N. 432 SENTENZA 16 - 23 dicembre 1997

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Lavoro   -  Rapporto  tra  medici  specializzandi  e  universita'  -
 Indennita'  compensi,  gratifiche ed emolumenti di qualsiasi genere -
 Borse  di  studio  -  Incremento  automatico  secondo  il  tasso   di
 inflazione  -  Esclusione  -  Questione  non  riferibile alle ipotesi
 previste  dall'art.  409   del   codice   di   procedura   civile   -
 Ragionevolezza - Non fondatezza.
 
 (Legge 28 dicembre 1995, n. 549, art. 1, comma 33).
 
 (Cost., artt. 3, 101, 102 e 104).
 
(GU n.53 del 31-12-1997 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA
  Giudici:  prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco GUIZZI, prof.
 Cesare MIRABELLI, prof. Fernando   SANTOSUOSSO,  avv.  Massimo  VARI,
 dott.   Cesare   RUPERTO,   dott.  Riccardo  CHIEPPA,  prof.  Gustavo
 ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,  prof.  Carlo  MEZZANOTTE,  avv.
 Fernanda  CONTRI,  prof.  Piero  Alberto  CAPOTOSTI,  prof.  Annibale
 MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  1,  comma  33,
 della  legge  28  dicembre  1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione
 della finanza pubblica), promosso con ordinanza emessa il 28  ottobre
 1996 dal pretore di Genova nel procedimento civile vertente tra Mirco
 Bartolomei  e  l'Universita'  degli  studi  di Genova, iscritta al n.
 1318  del  registro  ordinanze  1996  e  pubblicata  nella   Gazzetta
 Ufficiale  della  Repubblica  n.  51, prima serie speciale, dell'anno
 1996;
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del 15 ottobre 1997 il giudice
 relatore Piero Alberto Capotosti.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Un medico-chirurgo, iscritto ad una scuola di specializzazione
 presso l'Universita' degli studi di Genova, ha adito  il  pretore  di
 detta  citta', in funzione di giudice del lavoro, al fine di ottenere
 l'accertamento del proprio diritto all'incremento dell'importo  della
 borsa di studio, nella misura del tasso programmato di inflazione, ai
 sensi dell'art. 6 del d.lgs. 8 agosto 1991, n. 257.
   Il  pretore,  con  ordinanza  del  28  ottobre  1996,  ha sollevato
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 33, della
 legge 28 dicembre 1995, n. 549  (Misure  di  razionalizzazione  della
 finanza  pubblica), in riferimento agli artt. 3, 101, 102 e 104 della
 Costituzione, limitatamente alla parte in cui la norma stabilisce che
 "le disposizioni di cui all'art.  7,  commi  5  e  6,  del  d.-l.  19
 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, dalla legge 14
 novembre  1992, n. 438, prorogate per il triennio 1994-1996 dall'art.
 3, comma 36, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, vanno interpretate
 nel senso che tra le indennita', compensi, gratifiche  ed  emolumenti
 di  qualsiasi  genere,  da corrispondere nella misura prevista per il
 1992, sono comprese le borse di studio di cui all'art. 6 del  decreto
 legislativo 8 agosto 1991, n. 257".
   1.2.   -  Il  rimettente,  pregiudizialmente,  afferma  la  propria
 competenza quale giudice del lavoro, ritenendo che il rapporto fra  i
 medici  specializzandi  e  le  rispettive  scuole  di formazione vada
 qualificato come rapporto di lavoro para-subordinato,  in  quanto  le
 somme  corrisposte  sub  specie di borsa di studio assolvono anche la
 funzione  di  remunerare  le  prestazioni  lavorative.  Inoltre,   il
 rapporto  neppure  e'  assimilabile  a quello dei medici tirocinanti,
 dato  che  solo  gli  specializzandi  sono  sostanzialmente  inseriti
 nell'organizzazione  sanitaria  gestita dalle cliniche universitarie.
 Dunque, a suo avviso, non sono richiamabili  le  argomentazioni  che,
 per  i  tirocinanti,  fanno  escludere  la competenza del giudice del
 lavoro.
