N. 61 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 29 dicembre 1997
N. 61 Ricorso per conflitto di attribuzioni depositato in cancelleria il 29 dicembre 1997 (della regione Veneto) Caccia - Attuazione della direttiva CEE 409/79 del 2 aprile 1979 (recepita con l'art. 1 della legge-quadro sulla caccia 11 febbraio 1992, n. 157), concernente la conservazione degli uccelli selvatici - D.P.C.M. 27 settembre 1997, concernente a sua volta le modalita' di esercizio delle deroghe alle limitazioni e ai divieti stabiliti dagli artt. 5, 6, 7 ed 8 della direttiva, previste dall'art. 9 della stessa - Impugnazione di tale provvedimento nella parte in cui, pur prevedendo che le deroghe possano venire adottate dalle regioni, richiede come necessaria al riguardo una intesa delle regioni con i Ministeri dell'ambiente e delle politiche agricole - Asserita impossibilita' che una cosi' accentuata menomazione alla competenza spettante alle regioni, in base a quelle ad esse attribuita dagli artt. 117 e 118 della Costituzione in materia di caccia, in forza degli artt. 6 e 99 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, e, in particolare, dall'art. 9, commi 2 e 3, della legge 9 marzo 1989, n. 86 - secondo il quale le regioni, anche a statuto ordinario, possono dare attuazione alle direttive comunitarie che abbiano ad oggetto una competenza regionale, trovando come unico limite le disposizioni di principio dettate dalla legge statale e da questa dichiarate inderogabili - sia legittimamente stabilita da un provvedimento di mera natura regolamentare - come quello denunciato - non certo qualificabile, in mancanza dei presupposti necessari, come atto governativo di indirizzo e coordinamento - Asserita impossibilita', altresi', che il decreto in questione trovi fondamento e giustificazione nell'art. 18, comma 3, della su citata legge n. 157 del 1992, circa i poteri dello Stato riguardo alla determinazione e variazione degli elenchi delle specie cacciabili - il quale, non ricollegabile, com'e', in nessun modo, alla direttiva comunitaria, non puo' essere considerato come norma individuativa del soggetto competente a disporre le deroghe da essa contemplate - ne' in un prevalente interesse nazionale, da ritenersi ormai sicuramente sovrastato e assorbito, anche per il carattere prevalentemente migratorio della avifauna selvatica, dalla predominante rilevanza, in materia, di un interesse comunitario sovranazionale, oltre che dalla necessita' di tener conto, riguardo alle deroghe, della diversita' e mutevolezza delle situazioni locali - Riferimenti alle sentenze nn. 126 e 272 del 1996, 1002 del 1988 e 577 del 1990. Caccia - Ordinanze Commissione di controllo sugli atti della regione Veneto, nn. 3242 e 3243, del 20 ottobre 1997, di annullamento delle delibere della Giunta regionale nn. 3401 e 3402 del 7 ottobre 1997, con le quali, in applicazione, per la stagione venatoria 1997-98, della deroga prevista dall'art. 9 della direttiva CEE n. 409 del 1979, si era consentita, per la stagione venatoria 1997-98, la caccia di alcune specie di volatili (fringuello, peppola, ecc.) non ricomprese nell'elenco di quelle per le quali la normativa comunitaria ammette in via generale il prelievo venatorio - Lamentata incidenza sulla competenza spettante alla regione in materia, in base ai precetti costituzionali e alle disposizioni di legge sopra richiamati riguardo all'altra suesposta questione, e dagli impugnati provvedimenti del CO.RE.CO. illegittimamente ritenuta nel tutto carente, in contraddizione anche con il decreto del Presidente del Consiglio - oggetto dell'altra suddetta questione - con il quale una competenza delle regioni in ordine alle suddette deroghe, e' stata, anche se solo in parte, riconosciuta. (D.P.C.M. 27 settembre 1997; Ordinanze del Commissario del Governo della regione Veneto 20 ottobre 1997, nn. 3242-3243). (Cost., artt. 117 e 118; d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, artt. 6 e 99; legge 9 marzo 1989, n. 86, art. 9, commi 2 e 3).(GU n.3 del 21-1-1998 )
Ricorso per conflitto di attribuzioni (art. 39 legge n. 87/1953) di regione Veneto, in persona del presidente pro-tempore della Giunta regionale giusta delibera della g.r. 18 novembre 1997, n. 4005, integrata dalla delibera della g.r. n. 4230 del 2 dicembre 1997, in atti, con i difensori avv.ti Ivone Cacciavillani e Alfredo Bianchini del foro di Venezia ed in Roma (anche domiciliatario) avv. Luigi Manzi, via Confalonieri n. 5, per speciale procura qui a margine, contro Presidente del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente pro-tempore, avverso: a) le ordinanze del Commissariato del Governo nella regione Veneto - Commissione di controllo sugli atti della Regione (ambedue) del 20 ottobre 1997 rispettivamente nn. 3242 e 3243, di annullamento delle delibere della g.r. 7 ottobre 1997, nn. 3401 e 3402, ad oggetto: "direttiva CEE n. 