N. 112 ORDINANZA (Atto di promovimento) 1 dicembre 1997
N. 112 Ordinanza emessa il 1 dicembre 1997 dal tribunale di Lecco nel procedimento penale a carico di Agrati Maurizio ed altri Processo penale - Dibattimento - Incompatibilita' con l'ufficio di testimone - Coimputati o imputati in procedimento connesso o collegato - Lamentata previsione di incompatibilita' a testimoniare nel caso di esame di dette persone su fatti concernenti responsabilita' di altri in relazione ai quali, in precedenza, abbiano rinunciato ad avvalersi della facolta' di non rispondere - Lesione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale, del principio di indipendenza del giudice e del diritto di difesa - Disparita' di trattamento tra situazioni analoghe. Processo penale - Dibattimento - Esame di coimputati o imputati in procedimento connesso o collegato - Esercizio della facolta' di non rispondere - Lamentata previsione di tale facolta' anche in relazione a fatti concernenti responsabilita' di altri per i quali, in precedenza, dette persone abbiano rinunciato ad avvalersi della facolta' di non rispondere - Lesione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale, del principio di indipendenza del giudice e del diritto di difesa - Disparita' di trattamento tra situazioni analoghe. Reato in genere - Reato di falsa testimonianza - Coimputati o imputati in procedimento connesso o collegato che abbiano taciuto o affermato il falso su fatti concernenti responsabilita' di altri per i quali, in precedenza, abbiano rinunciato ad avvalersi della facolta' di non rispondere - Lesione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale, del principio di indipendenza del giudice e del diritto di difesa - Disparita' di trattamento tra situazioni analoghe. Processo penale - Dibattimento - Esame di coimputati o imputati in procedimento connesso o collegato - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice salvo il consenso delle parti - Lamentata previsione di diversa disciplina rispetto a quella stabilita per le dichiarazioni testimoniali - Lesione del principio di obbligatorieta' dell'azione penale, del principio di indipendenza del giudice e del diritto di difesa - Disparita' di trattamento tra situazioni analoghe. (C.P.P. 1988, artt. 197, lett. a) e b), 208 e 210, commi 4 e 6; art. 513, commi 1 e 2; c.p. art. 372). (Cost., artt. 2, 3 e 24, secondo comma, 101 e 112).(GU n.10 del 11-3-1998 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sulla questione di legittimita' costituzionale (art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 62). Visti gli atti del procedimento n. 45/1994 reg. gen., a carico di Agrati Maurizio e piu', per i delitti di associazione per delinquere ed altro; Visto in particolare il verbale dell'udienza dibattimentale di oggi 1 dicembre 1997, e a scioglimento della riserva formulata in ordine alla richiesta del pubblico ministero di dare lettura, ai sensi dell'art. 513, comma 2, c.p.p., delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dall'imputato in procedimento collegato Isella Giancarlo; O s s e r v a Sono al centro del processo due vicende associative tra loro collegate, per il fatto di vedere coinvolti - in buona parte - gli stessi imputati, e di collocarsi in un contesto spazio-temporale sostanzialmente omogeneo (Lecco e altre localita' del circondario, tra la seconda meta' degli anni '80 e l'inizio del decennio in corso). A ognuna delle due vicende corrisponde una imputazione di associazione per delinquere, in un caso riferita alla perpetrazione di truffe ed estorsioni (capi 1 e 2 dell'imoutazione, come riformulata dal p.m. all'udienza dibattimentale del 16 dicembre 1996) e nell'altro ad una sistematica attivita' di usura, anch'essa accompagnata da condotte estorsive per il conseguimento dei relativi profitti (capo 32 dell'imputazione). Sono poi contestati agli associati vari reati - scopo riconducibili all'uno o all'altro sodalizio (rispettivamente: capi da 3 a 31 e da 33 in fine). L'originaria vocatio in jus (risultante dal decreto g.u.p. tribunale Lecco in data 15 dicembre 1993 e dal decreto Corte appello Milano 18 dicembre 1995, che ebbe a riformare la parziale pronuncia di non luogo a procedere emessa dal giudice dell'udienza preliminare) comprendeva altresi' una serie di reati tributari, connessi alle usure di cui si e' detto. Infatti, posto che, nella ricostruzione dell'accusa, gran parte di quelle usure sarebbe stata realizzata mediante lo schermo di alcune societa' finanziarie gestite dagli imputati, e precisamente costringendo le persone offese a stipulare dei finti contratti di c.d. sale and lease-back (volti a occultare il carattere giugulatorio dei vari prestiti, e ad assicurare maggiori garanzie rispetto a un eventuale inadempimento), si era ritenuto trattarsi di operazioni inesistenti anche sul piano tributario, ed era stata quindi elevata a carico di entrambe le parti del contratto (i finanziatori - usurai ed i clienti - usurati) l'imputazione di frode fiscale di cui all'art. 4, legge n. 516/1982, con riferimento alle fatture reciprocamente emesse e annotate nell'occasione. La quasi totalita' di queste imputazioni e' stata peraltro definita nelle more tra l'udienza preliminare e l'inizio del dibattimento: o con declaratoria di estinzione del reato in virtu' dell'amnistia tributaria di cui al d.P.R. 20 gennaio 1992, n. 23, o mediante applicazione di pena su richiesta delle parti ai sensi degli artt. 444 ss. c.p.p. Da cio' e' derivato che, ai fini dell'istruttoria dibattimentale, il pubblico ministero interessato a esaminare le vittime delle usure in discorso abbia dovuto citare la gran parte di esse in qualita' non di testimoni, ma di imputati in procedimento collegato a norma dell'art. 210 c.p.p. All'odierna udienza, uno di questi soggetti Isella Giancarlo, chiamato a deporre in ordine a un prestito da lui contratto con gli imputati Alde' Stefano, Musolino Vincenzo e Ferrari Adelchi (capo 34 lett. i) dell'imputazione), in relazione al quale era stato peraltro lui stesso imputato di false fatturazioni e aveva definito il processo con il c.d. "patteggiamento", ha dichiarato di avvalersi della facolta' di non rispondere. La richiesta del pubblico ministero, affinche' venisse data lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dall'Isella nel corso delle indagini preliminari, non ha ricevuto il consenso degli imputati Alde', Musolino e Ferrari. A mente dell'art. 513, comma 2, c.p.p., come modificato dall'art. 