   1.3. - Il pretore, nel merito,  premette  una  sintesi  del  quadro
 normativo  nel  quale  si  inserisce  la  disposizione  censurata. In
 particolare espone che l'art. 6 del d.lgs. 8 agosto 1991, n. 257,  in
 attuazione  della  direttiva  CEE  n.  82/1976  del  26 gennaio 1982,
 prescrittiva del principio che l'attivita' di formazione  dei  medici
 specializzandi debba formare "oggetto di una adeguata rimunerazione",
 ha stabilito sia loro corrisposta una borsa di studio, il cui importo
 e'  annualmente  incrementato, a far data dal 1992, nella misura "del
 tasso programmato d'inflazione".
   L'art. 7, comma 5, d.-l. 19  settembre  1992,  n.  384,  convertito
 nella legge 14 novembre 1992, n. 438 ha, successivamente, dettato che
 "tutte  le indennita', compensi gratifiche ed emolumenti di qualsiasi
 genere, comprensivi per disposizioni di legge ...  di  una  quota  di
 indennita'  integrativa speciale ... o dell'indennita' di contingenza
 prevista per il settore privato, o che siano, comunque,  rivalutabili
 in  relazione  alla variazione del costo della vita, sono corrisposti
 per l'anno 1993 nella stessa misura dell'anno 1992". L'art. 3,  comma
 36,  della legge 24 dicembre 1993, n. 537, ha esteso l'applicabilita'
 di detta norma al triennio 1994-1996. L'art. 1, comma 33, della legge
 28 dicembre 1995, n. 549, ha, infine, disposto che le norme dell'art.
 7,  commi  5  e  6  e  del  decreto-legge  n.  384  del  1992  "vanno
 interpretate nel senso che tra le indennita', compensi, gratifiche ed
 emolumenti   di  qualsiasi  genere,  da  corrispondere  nella  misura
 prevista per il 1992,  sono  comprese  le  borse  di  studio  di  cui
 all'art. 6 del d.lgs.  8 agosto 1991, n. 257, ossia quelle erogate ai
 medici specializzandi.
   1.4.  -  Il rimettente dubita che tale ultima norma violi gli artt.
 3, 101, 102 e 104 della Costituzione. La disposizione, a suo  avviso,
 non   ha   natura  interpretativa,  bensi'  carattere  innovativo  ed
 efficacia retroattiva, dato che rende applicabile ad un  rapporto  di
 natura  privatistica, qual e' quello che lega i medici specializzandi
 all'Universita', una disciplina che concerne il rapporto di  pubblico
 impiego.  La deroga del canone di irretroattivita' della legge non e'
 peraltro giustificata da congrue ragioni, in  quanto  tale  non  puo'
 ritenersi  quella  di esonerare le Universita' dall'obbligo di pagare
 quanto dovuto in virtu' delle norme  anteriori,  tanto  piu'  perche'
 stabilita  allorquando  "si era consolidato (o si stava consolidando)
 un orientamento giurisprudenziale favorevole ai ricorrenti, cosi'  da
 rivelare  che sua unica finalita' e' quella "di incidere sui numerosi
 giudizi in corso", con conseguenziale lesione degli artt.101,  102  e
 104 della Costituzione.
   1.5.  -  L'applicazione  retroattiva  di  una  norma concernente il
 rapporto  di  pubblico  impiego  anche  ad  un  rapporto  di   natura
 privatistica,    prosegue    il   giudice   a   quo   fa   si'   che,
 irragionevolmente, i medici  specializzandi,  tra  tutti  coloro  che
 abbiano  concluso con la pubblica amministrazione un rapporto di tale
 natura, siano  i  soli  ai  quali  e'  applicabile  una  disposizione
 finalizzata  al  "contenimento  della  spesa pubblica nel settore del
 pubblico impiego, in violazione dell'art.  3 della Costituzione.
   2. - Il Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,  intervenuto  in
 giudizio  con  il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, ha
 eccepito    l'inammissibilita'    della    questione,    a    cagione
 dell'incompetenza  del  pretore  rimettente quale giudice del lavoro,
 richiamando a conforto l'orientamento della Corte di cassazione,  che
 esclude      la      qualificazione      del      rapporto     medici
 specializzandi-Universita'   come   di    lavoro    para-subordinato.
