N. 134 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 dicembre 1997

                                N. 134
  Ordinanza  emessa  il  17 dicembre 1997 dal tribunale di Venezia nel
 procedimento penale a carico di Piccolo Nicola ed altri
 Processo penale   - Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata  in
    procedimento  connesso  che  abbia reso dichiarazioni indizianti a
    carico di soggetti non presenti all'atto di assunzione davanti  al
    pubblico  ministero - Esercizio della facolta' di non rispondere -
    Lamentata  utilizzabilita'  di  materiale  probatorio  ritualmente
    assunto  subordinata  al consenso della parte - Irragionevolezza -
    Lesione  dei   principi   di   indefettibilita'   della   funzione
    giurisdizionale ed obbligatorieta' dell'azione penale - Violazione
    del   principio  di  indipendenza  del  giudice  -  Disparita'  di
    trattamento tra imputati con incidenza sul diritto di difesa.
 Proceso  penale  -  Dibattimento  -  Nuova  normativa  in   tema   di
    valutazione   delle   prove   -   Esame  di  persona  imputata  in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    - Lettura dei verbali contenti le  dichiarazioni  rese  nel  corso
    delle  indagini  preliminari - Preclusione per il giudice salvo il
    consenso delle parti - Lamenta  applicabilita'  della  novella  ai
    procedimenti  in  corso - Lesione dei principi di indefettibilita'
    della  funzione  giurisdizionale  ed  obbligatorieta'  dell'azione
    penale  -  Violazione  del principio di indipendenza del giudice -
    Disparita' di trattamento tra imputati con incidenza  sul  diritto
    di difesa.
 (C.P.P.  1988,  art.  210,  comma 4, e 513, in relazione alla legge 7
    agosto 1997, n. 267, art. 6, commi 1 e 5).
 (Cost., artt. 3, 24, 25, secondo comma, 101 e 112).
(GU n.11 del 18-3-1998 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha emesso la seguente ordinanza  sulla  questione  di  legittimita'
 costituzionale  degli  artt.  513 c.p.p., cosi' come modificato dalla
 legge 7 agosto 1997, n. 267,  e  6  legge  7  agosto  1997,  n.  267,
 sollevata  dal  pubblico  ministero alla udienza del 19 novembre 1997
 nel procedimento penale  n.  669/1996  r.g.  tribunale  a  carico  di
 Piccolo  Nicola, Chiarentin Graziano, Eracole Alessandro, Di Domenico
 Angelo, Corro' Livio, Zoffi Paolo;
   Sentite le parti;
   Lette  le  memorie  autorizzate  depositate  dai  difensori   degli
 imputati Ercole, Chiarentin, Piccolo, Di Domenico;
   Sciogliendo la riserva formulata alla udienza del 19 novembre 1997.
   In  data 26 marzo 1997 si celebrava la prima udienza dibattimentale
 del procedimento penale di cui in epigrafe.
   L'udienza veniva dedicata  all'esame  delle  questioni  preliminari
 sollevate  dalle  parti,  questioni  che,  per numero e complessita',
 occupavano l'intera giornata. L'udienza si concludeva quindi  con  la
 formale  dichiarazione  di apertura del dibattimento - previa lettura
 del capo di imputazione - e la predisposizione del  calendario  delle
 udienze successive.
   Il  5  novembre  1997  il  tribunale,  sentite  le  parti, emetteva
 ordinanza di ammissione delle prove, tra le quali, l'esame, richiesto
 dal pubblico ministero, degli imputati  di  reato  connesso  Celegato
 Giovanni, Toscani Daniela e Semenzato Mario.
   Nel  corso  della successiva udienza del 19 novembre 1997, Celegato
 Giovanni, Toscani  Daniela  e  Semenzato  Mario  si  presentavano  al
 dibattimento   assistiti   dal  difensore  e  dichiaravano  tutti  di
 avvalersi della facolta' di non rispondere.
   Il  pubblico  ministero  chiedeva  di  produrre  i  verbali   delle
 dichiarazioni da ciascuno rese nella fase delle indagini preliminari.
   La  parte  civile "si rimetteva", mentre il responsabile civile e i
 difensori di tutti gli imputati si opponevano.
   A quel punto il pubblico ministero sollevava la questione ricordata
 in premessa e la illustrava.