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, quelle dichiarazioni restano pertanto prive di qualsiasi valenza probatoria, anche solo di riscontro rispetto alle altre prove eventualmente proponibili dall'accusa in merito al fatto di cui si tratta. Ad avviso del Collegio, tale situazione normativa e pratica solleva delle perplessita' che trascendono il mero dissenso - inibito al giudicante - rispetto alle scelte di politica legislativa, per investire rilevanti profili di ordine costituzionale, nella prospettiva: del principio di ragionevolezza implicito nell'art. 3 Cost.; del rispetto del diritto di difesa (e in ispecie del diritto alla prova) di tutte le parti del processo, incluse le parti pubblica e privata interessate alla tutela degli interessi lesi dal reato; dell'autonomia del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale e, infine, della liberta' della funzione giurisdizionale da condizionamenti diversi dall'ovvia subordinazione alla legge. Il tema delle prove orali, ed in particolare della mancata conferma in dibattimento delle dichiarazioni rese da un soggetto nella fase delle indagini preliminari, e' senz'altro uno dei piu' controversi dell'odierno sistema accusatorio, per la difficolta' di soddisfare in modo equilibrato i contrapposti valori costituzionali che esso coinvolge: da un lato, il diritto dell'imputato a contraddire su tutti gli elementi di prova addotti contro di lui; dall'altro l'interesse pubblico, impersonato dal p.m., al pieno accertamento delle responsabilita' penali. E' il caso peraltro di osservare che, se quello appena accennato e' il profilo piu' significativo della disciplina delle prove orali sul piano storico-politico, al punto da identificarsi con le ragioni di fondo che hanno fatto ritenere piu' conforme ai principi costituzionali il sistema della formazione della prova esclusivamente in dibattimento, tuttavia - sul piano teorico e pratico - e' configurabile anche una prospettiva esattamente inversa. E' possibile cioe', sebbene statisticamente non frequentissimo, che sia la difesa dell'imputato ad avere interesse all'acquisizione di certi elementi emersi in sede di indagine (per esempio un alibi fornito da un testimone o da un coimputato), e ad essere quindi pregiudicato dalla mancata riproduzione dibattimentale di quelle dichiarazioni. Tale rilievo vale a sottolineare come la materia della formazione della prova sia, oltre una certa misura, neutra rispetto ai contrapposti valori al centro del processo (per semplificare: rispetto alla dialettica tra "liberta'" e "autorita'"), cosi' come neutro e', per definizione, l'interesse dell'ordinamento rispetto all'accertamento della fondatezza della pretesa punitiva. Com'e' noto, l'impostazione dei compilatori del codice vigente in ordine ai temi in esame fu improntata a una rigorosa applicazione del metodo orale, funzionale soprattutto al diritto dell'imputato al contraddittorio. Infatti, per le dichiarazioni a piu' frequente contenuto di accusa, ossia quelle dei testimoni e degli imputati in procedimento connesso o collegato, fu scelto - salve limitate eccezioni - di negare ad esse dignita' di prova qualora venissero ritrattate in dibattimento, o comunque non riprodotte per la reticenza del teste o per la scelta del chiamante in correita' di avvalersi della facolta' di non rispondere (v. la rigorosa disciplina delle contestazioni e delle letture, di cui agli originari artt. 500, comma 3 e 4, e 513, comma 2). Per gli imputati, invece, fu stabilita una maggiore utilizzabilita' delle dichiarazioni contenute nel fascicolo delle indagini preliminari e, soprattutto, fu espressamente previsto che, in caso di rifiuto di sottoporsi all'esame, di quelle dichiarazioni potesse darsi lettura su richiesta di parte (artt. 503, comma 3 ss. e 513, comma 1, nel testo originario): cio', evidentemente, sul presupposto che nessuna esigenza di contraddittorio si ponesse rispetto a quanto direttamente dichiarato dall'imputato. Si trattava peraltro di una disciplina non scevra da incongruenze logico-sistematiche. Anzitutto, nell'intento di garantire l'imputato dalle accuse dei testimoni o dei soggetti di cui all'art. 210 c.p.p., essa finiva per pregiudicare l'imputato stesso nelle ipotesi - in precedenza accennate - in cui "evaporarare" in dibattimento fossero state delle dichiarazioni favorevoli alla difesa. In secondo luogo, in assenza di controindicazioni, la facolta' di lettura delle dichiarazioni dell'imputato valeva sia per le dichiarazioni autoindizianti sia per quelle che contenessero accuse nei confronti di altri imputati, con la conseguenza di subordinare a una circostanza del tutto estemporanea - la simultaneita' o meno del processo nei confronti di piu' coimputati - l'utilizzabilita' delle chiamate di correo ai fini della decisione. Infine, l'assoluto ossequio alla regola del