 Un'ulteriore  causa  di  inammissibilita' e', inoltre, indicata nella
 genericita' dell'eccepita violazione dell'art. 3 della  Costituzione,
 derivante dalla mancata identificazione del tertium comparationis.
   2.1.  -  Nel  merito,  l'Avvocatura dello Stato deduce la manifesta
 infondatezza della questione,  osservando  che  la  norma  denunciata
 esplica  la  finalita' insita nell'art. 7, comma 5, del decreto-legge
 n. 384 del 1992, di estendere il blocco della spesa pubblica a  tutti
 gli  emolumenti  attribuiti  sotto  qualsiasi  forma ai medici ed ha,
 quindi,  indubbio  carattere  interpretativo.  Inoltre,  aggiunge  il
 resistente,  difetta  ogni  elemento per ipotizzare che l'intento del
 legislatore sia stato quello di interferire sui giudizi in corso, non
 predicabile in riferimento al caso in  esame,  nel  quale  il  dubbio
 sull'interpretazione  della disciplina applicabile "era alimentato da
 una giurisprudenza palesemente fuorviante rispetto al significato che
 e' poi stato ribadito in sede di interpretazione autentica".
   3. - Le parti del processo principale non si  sono  costituite  nel
 giudizio innanzi alla Corte.
                         Considerato in diritto
   1.   -   La  questione  di  legittimita'  costituzionale  sollevata
 dall'ordinanza indicata in epigrafe ha ad oggetto l'art. 1, comma  33
 della  legge  28 dicembre 1995, n. 549, nella parte in cui stabilisce
 che le disposizioni di cui all'art. 7, commi 5  e  6,  del  d.-l.  19
 settembre  1992,  n. 384, convertito nella legge 14 novembre 1992, n.
 438, "vanno interpretate nel senso che tra le  indennita',  compensi,
 gratifiche  ed emolumenti di qualsiasi genere, da corrispondere nella
 misura prevista per il 1992, sono comprese le borse di studio di  cui
 all'art.  6  del d.lgs.   8 agosto 1991, n. 257", in riferimento agli
 artt. 3, 101, 102 e 104 della Costituzione.
   Secondo   il   giudice   rimettente,   la   norma,   assertivamente
 interpretativa,  sarebbe  sostanzialmente innovativa della disciplina
 dell'importo delle borse di studio dei medici specializzandi,  recata
 dall'art.  6 del decreto legislativo n. 257 del 1991. La disposizione
 denunciata,   infatti,  stabilendo,  con  efficacia  retroattiva,  il
 "blocco" dell'incremento dell'importo delle  borse  di  studio  nella
 misura  del  tasso  programmato  d'inflazione,  in  mancanza  di ogni
 ragionevole giustificazione, e quando si era "ormai consolidato (o si
 stava consolidando) un orientamento giurisprudenziale favorevole"  al
 riconoscimento  del  relativo  diritto,  avrebbe  il  solo  scopo  di
 interferire nell'esercizio della funzione  giurisdizionale,  violando
 cosi' gli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione.
   Inoltre, secondo il giudice a quo la stessa disposizione violerebbe
 anche  l'art.  3  della  Costituzione,  in  quanto  irragionevolmente
 stabilisce nei confronti dei medici specializzandi, unici tra tutti i
 soggetti legati alla pubblica amministrazione  da  un  rapporto  iure
 privatorum   una  norma  finalizzata  al  "contenimento  della  spesa
 pubblica nel settore del pubblico impiego".
   2.   -   In   via   preliminare,   va   respinta   l'eccezione   di
 inammissibilita'   sollevata   dall'Avvocatura   dello   Stato  sulla
 considerazione   -    fondata    su    un    consolidato    indirizzo
 giurisprudenziale - che il pretore rimettente non sarebbe competente,
 quale  giudice  del  lavoro,  a  decidere la controversia oggetto del
 giudizio a quo poiche'  il  rapporto  tra  medici  specializzandi  ed
 Universita'  non  e'  inquadrabile  in nessuna delle ipotesi previste
 dall'art. 409 del codice di procedura civile.