   Il responsabile civile e la difesa dell'imputato  Zoffi  prendevano
 la   parola  per  argomentare  il  proprio  dissenso  e  concludevano
 chiedendo al tribunale di non accogliere la  richiesta  del  pubblico
 ministero  di  trasmissione  degli atti alla Corte costituzionale; la
 parte civile dichiarava di rimettersi  sulla  questione.  Alle  altre
 parti,  il  tribunale  concedeva  termine fino al 3 dicembre 1997 per
 l'eventuale deposito di memorie  e  si  riservava  di  sciogliere  la
 riserva alla udienza del 17 dicembre 1997.
                            Sulla rilevanza
   Il  pubblico ministero, nella esposizione introduttiva, aveva posto
 in evidenza come  le  indagini,  avviate  in  seguito  alla  denuncia
 presentata  dall'allora  parlamentare Dorigo Martino, denuncia avente
 ad oggetto gravi irregolarita' - talune di rilevanza penale -  emerse
 da  una  indagine  contabile  eseguita  presso  lo stabilimento della
 Enichem s.p.a. di Marghera (e che avevano dato luogo ad una serie  di
 licenziamenti,  trasferimenti  e/o  dimissioni anche di funzionari di
 grado elevato), avessero trovato nuovo  e  determinante  impulso  per
 effetto delle dichiarazioni rese da Celegato Giovanni: amministratore
 della  C.I.M.  s.a.s.  - societa' che aveva conseguto diversi appalti
 dall'Enichem s.p.a. e che,  secondo  la  ipotesi  accusatoria,  aveva
 posto  in  essere  un  significativo  sistema di false fatturazioni -
 spontaneamente presentatosi al pubblico ministero  dopo  il  deposito
 della consulenza contabile disposta dalla pubblica accusa.
   Nella  sede  sopra  ricordata, il pubblico ministero aveva altresi'
 illustrato la rilevanza delle dichiarazioni rese da Semenzato  Mario,
 amministratore  della  C.I.S.  s.a.s.,  nonche'  quelle della signora
 Toscani Daniela, nei confronti  della  quale  era  stato  avviato  un
 procedimento  penale  per  estorsione  (conclusosi con condanna della
 medesima in seguito a rito abbreviato davanti al  g.i.p.)  avendo  la
 predetta  utilizzato  le  numerose  informazioni  in suo possesso, in
 ordine alla  truffa  posta  in  essere  ai  danni  dell'Enichem,  per
 ottenere  da  Celegato  un  posto  di  lavoro  nella  azienda  da lui
 amministrata, prospettandogli, in caso contrario, la presentazione di
 una ricca ed articolata denuncia alla Procura della Repubblica.
   Il tribunale, peraltro, non solo dalla relazione  introduttiva  del
 pubblico   ministero,  ma  anche  dall'esame  dei  testi  assunti  e,
 segnatamente, da quello di Dorigo Martino, ha  potuto  apprezzare  la
 rilevanza  nel processo delle dichiarazioni rese da predetti imputati
 di reato connesso usciti dal  processo  che  ci  occupa  per  diverse
 ragioni.  (Celegato  ha  concluso la sua vicenda processuale con rito
 abbreviato  davanti al g.i.p.; Semenzato ha ottenuto provvedimento di
 archiviazione della azione nei suoi confronti; per Toscani si e' gia'
 detto).
   Ne consegue che affatto rilevante deve ritenersi, nel  processo  in
 corso,  la dedotta questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 513, comma secondo, c.p.p. nella sua attuale formulazione.
   Necessita invece una precisazione la  analoga  questione  sollevata
 dal  pubblico  ministero in relazione all'art. 6 della legge 7 agosto
 1997, n. 267.
   Tale norma, infatti, a differenza di quella contenuta nell'art.   1
 della  menzionata  legge, disciplina il regime di utilizzabilita' dei
 verbali degli interrogatori degli imputati  di  reato  connesso  gia'
 introdotti  nel  procedimento  in  forza  della disciplina previgente
 dell'art. 513 c.p.p. (si tratta quindi di norma che detta una  regola
 per  la  valutazione  di  una  prova  che  si assume gia' introdotta,
 laddove, invece, l'art. 1  disciplina  la  introduzione  stessa,  nel
 processo,  di mezzi di prova) e prevede la utilizzabilita' come prova
 delle dichiarazioni in essi contenute, solo se la attendibilita'  sia
 confermata  da  altri  elementi di prova non desunti da dichiarazioni
 rese al  pubblico  ministero,  alla  polizia  giudiziaria  da  questi
 delegata  o  al  giudice nel corso delle indagini preliminari o nella
 udienza preliminare, di cui sia stata data lettura ai sensi dell'art.