contraddittorio, contenuto negli originari artt. 500 e 513 c.p.p., era in contraddizione con altre norme pure contenute sin dall'inizio nel codice, come l'art. 431, che prevede l'automatica inserzione nel fascicolo dibattimentale degli atti della polizia o del p.m. geneticamente insuscettibili di ripetizione orale, e soprattutto l'art. 512, che ammette la lettura degli atti di indagine in genere - e quindi anche delle dichiarazioni - la cui ripetizione sia divenuta impossibile per cause imprevedibili e oggettive, piuttosto che per mera volonta' del soggetto da esaminare. Simili considerazioni portarono la Corte costituzionale, con le note sentenze nn. 254 e 255 del 1992 (dichiarative della incostituzionalita', rispettivamente, dell'art. 513, comma 2 e dell'art. 500 c.p.p., nella loro versione originaria), a sconfessare in radice la "filosofia" del legislatore del 1988 in tema di prove orali, e ad affermare: 1) che la funzione stessa del processo penale, per la rilevanza costituzionale degli interessi coinvolti (da un lato l'onore e la liberta' dei cittadini, dall'altro la tutela dei beni primari aggrediti dal reato), implica l'accertamento il piu' possibile completo della verita' dei fatti e non tollera, quindi, forme di disciplina della prova in senso dispositivo, tanto piu' quando affidate neppure alle parti, ma ai soggetti che incarnano la fonte stessa della prova; 2) che, in questa prospettiva, il metodo del contraddittorio orale che caratterizza il sistema processuale accusatorio non puo' essere considerato un veicolo esclusivo di formazione della prova in dibattimento, giacche', se di regola costituisce l'approccio piu' rispondente all'esigenza di ricerca della verita', possono pero' darsi casi in cui il risultato al quale esso perviene si pone in contrasto con quella esigenza, nel senso che il raffronto tra le risultanze delle indagini e quelle del dibattimento induce a dubitare della genuinita' delle seconde, oppure che il raffronto stesso risulta impossibile per via della sopraggiunta irripetibilita' dell'atto; 3) che, in simili situazioni, il principio di non dispersione degli elementi di prova, insito nel complesso dei valori costituzionali che presiedono al processo (legalita', uguaglianza, ragionevolezza, obbligatorieta' dell'azione penale, libero convincimento del giudice), vieta soluzioni che comportino irragionevoli ostacoli al processo di accertamento del fatto storico; 4) che, a maggior ragione, contrasta con la Costituzione il fatto che legislatore preveda una disciplina differenziata per talune specie di atti, o per talune cause di irripetibilita' degli stessi, nel senso di considerare solo per essi indefettibile la ripetizione in dibattimento, senza che tale disparita' di trattamento poggi su apprezzabili ragioni sostanziali. L'intervento operato dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 254 e 255 del 1992 - per l'effetto demolitivo proprio di tutte le pronunce della Corte - comportava un radicale capovolgimento del sistema codicistico, con un deciso ridimensionamento del principio del contraddittorio a vantaggio delle altre istanze costituzionali sacrificate dalla precedente disciplina. Cio', beninteso, non impediva, ed anzi postulava, che il legislatore intervenisse a ricollocare il baricentro del sistema nel rispetto dei principi delineati dalla Corte. Peraltro, in luogo di una globale rivisitazione della materia, si sono avuti degli interventi novellistici non solo frammentari ma contraddittori, dai quali sono derivate, come la presente vicenda processuale dimostra, nuove disparita' di trattamento prive di ragionevole giustificazione. Per un verso, e' stata tempestivamente modificata la disciplina delle "contestazioni nell'esame testimoniale", riformulando l'art. 500 c.p.p. (d.-l. 8 giugno 1992 n. 306, convertito nella legge 7 agosto 1992 n. 356) in senso conforme alle indicazioni delle Corte costituzionale. Infatti, pur ribadendo la tendenziale prevalenza delle dichiarazioni rese dal teste nel contraddittorio dibattimentale rispetto a quelle raccolte nel corso delle indagini (comma 3, dell'art. 500), si e' pero' stabilito che queste ultime, allorche' contestate nel corso dell'esame (e la contestazione e' espressamente consentita anche quando il teste "rifiuta o comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere" sulle circostanze riferite in precedenza: nuovo comma 2-bis), acquisiscano valore di prova in due casi: 1) quando esse siano piu' coerenti con il restante quadro probatorio e quindi piu' attendibili (nuovo comma 4); 2) quando concreti elementi inducano a ritenere che la ritrattazione o il silenzio del teste in sede di esame dibattimentale siano frutto di minacce o subornazioni o di altre circostanze tali da compromettere la genuinita' della deposizione (nuovo comma 5 art. cit.). Per diverso tempo, invece, il legislatore si e' astenuto dall'apportare modifiche alla disciplina dell'"esame delle parti private", applicabile sia all'imputato sia ai soggetti di cui all'art. 210 c.p.p., e risultante dal combinato disposto dell'art. 503 (richiamato per gli imputati in procedimento connesso dall'art. 210, comma 5) e dell'art. 513 c.p.p., come integrato dalla Corte costituzionale con la citata sent. 254/1992. Ne risultava una disciplina quantomai sbilanciata in favore delle prerogative dell'accusa, abilitata a contestare nel modo piu' ampio le dichiarazioni rese dall'esaminato in sede di indagine e, in caso di silenzio del soggetto, a far dare integrale lettura dei relativi verbali. Di qui, come reazione, il recentissimo intervento operato dalla legge 7 agosto 1997 n. 267 su entrambi i commi dell'art. 513 c.p.p., consistito nello