N. 729 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 maggio 1997

                                N. 729
  Ordinanza emessa il 29  maggio  1997  dalla  commissione  tributaria
 provinciale   di   Brescia   sui   ricorsi   riuniti  proposti  dalla
 Metaltrading S.r.l. contro l'Ufficio II.DD. di Salo'
 Contenzioso tribuario - Giudizio innanzi le Commissioni tributarie  -
    Prova   testimoniale   -   Divieto  -  Lesione  del  principio  di
    eguaglianza e del diritto di  difesa  -  Violazione  dei  principi
    contenuti nella legge di delega.
 (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 4).
 (Cost., artt. 3, 24 e 76).
(GU n.44 del 29-10-1997 )
                 LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE
   Ha  emesso la seguente ordinanza sui ricorsi riuniti n. 1525/1996 e
 n. 1526/1996, depositati il 6  marzo  1996,  avverso  gli  avvisi  di
 accertamento  n.  212 e n. 213 contro l'Ufficio delle imposte dirette
 di Salo' per Irpef-Ilor  1991  e  1992,  dalla  S.r.l.  Metaltrading,
 rappresentata ed assistita dal rag. Aldenghi Amedeo.
                               F a t t o
   L'Ufficio  delle  imposte  dirette  di  Salo'  notificava in data 8
 gennaio 1996 alla S.r.l. Metaltrading con  sede  in  San  Felice  del
 Benaco,   rappresentata   dal  sig.  Floridi  Guido,  due  avvisi  di
 accertamento per gli anni 1991 e 1992.
   Per l'anno 1991 l'Ufficio accertava induttivamente  il  reddito  di
 impresa,  quantificandolo  in  L.  304.859.000  ai  fini  Irpeg  e L.
 187.642.000 ai fini Ilor, non ritenendo attendibile  la  contabilita'
 dell'azienda  in quanto dal processo verbale della Guardia di finanza
 di Brescia n. 103, prot. 3742, del 28 marzo 1995 emergeva:
     a) emissione  di  fatture  ideologicamente  false  in  quanto  le
 operazioni  commerciali in esse contenute sono state in realta' poste
 in essere con  soggetti  diversi  da  quelli  indicati  negli  stessi
 documenti al fine di evadere in modo rilevante l'IVA: anno 1991 ditta
 "East West" (Ge) imponibile L. 152.655.360 IVA esente;
     b)  vendita  di  prodotto, indicato nelle fatture soggettivamente
 false ad altri  operatori  economici  identificati  nel  corso  delle
 indagini effettuate dalla G.d.F.: anno 1991 ditta "B.A.MET" Desenzano
 imponibile L. 152.655.360 IVA L. 29.004.519.
   Per  l'anno  1992  l'Ufficio accertava induttivamente il reddito di
 impresa in L. 526.943.000 ai fini Irpeg ed in L. 379.827.000 ai  fini
 Ilor  in  relazione  al  citato verbale di constatazione della G.d.F.
 dal quale emergeva:
     A)  emissione  di  fatture  ideologicamente  false   perche'   le
 operazioni  commerciali  di riferimento, in realta', sono state poste
 in essere con soggetti diversi da quelli indicati  nei  documenti  al
 fine di realizzare ingenti evasioni IVA:
      1) ditta "East West" (Sori GE), imponibile L. 11.054.674.370 IVA
 esente;
      2)   "Flo.Bet  S.r.l.",  imponibile  L.  3.120.349.933,  IVA  L.
 582.866.490;
     B) "annotazione di  fatture  per  operazioni  inesistenti  emesse
 dall'impresa  ''Magoni  G.F.''  di Castegnato (Brescia) per occultare
 quelle effettive poste in essere dalle ditta ''Ba.Met'': ditta Magoni
 G.F., imponibile L. 273.686.400 - IVA L. 52.000.416";
     C) "la societa' ha venduto il prodotto,  indicato  nelle  fatture
 soggettivamente   false,   direttamente   agli   operatori  economici
 identificati nel corso delle indagini delle G.d.F.: ditta "Ba.Met" di
 Desenzano - imponibile L. 14.175.024.903 - IVA L. 2.693.254.618";
     D) "la societa' ha acquistato prodotti non documentati da  idonea
 fattura,  nelle  stesse  qualita'  e quantita' indicate dai documenti
 soggettivamente  falsi  direttamente  dalla  ditta   ''Ba.Met.''   di
 Desenzano;  ditta  ''Ba.Met.''  -  imponibile L. 273.686.400 - IVA L.
 52.000.416".
   La societa' ricorrente, esibendo una ampia documentazione (fatture,
 assegni ecc.), sostiene la  infondatezza  della  pretesa  fiscale  in
 quanto   non  provata  affermando  nel  ricorso  che  "la  ipotizzata
 ''falsita' ideologica'' delle  fatture  emesse  dalla  ''Metaltrading
 S.r.l.''  e' assolutamente infondata, non e' assolutamente provata ed
 e' smentita dai documenti relativi a cessione, trasporto e  pagamento
 delle  merci,  oltre che dalle testimonianze rese dal vettore e dagli
 autisti che hanno effettuato i trasporti".