409/79 art. 9 approvazione deroghe periodo 11 ottobre-31 dicembre 1997, immediatamente eseguibile"; b) del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (d.P.C.M.) 27 settembre 1997, "modalita' di esercizio delle deroghe di cui all'art. 9 della direttiva 407/1997 della CEE concernente la conservazione degli uccelli selvatici"; alla fine della declaratoria di illegittima invasione della sfera di attribuzioni regionali da parte di detti atti statali, e per la loro rimozione. Con deliberazione di Giunta regionale del 7 ottobre 1997, n. 3401, la regione Veneto procedeva all'applicazione, per la stagione venatoria 1997/98, della deroga prevista dall'art. 9 della direttiva CEE n. 409 del 1979, consentendo la caccia (per un definito periodo di tempo) alle specie fringuello e peppola, specie non ricomprese nell'elenco di quelle per le quali la normativa comunitaria ammette in via generale il prelievo venatorio. Con altra deliberazione di Giunta regionale di pari data, n. 3402, la regione Veneto applicava la medesima deroga, sempre per la stagione 1997/98, con riferimento alle specie passero, passera mattugia, passera oltremontana e storno, pure esse non inserite nel predetto elenco. Entrambe tali deliberazioni venivano annullate dalla Commissione statale di controllo nella seduta del 20 ottobre 1997, rispettivamente con i provvedimenti nn. 3242 e 3243, recanti identiche motivazioni in ordine alla carenza di competenza regionale nell'adozione delle deroghe previste dalla direttiva 409/1979. Sulla specifica materia interveniva il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (d.P.C.M.) del 27 settembre 1997, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 ottobre 1997, recante norme in ordine alle "Modalita' di esercizio delle deroghe di cui all'art. 9 della direttiva 409/79/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici", il quale stabiliva che le deroghe vengono adottate dalle regioni di intesa con i Ministri dell'ambiente e delle politiche agricole. La regione ricorrente ritiene che i provvedimenti statali descritti in epigrafe siano invasivi, se pur in misura diversa, della sfera di attribuzioni che la Costituzione ad essa riserva nella materia della caccia, secondo il riparto di competenze delineato dagli artt. 117 e 118 della Costituzione, e dalla normativa che di quelli costituisce il necessario completamento (in particolare, per quanto qui interessa, gli artt. 6 e 99 deI d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, e l'art. 9 della legge n. 86 del 9 marzo 1989). Il presente ricorso per conflitto di attribuzioni sottopone pertanto al giudizio di codesta ecc.ma Corte due "domande", tra loro strettamente connesse - e aventi sostanzialmente identico fondamento - ma funzionalmente distinte: l'una di carattere "ordinatorio", l'altra, direttamente conseguente, di natura "costitutivoannullatoria". Con la prima si chiede che venga accertata l'invasione, da parte dei provvedimenti statali in epigrafe indicati, della sfera di attribuzioni costituzionalmente spettante alla regione Veneto, e che venga altresi' dichiarata la spettanza alla regione stessa delle competenze in ordine all'esercizio dei poteri di deroga previsti dall'art. 9 della direttiva CEE n. 409 del 1977; con la seconda si chiede invece la rimozione dei succitati provvedimenti, al fine di eliminarne gli effetti. Poiche' gli atti statali nei confronti dei quali si solleva conflitto da un lato affermano la radicale carenza di competenza della regione (le due deliberazioni di annullamento della Commissione statale di controllo), e dall'altro comunque comportano la menomazione dell'autonomia regionale in materia di caccia (il d.P.C.M. 27 settembre 1997), si ritiene che la giurisdizione in tema di conflitti spettante a codesta ecc.ma Corte valga ad "assorbire" per tali profili quella del giudice amministrativo nei confronti de medesimi atti. M o t i v i 1. - Prima di affrontare nel merito i complessi problemi sottoposti a giudizio di codesta ecc.ma Corte, pare interessante e significativo rilevare che i provvedimenti in esame, pur intervenendo nella medesima materia (vale a dire la concreta spettanza del potere di deroga ai generali limiti posti all'esercizio dell'attivita' venatoria) prefigurano in concreto un diverso ruolo dello Stato ed una diversa incidenza dei poteri statali nei confronti delle regioni. Ed invero, mentre le due deliberazioni della Commissione statale di controllo negano in radice la sussistenza in capo all'ente regionale di alcuna attribuzione in materia, asserendo che nell'attuale quadro istituzionale delle competenze l'ammissibilita' della deroga di cui all'art. 9 della direttiva n. 409/1979 "va in ogni caso riservata alle determinazioni dei competenti organi dello Stato", il d.P.C.M. del 27 settembre 1997 ammette e riconosce espressamente l'esistenza di un potere regionale in subiecta