 513 c.p.p. nel testo vigente prima  dalla  entrata  in  vigore  della
 legge n. 267/1997.
   Tale  norma  non  puo'  trovare  applicazione  nella fattispecie in
 esame.
   Il legislatore, rendendosi evidentemente  conto  che  un  mutamento
 delle norme processuali immediatamente applicabile a processi gia' in
 corso,  avrebbe creato non pochi problemi, ha ritenuto di superare le
 prevedibili incongruenze e discrasie attraverso  la  formulazione  di
 una "norma transitoria" dalla pretesa portata esaustiva.
   Si  e'  invece  assolutamente  dimenticato della fattispecie che ci
 occupa, ove  la  ricordata  modifica  legislativa  e'  intervenuta  a
 dibattimento  gia'  aperto,  ma  quando  ancora gli imputati di reato
 connesso non erano stati  esaminati  e,  pertanto,  le  dichiarazioni
 dagli  stessi  rese  nel  corso  delle indagini preliminari non erano
 state acquisite al fascicolo del dibattimento secondo  la  disciplina
 dell'art. 513 c.p.p. nella sua formulazione anteriore alla novella.
   La osservazione non e' di poco momento posto che, come il tribunale
 ha gia' potuto apprezzare, numerosi e significativi sono gli elementi
 emersi   che,   e'  ragionevole  ritenere,  secondo  la  impostazione
 accusatoria, avrebbero  dovuto  rappresentare  altrettanti  riscontri
 alle   dichiarazioni   rese  dagli  imputati  di  reato  connesso  e,
 soprattutto, a quelle confessorie di Celegato Giovanni.
   Neppure pare ragionevole ritenere che alla fattispecie in esame sia
 applicabile  il  comma  1  dell'art.   6   in   esame:   disposizione
 indiscutibilmente  legata  ad una fase processuale oramai superata, e
 che, quindi, propone uno strumento non piu utilizzabile nel  caso  di
 specie.
   Nondimeno,  e  proprio  con  riferimento  alla  lacuna ora posta in
 evidenza, la questione di legittimita' dedotta dal pubblico ministero
 anche in relazione all'art. 6 della legge piu' volte  citata,  appare
 affatto rilevante.
                    Sulla non manifesta infondatezza
   Riformulando l'art. 513 c.p.p. il legislatore ha inteso riaffermare
 con forza i principi dell'oralita' nella formazione della prova e del
 contraddittorio  ai  quali  deve ispirarsi il processo penale di tipo
 accusatorio vigente e, nel caso di specie, cio' ha  fatto  attraverso
 lo   strumento   del  depotenziamento  del  valore  probatorio  delle
 acquisizioni avvenute in assenza di contraddittorio.
   Ritiene questo Collegio  che  della  chiara  ed  inequivoca  scelta
 legislativa,   sicuramente   ispirata  ad  un  principio  di  parita'
 sostanziale tra accusa e difesa, ci  si  debba  limitare  a  prendere
 atto, non emergendo profili evidenti di incompatibilita' con la Carta
 costituzionale  se  non  nei  limiti, circoscritti, che si andranno a
 precisare, con specifico riferimento ai processi in corso al  momento
 di  entrata in vigore della novella, e non essendo comunque questa la
 sede per analizzare la scelta del legislatore di escludere  qualsiasi
 sanzione  a  carico di coloro che, senza ragione alcuna, rifiutino di
 reiterare al dibattimento  dichiarazioni  eteroaccusatorie  rese  nel
 corso delle indagini preliminari.
   Giova  peraltro  ricordare che il principio della oralita' al quale
 il nostro sistema si ispira non puo' rappresentare il solo  principio
 informatore delle norme che regolano la assunzione e formazione delle
 prove.
