due situazioni di liberta' genera in tal caso un conflitto tra valori dotati entrambi di cogenza costituzionale", in relazione al quale la composizione non puo' che avvenire attraverso il modulo procedimentale che la richiamata giurisprudenza della stessa Corte ha avuto modo di delineare (v. sentenza n. 379 del 1996). 3. - Da tutto cio' possono dunque trarsi alcuni fondamentali corollari. La condotta del parlamentare, per essere assistita dalla garanzia costituzionale della irresponsabilita', a sua volta - e come si e' visto - fondamentale ed ineludibile strumento per il libero esercizio degli alti compiti riservati a ciascun membro del Parlamento, deve esprimersi attraverso "opinioni": in piu', deve trattarsi di opinioni che risultino intimamente correlate all'esercizio della funzione parlamentare, giacche', altrimenti, l'unica garanzia correttamente evocabile e' quella della liberta' di manifestare il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione che l'art. 21 della Carta fondamentale assicura a tutte le persone. Risultera' subito evidente, quindi, che potendosi a qualsiasi argomento annettere, o pretendere di annettere, riflessi di portata generale e, dunque, un interesse lato sensu "politico", ove si ritenesse di far coincidere con l'esercizio della funzione parlamentare qualsiasi opinione non esclusivamente "privata", l'area della immunita' risulterebbe di fatto priva di qualsiasi confine, con evidente vanificazione della ratio della garanzia costituzionale e della interpretazione ad essa data dalla Corte costituzionale. Non e', pertanto, il maggiore o minor tasso di "politicita'" a rendere l'opinione espressa ontologicamente riconducibile all'esercizio del munus che viene qui in discorso, ma e' soltanto la necessaria strumentalita' che quella opinione deve obiettivamente presentare rispetto alla funzione a costituire l'elemento che "qualifica" l'espressione del pensiero, facendola assurgere al rango di "atto" che il parlamentare liberamente compie avvalendosi delle proprie prerogative, a prescindere dalla sede in cui viene adottato e dalla forma che lo stesso assume. Accanto a cio', per potersi correttamente fare appello all'equilibrato componimento tra il valore della autonomia parlamentare e quello della legalita'-giurisdizione e dissolvere, quindi, la "fisiologica interferenza" che, come si e' detto, la Corte costituzionale ha affermato sussistere tra valori costituzionalmente pariordinati, e' pur sempre necessario che il sacrificio dell'un valore - quale e' quello dell'onore e della reputazione - sia razionalmente contemperato dall'essere lo stesso indispensabile per conseguire il pieno soddisfacimento del valore antagonista, vale a dire il libero esercizio della funzione parlamentare. Un bilanciamento, dunque, che, per essere realmente tale, postula, a sua volta, non soltanto il necessario requisito dalla essenzialita' della condotta "sacrificante" ai fini dell'esercizio di quella funzione, ma, anche, quella indispensabile contenutezza e misura che valga a rendere minima, a quei fini, l'offesa del bene "sacrificato". Alla luce delle esposte considerazioni emerge, pertanto, che il fatto attribuito all'imputato non puo' in alcun modo qualificarsi come opinione espressa da un membro del Parlamento nell'esercizio delle proprie funzioni agli effetti di quanto previsto dall'art. 68, primo comma, della Costituzione. Tale non puo' configurarsi, infatti, il comportamento di chi, pur assumendo di non sapere chi sia una determinata persona, con sicumera e del tutto gratuitamente si affretti a definirlo come "un fannullone della burocrazia romana", "negriero", "pifferaio da banda di quartiere", "marionetta". L'assenza, in cio', delle connotazioni proprie di una "opinione" e l'impossibilita' di ricondurre quelle espressioni a qualsivoglia "atto" che il parlamentare e' libero di compiere nell'espletamento delle proprie attribuzioni, esclude, quindi, a parere di questo giudice, la legittimita' del sindacato ad opera della Camera di appartenenza in ordine al fatto per il quale si procede. D'altra parte, va sottolineato che nel caso di specie la giunta delle elezioni e delle immunita' parlamentari (v. Doc. IV-Ter n. 7-A) delibero' di proporre alla Assemblea di ritenere che il fatto attribuito al Boso non conernesse opinioni espresse da un membro del Parlamento dell'esercizio delle sue funzioni; proposta che l'Assemblea non approvo' per considerazioni a dir poco sfuggenti e malgrado efficaci interventi di opposto segno (v. Resoconto sommario della seduta del 7 maggio 1997 del Senato della Repubblica). Deve quindi essere sollevato conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale, perche' questa dichiari che non spetta al Senato della Repubblica deliberare che il fatto attribuito al signor Boso, e precisato in premessa, concerne opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e ricade, pertanto, nell'ipotesi prevista dall'art. 68, primo comma, della Costituzione.
P. Q. M. Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione del conflitto sopra delineato; Dispone la sospensione del procedimento in corso; Manda alla cancelleria per gli adempimenti di rito. Roma, addi' 16 maggio 1997 Il giudice per le indagini preliminari: Macchia 97C0899