materia, stabilendo anzi (art. 2) che spetta primariamente alle regioni il compito di adottare le deroghe di cui al citato art. 9 della direttiva comunitaria, subordinatamente al solo adempimento della previa "intesa" con i Ministri dell'ambiente e per le politiche agricole. Gia' alla luce delle disposizioni del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri si traggono dunque elementi per inferire innanzitutto (e sotto un primo profilo) l'illegittimita' delle due deliberazioni della Commissione statale di controllo, in quanto negative della competenza regionale: con l'atto regolamentare governativo - al quale va attribuita una valenza meramente ricognitiva, e non certo costitutiva, del riparto di attribuzioni tra enti dotati di autonomia costituzionalmente garantita - lo Stato stesso ha riconosciuto che e' funzione istituzionalmente regionale quella riguardante l'indicazione delle specie ammesse al prelievo venatono in deroga alle elencazioni contenute negli allegati II/1 e II/2 della direttiva 409/1979, risultando cosi' superata l'impostazione assunta dall'organo di controllo a fondamento delle proprie determinazioni. 2. - Al di la' di tale rilievo meramente "comparativo", il conflitto portato all'esame di codesto ecc.mo Collegio investe questioni di grande complessita' nella definizione delle sfere di attribuzioni rispettivamente proprie di Stato e regione, anche in considerazione dell'incidenza che nella fattispecie assumono le fonti normative di rango comunitario. Due sono, in proposito, gli assunti sui quali la regione ricorrente fonda le proprie doglianze nei confronti degli atti statali impugnati; tali assunti, piu' oltre estesamente illustrati, possono essere cosi' schematicamente sintetizzati: a) le attribuzioni relative all'esercizio della deroga di cui all'art. 9 della direttiva 409/1979, in quanto rientranti nei poteri di attuazioni di normativa comunitaria che investe una materia costituzionalmente "regionale" (ai sensi degli artt. 117 e 118 della Costituziome), debbono ritenersi di spettanza della regione, sulla scorta di precisi fondamenti normativi e sistematici; b) vi e' motivo per dubitare che, nel quadro della normativa comunitaria, sussista un interesse unitario dello Stato in ordine all'esercizio della suddetta deroga; la tutela di un tale interesse, tuttavia, anche se eventualmente ravvisabile, non autorizza lo Stato ad attuare qualsivoglia forma di limitazione, intervento o "interferenza" nei confronti dei poteri regionali, ma consente esclusivamente l'utilizzazione degli strumenti di coordinamento e controllo a livello centrale espressamente previsti dalla legge, tra i quali non rientra quello della "intesa". E' ben noto alla ricorrente il diverso orientamento recentemente espresso da codesta ecc.ma Corte - proprio in un giudizio per conflitto di attribuzioni in parte analogo ai presente - con la sentenza n. 272 dei 22 luglio 1996, nella quale si e' affermato che "nell'assetto attualmente dato dal legislatore nazionale all'attivita' venatoria e per i fini della stessa, i divieti posti dalla direttiva (409/1979) in tema di specie cacciabili sono suscettibili di modifica solo nei limiti del potere di variazione degli elenchi delle specie medesime, riservato allo Stato dall'art. 18, terzo comma, della legge n. 157 del 1992", con cio' ravvisando nei citato art. 18, terzo comma, la norma attributiva allo Stato di una competenza esclusiva per l'adozione dei provvedimenti di deroga alle norme protettive delle specie animali di cui alla direttiva 409/1979. Parimenti sono note le precedenti decisioni (n. 1002 del 12-27 ottobre 1988; n. 577 del 12-28 dicembre 1990) nelle quali, in un diverso contesto normativo, la Corte ha sostenuto che tanto l'individuazione delle specie non cacciabili quanto l'elencazione delle specie cacciabili investono un interesse unitario proprio della comunita' nazionale, la cui valutazione e la cui salvaguardia restano in primo luogo affidati allo Stato. E' tuttavia convinzione della regione Veneto che proprio il vigente assetto legislativo "interno", ricostruito alla luce dei principi e delle tendenze espresse dalla direttiva disciplinante la materia della caccia, imponga di giungere a conclusioni diverse da quelle delineate nelle sopra richiamate sentenze, dovendosi riconoscere in via esclusiva alla regione, e non allo Stato, il potere di adottare i provvedimenti di deroga per i quali e' sollevato il presente conflitto di attribuzioni. 