stabilire: a) quanto agli imputati, che la lettura delle loro dichiarazioni anteriori al dibattimento - a seguito di contumacia, assenza o rifiuto di rispondere - possa valere solo nei loro confronti, e non anche nei confronti di altri imputati, a meno che costoro vi consentano; b) quanto ai soggetti di cui all'art. 210, che l'utilizzabilita' delle dichiarazioni precedentemente rese nei confronti dell'imputato, ma non confermate in dibattimento in nome della facolta' di non rispondere, sia ugualmente subordinata all'accordo delle parti. Resta invece pienamente consentita la lettura in caso di mancata presentazione del dichiarante per impossibilita' sopravvenuta. Come accennato, questo tribunale e' dell'opinione che una disciplina quale quella appena ricapitolata presenti diversi profili di dubbia costituzionalita', in parte analoghi a quelli che condussero la Corte costituzionale a censurare la normativa originaria del codice, in parte inediti. Invero, l'art. 513 novellato - nel far dipendere la valenza probatoria delle dichiarazioni dei soggetti in esso indicati (siano essi imputati in procedimento connesso o collegato, come nel presente caso, ovvero imputati tout court) dalla disponibilita' di costoro a sottoporsi all'esame dibattimentale o, in caso contrario, dal consenso di tutte parti del processo - realizza una nuova, immotivata violazione di quei precetti della Carta fondamentale che concorrono a fondare il "principio di non dispersione delle prove" richiamato dalla Corte costituzionale nelle sentenze di cui si e' detto; sentenze che, a Costituzione invariata, non possono che essere riguardate come diritto vivente, e che invece il legislatore del '97 ha disatteso in pieno. In particolare risultano compromessi, da una regola quale quella in esame: 1) il principio di obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112 Cost., visto come espressione di quel principio di legalita' che non si trova espressamente enunciato nella Carta del '48, ma che si desume dal complesso delle norme che "costituzionalizzano" il processo penale (oltre all'art. 112, gli artt. 13, 25, 27, 68 ecc.), e che la giurisprudenza costituzionale ha esplicitamente posto al centro delle sue pronunce sulla "non dispersione delle prove" (v., in particolare, la sentenza n. 111 del 1993, interpretativa dell'art. 507 c.p.p.); 2) il principio di subordinazione del giudice soltanto alla legge, di cui all'art. 101, comma secondo, Cost., che risulta nel caso di specie violato nella misura in cui l'apprezzamento del materiale di prova da parte del giudice stesso, ai fini dell'accertamento della verita', viene limitato non in ossequio a regole di legittimita' (come accade nei casi di norme che comminano sanzioni di nullita' o inutilizzabilita' in conseguenza della violazione di prerogative difensive: v. tra gli innumerevoli esempi gli artt. 63, 103, 271 c.p.p.), bensi' in conseguenza del semplice arbitrio del soggetto detentore della prova e/o di quello la cui eventuale responsabilita' penale e' al centro della prova stessa; 3) il diritto di difesa di cui all'art. 24, comma secondo, Cost., visto nel caso di specie nella prospettiva della tutela processuale degli interessi pubblici e privati lesi dal reato, rappresentati rispettivamente dal pubblico ministero e dalla persona offesa. E' evidente infatti che queste posizioni processuali vedono il proprio diritto alla prova irragionevolmente compresso, per effetto di una disciplina che rimette alla controparte o, peggio, ad un soggetto del tutto estraneo al processo (quale l'imputato nei confronti del quale si proceda separatamente) l'utilizzabilita' di elementi probatori legittimamente acquisiti nel corso delle indagini. Va sottolineato, del resto, come l'elemento di novita' introdotto dalla riforma del '97 rispetto alla versione dell'art. 513 gia' dichiarata incostituzionale - quello rappresentato dalla possibilita' di dare lettura delle dichiarazioni di chi si avvalga del diritto al silenzio quando vi sia "l'accordo delle parti" - consacra in realta' una profonda alterazione della par condicio processuale, presupposta daIl'art. 24, comma secondo, della Costituzione. Mentre infatti il pubblico ministero ha il preciso dovere di attivarsi per l'acquisizione anche di prove favorevoli alla controparte (art. 358 c.p.p., la cui violazione e' passibile di sanzioni disciplinari e finanche penali), e' ovvio invece che l'imputato e' del tutto libero di non cooperare all'ingresso di elementi che dimostrino la sua colpevolezza (l'ipotesi inversa, anzi, merita l'attributo di sureale" adoperato dai primi commentatori della novella). Ed e' superfluo rilevare come cio' comprima oltre misura la posizione processuale della parte pubblica, su cui gia' incombe il maggiore onere probatorio per il fatto di dover superare la presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27, comma secondo, della Costituzione. La lesione che i valori costituzionali ora ricordati subiscono, per effetto della disciplina che si va esaminando, appare vieppiu' ingiustificata ove si consideri - ancora una volta - la diversita' di trattamento rispetto ai casi, contemplati dal sistema, in cui e' eccezionalmente consentito il recupero ai fini probatori di atti anteriori al dibattimento e non piu' ripetibili per ragioni congenite o sopravvenute. In aggiunta alle ipotesi generali degli artt. 431 e 512 c.p.p. (gia' citati allorche' sono state ricordate le sentenze del 1992 della Corte costituzionale), la stessa riforma del 1997 ha introdotto una sperequazione siffatta, tanto piu' vistosa in quanto interna alla stessa disciplina dell'esame dei soggetti di cui all'art. 210 c.p.p. Si allude