   In  diverse occasioni infatti (sentenze n. 111 del 1993, n. 255 del
 1992, n. 258 del 1991)  la  Corte  costituzionale  ha  ribadito  che,
 sempre  e comunque, "fine primario ed ineludibile del processo penale
 non puo' che rimanere quello della ricerca delle  verita'",  sicche':
 "l'oralita'  assunta  a  principio  ispiratore del nuovo sistema, non
 rappresenta,  nella  disciplina  del  codice  vigente,   il   veicolo
 esclusivo  di  formazione  della prova, nel dibattimento ... di guisa
 che in taluni casi in cui la prova  non  possa,  di  fatto,  prodursi
 oralmente  e' dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in
 volta  indicate,  ad  atti  formatisi  prima  ed  al  di  fuori   del
 dibattimento"  (C. cost.  n. 255/1992). E ancora, sempre con riguardo
 al  fine  primario  ed  ineludibile  di  cui  sopra,  la   Corte   ha
 sottolineato  che  "...  ad un ordinamento improntato al principio di
 legalita' che rende doverosa la punizione delle  condotte  penalmente
 sanzionate  nonche'  al  connesso  principio di obbligatorieta' della
 azione penale non sono consone norme di metodologia  processuale  che
 ostacolino  in  modo  irragionevole  il  processo di accertamento del
 fatto storico necessario a pervenire ad  una  giusta  decisione"  (C.
 cost. n. 255/1992 e n. 111/1993).
   E'  a tutti noto come, in forza di siffatti principi la Corte abbia
 confermato la compatibilita' al dettato costituzionale di norme nelle
 quali  la  formazione   della   prova   deroga   il   principio   del
 contraddittorio  dibattimentale,  o prescinde dall'immediato contatto
 del giudice con la prova nel momento  della  sua  formazione  (ci  si
 riferisce  agli artt.   392, 431, 500, comma 4, 503, commi 5 e 6, 512
 c.p.p., e lo stesso 513  c.p.p.)  ed  abbia  individuato  la  ragione
 d'essere  di  tali  "eccezioni"  nella  necessita'  di non disperdere
 elementi di prova non compiutamente o  non  genuinamente  acquisibili
 con  il  metodo  orale:  necessita' che la stessa Corte ha elevato al
 rango  di  principio  costituzionalmente   garantito   e   denominato
 "principio di non dispersione delle prove" (C. cost. n. 255/1992).
   Da  questa  sintetica  premessa  -  e  cioe' dai ricordati principi
 costituzionali - ritiene questo Collegio che non si possa prescindere
 nell'affrontare la questione di legittimita' dedotta.
   E' pero' opinione di questo Collegio che la questione  -  sollevata
 dal  pubblico ministero con riferimento all'art. 513 c.p.p. nella sua
 nuova formulazione - meriti invece  di  essere  affrontata  sotto  un
 altro  aspetto  o,  meglio, con riferimento ad altra norma di rito al
 cui  contenuto  anche  l'art.   513   c.p.p.   deve   necessariamente
 rapportarsi.
   Ci  si  riferisce  all'art. 210, comma 4, c.p.p. nella parte in cui
 prevede che l'imputato di reato connesso che abbia reso dichiarazioni
 direttamente o indirettamente accusatorie a carico di  terze  persone
 non presenti all'atto di assunzione di dette dichiarazioni davanti al
 pubblico  ministero,  possa  poi  avvalersi  della  facolta'  di  non
 rispondere nel dibattimento a carico di quelle  stesse  persone.  (E'
 appena  il  caso  di  porre in evidenza che analogo discorso vale per
 l'mputato  che  nel  corso  delle  indagini  preliminari  abbia  reso
 dichiarazioni indizianti nei confronti di altri imputati del medesimo
 procedimento:    ipotesi  che  non  si  affronta  specificatamente in
 quanto, nel caso di specie, non rileva).
   E' di tutta evidenza infatti  che  la  disposizione  dettata  dalla
 norma  la  ultimo  citata  (art. 210, comma 4, c.p.p.) costituisce il
 nodo centrale  del  sistema  e  che  il  sospetto  di  illegittimita'
 costituzionale che circonda norme che da esso direttamente discendono
 non  e'  che  una  conseguenza  immediata  e  diretta  del  dubbio di
 illegittimita' costituzionale che attinge la norma in esame,  laddove
 consente  agli  imputati  di  reato connesso, nelle circostanze sopra
 indicate, la facolta' di tacere.
   La necessita' di tale impostazione emerge in modo affatto  evidente
 anche dal semplice esame delle conseguenze che la novella ha di fatto
 determinato,  conseguenze che tradiscono quello che si ritiene essere
 stato lo scopo primario del legislatore.
