N. 729 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 maggio 1997
N. 729 Ordinanza emessa il 29 maggio 1997 dalla commissione tributaria provinciale di Brescia sui ricorsi riuniti proposti dalla Metaltrading S.r.l. contro l'Ufficio II.DD. di Salo' Contenzioso tribuario - Giudizio innanzi le Commissioni tributarie - Prova testimoniale - Divieto - Lesione del principio di eguaglianza e del diritto di difesa - Violazione dei principi contenuti nella legge di delega. (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4). (Cost., artt. 3, 24 e 76).(GU n.44 del 29-10-1997 )
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE Ha emesso la seguente ordinanza sui ricorsi riuniti n. 1525/1996 e n. 1526/1996, depositati il 6 marzo 1996, avverso gli avvisi di accertamento n. 212 e n. 213 contro l'Ufficio delle imposte dirette di Salo' per Irpef-Ilor 1991 e 1992, dalla S.r.l. Metaltrading, rappresentata ed assistita dal rag. Aldenghi Amedeo. F a t t o L'Ufficio delle imposte dirette di Salo' notificava in data 8 gennaio 1996 alla S.r.l. Metaltrading con sede in San Felice del Benaco, rappresentata dal sig. Floridi Guido, due avvisi di accertamento per gli anni 1991 e 1992. Per l'anno 1991 l'Ufficio accertava induttivamente il reddito di impresa, quantificandolo in L. 304.859.000 ai fini Irpeg e L. 187.642.000 ai fini Ilor, non ritenendo attendibile la contabilita' dell'azienda in quanto dal processo verbale della Guardia di finanza di Brescia n. 103, prot. 3742, del 28 marzo 1995 emergeva: a) emissione di fatture ideologicamente false in quanto le operazioni commerciali in esse contenute sono state in realta' poste in essere con soggetti diversi da quelli indicati negli stessi documenti al fine di evadere in modo rilevante l'IVA: anno 1991 ditta "East West" (Ge) imponibile L. 152.655.360 IVA esente; b) vendita di prodotto, indicato nelle fatture soggettivamente false ad altri operatori economici identificati nel corso delle indagini effettuate dalla G.d.F.: anno 1991 ditta "B.A.MET" Desenzano imponibile L. 152.655.360 IVA L. 29.004.519. Per l'anno 1992 l'Ufficio accertava induttivamente il reddito di impresa in L. 526.943.000 ai fini Irpeg ed in L. 379.827.000 ai fini Ilor in relazione al citato verbale di constatazione della G.d.F. dal quale emergeva: A) emissione di fatture ideologicamente false perche' le operazioni commerciali di riferimento, in realta', sono state poste in essere con soggetti diversi da quelli indicati nei documenti al fine di realizzare ingenti evasioni IVA: 1) ditta "East West" (Sori GE), imponibile L. 11.054.674.370 IVA esente; 2) "Flo.Bet S.r.l.", imponibile L. 3.120.349.933, IVA L. 582.866.490; B) "annotazione di fatture per operazioni inesistenti emesse dall'impresa ''Magoni G.F.'' di Castegnato (Brescia) per occultare quelle effettive poste in essere dalle ditta ''Ba.Met'': ditta Magoni G.F., imponibile L. 273.686.400 - IVA L. 52.000.416"; C) "la societa' ha venduto il prodotto, indicato nelle fatture soggettivamente false, direttamente agli operatori economici identificati nel corso delle indagini delle G.d.F.: ditta "Ba.Met" di Desenzano - imponibile L. 14.175.024.903 - IVA L. 2.693.254.618"; D) "la societa' ha acquistato prodotti non documentati da idonea fattura, nelle stesse qualita' e quantita' indicate dai documenti soggettivamente falsi direttamente dalla ditta ''Ba.Met.'' di Desenzano; ditta ''Ba.Met.'' - imponibile L. 273.686.400 - IVA L. 52.000.416". La societa' ricorrente, esibendo una ampia documentazione (fatture, assegni ecc.), sostiene la infondatezza della pretesa fiscale in quanto non provata affermando nel ricorso che "la ipotizzata ''falsita' ideologica'' delle fatture emesse dalla ''Metaltrading S.r.l.'' e' assolutamente infondata, non e' assolutamente provata ed e' smentita dai documenti relativi a cessione, trasporto e pagamento delle merci, oltre che dalle testimonianze rese dal vettore e dagli autisti che hanno effettuato i trasporti". La Guardia di finanza nel verbale di constatazione su indicato ai fogli da n. 4 a n. 8 mette in evidenza che i risultati delle indagini sono stati conseguiti sia attraverso l'esame delle