al secondo periodo del nuovo art. 513, comma 2, c.p.p., in cui viene richiamata la disposizione dell'art. 512 (incondizionata possibilita' di lettura delle dichiarazioni pre-dibattimentali) per l'ipotesi in cui l'esame risulti irripetibile non per l'esercizio della facolta' di non rispondere ma per una causa diversa, "imprevedibile - come recita la norma - al momento delle dichiarazioni" (morte, perdita irreversibile della coscienza et similia). Si ha, dunque, che una situazione di fatto del tutto identica (impossibilita' di esercitare il contraddittorio sulle dichiarazioni rese a suo tempo dal soggetto) comporta conseguenze diametralmente opposte a seconda dell'evento che l'abbia prodotta; e cio': a) sia per l'imputato, che in un caso si vede "colpito" da elementi di accusa ineludibili e nell'altro ha invece la possibilita' di sottrarvisi, a meno che intenda consentire - in modo autolesionistico - al loro utilizzo; b) sia per l'organo dell'accusa, che in caso di silenzio del dichiarante vede paralizzato il proprio materiale di prova, per una circostanza che esula non solo dalla sua sfera potestativa (singolare caso di sanzione processuale comminata a un soggetto diverso da colui che ne pone in essere la causa) ma dalla sua stessa sfera di previsione, non diversamente dai casi di impossibilita' sopravvenuta della prova per cause esterne alla volonta' dell'esaminando. Non e' chi non veda come una simile, irrazionale disparita' di trattamento realizzi una violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. Ma ulteriori dubbi circa l'ortodossia costituzionale del nuovo art. 513, comma 2, c.p.p. emergono allorche' Io si confronti con la diversa disciplina attualmente in vigore per l'esame dei testimoni. Come gia' evidenziato, infatti, a mente del combinato disposto dei commi 2-bis, 4 e 5 dell'art. 500 c.p.p., l'eventualita' che il teste - sfidando l'incriminazione per reticenza (art. 372 c.p.) - decida di sottrarsi in tutto o in parte alle domande dell'esaminatore, non comporta inevitabilmente la dispersione delle dichiarazioni precedentemente rese dallo stesso soggetto in qualita' di "persona informata sui fatti", giacche' queste possono essere pur sempre oggetto di contestazione e, per tale via, approdare al fascicolo del dibattimento; ed una volta acquisite saranno valutabili come prova qualora ricorrano le condizioni di cui pure si e' detto (concorso di altri elementi che ne confermino l'attendibilita', ovvero di circostanze tali da far ritenere che il silenzio del teste sia dovuto a condizionamenti esterni). Si tratta di una disciplina che, recependo le indicazioni della Corte costituzionale, realizza un equo contemperamento delle esigenze del contraddittorio e di quelle della salvaguardia del materiale di prova, con il fatto di scindere doverosamente i due aspetti della acquisizione e della valutazione delle prove stesse. In questo senso: che, da un lato, la parte interessata a far valere un dato elemento emerso nelle indagini (che di regola sara' il p.m.) vede comunque tutelato il proprio diritto a sottoporlo al giudice; dall'altro, non resta privo di rilievo il fatto che l'altra parte abbia visto menomato il proprio diritto al contraddittorio, in quanto se ne fa discendere un maggior rigore nella valutazione di quell'elemento come prova. Non si ravvisano ragioni degne di rilievo costituzionale perche' una identica disciplina non debba valere - trattandosi di situazione sostanziale del tutto analoga - nel caso di mancata conferma dibattimentale delle dichiarazioni rese contro l'imputato da un soggetto processato nello stesso contesto ovvero imputato in un procedimento connesso o collegato. Tanto piu' che, per le dichiarazioni di tali soggetti, vale gia' come regola generale (art. 192, comma 3, c.p.p.) quella che riguardo ai testi e' dettata soltanto per le contestazioni: ossia che esse hanno dignita' di prova solo se corroborate da "altri elementi ... che ne confermano l'attendibilita'" (uno spunto in tal senso, si noti, era esplicitamente contenuto nella sentenza costituzionale n. 254/1992, che "boccio'" l'originario art. 513, comma 2). E, d'altro canto, nei confronti del chiamante in correita' sussistono a maggior ragione che per il semplice testimone i pericoli di "violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro o di altra utilita' affinche' non deponga o deponga il falso", che hanno trovato spazio nell'art. 500 c.p.p. riformato. Si potrebbe obiettare che il diverso effetto riconnesso al silenzio, quando riguardi i testimoni e quando provenga invece dai soggetti al centro dell'art. 513 c.p.p., trova un plausibile fondamento nel fatto che per i primi esso costituisce trasgressione del precetto penale di cui al citato art. 372 c.p., e per i secondi l'espressione di un diritto riconosciuto dall'ordinamento. Ritenere, cioe', che lo sfavore manifestato dal legislatore del '97 nei confronti delle chiamate di correo non confermate in dibattimento, sia giustificato dal fatto che i soggetti da cui esse provengono sono esenti tanto dall'obbligo di rispondere quanto da quello di dire la verita', e quindi scevri da remore nel sottrarsi al contraddittorio. Tale obiezione non appare pero' decisiva, per due ordini di ragioni. Intanto, le riserve che in via di principio si possono nutrire sulla credibilita' dei c.d. collaboratori dell'accusa valgono indifferentemente, sia che essi tacciano in dibattimento, sia che confermino quanto dichiarato in precedenza, sia infine che adottino la tattica intermedia di non invocare formalmente la facolta' di non rispondere, e di vanificare tuttavia il contraddittorio attraverso risposte vaghe e reticenti (si noti che in