   La Guardia di finanza nel verbale di constatazione su  indicato  ai
 fogli da n. 4 a n. 8 mette in evidenza che i risultati delle indagini
 sono  stati  conseguiti  sia  attraverso l'esame delle documentazioni
 delle ditte e delle societa' sia attraverso l'escussione di testimoni
 in particolare gli autisti i quali hanno dichiarato che nei documenti
 di accompagnamento la loro firma e' "falsa"  nonche'  hanno  indicato
 dove  la  merce  e'  stata  effettivamente trasportata consentendo di
 accertare, in maniera  non  equivoca,  la  falsita'  delle  scritture
 contabili e, quindi, la loro  inattendibilita'.
   Al  foglio  n.  5 di detto verbale di constatazione viene descritta
 una  operazione  fraudolenta  immediatamente  accertata  dalla  G.d.F
 "all'atto  dell'accesso" attraverso la quale si ha conferma del modus
 operandi della societa' ricorrente,  ma  detta  operazione  non  puo'
 costituire  prova  per  decidere  i ricorsi in esame in quanto non e'
 possibile - per il divieto di  cui  all'art.  7,  quarto  comma,  del
 decreto-legge  n.  546/1992  -  escutere  come  testimoni  i militari
 operanti ed i conducenti degli automezzi della S.n.c. "Cigala".
   L'escussione  dei  testimoni  di  entrambe  le   parti   costituite
 consentirebbe di accertare l'esistenza o meno dell'imponente evasione
 fiscale per miliardi di lire.
   In  siffatta  situazione  ritiene  il  Collegio  che sia necessario
 sottoporre - d'ufficio - al vaglio della    Corte  costituzionale  la
 valutazione  della  illegittimita' costituzionale dell'art. 7, quarto
 comma, del decreto-legge  n. 546/1992 per violazione degli art. 3, 24
 e 76 della Costituzione.
                             D i r i t t o
   Il decreto-legge n. 546/1992 stabilisce all'art. 7,  comma  quarto,
 che  "non  sono  ammessi  il  giuramento  e  la  prova  testimoniale"
 ripetendo quanto disposto dall'art. 35, comma quinto, del decreto del
 Presidente della Repubblica. n. 636/1972.
   La  non  ammissibilita'  del "giuramento" sembra possa individuarsi
 nel divieto di deferimento dello stesso, sancito dall'art.  2739  del
 c.c., "sopra i fatti illeciti".
   Le  contestate  violazioni  fiscali,  sia  sotto  il  profilo della
 presunta  evasione  che  in  relazione  alle  sanzioni  irrogate  per
 comportamenti  vietati,  sono  indubitabilmente  attinenti  a  "fatti
 illeciti" e, pertanto, il divieto di  deferire  il  giuramento  sugli
 stessi  trova  la  sua ratio nell'opportunita' di evitare al giurante
 l'alternativa tra ammettere  una  condotta  antigiuridica  e,  quindi
 biasimevole o immorale, o giurare il falso.
   Quanto  alla  prova  testimoniale gli articoli dal 2721 al 2726 del
 c.c. dettano norme di "non ammissibilita'" soltanto in  relazione  ai
 contratti  ed  alla  loro  obbligatoria forma scritta, consentendola,
 peraltro, nel caso in cui il contraente ha senza sua colpa perduto il
 documento che gli forniva la prova (art. 2724 n. 3 del c.c.).
   Attesa la natura di obbligazione pecuniaria del "debito fiscale"  e
 di contravvenzioni delle violazioni tributarie, tanto che le sanzioni
 sono  qualificate come "pene pecuniarie", i giudici tributari si sono
 spesso domandati - vigente il divieto di cui al citato  art.  35  del
 decreto  del Presidente della Repubblica n. 636/1972 - quale fosse la
 ratio del divieto della prova testimoniale nel processo tributario.
   Il problema non poteva non  essere  sottoposto  al  giudizio  della
 Corte  costituzionale, la quale, con sentenza 12 luglio 1972, n. 128,
 ha precisato che "il solo fatto della esclusione di un mezzo di prova
 come quello della testimonianza non  costituisce  di  per  se  stesso
 violazione  del  diritto di difesa" aggiungendo che "in molti casi, e
 specie nella materia contrattuale (artt. 2721, 2722, 2723  del  c.c.)
 la  prova per testimoni e' guardata con disfavore e, percio', esclusa
 o limitata per motivi, che il legislatore puo'  apprezzare  in  piena
 discrezionalita'".
   Una  siffatta  motivazione non appare appagante nella misura in cui
 non e' dato sapere quali sono le ragioni per le  quali  nel  processo
 tributario   la   prova   testimoniale  debba  essere  "guardata  con
 disfavore".
   Il richiamo, poi, all'art. 2721 del  c.c.  non  sembra  grandemente
 pertinente  ove  si  sottolinei  che  il  secondo  comma dello stesso
 consente  al  giudice  di  ammettere  la  prova  testimoniale  per  i
 contratti  che  eccedono  il  valore di lire cinquemila "tenuto conto
 della qualita' delle parti, della natura  del  contratto  e  di  ogni
 altra circostanza".
