N. 612 ORDINANZA (Atto di promovimento) 26 giugno 1997

                                N. 612
  Ordinanza  emessa  il  26  giugno  1997  dal giudice per le indagini
 preliminari presso il tribunale di Piacenza nel procedimento penale a
 carico di D'Urso Giuseppe
 Reati contro la pubblica amministrazione - Abuso  d'ufficio  -  Fatto
    commesso  al  fine  di  procurare  a  se'  o  ad altri un ingiusto
    vantaggio   patrimoniale   -   Asserita   indeterminatezza   della
    fattispecie   incriminatrice,   non  superabile  per  effetto  del
    previsto dolo specifico, per difetto  di  elementi  oggettivamente
    verificabili - Conseguente possibilita' di inizio del procedimento
    penale   senza   previo  accertamento  della  notitia  criminis  -
    Ipotizzata indebita ingerenza nella sfera  della  discrezionalita'
    della  p.a.  -  Lesione del principio di legalita' e di quello del
    buon andamento della p.a.
 (C.P.C., art. 323, comma secondo).
 (Cost., artt. 25, comma secondo, e 97, comma primo).
(GU n.39 del 24-9-1997 )
                IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI
   Ha  emesso  la  seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale   n.
 1320/1995 g.i.p. e n. 209/1995 p.m. a carico di D'Urso Giuseppe.
   Il  pubblico  ministero chiedeva il rinvio a giudizio dell'imputato
 indicato in epigrafe per il reato di cui agli artt. 81  cpv.  e  323,
 secondo comma, c.p.
   il g.u.p. fissava l'udienza preliminare.
   Cio'   premesso,  questo  giudice,  ripropone  anche  nel  presente
 procedimento  (tenuto  conto  dei  principi  fissati  dal   combinato
 disposto  dagli  artt.   23 legge 11 marzo 1953, n. 87 e 159 c.p.) la
 questione  (gia'  sollevata  d'ufficio  nel  procedimento  penale  n.
 255/1995  r.g.  g.i.p.  e  n. 625/1994 p.m. in data 16 aprile 1966 in
 ordine  all'art.  323,   secondo   comma,   c.p.)   di   legittimita'
 costituzionale   dell'art.   323,  secondo  comma,  c.p.  perche'  in
 contrasto  con  gli  artt.  25, secondo comma e 97, primo comma della
 Costituzione.
   Esaminando innanzitutto  il  primo  profilo,  l'art.  323,  secondo
 comma,  c.p. (ma un discorso analogo puo' farsi per l'art. 323, primo
 comma, c.p. che  prevede,  secondo  l'orientamento  giurisprudenziale
 prevalente,  una  autonoma  ipotesi di reato) non pare rispettare uno
 degli aspetti  del  principio  di  legalita'  sancito  dall'art.  25,
 secondo comma, della Costituzione e cioe' quello della tassativita' e
 sufficiente   determinatezza  della  fattispecie  incriminatrice;  si
 tratta di un aspetto che, come  e'  noto,  tende  a  salvaguardare  i
 cittadini   contro   eventuali   abusi   del  potere  giudiziario,  a
 restringere i poteri di interpretazione del giudice.
   Non si intende certo mettere in  discussione  che  nella  redazione
 delle   fattispecie   incriminatrici   il   legislatore   possa  fare
 riferimento ad elementi normativi e non solo  descrittivi.  Si  vuole
 invece   evidenziare   che  l'art.  323  c.p.  incentra  la  condotta
 esclusivamente sull'abuso d'ufficio rinviando all'elemento soggettivo
 (dolo specifico) la rilevanza penale del fatto.
   Senonche', come autorevole dottrina ha osservato,  l'abuso  e'  una
 figura  che  non possiede, di per se stessa, connotati oggettivamente
 verificabili, essendo il risultato di un giudizio che si  esprime  su
 un  comportamento spesso solo in ragione del fine che lo ha ispirato;
 si e' osservato che si tratta di un concetto abbastanza generico,  di
 una locuzione indeterminata, di un termine neutro, incolore.
   La  norma,  allora,  si presta a facili manipolazioni e - ad essere
 applicata  a  qualsiasi  forma  di  vizio  -  irregolarita'  di  tipo
 amministrativo  (che  possono essere legati alle ragioni piu' varie e
 differenti  dalla  commissione   di   un   reato);   ne   conseguono,
 inevitabilmente,    incertezze    interpretative,    indeterminatezza
 applicativa.
   Impostando correttamente il discorso in relazione all'attivita' del
 giudice fin dall'inizio del procedimento (perche' sarebbe  certamente
 riduttivo   prospettarsi   la  questione  guardando  all'epilogo  del
 processo) ha ancora osservato  autorevole  dottrina  che  il  giudice
 penale  puo'  dire  di  trovarsi  dinanzi  ad  una  notizia  criminis
 allorche' e' posto alla sua attenzione un fatto che, ad una  sommaria
 valutazione,  corrisponda  nella  sua  materialita' ad una ipotesi di
 reato.
   Orbene, in relazione all'art. 323 c.p., il carattere  neutro  della
 condotta  rende  poco  agevole la sussunzione nell'ambito della norma
 dei comportamenti piu' vari che possono essere sottoposti  al  vaglio
 del giudice.
   Ne  consegue  il  fondato  rischio  che,  in concreto, l'inizio del
 procedimento possa precedere l'accertamento di una  notizia  criminis
 ed  essere  diretto,  spesso  in  presenza  di  una  mera  ipotesi, a
 verificare se nella situazione in esame  ci  sia  effettivamente  una
 tale notizia.
