N. 237 ORDINANZA (Atto di promovimento) 10 febbraio 1998

                                N.  237
  Ordinanza emessa  il  10  febbraio  1998  della  Corte  d'assise  di
 Agrigento nel procedimento penale a carico di Condello Giuseppe
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame di coimputato - Esercizio
    della facolta' di non rispondere - Lettura dei verbali  contenenti
    le  dichiarazioni  rese  nel  corso  delle  indagini preliminari -
    Preclusione  per   il   giudice   di   utilizzabilita'   di   tali
    dichiarazioni  nei  confronti degli altri senza il loro consenso -
    Lamentata dispersione di  mezzi  di  prova  -  Irragionevolezza  -
    Disparita'  di  trattamento  tra  imputati sotto diversi profili -
    Lesioni  dei  principi  di   indipendenza   del   giudice   e   di
    obbligatorieta'  dell'azione  penale  - Incidenza sulla formazione
    del convincimento del giudice.
 (C.P.P. 1988, art. 513, comma 1,  modificato  dalla  legge  7  agosto
    1997, n. 267).
 (Cost., artt. 2, 3, 24, 101, 111 e 112).
(GU n.15 del 15-4-1998 )
                          LA CORTE DI ASSISE
   Ha  emesso la seguente ordinanza nel processo penale n. 6/1997 mod.
 19 nei confronti di:  Arces Aldo nato a Canicatti' il 1 agosto  1971,
 Condello  Giuseppe  nato  a  Canicatti'  il  17  maggio 1964 entrambi
 imputati:  a) del reato p. e p. dagli artt. 110, 575, 576 n.  1,  577
 n.  3 c.p., b) del delitto p. e p. dagli artt. 110, 628 comma primo e
 terzo n.  1 c.p.;
   In stato di custodia cautelare in carcere dal 5 aprile 1996;
   Decidendo sull'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art.
 513 primo comma c.p.p. sollevata dalla p.c. e dal p.m.;
                             O s s e r v a
   All'udienza del 26 gennaio 1998 l'imputato Arces Aldo rifiutava  di
 sottoporsi all'esame richiesto dal p.m.; di seguito a tale rifiuto il
 p.m.  chiedeva  che venisse data lettura delle dichiarazioni rese dal
 predetto imputato al p.m. in data 6 aprile 1996 e 30 luglio  1996  ed
 al  g.i.p.  il  9  aprile  1996  in  sede  di  udienza  di convalida;
 l'imputato  Condello  Giuseppe   non   prestava   il   suo   consenso
 all'utilizzazione  nei  suoi  confronti  delle dichiarazioni rese dal
 coimputato Arces.
   Nella stessa udienza del 26 gennaio 1998 il  difensore  della  p.c.
 ed il p.m. eccepivano l'incostituzionalita' dell'art. 513 primo comma
 c.p.p.,  il  p.m.  per  i  rilievi  di cui alla memoria prodotta alla
 successiva udienza del 3 febbraio 1998.
   I difensori degli imputati Arces e Condello chiedevano  il  rigetto
 dell'eccezione.
   Tanto  premesso,  ritiene  la  Corte  che la sollevata questione di
 illegittimita' costituzionale dell'art. 513  primo  comma  c.p.p.  e'
 rilevante ai fini della definizione del presente giudizio.
   La  rilevanza e' chiaramente palese ove si consideri che l'imputato
 Arces Aldo nelle varie dichiarazioni rese al p.m. ed  al  g.i.p.  nel
 corso delle indagini preliminari ha formulato accuse di correita' nei
 confronti  del  coimputato  Condello Giuseppe, raggiunto dalla misura
 cautelare della custodia cautelare in carcere  e  tratto  a  giudizio
 proprio sulla base di tale chiamata in correita'.
   Ne  deriva l'evidente influenza nella decisione delle dichiarazioni
 rese dall'Arces, che, allo stato, attesa la mancanza di  consenso  da
 parte  del Condello, non sono utilizzabili nei confronti del predetto
 coimputato.
   La questione, inoltre, non appare manifestamente infondata.
   La previsione della radicale inutilizzabilita', fissata  a  priori,
 in  favore  del  coimputato  che  non  presta  il  proprio  consenso,
 contrasta, innanzi  tutto,  con  il  criterio  della  ragionevolezza,
 ledendo  il fondamentale principio della non dispersione dei mezzi di
 prova   che   e'   stato   affermato   ripetutamente   dalla    Corte
 costituzionale.