documentazioni delle ditte e delle societa' sia attraverso l'escussione di testimoni in particolare gli autisti i quali hanno dichiarato che nei documenti di accompagnamento la loro firma e' "falsa" nonche' hanno indicato dove la merce e' stata effettivamente trasportata consentendo di accertare, in maniera non equivoca, la falsita' delle scritture contabili e, quindi, la loro inattendibilita'. Al foglio n. 5 di detto verbale di constatazione viene descritta una operazione fraudolenta immediatamente accertata dalla G.d.F "all'atto dell'accesso" attraverso la quale si ha conferma del modus operandi della societa' ricorrente, ma detta operazione non puo' costituire prova per decidere i ricorsi in esame in quanto non e' possibile - per il divieto di cui all'art. 7, quarto comma, del decreto-legge n. 546/1992 - escutere come testimoni i militari operanti ed i conducenti degli automezzi della S.n.c. "Cigala". L'escussione dei testimoni di entrambe le parti costituite consentirebbe di accertare l'esistenza o meno dell'imponente evasione fiscale per miliardi di lire. In siffatta situazione ritiene il Collegio che sia necessario sottoporre - d'ufficio - al vaglio della Corte costituzionale la valutazione della illegittimita' costituzionale dell'art. 7, quarto comma, del decreto-legge n. 546/1992 per violazione degli art. 3, 24 e 76 della Costituzione. D i r i t t o Il decreto-legge n. 546/1992 stabilisce all'art. 7, comma quarto, che "non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale" ripetendo quanto disposto dall'art. 35, comma quinto, del decreto del Presidente della Repubblica. n. 636/1972. La non ammissibilita' del "giuramento" sembra possa individuarsi nel divieto di deferimento dello stesso, sancito dall'art. 2739 del c.c., "sopra i fatti illeciti". Le contestate violazioni fiscali, sia sotto il profilo della presunta evasione che in relazione alle sanzioni irrogate per comportamenti vietati, sono indubitabilmente attinenti a "fatti illeciti" e, pertanto, il divieto di deferire il giuramento sugli stessi trova la sua ratio nell'opportunita' di evitare al giurante l'alternativa tra ammettere una condotta antigiuridica e, quindi biasimevole o immorale, o giurare il falso. Quanto alla prova testimoniale gli articoli dal 2721 al 2726 del c.c. dettano norme di "non ammissibilita'" soltanto in relazione ai contratti ed alla loro obbligatoria forma scritta, consentendola, peraltro, nel caso in cui il contraente ha senza sua colpa perduto il documento che gli forniva la prova (art. 2724 n. 3 del c.c.). Attesa la natura di obbligazione pecuniaria del "debito fiscale" e di contravvenzioni delle violazioni tributarie, tanto che le sanzioni sono qualificate come "pene pecuniarie", i giudici tributari si sono spesso domandati - vigente il divieto di cui al citato art. 35 del decreto del Presidente della Repubblica n. 636/1972 - quale fosse la ratio del divieto della prova testimoniale nel processo tributario. Il problema non poteva non essere sottoposto al giudizio della Corte costituzionale, la quale, con sentenza 12 luglio 1972, n. 128, ha precisato che "il solo fatto della esclusione di un mezzo di prova come quello della testimonianza non costituisce di per se stesso violazione del diritto di difesa" aggiungendo che "in molti casi, e specie nella materia contrattuale (artt. 2721, 2722, 2723 del c.c.) la prova per testimoni e' guardata con disfavore e, percio', esclusa o limitata per motivi, che il legislatore puo' apprezzare in piena discrezionalita'". Una siffatta motivazione non appare appagante nella misura in cui non e' dato sapere quali sono le ragioni per le quali nel processo tributario la prova testimoniale debba essere "guardata con disfavore". Il richiamo, poi, all'art. 2721 del c.c. non sembra grandemente pertinente ove si sottolinei che il secondo comma dello stesso consente al giudice di ammettere la prova testimoniale per i contratti che eccedono il valore di lire cinquemila "tenuto conto della qualita' delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza". Se si evidenzia che anche l'art. 2723 del c.c. conferisce al giudice il potere di disporre