    Se  infatti  quest'ultimo,  con  la  attuata  riforma,  ha  inteso
 riaffermare   la   necessita'  di  subordinare  la  introduzione  nel
 dibattimento di dichiarazioni accusatorie eteroprocessuali al  vaglio
 del  contradittorio, di fatto, si deve constatare che, nella realta',
 cio' si verifica assai raramente: sicche' quella che doveva essere la
 regola e' in realta' la eccezione, mentre la regola e'  rappresentata
 dalla  assoluta  sottrazione  delle  dichiarazioni dell'accusatore al
 vaglio dibattimentale per effetto  della  totale  eliminazione  dalla
 realta' processuale delle dichiarazioni da quello a suo tempo rese.
   Ritiene  quindi  questo Collegio che debba essere preliminarmente e
 principalmente affrontata la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 210, comma 4, c.p.p. nei termini sopra delineati.
   Nel nostro ordinamento  l'imputato  ha  facolta'  di  scegliere  se
 tacere o parlare e, ove scelga di parlare, ha facolta' di mentire.
   Orbene,   se  e'  vero  che  la  facolta'  di  tacere,  il  diritto
 dell'imputato di rifiutarsi di collaborare  con  gli  inquirenti,  e'
 espressione  del  diritto  di difesa e come tale merita ampia tutela,
 tuttavia, tale tutela, non puo' spingersi fino  al  punto  da  ledere
 altri   ed  altrettanto  rilevanti  principi  garantiti  dalla  Carta
 costituzionale.
   E' evidente che  qui  non  si  fa  riferimento  semplicemente  alla
 lesione  di  principi di ordine etico e morale che imporrebbero a chi
 fa determinate dichiarazioni  di  assumersi  poi  la  responsabilita'
 delle  conseguenze  del  suo  operare,  bensi'  ad  un vero e proprio
 legittimo  sospetto  di incompatibilita' di tale diritto - nei limiti
 sopra delineati - con i principi dettati dalla Costituzione.
   La irrazionalita' del sistema attuale appare affatto manifesta  ove
 si  consideri  che:  da un lato, il mancato ingresso di dichiarazioni
 accusatorie rese nelle indagini preliminari da un imputato  di  reato
 connesso  lede  i  principi  di  obbligatorieta' dell'esercizio della
 azione penale e di indefettibilita' della giurisdizione e vanifica lo
 scopo del processo che e' quello della  ricerca  e  dell'accertamento
 della verita' storica; dall'altro, viceversa, la introduzione di tali
 dichiarazioni   lede  il  diritto  di  difesa  della  parte  accusata
 impedendole, attraverso il contro-esame, di accertare la credibilita'
 e la attendibilita' dell'accusatore.
   Giova esaminare partitamente i singoli punti.
   Si e' gia' ricordato  e  si  sono  specificatamente  richiamate  le
 relative  pronuncie  sul  punto,  che la Corte costituzionale ha piu'
 volte sottolineato come lo scopo primo ed  ineludibile  del  processo
 debba  essere  quello  dell'accertamento  della  verita'  storica, in
 quanto solo tale accertamento potra' poi portare il  giudicante  alla
 emanazione di una sentenza giusta.
   Se cosi' e', non puo' ritenersi ragionevole un sistema che consenta
 al giudice una conoscenza parziale, alla quale potra' conseguire solo
 un  accertamento della verita' formale/processuale, ma certamente non
 della verita' storica; non puo' essere giudicato razionale un sistema
 che  impedisca  alla  pubblica  accusa  di  portare  efficacemente  a
 compimento  quell'esercizio  della azione penale che, pure, la stessa
 sia  obbligatoriamente tenuta ad esercitare e che,  di  fatto,  viene
 ora ad essere subordinata al consenso di altri.
   Ma vi e' un altro profilo di cui e' necessario tener conto.
   Nel  nostro  sistema  il  pubblico  ministero e' organo giudiziario
 pubblico e indipendente, deputato alla applicazione imparziale  della
 legge.  Questultima  conferisce  piena  utilizzabilita' agli elementi
 raccolti  dal  pubblico  ministero   nella   fase   delle   indagini:
 utilizzabilita'   che   si   estende  fino  alla  legittimazione  del
 compimento di atti che possono incidere significativamente  anche  su
 diritti costituzionali primari dei cittadini.