   Se  si  evidenzia  che  anche  l'art.  2723  del c.c. conferisce al
 giudice il potere di disporre la prova  testimoniale  per  le  stesse
 ragioni  di cui al citato art. 2721 del c.c. si apprezza maggiormente
 come nel codice civile sia contenuto sostanzialmente il principio che
 la prova testimoniale, pur se "guardata con disfavore",  e'  tuttavia
 ammessa  secondo il prudente apprezzamento del giudice in relazione -
 e' bene sottolinearlo - anche ad "ogni altra circostanza".
   Con ordinanza n. 506 del 26 novembre 1987 la Corte  costituzionale,
 richiamando   la   sentenza   n.   128/1972,  ha  confermato  il  suo
 convincimento    della    non     sussistenza     dell'illegittimita'
 costituzionale  del  divieto  evidenziando  che l'Avvocatura generale
 dello Stato ha  precisato  che  "il  processo  tributario  ha  natura
 inquisitoria  e  che  mal  si  concilia  la  prova  per  testi con la
 struttura  ed  il  carattere  di  tale  processo,   piu'   snello   e
 semplificato rispetto a quello civile".
   Le  ragioni  addotte  dall'Avvocatura generale dello Stato appaiono
 inaccettabili sia perche' non si e' tenuto  conto  che  nel  processo
 penale, il cui carattere inquisitorio del tempo e' incontestabile, la
 prova   testimoniale   e'   ammessa,   sia   perche'   "snellezza"  e
 "semplificazione"  del  processo  tributario  sono  contraddetti  dai
 poteri  del giudice tributario contenuti nel citato art. 35 (facolta'
 di  accesso,  richiesta  di  dati,  di  informazioni  o  chiarimenti,
 acquisizione  di elementi conoscitivi tecnici) sicche' l'audizione di
 testi non inciderebbe sui "tempi" del processo in maniera maggiore di
 quanto possa incidere  l'espletamento  degli  adempimenti  istruttori
 delegati  dal collegio ad uno dei suoi componenti ovvero la redazione
 di "apposite relazioni tecniche" da parte degli organi tecnici  dello
 Stato.
   Nel 1989 con ordinanza n. 76 del 9 febbraio la Corte costituzionale
 ribadisce  lo  stesso  principio  e con ordinanza n. 6 dell'8 gennaio
 1991  precisa,  ancora  una  volta,  che  il  divieto   della   prova
 testimoniale  non  viola il diritto di difesa, garantito dall'art. 24
 della Costituzione, "potendo quest'ultimo ai  fini  della  formazione
 del  convincimento  del  giudice,  essere  diversamente  regolato dal
 legislatore, nella sua discrezionalita', in funzione delle  peculiari
 caratteristiche dei singoli procedimenti".
   Ancora  una  volta  la  Corte  costituzionale  "delude"  dando  una
 risposta ancora una volta immotivata e, per certi versi,  inquietante
 in  relazione  ad  una  realta'  processuale  nella  quale  la  prova
 testimoniale, gia' acquisita dagli organi inquirenti  e  determinante
 ai  fini del decidere, una volta conosciuta dai giudici con incidenza
 sulla  formazione  del  convincimento,  deve  essere  "ripudiata"  in
 ragione di una discrezionalita' "pura" del legislatore.
   A fronte di tante ripetute autorevoli decisioni che hanno affermato
 la legittimita' costituzionale del "divieto della prova testimoniale"
 si  rinviene  - solitaria - la decisione n. 9486 del 10 dicembre 1986
 della sez. XI della Commissione tributaria centrale la quale  scrive,
 rigettando un ricorso dell'Ufficio IVA di Brescia, testualmente:  "Il
 collegio    giudicante    ha    ritenuto    fondamentale    ai   fini
 dell'acquisizione della prova sulla  effettiva  e  veridicita'  delle
 fatture  (gravate  di  IVA) in discorso la circostanza che sulla base
 degli atti del processo assume risolutiva efficacia la  testimonianza
 che  ha confermato l'effettiva introduzione della merce nei magazzini
 dell'acquirente".
   Detta decisione, in verita' scarsamente motivata  in  relazione  al
 divieto   di  cui  all'art.  35  del  decreto  del  Presidente  della
 Repubblica.  n. 636/1972, lascia perplessi anche perche' non e'  dato
 sapere  dalla  motivazione se la testimonianza apprezzata "sulla base
 degli atti" sia stata acquisita con l'escussione del teste  da  parte
 dei  giudici  di  primo  grado  ovvero  sia  stata  - acriticamente -
 recepita dal rapporto degli inquirenti, i quali  hanno  acquisito  la
 testimonianza   nel   corso   delle   indagini,  ovvero  trattasi  di
 testimonianza presentata  dal  ricorrente  e  contenuta  in  un  atto
 notorio.