la prova testimoniale per le stesse ragioni di cui al citato art. 2721 del c.c. si apprezza maggiormente come nel codice civile sia contenuto sostanzialmente il principio che la prova testimoniale, pur se "guardata con disfavore", e' tuttavia ammessa secondo il prudente apprezzamento del giudice in relazione - e' bene sottolinearlo - anche ad "ogni altra circostanza". Con ordinanza n. 506 del 26 novembre 1987 la Corte costituzionale, richiamando la sentenza n. 128/1972, ha confermato il suo convincimento della non sussistenza dell'illegittimita' costituzionale del divieto evidenziando che l'Avvocatura generale dello Stato ha precisato che "il processo tributario ha natura inquisitoria e che mal si concilia la prova per testi con la struttura ed il carattere di tale processo, piu' snello e semplificato rispetto a quello civile". Le ragioni addotte dall'Avvocatura generale dello Stato appaiono inaccettabili sia perche' non si e' tenuto conto che nel processo penale, il cui carattere inquisitorio del tempo e' incontestabile, la prova testimoniale e' ammessa, sia perche' "snellezza" e "semplificazione" del processo tributario sono contraddetti dai poteri del giudice tributario contenuti nel citato art. 35 (facolta' di accesso, richiesta di dati, di informazioni o chiarimenti, acquisizione di elementi conoscitivi tecnici) sicche' l'audizione di testi non inciderebbe sui "tempi" del processo in maniera maggiore di quanto possa incidere l'espletamento degli adempimenti istruttori delegati dal collegio ad uno dei suoi componenti ovvero la redazione di "apposite relazioni tecniche" da parte degli organi tecnici dello Stato. Nel 1989 con ordinanza n. 76 del 9 febbraio la Corte costituzionale ribadisce lo stesso principio e con ordinanza n. 6 dell'8 gennaio 1991 precisa, ancora una volta, che il divieto della prova testimoniale non viola il diritto di difesa, garantito dall'art. 24 della Costituzione, "potendo quest'ultimo ai fini della formazione del convincimento del giudice, essere diversamente regolato dal legislatore, nella sua discrezionalita', in funzione delle peculiari caratteristiche dei singoli procedimenti". Ancora una volta la Corte costituzionale "delude" dando una risposta ancora una volta immotivata e, per certi versi, inquietante in relazione ad una realta' processuale nella quale la prova testimoniale, gia' acquisita dagli organi inquirenti e determinante ai fini del decidere, una volta conosciuta dai giudici con incidenza sulla formazione del convincimento, deve essere "ripudiata" in ragione di una discrezionalita' "pura" del legislatore. A fronte di tante ripetute autorevoli decisioni che hanno affermato la legittimita' costituzionale del "divieto della prova testimoniale" si rinviene - solitaria - la decisione n. 9486 del 10 dicembre 1986 della sez. XI della Commissione tributaria centrale la quale scrive, rigettando un ricorso dell'Ufficio IVA di Brescia, testualmente: "Il collegio giudicante ha ritenuto fondamentale ai fini dell'acquisizione della prova sulla effettiva e veridicita' delle fatture (gravate di IVA) in discorso la circostanza che sulla base degli atti del processo assume risolutiva efficacia la testimonianza che ha confermato l'effettiva introduzione della merce nei magazzini dell'acquirente". Detta decisione, in verita' scarsamente motivata in relazione al divieto di cui all'art. 35 del decreto del Presidente della Repubblica. n. 636/1972, lascia perplessi anche perche' non e' dato sapere dalla motivazione se la testimonianza apprezzata "sulla base degli atti" sia stata acquisita con l'escussione del teste da parte dei giudici di primo grado ovvero sia stata - acriticamente - recepita dal rapporto degli inquirenti, i quali hanno acquisito la testimonianza nel corso delle indagini, ovvero trattasi di testimonianza presentata dal ricorrente e contenuta in un atto notorio. Concludendo e' da apprezzare una contrastante giurisprudenza tra gli organi giudiziari che godono del "privilegio" che le loro decisioni non sono sottoposte a gravame. Il problema, pero', va rivisitato in relazione alle disposizioni che regolano il nuovo contenzioso. Una prima