questo caso, ai sensi dell'art. 503, comma 4, c.p.p., il p.m. parrebbe legittimato a chiedere l'inserzione nel fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni non confermate: ennesima disparita' di trattamento tra imputati, che il sistema fa dipendere dal mero arbitrio del soggetto sottoposto all'esame). Cio' conferma quanto poc'anzi rilevato a proposito dell'art. 500 c.p.p.: ossia che la maggiore o minore attendibilita' della fonte e' questione che dovrebbe riguardare la valutazione della prova, e non il suo procedimento di formazione (tema che invece qui interessa). Ma soprattutto, ad avviso del Collegio, occorre chiedersi se la diversa disciplina del silenzio attualmente stabilita per i testimoni, da un lato, e, dall'altro, per i coimputati e per le persone di cui all'art. 210 c.p.p., poggi su principi inderogabili dell'ordinamento, o se non sia essa, al contrario, lesiva di valori costituzionalmente rilevanti. Il dubbio, naturalmente, non investe in assoluto la "facolta' di non rispondere" riconosciuta a chi sia accusato di un reato (il principio nemo tenetur se detegere e' corollario intuitivo degli artt. 24 e 27 Cost.), bensi' il fatto che essa sia estesa anche a colui che, in precedenti fasi processuali, vi abbia consapevolmente rinunciato. In altri termini, la questione che si intende esaminare riguarda la legittimita' costituzionale delle norme che costituiscono - per cosi' dire - il retroterra sistematico dell'art. 513 c.p.p., vale a dire: gli artt. 208 e 210, comma 4 e 6, c.p.p., laddove subordinano al consenso dell'imputato o, rispettivamente, della persona separatamente giudicata per reato connesso o collegato, la possibilita' di procedere al loro esame dibattimentale anche quando, in precedenza, essi abbiano rinunciato alla facolta' di non rispondere (1); (1) Sebbene il caso emerso nella presente vicenda processuale riguardi un "imputato in procedimento collegato" e non un imputato in senso stretto, l'assoluta identita' di ratio e di disciplina oggi esistente fra le due figure implica un discorso unitario il quale, se condiviso dal giudice delle leggi, parrebbe dover portare alla declaratoria di parziale illegittimita' di tutte le norme coinvolte (non solo dunque gli artt. 210 e 513, comma 2, ma anche gli artt. 208 e 513, comma 1, c.p.p.), secondo il principio di consequenzialita' di cui all'art. 27, ult. parte, legge 11 marzo 1953, n. 87. l'art. 197 lettere a) e b), c.p.p., laddove, conseguentemente, prevede l'incompatibilita' degli stessi soggetti con l'ufficio di testimone, e quindi anche con i relativi doveri. Nelle intenzioni dei compilatori del codice, il combinato disposto delle norme ora citate - non diversamente dalle analoghe disposizioni che comparivano nel codice abrogato (artt. 106, 348, terzo comma, e 348-bis c.p.p. 1931) - mira a "rafforza(re) le garanzie a difesa della persona esaminata" (Relazione al progetto definitivo del codice, p. 182), e in particolare risulta dettato da "ragioni di tutela contro autoincriminazioni" (Relazione al progetto preliminare, p. 62). Sennonche', se riferita agli imputati che, prima del dibattimento, abbiano accettato di deporre, la facolta' di sottrarsi al successivo esame dibattimentale appare uno strumento sproporzionato per eccesso rispetto alla ratio suddetta. Infatti, si evince dal sistema che il silenzio non serve a tutelare il soggetto dalle dichiarazioni compromettenti che aveva reso in precedenza, giacche' queste - attraverso il meccanismo delle letture ex art. 513, comma 1, c.p.p. - potranno essere utilizzate contro di lui nella sede contestuale o separata in cui verra' giudicato (la garanzia sarebbe poi del tutto superflua se si trattasse dell'esame di un imputato di reato connesso o collegato oggetto di un processo gia' definito). L'autentico rischio insito nell'esame e' piuttosto quello di rivelare nuove circostanze sfavorevoli, intorno al medesimo fatto o a fatti ulteriori, ma esso non pare presentare, per i soggetti in questione, contorni specifici rispetto al rischio di autoincriminazioni che incombe per definizione su chiunque sia chiamato a deporre in giudizio. Anche per i semplici testimoni, infatti, il legislatore ha previsto apposite garanzie contro un simile rischio, consistenti, a priori, nel diritto del teste di non deporre, e comunque di non dire il vero, su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilita' penale (artt. 198, comma 2, c.p.p. e 384, comma 1, c.p.) e, a posteriori, nel divieto di utilizzare contro il soggetto quanto da lui comunque dichiarato (art. 63, comma 1, c.p.p.). Ma, se cosi' e', il radicale diritto al silenzio, riconosciuto indiscriminatamente anche agli imputati che in precedenti occasioni avessero accettato di deporre sui medesimi fatti per cui si procede, e la conseguente incompatibilita' con l'ufficio di testimone, restano privi di un apprezzabile fondamento razionale, ed anzi finiscono col produrre effetti del tutto estranei alla ratio perseguita. Se, infatti, da un lato, le dichiarazioni autoaccusatorie gia' rese restano per il soggetto vincolanti, e se, dall'altro, per quelle che potrebbe rendere in sede di esame, una tutela adeguata sarebbe gia' ravvisabile - come per i testimoni - nel diritto di tacere o mentire all'esaminatore su singoli punti, la facolta' di sottrarsi in toto all'esame finisce per avere, come unico effetto saliente, quello di rendere problematica l'utilizzazione delle prime dichiarazioni del soggetto nella parte in cui riguardano responsabilita' di altre persone. In tale sorta di aberratio ictus della "facolta di non rispondere", frutto di una insufficiente considerazione dell'impatto dell'istituto con i connotati