   Concludendo  e'  da  apprezzare una contrastante giurisprudenza tra
 gli organi  giudiziari  che  godono  del  "privilegio"  che  le  loro
 decisioni non sono sottoposte a gravame.
   Il  problema,  pero',  va rivisitato in relazione alle disposizioni
 che regolano il nuovo contenzioso.
   Una prima osservazione e' quella  relativa  alla  mancanza  di  una
 qualsiasi  motivazione  nella relazione ministeriale al decreto-legge
 n. 546/1992 sul divieto della prova testimoniale.
   Sull'art. 7 e' stato scritto,  nella  relazione  ministeriale,  che
 "solo  in parte e' riportabile all'art. 35 del decreto presidenziale"
 n. 636/1972  ed  "attenua  la  natura  tipicamente  inquisitoria  del
 processo   tributario,  in  relazione  al  maggiore  spazio  lasciato
 all'impulso di parte e, soprattutto  al  venir  meno  della  funzione
 assistenziale prima riconosciuta ai giudici tributari".
   L'affermazione  che  il processo tributario abbia conservato la sua
 natura "inquisitoria", sia pure "attenuata"  non  sembra  conciliarsi
 con il principio dettato dalla lettera g) dell'art. 30 della legge 30
 dicembre  1991,  n.  413  (legge  delega)  con  il quale e' stabilito
 "l'adeguamento delle norme  del  processo  tributario  a  quello  del
 processo  civile"  ne'  con  il  disposto  di  cui  al  secondo comma
 dell'art. 1 del decreto-legge n. 546/1992 la' dove si precisa che  "i
 giudici  tributari  applicano  le  norme  del presente decreto e, per
 quanto da esse non disposto e con  esse  compatibili,  le  norme  del
 codice  di  procedura  civile".    Se  per  "inquisitorio" intende il
 processo nel quale il giudice ha "poteri"  di  indagine  autonomi  al
 fine  del decidere rispetto alle richieste delle parti e' da prendere
 atto che il giudice civile, oltre ai poteri di  cui  agli  artt.  118
 (ordine di ispezione di persone e di cose), 210 (ordine di esibizione
 all'altra  parte  o  al terzo di documenti) e 212 del c.c. (ordine di
 esibizione dei libri di commercio), ha l'ampio potere di  "richiedere
 d'ufficio  alla  pubblica  amministrazione  le  informazioni  scritte
 relative ad atti e  documenti  dell'amministrazione  stessa,  che  e'
 necessario acquisire al processo" (art. 213 del c.c.).
   Se  ne  deve dedurre che anche il processo civile avrebbe carattere
 "inquisitorio" in quanto il giudice civile ha poteri non dissimili da
 quello tributario ove si apprezzi quanto  disposto  dell'art.  7  del
 decreto-legge  n. 546/1992, il quale conferisce al giudice tributario
 "ai fini istruttori e nei  limiti  dei  fatti  dedotti  dalle  parti"
 "tutte  le facolta' di accesso, di richiesta di dati, di informazioni
 e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all'ente  locale  da
 ciascuna  legge  di  imposta"  nonche'  la  facolta'  di richiesta di
 "apposite relazioni  ad  organi  tecnici  dell'amministrazione  dello
 Stato  o  di  altri  enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di
 finanza".  Orbene, si dia o meno l'etichetta di "inquisitorio"  o  di
 "inquisitorio  attenuato"  all'uno  ed  all'altro  processo, civile e
 tributario,  un  dato  di  fatto  e'   incontroverso   che   con   il
 decreto-legge  n.  546/1992  il processo tributario e' regolato dalle
 norme del codice di procedura civile, sia  pure  con  la  limitazione
 della  "compatibilita'"  di  questo  con  le norme del citato decreto
 legislativo e, pertanto, c'e' da chiedersi quali sono le ragioni  per
 le  quali  soltanto  nel  processo  tributario  e'  vietata  la prova
 testimoniale e quali sarebbero le  ragioni  della  "incompatibilita'"
 (sancita  espressamente  dal  quarto  comma  dell'art. 7) della prova
 testimoniale  con  le  norme  che  regolano  il   nuovo   contenzioso
 tributario.
   E'  da  prendersi  atto  che  il  nuovo  processo tributario non e'
 "diverso e piu' snello dell'ordinario  processo  civile"  e  che  non
 esiste  piu'  quella  "notevole  diversita'" in virtu' della quale la
 Corte costituzionale con la sentenza n.  196  del  18  novembre  1983
 giustificava il divieto di disporre la consulenza tecnica e l'assenza
 della  possibilita'  di  condanna  del soccombente al pagamento delle
 spese processuali mentre con ordinanza n. 367 del  19  dicembre  1983
 stabiliva che il potere di sospendere in via cautelare la riscossione
 coattiva delle imposte non era una componente essenziale della tutela
 giurisdizionale  tributaria.    Ed,  infatti, con il decreto-legge n.