osservazione e' quella relativa alla mancanza di una qualsiasi motivazione nella relazione ministeriale al decreto-legge n. 546/1992 sul divieto della prova testimoniale. Sull'art. 7 e' stato scritto, nella relazione ministeriale, che "solo in parte e' riportabile all'art. 35 del decreto presidenziale" n. 636/1972 ed "attenua la natura tipicamente inquisitoria del processo tributario, in relazione al maggiore spazio lasciato all'impulso di parte e, soprattutto al venir meno della funzione assistenziale prima riconosciuta ai giudici tributari". L'affermazione che il processo tributario abbia conservato la sua natura "inquisitoria", sia pure "attenuata" non sembra conciliarsi con il principio dettato dalla lettera g) dell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (legge delega) con il quale e' stabilito "l'adeguamento delle norme del processo tributario a quello del processo civile" ne' con il disposto di cui al secondo comma dell'art. 1 del decreto-legge n. 546/1992 la' dove si precisa che "i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile". Se per "inquisitorio" intende il processo nel quale il giudice ha "poteri" di indagine autonomi al fine del decidere rispetto alle richieste delle parti e' da prendere atto che il giudice civile, oltre ai poteri di cui agli artt. 118 (ordine di ispezione di persone e di cose), 210 (ordine di esibizione all'altra parte o al terzo di documenti) e 212 del c.c. (ordine di esibizione dei libri di commercio), ha l'ampio potere di "richiedere d'ufficio alla pubblica amministrazione le informazioni scritte relative ad atti e documenti dell'amministrazione stessa, che e' necessario acquisire al processo" (art. 213 del c.c.). Se ne deve dedurre che anche il processo civile avrebbe carattere "inquisitorio" in quanto il giudice civile ha poteri non dissimili da quello tributario ove si apprezzi quanto disposto dell'art. 7 del decreto-legge n. 546/1992, il quale conferisce al giudice tributario "ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti" "tutte le facolta' di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all'ente locale da ciascuna legge di imposta" nonche' la facolta' di richiesta di "apposite relazioni ad organi tecnici dell'amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza". Orbene, si dia o meno l'etichetta di "inquisitorio" o di "inquisitorio attenuato" all'uno ed all'altro processo, civile e tributario, un dato di fatto e' incontroverso che con il decreto-legge n. 546/1992 il processo tributario e' regolato dalle norme del codice di procedura civile, sia pure con la limitazione della "compatibilita'" di questo con le norme del citato decreto legislativo e, pertanto, c'e' da chiedersi quali sono le ragioni per le quali soltanto nel processo tributario e' vietata la prova testimoniale e quali sarebbero le ragioni della "incompatibilita'" (sancita espressamente dal quarto comma dell'art. 7) della prova testimoniale con le norme che regolano il nuovo contenzioso tributario. E' da prendersi atto che il nuovo processo tributario non e' "diverso e piu' snello dell'ordinario processo civile" e che non esiste piu' quella "notevole diversita'" in virtu' della quale la Corte costituzionale con la sentenza n. 196 del 18 novembre 1983 giustificava il divieto di disporre la consulenza tecnica e l'assenza della possibilita' di condanna del soccombente al pagamento delle spese processuali mentre con ordinanza n. 367 del 19 dicembre 1983 stabiliva che il potere di sospendere in via cautelare la riscossione coattiva delle imposte non era una componente essenziale della tutela giurisdizionale tributaria. Ed, infatti, con il decreto-legge n. 546/1992 nel processo tributario sono stati introdotti sia la consulenza tecnica (art. 7) che la condanna alle spese per la parte soccombente (art. 15) nonche' la sospensione cautelare (art. 47) senza contare che con l'assistenza tecnica (art. 12) che puo' essere imposta anche per le controversie del valore inferiore ai cinque milioni e con il rigore delle forme per la costituzione del rapporto processuale (articoli 20 e 22) non si puo' piu' affermare - come si legge nelle sentenze