   Sia sufficiente considerare che il pubblico ministero sulla base di
 dichiarazioni  accusatorie  rese  da  un imputato in reato connesso e
 debitamente riscontrate, puo' chiedere  ed  ottenere  dal  g.i.p.  la
 emissione di una misura cautelare personale.
   Non  solo,  ma  l'esercizio  della  azione  penale  sulla  base  di
 dichiarazioni di coimputati o imputati  di  reato  connesso  e  delle
 risultanze emergenti dalle indagini che alle stesse sono seguite, non
 e'  attivita'  meramente  facoltativa  del  pubblico  ministero ma e'
 attivita' obbligatoria ai sensi dell'art. 112 della Costituzione.
   Ad avviso di questo Collegio il dubbio  di  compatibilita'  con  la
 Carta  costituzionale  non va posto in relazione al diverso regime di
 utilizzabillta' dei mezzi di prova  nelle  diverse  fasi  processuali
 (dubbio  che,  in  verita',  non  si ravvisa), quanto piuttosto sulla
 irrazionalita' di un sistema che, da  un  lato,  impone  al  pubblico
 ministero la raccolta e l'utilizzo di prove sul fatto da accertare e,
 dall'altro,  condiziona poi l'effettivo esercizio della azione penale
 nel raggiungimento dello scopo, che e'  quello  della  ricerca  della
 verita',   alla   volonta'   meramente  potestativa  di  un  soggetto
 controinteressato.
   Parimenti,  irragionevole  e  contraria  al  dettato costituzionale
 risulta la sottoposizione, di fatto, del giudice non gia'  solo  alla
 legge  (cosi'  come stabilito dalla Costituzione) ma alla volonta' di
 una parte che, a suo piacimento (ne' delle ragioni del suo operare e'
 tenuta a dare conto alcuno), potra' consentire o meno la introduzione
 nel processo di materiale probatorio.
   E' indispensabile sul punto ricordare gli  interventi  della  Corte
 stituzionale  volti ad evitare la introduzione nel nostro ordinamento
 di un preteso principio dispositivo in materia di prova.
   Argomentando in ordine alla prospettata eccezionalita'  del  potere
 istruttorio  conferito  al  giudice dall'art. 507 c.p.p., la Corte ha
 infatti sottolineato come  il  preteso  principio  dispositivo  della
 prova  non  trovi  riscontro  "ne' nei principi della delega, ne' nel
 tessuto normativo concretamente designato nel codice"  E  per  fugare
 ogni  dubbio  ha  precisato:  "E'  per  la verita', incontroverso che
 sarebbe contrario  ai  principi  costituzionali  di  legalita'  e  di
 obbligatorieta'  della  azione  concepire  come disponibile la tutela
 giurisdizionale  assicurata  al  processo  penale"   (C.   cost.   n.
 111/1993).
   Principio  che  la  Corte  aveva  gia'  esplicitato  laddove  aveva
 riconosciuto la illegittimita' costituzionale  dell'art.  444  c.p.p.
 nella  parte in cui non prevedeva che il giudice potesse valutare non
 congrua la  pena  richiesta  dalle  parti  e,  quindi,  rigettare  la
 richiesta di applicazione pena (C. cost. n. 313/1990); ovvero laddove
 ha  consentito  il  cosi'  detto  "recupero"  del  rito abbreviato al
 dibattimento, ove il giudice  abbia  giudicato  non  giustificato  il
 dissenso  del pubblico ministero, argomentando che in un sistema come
 quello del nuovo codice, imperniato sul principio  di  partecipazione
 della  accusa  e  della  difesa  su  basi di parita' ... non dovrebbe
 essere consentito che i rapporti tra pubblico ministero e imputato si
 sbilancino al punto che il primo, con un semplice  atto  di  volonta'
 immotivato e percio' incontrollabile, si trovi in grado di privare il
 secondo  di  un  rilevante  vantaggio  sostanziale (n. 81/1991). E da
 ultimo, solo per completezza,  giova  citare  anche  la  sentenza  n.
 92/1992   ove   la   Corte   ha  inequivocabilmente  sottolineato  la
 incompatibilita'  con  un  ordinamento  costituzionale   fondato   su
 principi di uguaglianza e legalita' della pena, di una disciplina che
 affidi  a  scelte  discrezionali, immotivate e, quindi, insindacabili
 del pubblico ministero, l'accesso dell'imputato ad un rito dal  quale
 scaturiscono  automaticamente  rilevanti effetti sulla determinazione
 della pena.