   Ha  rilevato la Corte nella nota sentenza 3 giugno 1992 n. 255 (con
 la  quale  ha  dichiarato   l'incostituzionalita',   per   violazione
 dell'art.   3 Cost., dell'art. 500 comma quarto c.p.p. nella parte in
 cui non prevedeva l'acquisizione nel fascicolo per  il  dibattimento,
 se  utilizzate  per  le  contestazioni  previste  dal primo e secondo
 comma, delle  dichiarazioni  precedentemente  rese  dal  testimone  e
 contenute nel fascicolo del p.m.) che l'oralita', assunta a principio
 ispiratore  del  nuovo  sistema  processuale,  non  rappresenta nella
 disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova
 nel dibattimento, cio'  perche'  fine  primario  ed  ineludibile  del
 processo  penale  non  puo'  che  rimanere quello della ricerca della
 verita' (in armonia coi principi della Costituzione) di guisa che  in
 taluni  casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente,
 e' dato rilievo, nei limiti ed alle  condizioni  di  volta  in  volta
 indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento.
   Che  la  volonta' del legislatore esprima anche un principio di non
 dispersione dei mezzi di prova - continua la Corte cost. - emerge con
 evidenza da tutti quegli istituti che  recuperano  al  fascicolo  del
 dibattimento,   e   quindi  all'utilizzazione  probatoria,  atti  non
 suscettibili di essere  surrogati  (o  compiutamente  o  genuinamente
 surrogati)  da  una  prova  dibattimentale: in tal senso depongono le
 disposizioni, ad es. sugli atti irripetibili (artt. 431 e 512) ecc.
   Siffatti   istituti   derogano   al   principio   dell'oralita'   e
 dell'immediatezza  dibattimentale  che  non e' regola assoluta bensi'
 criterio guida  del  nuovo  processo  e  tendono  a  contemperare  il
 rispetto  del metodo orale con l'esigenza di evitare la "perdita", ai
 fini della decisione, di quanto acquisito prima  del  dibattimento  e
 che sia irripetibile in tale sede.
   La  Corte  aveva  avuto  gia' modo di sottolineare l'importanza del
 principio di non dispersione dei mezzi di prova: la dichiarazione  di
 illegittimita' costituzionale del quarto comma dell'art. 195 consente
 ora,  attraverso la testimonianza de relato della polizia giudiziaria
 il  recupero  di  elementi  probatori  acquisiti  nella  fase   delle
 indagini;  del  pari  con  sentenza n. 254 del 1992 veniva dichiarata
 l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  513  comma  secondo,  per
 violazione  dell'art.   3 Cost., nella parte in cui non prevedeva che
 il giudice disponeva la lettura dei verbali  delle  dichiarazioni  di
 cui al primo comma del medesimo articolo, rese dalle persone indicate
 nell'art. 210, che si avvalgono della facolta' di non rispondere.
   Nella   sentenza  255/1992  la  Corte  costituzionale  ha,  dunque,
 concluso con l'affermare che  il  sistema  accusatorio  positivamente
 instaurato   ha   prescelto   la   dialettica   del   contraddittorio
 dibattimentale quale criterio maggiormente  rispondente  all'esigenza
 di  ricerca  della  verita', ma accanto al principio dell'oralita' e'
 presente,  nel  nuovo  sistema  processuale,  il  principio  di   non
 dispersione   degli  elementi  di  prova  non  compiutamente  (o  non
 genuinamente) acquisibili con il metodo orale.
   Nella sentenza n. 254 del 3 giugno 1992 citata, la Corte rileva che
 il legislatore delegato, nel dettare l'art. 513 primo  comma  c.p.p.,
 il  quale  consentiva  la lettura delle dichiarazioni precedentemente
 rese dall'imputato qualora questi era contumace,  assente  ovvero  si
 rifiutava  di sottoporsi all'esame, ha inteso comprendere nei casi di
 sopravvenuta impossibilita' di ripetizione  dell'atto  (di  cui  alla
 direttiva  76  della  legge  delega)  anche  l'indisponibilita' dello
 stesso  imputato  all'esame;  e  cio'  in  linea  con  il   criterio,
 rinvenibile in varie disposizioni del codice, tendente a contemperare
 il  rispetto  del  principio  guida  dell'oralita'  con l'esigenza di
 evitare la perdita, ai fini  della  decisione,  di  quanto  acquisito
 prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede.