   In  proposito,  occorre  ricordare   che,   secondo   il   costante
 orientamento  di  questa  Corte,  il  difetto  di  giurisdizione o di
 competenza del giudice rimettente rende inammissibile  la  questione,
 qualora  appaia  macroscopico  ed  emerga  ictu  oculi  (ex plurimis:
 ordinanze n. 167 del 1997 e n. 348 del 1995). Questa circostanza  non
 si  verifica pero' nel caso in esame, in cui, per di piu', il pretore
 rimettente  ha  espressamente  affermato   la   propria   competenza,
 svolgendo argomentazioni interpretative sia dell'attivita' dei medici
 specializzandi,  sia  del  loro  rapporto  con  le  Universita',  che
 appaiono non implausibili e non palesemente arbitrarie. Tanto  quindi
 basta  per  respingere  la  proposta  eccezione  di  inammissibilita'
 (sentenza n. 163 del 1993).
   3. - Nel merito, la questione non e' fondata.
   Secondo il giudice  a  quo,  la  norma  impugnata  non  puo'  dirsi
 interpretativa,  bensi' soltanto retroattivamente innovativa rispetto
 alla precedente disciplina, in quanto emanata con l'unica  intenzione
 di  incidere  sui  giudizi  in  corso  e,  per di piu', priva di quei
 requisiti di ragionevolezza,  che  soli  potrebbero  giustificare  la
 deroga al principio di irretroattivita' della legge.
   In  proposito  va  premesso  che non e' necessario verificare se la
 disposizione censurata abbia carattere interpretativo,  oppure,  come
 ritiene il giudice rimettente, sia una norma puramente innovativa con
 efficacia  retroattiva.  Tanto  nel  caso  della  norma  propriamente
 interpretativa,  quanto   in   quello   della   norma   semplicemente
 retroattiva,  infatti,  questa  Corte  ha gia' precisato che la legge
 rimane pur sempre soggetta al controllo di  conformita'  rispetto  al
 canone  generale di ragionevolezza, che assume pertanto in materia un
 valore particolarmente stringente, in quanto riferito  alla  certezza
 dei rapporti preteriti, nonche' al legittimo affidamento dei soggetti
 interessati  (sentenze  n.  6  del  1994, n. 402 del 1993, n. 440 del
 1992).
   Cio' premesso, si deve ricordare che il divieto  di  retroattivita'
 della  legge  non  e'  stato elevato a dignita' costituzionale, se si
 eccettua la previsione dell'art. 25 della Costituzione, limitatamente
 alla legge penale (ex plurimis: sentenze n. 153 del 1994, n. 283  del
 1993).   Pertanto,   secondo  la  giurisprudenza  costituzionale,  il
 legislatore ordinario puo', nel  rispetto  di  tale  limite,  emanare
 norme retroattive, purche' trovino adeguata giustificazione sul piano
 della  ragionevolezza  e non si pongano in contrasto con altri valori
 ed interessi  costituzionalmente  protetti,  cosi'  da  non  incidere
 arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi
 precedenti  (sentenze  n.  6  del  1994 e n. 822 del 1988). Se queste
 condizioni sono osservate, la retroattivita', di per  se'  sola,  non
 puo'  ritenersi  elemento  idoneo  ad integrare un vizio della legge,
 neppure  in  riferimento  all'ipotesi  particolare  di  incidenza  su
 diritti di natura economica (sentenza n. 385 del 1994).
   In  questo quadro giurisprudenziale va dunque esaminata la proposta
 questione di costituzionalita'.
   4. - Non puo' essere accolto il  profilo  di  illegittimita'  della
 norma  impugnata,  basato  sul rilievo che essa sarebbe finalizzata a
 porre rimedio  ad  una  scelta  interpretativa  della  giurisprudenza
 difforme   dalla   linea  di  politica  del  diritto  perseguita  dal
 legislatore.   La funzione  giurisdizionale  invero  non  puo'  dirsi
 violata  per  il  solo  fatto dell'intervento legislativo, perche' il
 legislatore non tocca la potesta' di giudicare,  quando,  come  nella
 specie,  si  muove  sul  piano  generale  ed  astratto  delle fonti e
 costruisce il modello normativo, cui  la  decisione  giudiziale  deve
 riferirsi  (sentenze  n.   397 del 1994, n. 402 del 1993). E poiche',
 anche nel caso in questione, il legislatore ha agito sul piano  delle
 fonti,   delimitando   la  fattispecie  normativa  presupposto  della
 potestas iudicandi senza ingerirsi nella specifica risoluzione  delle
 concrete  fattispecie in giudizio, la dedotta interferenza sul potere
 giurisdizionale   non   appare   -   tanto   piu'   non   sussistendo
 giurisprudenza  consolidata  in  materia lesiva - della divisione dei
 poteri, e dunque non risultano violati,  sotto  questo  profilo,  gli
 artt. 101, 102 e 104 della Costituzione.