 546/1992  nel  processo  tributario  sono  stati  introdotti  sia  la
 consulenza  tecnica  (art. 7) che la condanna alle spese per la parte
 soccombente (art. 15) nonche'  la  sospensione  cautelare  (art.  47)
 senza contare che con l'assistenza tecnica (art.  12) che puo' essere
 imposta  anche  per  le  controversie  del valore inferiore ai cinque
 milioni e con il rigore delle forme per la costituzione del  rapporto
 processuale  (articoli  20 e 22) non si puo' piu' affermare - come si
 legge nelle sentenze della Corte costituzionale  -  che  il  processo
 tributario   si   distingue  dal  processo  civile  per  la  maggiore
 semplicita'  delle  forme  tanto  da  non   essere   necessaria   una
 "assistenza di tecnici del diritto".
   Si  deve apprezzare - in sintesi - che il legislatore ha reso "piu'
 civile" il processo tributario accogliendo, sostanzialmente, tutte le
 istanze dei giudici tributari, rigettate dalla  Corte  costituzionale
 con  le  motivazioni  "opinabili"  delle  quali  si  e'  detto, ma il
 "divieto della prova testimoniale" permane pur se  sono  venuti  meno
 quei "presupposti" che lo avrebbero giustificato.
   Ed  allora  si  ripropone  il  problema  se il "divieto della prova
 testimoniale" in relazione alla nuova regolamentazione  del  processo
 tributario  non sia da dichiararsi costituzionalmente illegittimo per
 violazione degli articoli 3 e 24  della  Costituzione.    E'  agevole
 apprezzare come la pubblica amministrazione quando agisce in giudizio
 ovvero  e'  convenuta  davanti  ai tribunali ordinari in relazione ad
 atti  che  afferiscono  alla  sfera  del  patrimonio   gestito   iure
 privatorum  si puo' avvalere, a tutela di interessi che, formalmente,
 sono "privati", ma, sostanzialmente, "pubblici"  in  quanto  la  loro
 tutela  giova  al  raggiungimento  di  fini dell'ente pubblico, della
 prova testimoniale, mentre quando  tutela  "interessi"  di  altissima
 valenza  pubblicistica,  quali  sono  quelli  relativi  alla  pretesa
 fiscale deve arrendersi alle emergenze delle  scritture  private  del
 privato,  e non puo' vincere la presunzione relativa di veridicita' a
 mezzo di testimoni.
   Del pari il cittadino, in presenza di due procedure - quella civile
 e quella tributaria - ormai sostanzialmente uguali, puo' difendere, a
 mezzo testimoni, davanti al giudice ordinario i propri diritti  anche
 dal valore economico irrisorio, mentre davanti al giudice tributario,
 pur  difendendo  interessi  di  rilevante  valore economico, non puo'
 avvalersi di detto tipo di prova.
   Come non  apprezzare  allora  una  disparita'  di  trattamento  tra
 cittadini  e  pubbliche amministrazioni a seconda che tutelino i loro
 interessi davanti all'una o all'altra autorita' giudiziaria?
   Ed e' bene puntualizzarlo che nelle commissioni  tributarie  dal  1
 aprile 1996 operano "giudici" pronunciano sentenze in nome del popolo
 italiano e non "membri" che prendono "decisioni" collegiali.
   Pertanto  si  deve parlare di "autorita' giudiziaria" sia che ci si
 riferisca  ai  tribunali  ordinari  sia  che  ci  si  riferisca  alle
 commissioni tributarie.
   Ma  la disparita' di trattamento assume un aspetto piu' inquietante
 ove si evidenzi che mentre il cittadino,  il  quale  deve  rispondere
 davanti  al  pretore  di  una  modesta  contravvenzione, prevista dal
 codice  penale  o  da  una  legge  penale  speciale,  ha  diritto  di
 difendersi a mezzo testimoni, colpito che sia, invece, dalla condanna
 da  parte  di  un  ufficio  finanziario  a  pene  pecuniarie anche di
 "miliardi di lire", non puo' fare valere la sua "innocenza fiscale" a
 mezzo della prova testimoniale.    L'assurdo  giuridico  in  tema  di
 disparita'  di  trattamento lo si apprezza constatando come l'evasore
 fiscale che commette  "reati  fiscali"  puo'  difendersi  davanti  al
 giudice  penale a mezzo testimoni e l'evasore fiscale la cui condotta
 e' di piu' modesta entita' da non realizzare un "crimine  tributario"
 non puo' difendersi davanti al giudice tributario con lo stesso mezzo
 di prova.
   L'autorita'  del  giudicato penale a sensi dell'art. 654 del c.p.p.
 nell'ambito del giudizio tributario se  garantisce  il  cittadino  in
 ordine  ad un eventuale disparita' di decisione non appaga il giudice
 tributario che  deve  subire  la  valenza  della  prova  testimoniale
 operata   da   altro  giudice  anche  se  -  secondo  il  suo  libero
 convincimento - non la condivide.
   Tanto varrebbe consentire  al  giudice  penale,  nel  caso  in  cui
 l'amministrazione  finanziaria  si  sia  costituita  parte civile, di
 definire anche il contenzioso tributario.