della Corte costituzionale - che il processo tributario si distingue dal processo civile per la maggiore semplicita' delle forme tanto da non essere necessaria una "assistenza di tecnici del diritto". Si deve apprezzare - in sintesi - che il legislatore ha reso "piu' civile" il processo tributario accogliendo, sostanzialmente, tutte le istanze dei giudici tributari, rigettate dalla Corte costituzionale con le motivazioni "opinabili" delle quali si e' detto, ma il "divieto della prova testimoniale" permane pur se sono venuti meno quei "presupposti" che lo avrebbero giustificato. Ed allora si ripropone il problema se il "divieto della prova testimoniale" in relazione alla nuova regolamentazione del processo tributario non sia da dichiararsi costituzionalmente illegittimo per violazione degli articoli 3 e 24 della Costituzione. E' agevole apprezzare come la pubblica amministrazione quando agisce in giudizio ovvero e' convenuta davanti ai tribunali ordinari in relazione ad atti che afferiscono alla sfera del patrimonio gestito iure privatorum si puo' avvalere, a tutela di interessi che, formalmente, sono "privati", ma, sostanzialmente, "pubblici" in quanto la loro tutela giova al raggiungimento di fini dell'ente pubblico, della prova testimoniale, mentre quando tutela "interessi" di altissima valenza pubblicistica, quali sono quelli relativi alla pretesa fiscale deve arrendersi alle emergenze delle scritture private del privato, e non puo' vincere la presunzione relativa di veridicita' a mezzo di testimoni. Del pari il cittadino, in presenza di due procedure - quella civile e quella tributaria - ormai sostanzialmente uguali, puo' difendere, a mezzo testimoni, davanti al giudice ordinario i propri diritti anche dal valore economico irrisorio, mentre davanti al giudice tributario, pur difendendo interessi di rilevante valore economico, non puo' avvalersi di detto tipo di prova. Come non apprezzare allora una disparita' di trattamento tra cittadini e pubbliche amministrazioni a seconda che tutelino i loro interessi davanti all'una o all'altra autorita' giudiziaria? Ed e' bene puntualizzarlo che nelle commissioni tributarie dal 1 aprile 1996 operano "giudici" pronunciano sentenze in nome del popolo italiano e non "membri" che prendono "decisioni" collegiali. Pertanto si deve parlare di "autorita' giudiziaria" sia che ci si riferisca ai tribunali ordinari sia che ci si riferisca alle commissioni tributarie. Ma la disparita' di trattamento assume un aspetto piu' inquietante ove si evidenzi che mentre il cittadino, il quale deve rispondere davanti al pretore di una modesta contravvenzione, prevista dal codice penale o da una legge penale speciale, ha diritto di difendersi a mezzo testimoni, colpito che sia, invece, dalla condanna da parte di un ufficio finanziario a pene pecuniarie anche di "miliardi di lire", non puo' fare valere la sua "innocenza fiscale" a mezzo della prova testimoniale. L'assurdo giuridico in tema di disparita' di trattamento lo si apprezza constatando come l'evasore fiscale che commette "reati fiscali" puo' difendersi davanti al giudice penale a mezzo testimoni e l'evasore fiscale la cui condotta e' di piu' modesta entita' da non realizzare un "crimine tributario" non puo' difendersi davanti al giudice tributario con lo stesso mezzo di prova. L'autorita' del giudicato penale a sensi dell'art. 654 del c.p.p. nell'ambito del giudizio tributario se garantisce il cittadino in ordine ad un eventuale disparita' di decisione non appaga il giudice tributario che deve subire la valenza della prova testimoniale operata da altro giudice anche se - secondo il suo libero convincimento - non la condivide. Tanto varrebbe consentire al giudice penale, nel caso in cui l'amministrazione finanziaria si sia costituita parte civile, di definire anche il contenzioso tributario. Se il processo tributario esige la difesa a mezzo di "assistenti tecnici", come li denomina l'art. 12 del decreto-legge n. 546/1992, non sembra che la Corte costituzionale possa ancora sostenere che il processo tributario ha maggiore semplicita' delle forme tanto da non essere necessaria "una assistenza