   Ancora  piu'  recentemente,  proseguendo  nella  strada di indicare
 principi  costituzionali  certi  in  materia   di   acquisizione   ed
 utilizzabilita'  delle  prove,  la Corte costituzionale, sempre sulla
 base del principio secondo il quale fine centrale del processo e'  la
 ricerca  della  verita', con la sentenza n. 179 del 16 maggio 1994 ha
 confermato  il   proprio   orientamento   relativamente   all'ipotesi
 dell'esercizio  della  facolta'  di  astenersi  dal deporre riservata
 dall'art. 199 c.p.p. ai prossimi congiunti dell'imputato.
   Cio' posto, il principio della non dispersione dei mezzi di  prova,
 che  ha  alla  base la funzione primaria dell'ordinamento processuale
 che e' quella dell'accertamento  della  verita',  non  puo'  ora  non
 essere  richiamato,  dato che il complessivo assetto dell'ordinamento
 non ha subito modifiche diverse da quelle introdotte  dalla  legge  7
 agosto  1997  n.  267,  il cui art. 1 ha modificato l'art. 513 c.p.p.
 oggetto di censura.
   Se, dunque,  la  Corte  costituzionale  nella  citata  sentenza  n.
 179/1994  ha  affermato che l'esercizio del diritto di non rispondere
 costituisce un'"oggettiva e non prevedibile" causa di "impossibilita'
 di ripetizione dell'atto dichiarativo", appare  irragionevole,  sulla
 base  appunto dei criteri fissati dallo stesso organo costituzionale,
 escludere l'irripetibilita' delle dichiarazioni precedentemente  rese
 dall'imputato che si rifiuti di sottoporsi all'esame (o dell'imputato
 di  reato connesso che presentandosi si avvalga della facolta' di non
 rispondere).
   In entrambi i casi l'atto e' irripetibile e cio' basta, in  armonia
 con i principi fissati dalla Corte costituzionale, perche' il giudice
 debba  potersene  avvalere  liberamente  al  fine di pervenire ad una
 sentenza  giusta,  adempiendo  al  precetto  costituzionale  di   cui
 all'art.  101 comma secondo della Costituzione.
   La  disciplina introdotta dalla legge n. 267/1997 e' affetta, sotto
 questo  profilo,  da  irragionevolezza  violando   l'art.   3   della
 Costituzione e determinando un conflitto ineliminabile tra diritto di
 difesa  ed  esercizio  della  funzione  giurisdizionale  il  cui fine
 primario e' - come si e' detto - quello della ricerca della verita'.
   Basti  rivelare  che  qualora  uno  o piu' imputati si rifiutino di
 rispondere all'esame  dibattimentale  determinando,  in  mancanza  di
 consenso,  una  inutilizzabilita'  incrociata  delle  loro precedenti
 dichiarazioni, comunque valide contra se, il giudice si  trovera'  in
 una  situazione  paradossale, in cui, pur conoscendo tutta la realta'
 probatoria  accaduta  precedentemente  al   dibattimento,   acquisita
 legittimamente  in quella fase, ed utilizzata per come previsto dalla
 legge, non potra' conoscerla  e  porla  a  fondamento  della  propria
 decisione,  anche  se  le dichiarazioni siano coincidenti, decisive e
 fornite di elementi di riscontro.
   In  altri  casi  si  verifichera'  che  il  patrimonio  conoscitivo
 utilizzabile  del  giudice  per  la  sua  decisione,  pur  essendo il
 medesimo, possa essere diverso per ciascun imputato, a secondo  della
 utilizzabilita'  o  meno  delle  dichiarazioni, dipendente dal potere
 dispositivo concesso alle parti private dall'art. 513 c.p.p.