   Se il processo tributario esige la difesa a  mezzo  di  "assistenti
 tecnici",  come  li denomina l'art. 12 del decreto-legge n. 546/1992,
 non sembra che la Corte costituzionale possa ancora sostenere che  il
 processo  tributario ha maggiore semplicita' delle forme tanto da non
 essere necessaria "una assistenza di tecnici del diritto".
   Sostenere che il diritto di difesa  e'  garantito  anche  senza  la
 prova testimoniale e' una assurdo giuridico in quanto spesso la prova
 testimoniale  e' l'unico strumento di difesa della pretesa dell'una o
 dell'altra parte.  La citata sentenza della commissione  centrale  e'
 emblematica  nella  misura in cui e' la testimonianza di chi ha visto
 entrare la merce nel  magazzino  della  ditta  a  fare  decidere  per
 l'insussistenza di fatture false.
   E,  per altro verso, "affidabile" o "inaffidabile" che sia ritenuta
 la prova testimoniale e'  conclamato  come  attraverso  testimonianze
 anche  da  parte  di  soggetti, c.d. "pentiti", uomini insospettabili
 debbono rispondere di reati gravissimi:  e'  il  giudice  che  dovra'
 valutare dette prove e decidere in liberta' di convincimento.
   Non si vede, quindi, per quali motivi persone di tutto rispetto non
 possano deporre davanti alle commissioni tributarie su circostanze di
 facile  conoscenza  spesso  ripetute  (es.  emissione  di fatture per
 operazioni inesistenti) anche quando le deposizioni sono  state  rese
 alla  Guardia  di  finanza  nel  corso  delle  indagini.    Ma  e' da
 sottolineare come il divieto della prova testimoniale nuoce,  spesso,
 al  diritto  di difesa dell'amministrazione finanziaria la quale, pur
 avendo  raggiunto  la  prova  dell'addebito  fiscale  attraverso   le
 testimonianze  rese  agli  organi  inquirenti, subisce "l'insulto" di
 vedere accolti i  ricorsi  e  la  "beffa"  di  essere  condannata  al
 pagamento delle spese processuali.
   Assumere,  dunque,  che  non sussiste violazione dell'art. 24 della
 Costituzione non sembra sostenibile.
   La difesa dei diritti e degli interessi  di  chiunque  deve  essere
 esperita  con  tutti  i  mezzi  probatori  che  possano consentire di
 accertare "il vero" ed al giudice, quale che sia la sua funzione, non
 puo' essere sottratta la valutazione  di  una  prova,  attraverso  la
 quale  possa  maturare  un  sereno,  oltre che libero, convincimento.
 L'illegittimita' del divieto della prova  testimoniale  va  esaminata
 anche  da altra angolazione e cioe' sotto il profilo della violazione
 dell'art. 76 della Costituzione.
   E' principio  sancito  dalla  Corte  costituzionale  sin  dal  1957
 (sentenze  n.  3  e  n. 49) che "e' possibile la denuncia della legge
 delegata per illegittimita' costituzionale, in quanto l'art. 76 della
 Costituzione non rimane estraneo alla  disciplina  del  rapporto  tra
 organo  delegante  e organo delegato e sia il precetto costituzionale
 dell'art. 76, sia la norma delegante, costituiscono la fonte  da  cui
 trae legittimazione costituzionale la legge delegata".
   Trattasi  di  accertare  se  il Governo con la legge delegata abbia
 violato  "principi"  o  "criteri  direttivi"  contenuti  nella  norma
 delegante determinando una "distorsione" nel rapporto di delegazione.
   Ed  allora  bisogna tornare alla premesse e constatare che la legge
 delegante ha stabilito il "principio"  dell'"adeguamento delle  norme
 del processo tributario a quelle del processo civile".
   Siffatto  "adeguamento"  la  legge  delegata  lo ha attuato in modo
 "generico" stabilendo al secondo comma dell'art. 1 del  decreto-legge
 n.  546/1992  il  "principio"  che " i giudici tributari applicano le
 norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto  e  con
 esse   compatibili,   le  norme  del  codice  di  procedura  civile".
 L'adeguamento, voluto dalla legge delegante, dunque, e' stato attuato
 dalla legge delegata applicando il "principio" della "compatibilita'"
 o "incompatibilita'" delle norme del codice di procedura civile  alle
 norme   del   decreto-legge   n.   546/1992:  giudizio  rimesso  alla
 interpretazione dei singoli giudici tributari.
   Si legge nella relazione ministeriale che  "la  disciplina  dettata
 dalla  codice di procedura civile, della quale ovviamente fanno parte
 anche le disposizioni di attuazione, si pone  quale  fonte  immediata
 secondaria  e  generalizzata  (essendo  stata  abolita  la precedente
 limitazione alle sole disposizioni del  libro  primo  del  codice  di
 procedura civile) rispetto alla normativa del decreto.
   Il  passaggio  dall'una  all'altra  e' dato, ovviamente, dal doppio
 criterio dell'esistenza di una  lacuna  nella  normativa  speciale  e
 della   compatibilita'   della  disciplina  generale  del  codice  di
 procedura civile con quella specialmente  prevista  dal  decreto,  in
 modo da realizzare compiutamente il principio di integrazione imposto
 dalla legge delega".