di tecnici del diritto". Sostenere che il diritto di difesa e' garantito anche senza la prova testimoniale e' una assurdo giuridico in quanto spesso la prova testimoniale e' l'unico strumento di difesa della pretesa dell'una o dell'altra parte. La citata sentenza della commissione centrale e' emblematica nella misura in cui e' la testimonianza di chi ha visto entrare la merce nel magazzino della ditta a fare decidere per l'insussistenza di fatture false. E, per altro verso, "affidabile" o "inaffidabile" che sia ritenuta la prova testimoniale e' conclamato come attraverso testimonianze anche da parte di soggetti, c.d. "pentiti", uomini insospettabili debbono rispondere di reati gravissimi: e' il giudice che dovra' valutare dette prove e decidere in liberta' di convincimento. Non si vede, quindi, per quali motivi persone di tutto rispetto non possano deporre davanti alle commissioni tributarie su circostanze di facile conoscenza spesso ripetute (es. emissione di fatture per operazioni inesistenti) anche quando le deposizioni sono state rese alla Guardia di finanza nel corso delle indagini. Ma e' da sottolineare come il divieto della prova testimoniale nuoce, spesso, al diritto di difesa dell'amministrazione finanziaria la quale, pur avendo raggiunto la prova dell'addebito fiscale attraverso le testimonianze rese agli organi inquirenti, subisce "l'insulto" di vedere accolti i ricorsi e la "beffa" di essere condannata al pagamento delle spese processuali. Assumere, dunque, che non sussiste violazione dell'art. 24 della Costituzione non sembra sostenibile. La difesa dei diritti e degli interessi di chiunque deve essere esperita con tutti i mezzi probatori che possano consentire di accertare "il vero" ed al giudice, quale che sia la sua funzione, non puo' essere sottratta la valutazione di una prova, attraverso la quale possa maturare un sereno, oltre che libero, convincimento. L'illegittimita' del divieto della prova testimoniale va esaminata anche da altra angolazione e cioe' sotto il profilo della violazione dell'art. 76 della Costituzione. E' principio sancito dalla Corte costituzionale sin dal 1957 (sentenze n. 3 e n. 49) che "e' possibile la denuncia della legge delegata per illegittimita' costituzionale, in quanto l'art. 76 della Costituzione non rimane estraneo alla disciplina del rapporto tra organo delegante e organo delegato e sia il precetto costituzionale dell'art. 76, sia la norma delegante, costituiscono la fonte da cui trae legittimazione costituzionale la legge delegata". Trattasi di accertare se il Governo con la legge delegata abbia violato "principi" o "criteri direttivi" contenuti nella norma delegante determinando una "distorsione" nel rapporto di delegazione. Ed allora bisogna tornare alla premesse e constatare che la legge delegante ha stabilito il "principio" dell'"adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile". Siffatto "adeguamento" la legge delegata lo ha attuato in modo "generico" stabilendo al secondo comma dell'art. 1 del decreto-legge n. 546/1992 il "principio" che " i giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile". L'adeguamento, voluto dalla legge delegante, dunque, e' stato attuato dalla legge delegata applicando il "principio" della "compatibilita'" o "incompatibilita'" delle norme del codice di procedura civile alle norme del decreto-legge n. 546/1992: giudizio rimesso alla interpretazione dei singoli giudici tributari. Si legge nella relazione ministeriale che "la disciplina dettata dalla codice di procedura civile, della quale ovviamente fanno parte anche le disposizioni di attuazione, si pone quale fonte immediata secondaria e generalizzata (essendo stata abolita la precedente limitazione alle sole disposizioni del libro primo del codice di procedura civile) rispetto alla normativa del decreto. Il passaggio dall'una all'altra e' dato, ovviamente, dal doppio criterio dell'esistenza di una lacuna nella normativa speciale e della compatibilita' della disciplina generale del codice di procedura civile con quella specialmente prevista dal decreto, in modo da realizzare compiutamente il principio di integrazione imposto