   Non meno grave e rilevante appare altresi' la  evidente  violazione
 del  diritto  di  difesa  che  la  applicazione  della norma in esame
 comporta.
   Non puo' infatti sfuggire come  la  scelta  di  non  consentire  ad
 essere  esaminato  e,  quindi,  di non sottoporsi al contraddittorio,
 operata da colui che, in sede di  indagini  preliminari,  abbia  reso
 dichiarazioni accusatorie nei confronti di un terzo, leda grandemente
 il diritto di difesa dell'accusato, al quale deve essere riconosciuto
 il  diritto  di vedere affermata la propria innocenza, non solo quale
 conseguenza del venir meno ex lege di  una  fonte  di  prova  e  solo
 perche' l'accusatore ha deciso (e di tale decisione - lo si ribadisce
 -  non  e'  tenuto  in  alcun  modo  ad illustrare le ragioni) di non
 parlare, ma, invece, come conseguenza dell'accertamento della verita'
 storica.
   Solo  cosi', infatti, l'accusato potra' vedere dissolto ogni dubbio
 sulle accuse mosse nei suoi confronti, evitando di essere per  sempre
 circondato  di un alone di sospetto che la persona innocente non puo'
 e non deve tollerare.
   Per  altro  verso,  se  il  contraddittorio  e'  senza  dubbio  uno
 strumento  di difesa, e' altresi' innegabile la sua primaria funzione
 di  accertamento  della  verita',  sicche'  il  condizionare  la  sua
 esistenza   ad  una  scelta,  che  puo'  essere  anche  arbitraria  e
 immotivata,  dell'accusatore,  suscita  un  ragionevole   e   fondato
 sospetto  di illegittimita' costituzionale dell'art. 210 c.p.p. anche
 in  relazione  all'art.  25  della  Costituzione  laddove  impone  la
 punizione dei colpevoli.
   Da  quanto  esposto  si evince altresi' una evidente violazione del
 principio di uguaglianza.
   L'imputato di reato  connesso  che  con  la  sua  condotta  diventa
 arbitro   delle  sorti  del  processo,  puo'  infatti  inopinatamente
 scegliere in quale processo parlare  ed  in  quale  invece  avvalersi
 della  facolta',  che  la  legge gli ha accordato, di non rispondere,
 determinando cosi', a seconda dei casi, conseguenze  affatto  diverse
 per gli imputati, la cui sorte viene in larga parte a dipendere dagli
 umori  del  loro  accusatore. (Per non parlare, poi, di come siffatto
 sistema si  presti  a  favorire  forme  di  intimidazione  dirette  o
 indirette  senza  che  il legislatore abbia pensato di predisporre un
 qualche rimedio nel caso in cui il silenzio sia  conseguenza  di  una
 accertata intimidazione).
   Nei medesimi termini deve porsi la questione della irragionevolezza
 di  un  sistema  che,    consentendo un uso arbitrario del diritto al
 silenzio, puo' determinare situazioni di  disparita'  di  trattamento
 nei  confronti  di quegli imputati nei cui confronti, per ragioni del
 tutto contingenti come possono essere, ad esempio, quelle legate alla
 competenza funzionale (si pensi agli imputati minorenni) il  processo
 deve essere separato.
   Infine,  la  questione prospettata merita di essere esaminata anche
 alla luce del principio di non dispersione dei  mezzi  di  prova  sul
 quale gia' ci si' e' soffermati.
   Per  tutte  le  ragioni  anzidette  ritiene questo tribunale che la
 questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  210,  comma  4,
 c.p.p.  meriti  di  essere  sollevata  in  quanto  non manifestamente
 infondata.
   E' peraltro evidente che la questione involge anche la legittimita'
 costituzionale dell'art. 513 c.p.p., sicche' l'eventuale accoglimento
 della prospettata questione non potra' non travolgere  la  menzionata
 norma.