3. - Poiche' l'art. 9 della direttiva 409/1979 non individua l'autorita' (o le autorita') di ciascuno Stato membro competenti all'adozione delle deroghe alle norme protettive dell'avifauna, pare chiaro che tale (o tali) autorita' vanno individuate alla stregua dell'ordinamento nazionale, secondo il riparto interno di attribuzioni in materia. Per quanto riguarda specificamente l'ordinamento italiano, osservato che - diversamente da quanto ritenuto da codesta Corte - l'art. 18, terzo comma, della legge n. 157 dei 1992, non puo' in alcun modo rivestire il ruolo di norma attributiva allo Stato della competenza esclusiva in ordine alla definizione delle deroghe previste dalla direttiva comunitaria; e cio' non tanto e non solo per ragioni strettamente testuali (che comunque assumono valore indicativo, stante la mancanza di qualsivoglia riferimento all'esclusivita' della competenza statale), quanto piuttosto perche' quell'articolo di legge non presenta gli elementi necessari per poter essere considerato una disposizione di attuazione, nell'ordinamento interno, del citato art. 9 direttiva 409/1979. La Corte di giustizia delle Comunita' europee, con sentenza della quinta sezione, pronunciata il 7 marzo 1996, ha affermato che non puo' considerarsi attuativa dell'art. 9 una normativa nazionale la quale, nell'autorizzare la caccia a specie di uccelli non ricompresi negli appositi elenchi della direttiva, non enunci i criteri della deroga ne' obblighi in modo chiaro e preciso gli organi competenti a tener conto di siffatti criteri e ad applicarli. Orbene, l'art. 18 della legge n. 157 del 1992, nell'attribuire allo Stato un (non meglio definito) potere di "variazione" dell'elenco delle specie cacciabili, non contiene alcun espresso riferimento all'art. 9 della summenzionata direttiva e non enuncia in alcun modo i criteri stabiliti dalla normativa comunitaria per il legittimo esercizio della deroga; come del resto neppure obbliga lo Stato (in sede di emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri con il quale viene operata la "variazione") al rispetto di detti criteri. In linea con quanto statuito dalla Corte di giustizia, si deve dunque escludere che quell'articolo della legge nazionale - privo dei necessari requisiti - rappresenti la disposizione di recepimento e di attuazione interna dell'art. 9 direttiva 409/1979; e conseguentemente si deve pure escludere che il medesimo art. 18 possa essere considerato come la norma individuativa nell'ordinamento interno del soggetto esclusivamente competente all'adozione delle deroghe previste dalla disposizione comunitaria, poiche', come detto, a quest'ultima esso non risulta essere in alcun modo ricollegabile. 4. - Rilevato che la procedura della deroga e' stata solo formalmente recepita (dall'art. 1 della legge n. 157 del 1992) ma non espressamente disciplinata nell'ordinamento interno, pare chiaro che l'individuazione del soggetto in concreto competente all'esercizio del potere di deroga va condotta avendo riguardo alle norme generali che disciplinano il riparto di attribuzioni tra Stato e regione in sede di attuazione della normativa comunitaria. E proprio l'esame di tale quadro ordinamentale porta a ritenere che la funzione sia di spettanza regionale. Sul piano sistematico, in tal senso depone innanzitutto (per quanto riguarda l'esercizio delle funzioni legislative) l'art. 9, secondo e terzo comma, della legge 9 marzo 1989, n. 86, il quale prevede che le regioni anche a statuto ordinario possono dare attuazione alle direttive comunitarie che abbiano ad oggetto una materia di competenza regionale (quale e' la caccia, ai sensi dell'art. 117 della Costituzione), trovando come unico limite le disposizioni di principio dettate dalla legge statale e da questa stessa dichiarate inderogabili. Il principio trova una ulteriore specificazione nell'art. 1, terzo comma, della legge n. 157 del 1992, a tenore del quale "le regioni a statuto ordinario provvedono ad emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie della fauna selvatica, in conformita' alla presente legge, alle convenzioni internazionali e alle direttive comunitarie". Gia' da tali considerazioni si puo' desumere che il legisiatore ha attribuito in via generale alla regione la facolta' di dare attuazione con proprie disposizioni (nella specie, di carattere normativo) quanto meno alle direttive comunitarie intervenute nelle materie ad essa spettanti per attribuzione costituzionale, compresa dunque la regolamentazione del procedimento e la definizione dei criteri da rispettare per il legittimo esercizio dei poteri di deroga. Ai di la' dei profili sistematici riguardanti il riparto interno delle attribuzioni legislative, va comunque rilevato che il procedimento volto alla concreta individuazione delle ipotesi di deroga, ai sensi della direttiva 409/1979, ha carattere amministrativo e non normativo: con l'effetto che l'identificazione dei soggetto titolare della relativa competenza deve essere condotta alla luce e sulla scorta delle disposizioni che disciplinano in via generale l'esercizio delle funzioni amministrative di attuazione della normativa comunitaria. Ruolo centrale in tale contesto assume l'art. 6 del d.P.R. 27 luglio 1977, n. 616, che espressamente trasferisce "alle regioni in ciascuna delle materie definite