dalla legge delega". E' da ritenersi che il principio dell'adeguamento delle norme del processo tributario a quello del processo civile non sia individuabile nel ritenere il codice di procedura civile una "fonte secondaria e generalizzata" o "fonte integrativa" rispetto alla "normativa del decreto" in quanto "l'adeguamento" deve consistere nel dettare norme per il processo tributario che siano uguali e corrispondenti alle norme del processo civile di modo che il sistema processuale civile e tributario siano uguali. Con la legge delegata si dovevano recepire espressamente tutte le norme del codice di procedura civile applicabili in relazione alla peculiarita' del rapporto processuale tributario nel quale una delle parti e' l'amministrazione finanziaria o un ente pubblico, rappresentati dai loro organi. In siffatto modo le norme del codice di procedura civile dovevano avere valenza di "fonte primaria" e le norme del decreto dovevano disporre per l'inapplicabilita' di norme del codice di procedura civile non riferibili ad entrambe le parti del rapporto processuale, come, ad esempio, l'interrogatorio formale di cui agli artt. 230, 231 e 232 del c.p.c. esperibile nei confronti del ricorrente e non nei confronti dell'amministrazione finanziaria o dell'ente pubblico. Seguendo il criterio suindicato, cosi' come appare abbia voluto la legge delega, il processo tributario avrebbe "certezze", in particolare in relazione alla prove, che non ha, nella misura in cui la compatibilita' o incompatibilita' e' rimessa all'interpretazione dei singoli giudici le sentenze dei quali formeranno una giurisprudenza "variegata" con grave danno per la certezza del diritto. Nel dare, con il secondo comma dell'art. 1 del decreto-legge n. 546/1992, alle norme del codice di procedura civile una secondaria funzione integrativa generica l'autorita' delegata ha "distorto" la volonta' del delegante e siffatta distorsione incide in maniera determinante nel divieto della prova testimoniale in quanto detta prova non e' incompatibile con il processo tributario, ma la si e' resa immotivatamente inapplicabile "d'autorita'" Se "distorsione" si ritiene esserci stata la illegittimita' costituzionale dell'art. 7 del decreto-legge n. 546/1992 nella parte in cui dispone per il divieto della prova testimoniale puo' essere sottoposta al vaglio della Corte costituzionale per violazione dell'art. 76 della Costituzione. L'immotivato divieto della prova testimoniale nel processo tributario appare incomprensibile in quanto detta prova ha maggiore "affidabilita'" rispetto al processo civile e penale. Se si pensa che in detti processi il teste e' chiamato a deporre su circostanze percepite all'improvviso e per una sola volta (es. negli incidenti stradali si chiede la velocita', la tenuta di strada, il colore della vettura, i connotati del conducente ecc.) e' da prendersi atto che nel processo tributario i testi sono chiamati a deporre su comportamenti ripetuti e, spesso, in relazione a documenti che il soggetto indagato esibisce agli accertatori. Infatti la necessita' di escutere i testimoni, gia' escussi dalla Guardia di finanza, ha rilevanza determinante per accertare la falsita' di fatture per operazioni inesistenti o "ideologicamente" inesistenti, la falsita' di bolle di accompagnamento, la falsita' delle fatture per inesistenti "consulenze" o "sponsorizzazioni", la falsita' di fatture nei contratti di leasing, le inesistenti esenzioni di imposta per inesistenti esportazioni, scambi di assegni tra imprenditori che operano nello stesso settore o altro connesso, ed ogni altra circostanza relativa a costi inesistenti. Collaboratori dipendenti (impiegati) e autonomi (trasportatori) possono agevolmente testimoniare se i documenti che fanno parte delle scritture contabili o extracontabili si riferiscono ad operazioni realmente effettuate ovvero sono documenti creati al fine di fare apparire costi inesistenti o operazioni con soggetti diversi da quelli che i documenti certificano. Spesso vi sono testimoni le cui deposizioni sono "convergenti" si' che l'una e' il riscontro dell'altra come avviene se un testimone dell'acquirente