   Se  cosi'  non  fosse,  se  cioe'  la  Corte ritenesse infondata la
 questione, questo tribunale, che pure, come gia' detto,  prende  atto
 della scelta legislativa operata con la legge n. 267/1997 e la valuta
 non  incompatibile  con  la  Carta  costituzionale per i procedimenti
 futuri, non puo' non porsi un dubbio di  legittimita'  costituzionale
 con  riferimento ai procedimenti gia' avviati alla data di entrata in
 vigore della legge n. 267/1997 e per i  quali,  avuto  riguardo  alla
 fase  nella  quale  si  trovano,  non  sia piu possibile ricorrere al
 "rimedio" predisposto dal legislatore  all'art.  6,  comma  1,  della
 menzionata  novella;  ovvero  nei  casi  in  cui,  come quello che ci
 occupa, non sia neppure applicabile la disciplina dei cui al comma  5
 per  il  semplice  motivo che le dichiarazioni dell'imputato di reato
 connesso non erano gia' state  acquisite  alla  data  di  entrata  in
 vigore  della disposizione che, viceversa, tale avvenuta acquisizione
 pacificamente presuppone.
   La  mancata  previsione  legislativa  della  fattispecie  in  esame
 comporta la inapplicabilita' della norma transitoria dettata all'art.
 6  legge  267/1997  al  caso  di specie, per il quale dovra', quindi,
 trovare applicazione l'art. 1 della predetta legge.
   E' appena il caso di far notare come un mero accidente (e cioe'  il
 differimento  ad  una  data  successiva  all'estate della istruttoria
 dibattimentale) abbia  comportato  rilevanti  conseguenze  sul  piano
 processuale;  ne'  si  puo'  sottacere la irragionevole disparita' di
 trattamento tra imputati che si sarebbe potuta verificare  se,  prima
 della entrata in vigore della novella, vi fosse stata la acquisizione
 al  fascicolo  del dibattimento del verbale delle dichiarazioni di un
 imputato di reato connesso coinvolgenti, in ipotesi, la posizione  di
 alcuni soltanto degli imputati.
   Per  quanto  riguarda invece il primo comma dell'art. 6 della legge
 n. 267/1997, non ci si puo' nascondere che, se anche  il  legislatore
 colmasse   la   lacuna  sopra  rilevata,  ugualmente  non  potrebbero
 ritenersi superati i dubbi  legati  alla  facolta',  conferita  dalla
 legge  a  colui  che  aveva reso dichiarazioni indizianti a carico di
 altri, di non rispondere anche nel corso  dell'incidente  probatorio:
 rilievo  questo  dal quale non puo' che trarsi ulteriore conferma che
 il  nodo  centrale  di  tutto  il  sistema   attuale   riposa   nella
 compatibilita'  al dettato costituzionale della norma che consente il
 diritto al silenzio anche a coloro  che  abbiano  reso  dichiarazioni
 etero-accusatorie.
   In  ogni  caso,  poiche'  anche  il  solo  dubbio  di non manifesta
 infondatezza, legittima la rimessione degli atti alla Corte,  ritiene
 questo  tribunale  che  sia  opportuno  provocare una pronuncia della
 Corte costituzionale anche con riferimento all'art.  513  c.p.p.  nei
 limiti sopra indicati.
                                P. Q. M.
   Visto  l'art.  23  della  legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenutane la
 rilevanza e la non manifesta infondatezza in relazione agli artt.  3,
 24, 25, secondo comma, 101, 112 della Costituzione, solleva questione
 di legittimita' costituzionale degli articoli:
     210,  comma 4 c.p.p. nella parte in cui prevede che l'imputato di
 reato connesso, che abbia reso dichiarazioni indizianti a  carico  di
 soggetti  non  presenti  all'atto  di  assunzione davanti al pubblico
 ministero,  possa  avvalersi,  nel  dibattimento  a  carico  dl  quei
 soggetti, della facolta' di' non rispondere;
     513  c.p.p.  con  riferimento  all'art.  6, commi 1 e 5, legge n.
 267/1997 nella parte in cui, non prevedendo tale ultima  norma  tutte
 le  ipotesi che cadono nella fase transitoria, rimanda per le ipotesi
 non contemplate alla applicazione dell'art. 513 c.p.p.  anche  per  i
 procedimenti  gia'  in corso al momento della entrata in vigore della
 legge n. 267/1997;
   Dispone,  la  immediata  trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
   Sospende il processo;
   Ordina  che  la  presente  ordinanza  sia  notificata, a cura della
 cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al
 Presidente del Senato della Repubblica e al Presidente  della  Camera
 dei deputati.
     Venezia, 17 dicembre 1997
                   Il presidente estensore: Garlatti
                                           I giudici: Marino - Liguori
 98C0222