di oralita' del sistema oggi vigente (2), risiede, in ultima analisi, la causa effettiva della difficolta' di disciplinare la chiamata di correo in modo rispettoso di tutti i principi costituzionali coinvolti. Cio' in quanto rende inevitabile il ricorso allo strumento delle "letture" che, come dimostrano le tormentate vicende dell'art. 513 c.p.p., implica l'alternativo sacrificio del diritto alla prova di una parte oppure del diritto dell'altra al contraddittorio. Ma, prima ancora che degli interessi delle parti singolarmente considerate, il complesso delle disposizioni degli artt. 197, lettere a) e b), 208 e 210, comma 4 e 6, c.p.p. risulta lesivo dei principi costituzionali che individuano nel processo uno strumento di tutela oggettiva e imparziale dei beni giuridici lesi dal reato. In questa prospettiva, va ribadita anzitutto l'irrazionalita' di una limitazione del potere-dovere di accertamento del giudice, che venga fatta dipendere dall'arbitrio del soggetto detentore dell'informazione (in violazione dunque del gia' richiamato art. 101, comma secondo, Cost.). In secondo luogo, va rilevato come la prerogativa riconosciuta agli imputati "gia' dichiaranti", di tacere non soltanto sulle proprie responsabilita' ma anche su quelle di soggetti diversi (e quindi al di la' di oggettive esigenze di tutela dal rischio di autoincriminazione), li esoneri ingiustificatamente dall'adempimento di uno dei "doveri inderogabili di solidarieta' sociale" di cui all'art. 2 Cost. tale dovendosi considerare il dovere di collaborare con l'amministrazione della giustizia ai fini della repressione dei reati. (2) Nell'economia del vecchio processo inquisitorio, infatti, la valenza incondizionata degli atti di istruzione faceva si' che, in caso di esercizio della facolta' di non rispondere, le prime dichiarazioni del soggetto fossero integralmente utilizzabili tanto contro di lui quanto contro gli altri imputati. Questa disparita' di trattamento rispetto alla posizione dei comuni testimoni e' tanto piu' irragionevole, ove si consideri che spesso, nella pratica, l'assunzione dell'una o dell'altra veste processuale puo' dipendere da fattori del tutto anodini sul piano sostanziale (si pensi al fatto che, per il combinato disposto degli artt. 61 e 210 c.p.p., le garanzie previste da quest'ultimo articolo risultano applicabili anche a chi sia stato in precedenza semplicemente sottoposto ad indagini in relazione al reato per il quale si procede, vedendo poi archiviata la propria posizione: quindi, per avventura, anche a chi fosse stato iscritto come indagato per mero scrupolo o per mero errore del p.m., o sulla scorta di una notitia criminis rivelatasi palesemente infondata). Le stesse ragioni che fanno dubitare della legittimita' costituzionale della facolta' di non rispondere, quando riferita a imputati che prima del dibattimento avessero rinunciato ad avvalersene, militano anche contro la scelta legislativa di escludere tali soggetti dalle sanzioni penali di cui allart. 372 c.p.. Gia' da tempo (sentenza n. 148 del 1983), la Corte costituzionale ha chiarito quali siano i limiti che il suo sindacato sulle scelte di politica legislativa incontra in materia penale, precisando: 1) che tale limite riguarda la possibilita' che, per effetto della pronuncia della Corte, venga ad essere ampliata la sfera del penalmente illecito, ossia vengano ad essere create ex nihilo nuove incriminazioni, ma non anche la possibilita' di rimuovere - con la pronuncia stessa - delle ingiustificate disparita' di trattamento rispetto ad una incriminazione gia' esistente; 2) che, in tali limiti, la declaratoria di incostituzionalita' delle leggi penali di favore e' consentita nonostante la sua pratica inapplicabilita' nel giudizio a quo, derivante dal divieto di retroattivita' delle pene (in deroga, quindi, al requisito della rilevanza di cui all'art. 23, comma secondo, legge n. 87/1953). Ha osservato infatti la Corte che, diversamente opinando, si verrebbero a sottrarre al controllo di costituzionalita' proprio le piu' odiose tra le violazioni del principio di uguaglianza, in quanto incidenti sulla liberta' dei cittadini. Orbene, qualora, con una pronuncia di parziale illegittimita' degli artt. 208 e 210 c.p.p., venisse cancellato dall'ordinamento il diritto dell'imputato a non ripetere in giudizio le dichiarazioni gia' rese contro terzi, risulterebbe contrario al principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. sottrarre, in tali casi, il rifiuto di deporre alle sanzioni previste per il silenzio o il mendacio dei testimoni. E, cio', indipendentemente dall'accoglimento dell'ulteriore eccezione qui sollevata con riguardo alle lettere a) e b) dell'art. 197 c.p.p.: a prescindere infatti dalla possibilita' di attribuire all'imputato "collaborante" la formale veste di testimone, sarebbe iniqua sul piano sostanziale una disciplina che prevedesse, per due categorie di soggetti, lo stesso obbligo di deporre sulle responsabilita' penali di terzi, e sanzionasse solo in un caso la relativa trasgressione. Ne' puo' ritenersi che un giudizio costituzionale sul punto sia inscindibile da profili di politica criminale riservati in via esclusiva all'Organo legislativo, in particolare con riguardo al quantum della sanzione da applicare al coimputato reticente. Nulla esclude infatti che intanto la Corte dichiari, in accoglimento dei rilievi qui esposti, l'illegittimita' della norma incriminatrice in discorso (per contrasto con l'art. 3 Cost.) nella parte in cui esclude dal proprio ambito sanzionatorio taluni soggetti, e che, successivamente, il legislatore intervenga per stabilire, rispetto a costoro, limiti edittali diversi (maggiori o minori) rispetto a quelli previsti per gli odierni destinatari del precetto. Le singole questioni di costituzionalita' sollevate in questa sede (e che verranno meglio articolate in dispositivo) sono tra loro senz'altro correlate, ma non reciprocamente pregiudiziali. Indubbiamente, una declaratoria di illegittimita' parziale - nei limiti che si sono illustrati - degli artt. 197, 208 e 210 c.p.p. e dell'art. 372 c.p., travolgerebbe in radice anche il sistema delle "letture di atti" di cui all'attuale art. 513 c.p.p. Non vale pero' il contrario. Quand'anche, cioe', la Corte ritenesse assolutamente inderogabile sul piano costituzionale, anche nei casi di cui si tratta, la ratio ispiratrice della facolta' di non rispondere, potrebbe tuttavia rilevare - sulla scia della propria giurisprudenza pregressa - l'irrazionalita' degli effetti che da quella facolta' vengono fatti discendere nell'art. 513 citato, ed in particolare della diversita' tra quest'ultima disciplina e quella dettata - per un fenomeno processuale sostanzialmente analogo - dall'art. 500, comma 2-bis, ss. c.p.p. Appare quasi pleonastico rilevare come tutte le problematiche costituzi onali in discorso siano assolutamente rilevanti nel presente giudizio. Invero, se Isella Giancarlo non avesse potuto invocare in questa sede la facolta' di non rispondere, o se quantomeno, a fronte dell'esercizio di quella facolta', ciascuna parte fosse stata abilitata a far valere quanto l'Isella stesso aveva dichiarato nel corso delle indagini preliminari, senza che a tal fine occorresse il consenso delle parti controinteressate, il materiale di prova utilizzabile nei confronti degli imputati Alde' Stefano, Musolino Vincenzo e Ferrari Adelchi sarebbe stato piu' ampio di quanto invece risulta per effetto della disciplina esistente. E il Collegio non sarebbe stato - come invece accade - impedito di valutare il contributo probatorio dell'Isella (nei limiti, beninteso, di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p.) ai fini del proprio libero convincimento sui fatti portati al suo giudizio. Il presupposto della rilevanza sussiste in concreto, nel caso di specie, anche con riferimento alla questione di legittimita' dell'art. 372 c.p., per cui pure - come si e' detto - esso non sarebbe necessario alla luce della sentenza costituzionale n. 148 del 1983. Ove infatti la questione fosse accolta, quella norma potrebbe dispiegare i suoi effetti deterrenti (e garantire autenticamente il diritto di tutte le parti al contraddittorio) sia nei confronti di Isella Giancarlo, qualora il p.m.. ritenesse di chiederne nuovamente l'esame alla luce della mutata situazione normativa, sia soprattutto nei confronti delle numerose altre persone imputate in procedimento collegato che restano da esaminare.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevante nel presente procedimento e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale - per contrasto con gli artt. 2, 3, 24, comma secondo, 101 e 112 della Costituzione - di ciascuna delle seguenti disposizioni di legge nonche' del loro combinato disposto: dell'art. 197 lettere a) e b) c.p.p., nella parte in cui stabilisce l'incompatibilita' delle persone ivi indicate con l'ufficio di testimone anche nei casi in cui esse debbano essere esaminate su fatti concernenti responsabilita' di altri in relazione ai quali, in precedenza, abbiano rinunciato ad avvalersi della facolta' di non rispondere; dell'art. 208 c.p.p., nella parte in cui riconosce all'imputato il diritto di non sottoporsi all'esame dibattimentale anche in relazione a fatti concernenti responsabilita' di altri per i quali, in precedenza, abbia rinunciato ad avvalersi della facolta' di non rispondere; dell'art. 210, commi 4 e 6, c.p.p., nella parte in cui riconosce alle persone ivi indicate la facolta' di non rispondere all'esame dibattimentale anche in relazione a fatti concernenti responsabilita' di altri per i quali, in precedenza, abbiano rinunciato ad avvalersi di tale facolta'; dell'art. 372 c.p., nella parte in cui non prevede che la pena ivi prevista si applichi anche a colui che, imputato nello stesso procedimento ovvero sottoposto alle indagini o imputato in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 c.p.p. o collegato a norma dell'art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p., taccia in tutto o in parte cio' che sa intorno a fatti concernenti responsabilita' di altri per i quali, in precedenza, abbia rinunciato ad avvalersi della facolta' di non rispondere; dell'art. 372 c.p., nella parte in cui non prevede che la pena ivi prevista si applichi anche a colui che, imputato nello stesso procedimento ovvero sottoposto alle indagini o imputato in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 c.p.p. o collegato a norma dell'art. 371, comma 2, lett. b) c.p.p., affermi il falso o neghi il vero intorno a fatti concernenti responsabilita' di altri per i quali, in precedenza, abbia rinunciato ad avvalersi della facolta' di non rispondere; dell'art. 513, commi 1 e 2, c.p.p., nella parte in cui, per l'acquisizione e l'utilizzabilita' delle dichiarazioni contenute nei verbali ivi indicati nei casi in cui la persona esaminata si rifiuti di rispondere su fatti concernenti responsabilita' di terzi, detta una disciplina diversa da quella stabilita negli artt. 500, comma 2-bis, 4 e 5, c.p.p.; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale ai fini della risoluzione della questione suddetta; Sospende per l'effetto il procedimento in corso; Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 23, ultimo comma, legge 11 marzo 1953, n. 87. Lecco, addi' 1 dicembre 1997 Il presidente: Fadda 98C0186