   5.  -  Neppure la censura di irragionevolezza della norma impugnata
 appare fondata.
   Si  deve  infatti  osservare  che  l'ordinanza   di   rinvio,   pur
 denunciando  il  carattere discriminatorio della norma impugnata, non
 specifica in alcuna maniera quali sarebbero gli  altri  soggetti  che
 hanno con l'Universita' un rapporto iure privatorum rispetto ai quali
 i  medici  specializzandi sarebbero gli unici a vedersi applicare una
 disciplina restrittiva, dettata per il comparto del pubblico impiego.
   In questo modo il giudice a quo si sottrae all'onere  (sentenza  n.
 46 del 1993) di individuare e precisare il tertium comparationis, dal
 cui  confronto  dovrebbe  derivare l'asserita palese discriminazione.
 L'identificazione del termine di riferimento  comparativo  e'  invece
 tanto  piu'  indefettibile  in  questa  fattispecie,  quanto  piu' si
 considerino, da un lato, la peculiarita' della posizione  dei  medici
 specializzandi  e, dall'altro lato, la particolarita' di quel periodo
 temporale in cui appare generalizzata la eliminazione di  ogni  altro
 analogo  meccanismo  di  adeguamento  automatico  degli emolumenti al
 costo della vita.
   La norma impugnata,  invero,  non  persegue  affatto  l'intento  di
 discriminare  irragionevolmente  i  medici  ammessi  alle  scuole  di
 specializzazione,  ma,  in  una  logica  di  bilanciamento   con   le
 fondamentali  scelte di politica economica (sentenza n. 245 del 1997)
 e,  inserendosi  in  un  piu'  ampio complesso di norme ispirate alla
 stessa ratio, adegua la loro  situazione  ad  un  diverso  principio,
 generalizzatosi tanto nel settore privato, quanto in quello pubblico.
 Si  tratta  del principio secondo il quale la difesa dall'aumento del
 costo  della  vita  e'  da  affidarsi  precipuamente  alle  dinamiche
 contrattuali,  in  particolar  modo  alla  contrattazione collettiva,
 piuttosto che a  strumenti  legislativi  di  adeguamento  automatico.
 Sotto questo profilo, va rilevato che la legislazione vigente prevede
 per  i  medici  specializzandi,  pur  nella  peculiarita'  della loro
 posizione, un meccanismo di collegamento dell'importo delle borse  di
 studio  ai  miglioramenti stipendiali del personale medico dipendente
 dal Servizio sanitario nazionale (art.  6 del d.P.R. 8  agosto  1991,
 n.  257).  Pertanto  la  disposizione  censurata,  escludendo  per le
 predette borse di studio, in via eccezionale e per un ristretto  arco
 temporale,  l'incremento  automatico  del  tasso  di  inflazione, non
 appare  affatto  irragionevole  o  discriminatoria,  ma   invece   si
 inserisce  in  un  ampio complesso di norme che perseguono, anche nel
 settore della sanita', il fine di impedire, per lo stesso periodo  di
 tempo, tutti gli incrementi retributivi conseguenziali ad automatismi
 stipendiali.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 1, comma 33, della legge 28 dicembre 1995, n.  549  (Misure
 di   razionalizzazione   della   finanza   pubblica),  sollevata,  in
 riferimento agli artt. 3, 101, 102  e  104  della  Costituzione,  dal
 pretore di Genova con l'ordinanza in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 16 dicembre 1997.
                        Il Presidente: Granata
                        Il redattore: Capotosti
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 23 dicembre 1997.
                 Il direttore di cancelleria: Di Paola
 97C1473