   Appare dunque evidente che in siffatta situazione si  determina  un
 contrasto  tra il fine imposto al giudice della ricerca della verita'
 e gli strumenti processuali che  gli  sono  offerti;  situazione  che
 contrasta  con  i principi costituzionali, poiche' la legge tutelando
 sino all'estremo limite il diritto  al  contraddittorio  finisce  per
 sacrificare   l'esercizio   della  stessa  giurisdizione,  quando  un
 ordinamento improntato al principio di legalita' e di obbligatorieta'
 dall'azione penale, che rende doverosa la  punizione  delle  condotte
 penalmente  sanzionate,  non  puo'  tollerare  norme  di  metodologia
 processuale che ostacolino  in  modo  irragionevole  il  processo  di
 accertamento del fatto storico necessario per pervenire ad una giusta
 decisione.
   La  violazione  del  principio  di  non dispersione delle prove non
 appare affatto scongiurata - a giudizio di questa Corte di  assise  -
 dalla  previsione  del  meccanismo dell'incidente probatorio, benche'
 svincolato dai requisiti  previsti  in  via  generale  dall'art.  392
 c.p.p.,  poiche' in tale sede resta comunque ferma la facolta' di non
 rendere dichiarazioni; e' evidente, dunque  che  l'adozione  di  tale
 meccanismo,  prescelto  dal  legislatore  della  novella  proprio per
 rifuggire da accuse  di  incostituzionalita',  anziche'  tradursi  in
 valvola di sicurezza del sistema, si riduce ad una mera anticipazione
 della  prova,  senza  assicurare tuttavia l'effettiva acquisizione al
 processo.
   E nel caso di specie nulla  autorizza  ad  ipotizzare  che  l'Arces
 avrebbe  tenuto  un  atteggiamento diverso se si fosse trovato non in
 dibattimento dinanzi alla Corte, ma in sede di  incidente  probatorio
 avanti al giudice per le indagini preliminari.
   Va,    inoltre,    osservato    che   il   legislatore   riservando
 all'insindacabile scelta delle parti  private  l'utilizzazione  delle
 dichiarazioni  rese  in  precedenza,  ha  rimesso  in definitiva alla
 totale  disponibilita'  delle  parti  l'ingresso   della   prova   in
 dibattimento,  condizionando  l'esercizio stesso dell'azione penale e
 rendendo disponibile la stessa res iudicanda.
   La Corte costituzionale nella sentenza n. 111 del 24-26 marzo 1993,
 premesso che il processo penale italiano, come "processo  di  parti",
 nella  misura  in  cui  evoca  lo  schema  di  una  contesa tra parti
 contrapposte operanti sul medesimo piano, non  puo'  non  considerare
 che  il pubblico ministero e' un magistrato indipendente appartenente
 all'ordine giudiziario "che non fa valere  interessi  particolari  ma
 agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale all'osservanza
 della  legge",  ha  escluso che il nostro ordinamento processuale sia
 improntato al principio dispositivo in materia di prova, riconoscendo
 "incontroverso che sarebbe contrario ai  principi  costituzionali  di
 legalita'   ed  obbligatorieta'  dell'azione  penale  concepire  come
 disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale.
 Cio'  invero  significherebbe,  da  un  lato,  recidere   il   legame
 strutturale  e  funzionale tra lo strumento processuale e l'interesse
 sostanziale pubblico alla repressione dei fatti  criminosi  che  quei
 principi  intendono  garantire, dall'altro, contraddire all'esigenza,
 ad essi correlata, che la  responsabilita'  penale  sia  riconosciuta
 sono   per   i   fatti   realmente  commessi,  nonche'  al  carattere
 indisponibile della liberta'  personale.  Sotto  questo  profilo,  e'
 significativo  che  il  nuovo  codice non conosca procedure in cui la
 concorde richiesta delle parti svincoli il giudice sul  merito  della
 decisione;  prova  ne  sia che ad un simile esito non conduce neanche
 l'istituto  dell'applicazione  di  pena   su   richiesta.   ....   Ma
 l'assunzione  di  un  principio  dispositivo  in materia di prova non
 trova riscontro nella normativa  positiva  nonche'  sul  terreno  del
 giudizio  ordinario. Il metodo dialogico di formazione della prova e'
 stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto
 maggiormente  idoneo  al  loro  per  quanto  piu'   possibile   pieno
 accertamento,   e  non  come  strumento  per  far  programmaticamente
 prevalere una verita'formale risultante dal mero confronto dialettico
 tra le parti sulla verita' reale: altrimenti,  ne  sarebbe  risultata
 tradita  la  funzione  conoscitiva  del  processo,  che  discende dal
 principio di legalita' e da quel suo particolare  aspetto  costituito
 da principio di obbligatorieta' dell'azione penale".