   Va  poi  evidenziato  che,  come  emerge  dai lavori preparatori il
 legislatore del 1990 si era espressamente posto l'obiettivo di meglio
 tipicizzare i comportamenti lesivi dei beni da tutelare  nella  p.a.;
 senonche'  in  tema di abuso, gli stessi lavori rendono chiaro che la
 formulazione  attuale  dell'art.  323  c.p.  fu   dettata   anche   e
 soprattutto da motivazioni non tecniche (incentrando la condotta solo
 sull'abuso  e  non  inserendo  un  evento  di  tipo  naturalistico si
 anticipava  la  soglia  di  punibilita'  "per  evitare  rimproveri di
 eccessiva indulgenza".
   L'insufficiente determinatezza dell'art. 323 c.p. appare piu' grave
 se si considera che la norma viene ad assumere  un  ruolo  cardine  e
 centrale  nel sistema penale della p.a.: essa non ha piu' la funzione
 sussidiaria dell'originario abuso innominato; ha inglobato (e  si  e'
 parlato  di  fattispecie  "onnivora")  il  peculato  per distrazione,
 l'interesse privato in atti d'ufficio, l'abuso  innominato;  e  tutto
 cio' con la previsione di pene certamente non lievi.
   Ad  avviso  di  questo  giudice,  inoltre, non si puo' ritenere che
 l'art. 323 c.p. sia sufficientemente determinato per la presenza  del
 dolo  specifico;  si  tratta,  come  e'  noto, di uno degli argomenti
 centrali con il quale nella ormai datata sentenza n. 7/1965 la  Corte
 costituzionale  dichiaro'  non  fondata  la  questione  sollevata  in
 relazione alla vecchia fattispecie di  abuso  innominato.  Senonche',
 come  pure  e'  stato  sostenuto  in  dottrina,  la  fattispecie  non
 acquisisce maggiore tassativita' attraverso il mero  dolo  specifico;
 in   proposito   non   va   trascurato   che   nella  interpretazione
 giurisprudenziale (anche se in verita' nelle pronunce piu' recenti la
 Suprema Corte ha posto un freno a tale orientamento),  la  prova  del
 dolo   specifico   viene  tratta  spesso  dalla  mera  illegittimita'
 dell'atto e del comportamento:  l'elemento soggettivo diviene un mero
 corollario di quello oggettivo.
   Passando  all'esame  del  secondo  profilo  di  incostituzionalita'
 denunciato,   va  ribadito  che  sarebbe  riduttivo  prospettarsi  la
 questione  guardando  solo  al  risultato  finale  del   procedimento
 (l'applicazione  "discrezionale"  della norma di abuso ai fini di una
 eventuale condanna): nella realta' giudiziale, anzi, pare  prevalgano
 decisioni in senso assolutorio.
   Occorre  invece  considerare  quella che una autorevole dottrina ha
 definito una invadenza giudiziale "primaria", che si esprime, di  per
 se', attraverso la sola attivazione dei meccanismi processuali.
   In   questo  senso  l'art.  323  c.p.,  con  la  sua  insufficiente
 determinatezza  costituisce  una   facile   chiave   di   accesso   a
 disposizione  del  giudice  penale per penetrare nel territorio della
 p.a. ed instaurare un processo penale: e gia' soltanto questo, si  e'
 giustamente  osservato,  e'  fonte  di  immediato  discredito  per  i
 pubblici amministratori e di riflesso per la p.a.
   L'art. 323 c.p. costituisce allora "una spada di Damocle" che grava
 sulla testa anche dell'amministrazione piu' onesta.
   Tutto cio' compromette seriamente "il buon  andamento  della  p.a."
 voluto  dall'art.  97 della Costituzione: da un lato perche' consente
 con facilita' incursioni giudiziali in una  normativamente  riservata
 sfera  di  valutazione  discrezionale  della p.a.; dall'altro perche'
 genera  un  clima  non  favorevole  alla  serenita'  della  attivita'
 amministrativa  ed  una  situazione  quindi, come pure si e' detto in
 dottrina, che puo'  stimolare  l'immobilismo,  favorire  mancanza  di
 iniziativa, seminare preoccupazioni anche fra gli amministratori piu'
 onesti.
   Tutto cio' compromette seriamente, si ripete, lo svolgimento di una
 azione  amministrativa  in  modo  efficiente;  appropriato, adeguato,
 spedito.
   Paradossalmente  l'art.  323 c.p. pare minare proprio quel bene che
 costituisce l'oggetto specifico della tutela penale.
   La  questione,  che  si  solleva  di   ufficio,   oltre   che   non
 manifestamente  infondata, e' poi, di tutta evidenza rilevante per la
 decisione, attesa la concreta incidenza sul corso del processo.
                                P. Q. M.
   Visto l'art.  23  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  dichiara
 rilevante  nel  presente procedimento e non manifestamente infondata,
 in relazione agli artt. 25, secondo comma e 97,  primo  comma,  della
 Costituzione,  la  questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 323, secondo comma del c.p.;
   Sospende il presente procedimento;
   Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
   Dispone che la presente ordinanza  sia  notificata,  a  cura  della
 cancelleria  al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al
 Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della  Camera
 dei deputati.
     Piacenza, addi' 26 giugno 1997
            Il giudice per le indagini preliminari: Picciau
 97C1037