dal presente decreto anche le funzioni amministrative relative all'applicazione dei regolamenti della Comunita' economica europea nonche' all'attuazione delle sue direttive fatte proprie dallo Stato con legge che indica espressamente le norme di principio". Ebbene, posto che il decreto del Presidente della Repubblica n. 616 del 1977 richiama e definisce la materia della caccia all'art. 99 (ricomprendendo in essa tutte le funzioni concernenti "l'esercizio della caccia"), e posto che lo Stato ha espressamente recepito la direttiva 409/1979 con la legge n. 157 del 1992, se ne trae la necessaria conclusione che le funzioni amministrative connesse all'esercizio della deroga di cui alla piu' volte citata direttiva possono e debbono - alla luce del vigente ordinamento interno - essere esercitate direttamente dalla regione, la quale per specifica disposizione normativa risulta investita delle relative attribuzioni. Il sistema, del resto, non e' stato in alcun modo modificato dal d.lgs. 4 giugno 1997, n. 143, il quale si e' limitato a conservare in capo al "nuovo" Ministero per le politiche agricole alcuni compiti gia' in precedenza spettanti al soppresso Ministero delle risorse agricole, alimentari e forestali; tra i quali, per quanto detto, non rientrava quello relativo all'esercizio del potere di deroga ex art. 9 della direttiva 409/1979. 5. - Il delineato assetto delle attribuzioni e' pacificamente ammesso dallo stesso d.P.C.M. 27 settembre 1997, il quale riconosce proprio alla regione la competenza all'adozione delle piu' volte citate deroghe agli elenchi delle specie cacciabili. Sotto tale specifico profilo, l'atto regolamentare statale appare conforme al riparto di funzioni voluto dall'ordinamento; e se pure esso va ritenuto lesivo della sfera di autonomia regionale nella parte in cui impone la previa intesa con gli organi statali, cio' non toglie che il principio chiaramente affermato all'art. 2 - valido come direttiva per l'attivita' statale in materia - e' che l'esercizio delle deroghe rientra a pieno titolo tra le funzioni regionali. In senso contrario si esprimono i due provvedimenti con i quali la Commissione statale di controllo ha annullato le deliberazione di Giunta regionale che, in applicazione dell'art. 9 della direttiva 409/1977, ammettevano al prelievo venatorio alcune specie di uccelli non comprese negli allegati della direttiva stessa. A fronte del chiaro ed univoco quadro sistematico in precedenza tratteggiato, ed alla luce dello stesso decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, non puo' pero' non riconoscersi l'erroneita' della tesi seguita dalla Commissione statale, posto che, come si e' visto, nessuna competenza esclusiva e' attribuita allo Stato nell'attuazione della normativa comunitaria qui all'esame. Allo Stato, in subiecta materia, e' certo consentito legiferare nell'ambito dei propri poteri normativi (con norme comunque "cedevoli", a parte quelle di principio, nei confronti della legislazione regionale); parimenti allo Stato, in sede di controllo sugli atti regionali, e' consentito eventualmente sindacare il "modo" in cui la regione ha esercitato i propri poteri di deroga, al fine di verificare la conformita' dei singoli provvedimenti ai criteri ed ai limiti posti dalla normativa comunitaria ed eventualmente nazionale. Quella che invece non puo' essere messa in discussione e' la sfera di attribuzioni spettante alla regione, come individuata sul piano istituzionale dai vigente ordinamento. Ne' tali considerazioni possono essere superate con il semplice richiamo ad un asserito interesse unitario nazionale in materia di individuazione e regolamentazione delle specie cacciabili. L'eventuale sussistenza di un tale interesse, invero, puo' al piu' consentire allo Stato di utilizzare gli specifici strumenti di indirizzo e di controllo ammessi dall'ordinamento nei confronti della regione; certamente non puo' invece giustificare il sovvertimento del riparto interno di competenze tra oggetti dotati di autonomia costituzionalmente riconosciuta. Cosi', come sottolineato in precedenza, neppure il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri giunge a negare la sussistenza delle attribuzioni regionali, preferendo piuttosto, con disposizione da considerarsi comunque invasiva, "affiancare" lo Stato alla regione nell'esercizio della funzione. Se dunque, in linea di principio, la valutazione e la salvaguardia dell'interesse unitario della comunita' nazionale restano in primo luogo affidati allo Stato ed all'amministrazione centrale (sentenza n. 1002 del 1988), laddove un tale interesse sia ravvisabile, resta fermo - come piu' oltre meglio sara' precisato - che valutazione e salvaguardia sono legittimamente esercitabili unicamente attraverso le forme ed i mezzi tipici previsti dalla legge, i quali mai possono risolversi nella compressione o, piu' gravemente, nel "disconoscimento" dei poteri regionali. 