dichiara, per esempio, che le fatture sono "fasulle" ed il testimone del soggetto che le ha compilate conferma la veridicita' delle dichiarazioni del suddetto. E' tempo di dire - a gran voce - che il divieto dell'esame testimoniale ha fatto sorgere in tutta Italia una rete organizzata, spesso bene mimetizzata, diretta a "fabbricare" documenti falsi consentendo ad imprenditori disonesti di usufruire "corposamente" del "servizio". L'operatore commerciale che usufruisce di detto servizio rimarra' sempre impunito in quanto ogni testimonianza, che provenga o da chi ha fornito il servizio o da chi ne e' a conoscenza, quale collaboratore dell'operatore, non ha valenza di prova contro "i documenti" (le scritture contabili) che costituiscono "prova privilegiata". Del pari il soggetto sottoposto ad indagine fiscale non potra' esperire la sua difesa dimostrando anche a mezzo di testimoni che le prove addotte dagli inquirenti (testimonianze, presunzioni, accertamenti tecnici, ecc.) sono prive di valore. Il divieto della prova testimoniale mortifica i componenti della Guardia di finanza, i quali quotidianamente operano nell'interesse dello Stato conducendo indagini che dimostrano un ottimo grado di professionalita', le indagini dai quali risultano "ininfluenti" per le decisioni dei giudici tributari. Con detto divieto una delle evasioni fiscali piu' imponenti rimane impunita con perdita per l'erario di miliardi di lire ed il danno colpisce tutti i cittadini i quali sono chiamati a sopperire alle minore entrate pubbliche con imposte aggiuntive temporanee o permanenti sicche' la pressione fiscale e' diventata cosi' gravosa da determinare movimenti di opinione pubblica diretti alla "rivolta fiscale". Lo Stato oltre a non introitare i tributi dovuti dagli evasori spende per le indagini, spende per operatori degli uffici finanziari che debbono recepirle, spende per i giudici tributari che debbono decidere sui ricorsi ed - ora - spende anche pagando le spese processuali agli evasori vincenti. Rilevato che, con ordinanze pronunciate in data 10 febbraio 1997 e' stata sospesa la esecuzione di entrambi gli avvisi di accertamento e' da valutarsi se detta sospensione puo' essere revocata d'ufficio nella misura in cui, in attesa della decisione della Corte costituzionale, la sospensione e' destinata a procrastinarsi nel tempo. Poiche' l'art. 47, comma 7, dispone che gli effetti della sospensione cessano dalla data della pubblicazione della sentenza di primo grado e' di tutta evidenza che, costituendo l'ordinaza di rinvio alla Corte costituzionale l'apertura di un procedimento "incidentale", detta ordinanza non puo' essere "parificata" alla "sentenza di primo grado" e, pertanto, gli effetti della sospensione della esecuzione devono permanere. Ne' si puo' assumere che il provvedimento di sospensione puo' essere revocato d'ufficio per essere trascorsi i novanta giorni di cui al sesto comma del citato art. 47 in quanto detto termine, che ha natura ordinatoria, e' riferibile soltanto al tempo di fissazione della trattazione della controversia. Ne consegue che la revoca dei provvedimenti di sospensione potra' essere adottata su istanza di parte - a sensi dell'ottavo comma dell'art. 47 - e con la procedura di cui ai commi 1, 2 e 4 di detto articolo.
P. Q. M. Visto l'art. 134 della Costituzione nonche' gli artt. 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 solleva incidente di illegittimita' costituzionale dell'art. 7, quarto comma, del decreto-legge n. 546/1992 nei limiti in cui e' disposto il "divieto della prova testimoniale" per violazione degli art. 3, 24 e 76 della Costituzione, sospendendo di provvedere nel merito fino alla risoluzione dell'incidente; Ordina la trasmissione degli atti alla Corta costituzionale a cura della segreteria nonche' la notifica alle parti costituite della presente ordinanza; Ordina la comunicazione della presente ordinanza al Presidente della Camera dei deputati ed al Presidente del Senato; Ordina la notifica della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei Ministri. Depositata in segreteria il 29 maggio 1997. Il presidente relatore: Trovato 97C1173