   E'  da  ritenersi che il principio dell'adeguamento delle norme del
 processo  tributario  a  quello   del   processo   civile   non   sia
 individuabile  nel  ritenere il codice di procedura civile una "fonte
 secondaria e  generalizzata"  o  "fonte  integrativa"  rispetto  alla
 "normativa del decreto" in quanto "l'adeguamento" deve consistere nel
 dettare   norme  per  il  processo  tributario  che  siano  uguali  e
 corrispondenti alle norme del processo civile di modo che il  sistema
 processuale civile e tributario siano uguali.
   Con  la  legge delegata si dovevano recepire espressamente tutte le
 norme del codice di procedura civile applicabili  in  relazione  alla
 peculiarita'  del rapporto processuale tributario nel quale una delle
 parti  e'  l'amministrazione  finanziaria   o   un   ente   pubblico,
 rappresentati  dai loro organi.  In siffatto modo le norme del codice
 di procedura civile dovevano avere valenza di "fonte primaria"  e  le
 norme  del  decreto dovevano disporre per l'inapplicabilita' di norme
 del codice di procedura civile non riferibili ad  entrambe  le  parti
 del  rapporto processuale, come, ad esempio, l'interrogatorio formale
 di cui agli artt. 230, 231 e 232 del c.p.c. esperibile nei  confronti
 del ricorrente e non nei confronti dell'amministrazione finanziaria o
 dell'ente pubblico.
   Seguendo  il criterio suindicato, cosi' come appare abbia voluto la
 legge  delega,  il  processo  tributario   avrebbe   "certezze",   in
 particolare  in relazione alla prove, che non ha, nella misura in cui
 la compatibilita' o incompatibilita' e'  rimessa  all'interpretazione
 dei   singoli   giudici   le   sentenze   dei  quali  formeranno  una
 giurisprudenza "variegata"  con  grave  danno  per  la  certezza  del
 diritto.
   Nel  dare,  con  il  secondo comma dell'art. 1 del decreto-legge n.
 546/1992, alle norme del codice di procedura  civile  una  secondaria
 funzione  integrativa  generica l'autorita' delegata ha "distorto" la
 volonta' del delegante  e  siffatta  distorsione  incide  in  maniera
 determinante  nel  divieto  della  prova testimoniale in quanto detta
 prova non e' incompatibile con il processo tributario, ma  la  si  e'
 resa  immotivatamente inapplicabile "d'autorita'" Se "distorsione" si
 ritiene esserci stata la illegittimita'  costituzionale  dell'art.  7
 del  decreto-legge  n.  546/1992  nella  parte  in cui dispone per il
 divieto della prova testimoniale puo'  essere  sottoposta  al  vaglio
 della   Corte   costituzionale  per  violazione  dell'art.  76  della
 Costituzione.   L'immotivato divieto  della  prova  testimoniale  nel
 processo  tributario  appare incomprensibile in quanto detta prova ha
 maggiore "affidabilita'" rispetto al processo civile e penale.
   Se si pensa che in detti processi il teste e' chiamato a deporre su
 circostanze percepite all'improvviso e per una sola volta (es.  negli
 incidenti stradali si chiede la velocita', la tenuta  di  strada,  il
 colore  della  vettura,  i  connotati  del  conducente  ecc.)  e'  da
 prendersi atto che nel processo tributario i testi  sono  chiamati  a
 deporre su comportamenti ripetuti e, spesso, in relazione a documenti
 che  il  soggetto  indagato  esibisce  agli accertatori.   Infatti la
 necessita' di escutere i testimoni, gia'  escussi  dalla  Guardia  di
 finanza,  ha  rilevanza  determinante  per  accertare  la falsita' di
 fatture per operazioni inesistenti o  "ideologicamente"  inesistenti,
 la  falsita'  di  bolle di accompagnamento, la falsita' delle fatture
 per inesistenti "consulenze" o  "sponsorizzazioni",  la  falsita'  di
 fatture nei contratti di leasing, le inesistenti esenzioni di imposta
 per  inesistenti esportazioni, scambi di assegni tra imprenditori che
 operano  nello  stesso  settore  o  altro  connesso,  ed  ogni  altra
 circostanza relativa a costi  inesistenti.
   Collaboratori  dipendenti  (impiegati)  e  autonomi (trasportatori)
 possono agevolmente testimoniare se i documenti che fanno parte delle
 scritture contabili o extracontabili  si  riferiscono  ad  operazioni
 realmente  effettuate  ovvero  sono  documenti creati al fine di fare
 apparire costi inesistenti  o  operazioni  con  soggetti  diversi  da
 quelli che i documenti certificano.
   Spesso  vi sono testimoni le cui deposizioni sono "convergenti" si'
 che l'una e' il riscontro dell'altra come  avviene  se  un  testimone
 dell'acquirente  dichiara, per esempio, che le fatture sono "fasulle"
 ed il  testimone  del  soggetto  che  le  ha  compilate  conferma  la
 veridicita' delle dichiarazioni del suddetto.