6. - Il tema da ultimo accennato, relativo all'incidenza dell'interesse unitario nazionale nella materia della caccia, pare meritevole di qualche ulteriore considerazione. Cio' anche allo scopo di sottoporre a nuova riflessione l'orientamento espresso da codesta Corte nel quadro di un diverso contesto normativo (quello della legge n. 968 del 27 dicembre 1977, precedente alla legge n. 157 del 1992 ed oggi abrogata); orientamento secondo il quale l'elencazione delle specie cacciabili, come eccezione al generale divieto di caccia nei confronti di tutte le specie dell'avifauna, concorrerebbe a definire l'oggetto minimo inderogabile della protezione che lo Stato ha ritenuto di dover offrire al proprio patrimonio faunistico; per cui sia l'individuazione delle specie sottoposte a protezione, sia l'elencazione di quelle ammesse al prelievo venatorio, investirebbero un interesse unitario proprio della comunita' nazionale, la cui salvaguardia resterebbe affidata in primo luogo i poteri dell'amministrazione statale. Da un lato lo speciale oggetto (vale a dire la conservazione dell'avifauna) e l'ambito territoriale della disciplina all'esame, dall'altro lato il rango delle fonti ed il sistema complessivo introdotto per la tutela degli uccelli selvatici, inducono a diversa opinione, e cioe' a ritenere che l'interesse unitario rilevante nella materia della caccia si ponga non a livello nazionale, ma a livello comunitario, e che la sede del coordinamento e del controllo si trovi non nelle amministrazioni centrali dei singoli Stati membri, bensi' piuttosto negli organi della Comunita' (ora Unione) europea ai quali tali compiti sono specificamente demandati dalla normativa comunitaria. Sul punto va preliminarmente rilevato che con la direttiva 409/1979 (e successive modificazioni) la tutela degli uccelli selvatici e' divenuta in via generale materia di rilevanza comunitaria, e la sua disciplina ha assunto rango super-nazionale, assumendo idoneita' a sostituirsi alla difforme disciplina dettata dai singoli Stati membri della CEE (ora U.E.). Tale piu' esteso ambito di disciplina si e' reso necessario in considerazione del singolare oggetto del regime protettivo, l'avifauna selvatica, la quale, risultando composta prevalentemente di specie migratrici, costituisce non tanto un patrimonio "individuale" di ciascuno Stato membro, quanto piuttosto un patrimonio comune a tutti gli Stati, la cui protezione investe un problema ambientale tipicamente transnazionale, implicante necessariamente responsabilita' comuni (terzo e ottavo "considerando" della direttiva 409/1979). In questa prospettiva anche la definizione contenuta nell'art. 1 della legge n. 157 del 1992, dove la fauna selvatica viene qualificata come "patrimonio indisponibile dello Stato", non va intesa in senso letterale: ed invero non si vede come lo Stato italiano abbia il potere di rivendicare e tutelare questo singolare "patrimonio indisponibile" una volta che lo stesso (melius, gli elementi che lo compongono) sia migrato nel territorio di altro Stato. Se poi ciascuna nazione attribuisse a se' la proprieta' esclusiva di tutti gli uccelli che anche solo di passaggio ne sorvolano il territorio, si realizzerebbe un regime alquanto singolare ed inevitabilmente conflittuale. E' chiaro, del resto, che a poco servirebbe una rigorosa e restrittiva regolamentazione della caccia da parte di un Paese, qualora i Paesi vicini, pure attraversati dalle rotte migratorie, consentissero in maniera indiscriminata il prelievo venatorio. Propri in considerazione di tale circostanza il "legislatore" comunitario ha ritenuto opportuno dettare un sistema di tutela unico ed articolato per tutti gli Stati appartenenti alla CEE; cosicche' la normativa nazionale di materia viene a configurarsi ed a caratterizzarsi sostanzialmente come una componente di quella "globale", cioe' come parte del complessivo sistema di tutela comunitario. L'ordinamento interno risulta pertanto vincolato alle disposizioni di rango sovranazionale, e privato del potere di individuare liberamente l'oggetto e l'ambito della tutela, spettando alla Comunita' degli Stati, e non a ciascun singolo Stato, il potere di stabilire il contenuto minimo inderogabile del regime protettivo, e di individuare le specie ammesse al prelievo venatorio, quelle escluse ed i limiti alla facolta' di deroga nei confronti di queste ultime. Dall'esame del "sistema" comunitario di protezione, e specificamente della direttiva 409/1979, emerge inoltre che le funzioni di coordinamento e di controllo nell'attuazione della normativa di materia sono attribuite direttamente agli organi della CEE (ora U.E.), e specificamente alla Commissione. L'art. 4, terzo comma, della citata direttiva prevede che spetta alla Commissione prendere le iniziative idonee per il necessario coordinamento degli interventi diretti a realizzare misure speciali di conservazione dell'avifauna. Di ancora maggiore rilevanza, proprio con riferimento all'esercizio dei poteri di deroga, e' l'art. 9 della direttiva, il quale prevede che gli Stati membri debbono inviare ogni anno alla Commissione una relazione sull'applicazione della norma (terzo comma), e stabilisce (quarto comma) che "la Commissione vigila costantemente affinche' le conseguenze di tali deroghe non siano incompatibili con la presente direttiva. Essa prende adeguate iniziative in merito". Nel contesto normativo cosi' delineato, non pare dunque corretto sostenere che la tutela dell'avifauna selvatica investa un interesse unitario dello Stato, e sia pertanto affidata in primo luogo agli organi dell'amministrazione dello Stato. In realta', come si e' visto, l'interesse in questione ha ormai rilevanza comunitaria, e sia la definizione dell'oggetto minimo della protezione, sia il controllo sulle attivita' di attuazione nei singoli Stati del sistema "globale" di tutela, spettano primariamente agli organi dell'apparato comunitario. Gli Stati membri, attraverso l'attivita' normativa o amministrativa "interna", propria o di enti di rilevanza costituzionale substatali, secondo la ripartizione istituzionale delle attribuzioni, possono eventualmente estendere l'ambito della tutela, introducendo un regime piu' restrittivo dell'attivita' venatoria, ovvero possono utilizzare i poteri di deroga di cui all'art. 9 della direttiva 409/1979, nei limiti da questa consentiti. Resta pero' il fatto che, in subiecta materia, il nucleo centrale di normazione, coordinamento e controllo si trova ormai a livello comunitario, risultando superata l'impostazione che vedeva nello Stato (inteso come amministrazione centrale) il diretto "gestore" e tutore di un interesse unitario nazionale che ha ormai perduto gran parte del proprio contenuto. A cio' si aggiunga che il territorio del nostro Paese, per la sua estensione in latitudine e per la varieta' di climi e di ambienti che ne costituisce peculiare caratteristica, e' interessato in maniera diversa dai flussi migratori. Le regioni si ritrovano cosi' a gestire situazioni tra loro anche molto differenti, poiche' talune specie di uccelli possono essere diffusissime in determinate aree del Paese completamente sconosciute in altre. Anche sotto tale profilo appare poco ragionevole il ricorso a una disciplina statale unitaria ed omologante dell'attivita' venatoria, ad esempio attraverso la predisposizione di elenchi unici delle specie ammesse e di quelle escluse dal prelievo, oppure attraverso un contingentamento a livello nazionale delle quantita' di ucceli catturabili, da redistribuire per quote tra le diverse regioni: ed infatti, come e' doveroso trattare in maniera uguale situazioni uguali, altrettanto doveroso che siano regolamentate in maniera diversa situazioni diverse, e dunque che sia consentito a ciascuna regione di valutare e disciplinare la materia della caccia e dei prelievi in deroga in relazione alle specificita' del proprio territorio. 7. - Ad ogni modo, anche a volerne ammettere la persistenza, va osservato che l'interesse unitario nazionale non legittima lo Stato ad interferire indiscriminatamente nella sfera di attribuzion istituzionalmente spettante alla regione. Il rilievo si rivolge specificamente al d.P.C.M. 27 settembre 1997, il quale. ha bensi' riconosciuto alla regione la spettanza dei poteri in materia di deroghe alle specie ammesse al prelievo venatorio, ma ne ha condizionato l'esercizio alla previa "intesa" con l'amministrazione statale. Sul punto si richiama la sentenza di codesta Corte, n. 126 del 24 aprile 1996, la quale, sulla scorta di consolidati orientamenti della giurisprudenza costituzionale, ha riconosciuto che, nelle materie di competenza "primaria" regionale, allo Stato spetta una competenza "di seconda istanza", volta principalmente ad evitare che esso si trovi "impotente" di fronte ad eventuali violazioni del diritto comunitario commesse da altri soggetti dotati di autonomia costituzionale (nel caso, le regioni). Gli strumenti utilizzabili a tal fine, viene affermato, "consistono non in avocazioni di competenze, ma in interventi repressivi o sostitutivi e suppletivi - questi ultimi anche in via preventiva, ma cedevoli di fronte all'attivazione dei poteri regionali e provinciali normalmente competenti - rispetto a violazioni o carenze nell'attuazione o nell'esecuzione delle norme comunitarie". In definitiva, la salvaguardia dell'interesse unitario non consente all'amministrazione statale di sostituirsi alla regione, ne' di imporre forme gestione congiunta delle funzioni a quest'ultima esclusivamente spettanti, potendo lo Stato fare ricorso essenzialmente agli strumenti di coordinamento e controllo (o di supplenza) previsti dalla legge, specificamente individuati dall'art. 6, terzo comma, del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 