   E'  tempo  di  dire  -  a  gran  voce  -  che il divieto dell'esame
 testimoniale ha fatto sorgere in tutta Italia una  rete  organizzata,
 spesso  bene  mimetizzata,  diretta  a  "fabbricare"  documenti falsi
 consentendo ad imprenditori disonesti di usufruire "corposamente" del
 "servizio".  L'operatore commerciale che usufruisce di detto servizio
 rimarra' sempre impunito in quanto ogni testimonianza, che provenga o
 da chi ha fornito il servizio o da chi  ne  e'  a  conoscenza,  quale
 collaboratore  dell'operatore,  non  ha  valenza  di  prova contro "i
 documenti"  (le  scritture  contabili)   che   costituiscono   "prova
 privilegiata".
   Del  pari  il  soggetto  sottoposto  ad indagine fiscale non potra'
 esperire la sua difesa dimostrando anche a mezzo di testimoni che  le
 prove   addotte   dagli   inquirenti   (testimonianze,   presunzioni,
 accertamenti tecnici, ecc.) sono prive di valore.
   Il divieto della prova testimoniale mortifica  i  componenti  della
 Guardia  di  finanza,  i quali quotidianamente operano nell'interesse
 dello Stato conducendo indagini che dimostrano  un  ottimo  grado  di
 professionalita',  le  indagini dai quali risultano "ininfluenti" per
 le decisioni dei giudici tributari.   Con  detto  divieto  una  delle
 evasioni  fiscali  piu'  imponenti  rimane  impunita  con perdita per
 l'erario di miliardi di lire ed il danno colpisce tutti i cittadini i
 quali sono chiamati a sopperire alle  minore  entrate  pubbliche  con
 imposte  aggiuntive  temporanee  o  permanenti  sicche'  la pressione
 fiscale e'  diventata  cosi'  gravosa  da  determinare  movimenti  di
 opinione  pubblica  diretti alla "rivolta fiscale".  Lo Stato oltre a
 non introitare i tributi dovuti dagli evasori spende per le indagini,
 spende per operatori degli uffici finanziari che  debbono  recepirle,
 spende  per i giudici tributari che debbono decidere sui ricorsi ed -
 ora  -  spende  anche  pagando  le  spese  processuali  agli  evasori
 vincenti.
   Rilevato che, con ordinanze pronunciate in data 10 febbraio 1997 e'
 stata sospesa la esecuzione di entrambi gli avvisi di accertamento e'
 da  valutarsi  se  detta  sospensione  puo' essere revocata d'ufficio
 nella  misura  in  cui,  in  attesa  della  decisione   della   Corte
 costituzionale,  la  sospensione  e'  destinata  a procrastinarsi nel
 tempo.
   Poiche'  l'art.  47,  comma  7,  dispone  che  gli  effetti   della
 sospensione  cessano dalla data della pubblicazione della sentenza di
 primo grado e' di  tutta  evidenza  che,  costituendo  l'ordinaza  di
 rinvio  alla  Corte  costituzionale  l'apertura  di  un  procedimento
 "incidentale", detta ordinanza  non  puo'  essere  "parificata"  alla
 "sentenza  di primo grado" e, pertanto, gli effetti della sospensione
 della esecuzione devono permanere.   Ne'  si  puo'  assumere  che  il
 provvedimento  di  sospensione  puo'  essere  revocato  d'ufficio per
 essere trascorsi i novanta giorni di cui al sesto  comma  del  citato
 art.  47  in  quanto  detto  termine,  che  ha natura ordinatoria, e'
 riferibile soltanto al tempo di fissazione  della  trattazione  della
 controversia.    Ne  consegue  che  la  revoca  dei  provvedimenti di
 sospensione potra' essere adottata su istanza  di  parte  -  a  sensi
 dell'ottavo  comma dell'art.  47 - e con la procedura di cui ai commi
 1, 2 e 4 di detto articolo.
                               P. Q. M.
   Visto l'art. 134 della Costituzione nonche' gli artt. 1 della legge
 costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo  1953,
 n.  87  solleva  incidente di illegittimita' costituzionale dell'art.
 7, quarto comma, del decreto-legge n. 546/1992 nei limiti in  cui  e'
 disposto  il  "divieto della prova testimoniale" per violazione degli
 art. 3, 24 e 76 della Costituzione,  sospendendo  di  provvedere  nel
 merito fino alla risoluzione dell'incidente;
   Ordina  la trasmissione degli atti alla Corta costituzionale a cura
 della segreteria nonche' la  notifica  alle  parti  costituite  della
 presente ordinanza;
   Ordina  la  comunicazione  della  presente  ordinanza al Presidente
 della Camera dei deputati ed al Presidente del Senato;
   Ordina la notifica  della  presente  ordinanza  al  Presidente  del
 Consiglio dei Ministri.
   Depositata in segreteria il 29 maggio 1997.
                    Il presidente relatore: Trovato
 97C1173