616 del 1977, e dall'art. 9, terzo e quinto comma, della legge n. 86 del 1989. Tra questi certamente non rientra la "intesa" prevista da d.P.C.M. 27 settembre 1997. Una tale figura organizzatoria, che si concreta in un accordo propedeutico e necessario con lo Stato ai fini dell'esercizio dei poteri regionali (incidendo nella sostanza delle scelte dell'ente titolare della funzione), potrebbe essere imposta solo da una fonte di rango legislativo, in considerazione del penetrante condizionamento che essa esercita nei confronti del soggetto istituzionalmente investito della competenza a provvedere. Una siffatta previsione legislativa non e' pero' espressamente contenuta, ne' altrimenti ricavabile, dal sistema regolante la materi de qua; e tale assenza, non colmabile in via meramente interpretativa, porta ad escludere che nella fattispecie lo Stato sia legittimato ad imporre alla regione, in maniera unilaterale e con atto di natura regolamentare (quale e' il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri), l'obbligo della previa "intesa". L'imposizione dell'intesa, attraverso la quale il il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (al di fuori di ogni fondamento normativo) finisce per affiancare lo Stato alla regione nell'esercizio dei poteri di deroga di cui all'art. 9 della direttiva 409/1979, si configura pertanto palesemente come una inammissibile incisione e compressione dei poteri regionali in materia, modificando in forme non consentite il sistema dei rapporti intercorrenti, nell'attuale ordinamento costituzionale, tra i due Enti. 8. - Per altro verso, e proprio in considerazione del suo contenuto, pare doversi ritenere altresi' che il il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sia stato emanato in violazione delle norme che disciplinano la fonte e le modalita' di esercizio del potere normativo del Governo. Ed invero - fermi comunque i rilievi svolti al precedente punto 3 - l'art. 18, terzo comma, della legge n. 157 del 1992, richiamato nel preambolo del provvedimento, attribuisce al Presidente de Consiglio dei Ministri solamente la facolta' di introdurre variazioni agli elenchi delle specie cacciabili, ma non il potere di dettare una normativa regolamentare, neppure eventualmente di carattere suppletivo rispetto a quella regionale, in materia di esercizio delle deroghe. Peraltro, se e' vero che l'art. 4 della legge n. 86 del 1989 consente di attuare le direttive comunitarie mediante regolamento non si puo' dimenticare che a tal fine e' indispensabile che cosi' sia previsto nella legge comunitaria (come nella stessa norma precisato), o eventualmente in altra disposizione di rango legislativo. Nel caso di specie, pero', manca quel supporto normativo che costituisce indispensabile presupposto per l'esercizio del potere normativo da parte del Governo; ne', per quanto detto, tale supporto puo' essere ravvisato nell'art. 18 della legge n. 157 del 1992, che al piu' attribuisce allo Stato l'esercizio di un potere di concreta e diretta modifica degli elenchi delle specie ammesse al prelievo venatorio, ma certamente non fonda un potere regolamentare statale idoneo ad imporsi nei confronti delle regioni. Se anche poi al il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri si volesse riconoscere valore di mero atto di indirizzo e coordinamento, la procedura seguita per la sua formazione risulterebbe illegittima, quantomeno per essere stata omessa la preventiva consultazione con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome. Ai sensi dell'art. 12, quinto comma, della legge 23 agosto 1988, n. 400, la Conferenza deve invero essere consultata "sulle linee generali dell'attivita' normativa che interessa direttamente le regioni" (lettera a) e "sui criteri generali relativi all'esercizio delle funzioni statali di indirizzo e coordinamento inerenti ai rapporti tra lo Stato, le regioni, le province autonome e gli enti infraregionali, nonche' sugli indirizzi generali relativi alla elaborazione ed attuazione degli atti comunitari che riguardano le competenze regionali" (lettera b). Detta consultazione risulta essere prevista come momento procedimentale necessario per l'attivita' statale di indirizzo coordinamento, a specifica tutela dell'autonomia costituzionalmente riconosciuta alle regioni; e la sua omissione nel caso che ne occupa costituisce, sotto l'ulteriore profilo qui all'esame, una indebita compromissione della sfera di attribuzioni regionali.
Alla luce delle suesposte considerazioni, la regione Veneto chiede che i provvedimenti statali contro i quali e' sollevato conflitto di attribuzioni vengano dichiarati invasivi della sfera di competenze costituzionalmente spettante alla regione stessa, con il loro conseguente annullamento. Venezia-Roma, addi' 18 dicembre 1997 Avv. Ivone Cacciavillani - avv. Alfredo Bianchini - avv. Luigi Manzi 98C0002