   Spetta,  pertanto, al giudice - rileva la Corte costituzionale - il
 "potere-dovere di integrazione anche  di  ufficio  delle  prove,  per
 l'ipotesi  in  cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione,
 dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la
 funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del  giudice  dei
 fatti  oggetto  del  processo,  onde consentirgli di pervenire ad una
 giusta decisione".
   La funzione del giudice,  dunque,  puo'  e  deve  essere  anche  di
 supplenza  dell'inerzia  delle  parti  e  deve esplicarsi in modo che
 tutto il tema della decisione gli possa essere chiarito.
   Con  l'avere  condizionato  l'utilizzo  da  parte  del  giudice  di
 elementi  di  prova  irripetibili  raccolti  durante  le  indagini al
 consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi  spiegano  la
 loro   efficacia   probatoria,   si   consente  all'imputato  stesso,
 discrezionalmente ed immotivamente  di  impedire  l'accertamento  del
 fatto  e  vietare  al  giudice  di  pervenire  all'accertamento della
 verita'. Si consente  all'imputato,  disponendo  della  prova  a  suo
 carico,  di disporre indirettamente dell'oggetto stesso del processo,
 in violazione  degli  artt.  3  Cost.  (violazione  dei  principi  di
 eguaglianza  e ragionevolezza poiche' si lede il principio di parita'
 tra accusa e difesa e perche' ad un'analogia di posizioni sostanziali
 tra imputati potrebbe far  riscontro  una  diversita'  di  situazioni
 processuali),  101  e  111  (disattendendo  il  duplice  canone della
 sottoposizione  del  giudice  alla  sola  legge e del libero motivato
 apprezzamento, facendo dipendere l'esercizio della giurisdizione  non
 dal  convincimento  del  giudice,  formulato  sulla  base delle prove
 raccolte,  bensi'  dal  consenso  immotivato  dell'imputato  o  degli
 imputati  interessati),  102 (poiche' la funzione giurisdizionale non
 puo'  essere  razionalmente  esercitata  se  al  giudice  viene  resa
 impossibile  una  compiuta  conoscenza  delle circostanze su cui deve
 pronunciarsi), 2 e 24 (poiche' tra i soggetti che hanno diritto a far
 valere   giudizialmente   le   proprie   pretese,   sono   ricomprese
 indubbiamente anche le persone offese dai reati e tra queste lo Stato
 con il suo diritto-dovere alla persecuzione degli autori dei reati) e
 112  (poiche'  il  principio  dell'obbligatorieta' dell'azione penale
 resterebbe vanificato dalle scelte discrezionali delle parti).
   Ulteriore aspetto di incostituzionalita' dell'art. 513 primo  comma
 c.p.p.   concerne  le  evidenti  disparita'  di  trattamento  che  si
 verificano in relazione ad altre situazioni.
   In primo luogo non appare giustificato il diverso  trattamento  che
 viene  riservato  dall'art. 513 primo comma al caso in cui l'imputato
 si avvalga del diritto al  silenzio,  rispetto  alle  altre  ipotesi,
 previste  dal  secondo  comma,  in  cui non sia possibile ottenere la
 presenza in dibattimento, per fatti imprevedibili,  dell'imputato  di
 reato   connesso,   che   determinano   l'acquisibilita'   delle  sue
 dichiarazioni  al  fascicolo  per  il   dibattimento   senza   alcuna
 necessita' di consenso.
   Altra  disparita'  di  trattamento  si  ha  con  l'ipotesi prevista
 dall'art.  503 c.p.p. in base a tale articolo qualora l'imputato  non
 rifiuti  l'esame  ne' si avvalga della facolta' di non rispondere ma,
 sottoponendosi all'esame dibattimentale, nega in tutto o in parte  il
 contenuto  delle  dichiarazioni  rese  in  precedenza,  queste ultime
 possono   essere   utilizzate   attraverso   il   meccanismo    della
 contestazione  ai  sensi  del  comma  quinto,  mentre invece la nuova
 formulazione   dell'art.   513   preclude   in   assoluto   qualsiasi
 possibilita'  di utilizzazione nell'ipotesi del rifiuto a deporre: in
 questo modo si  perviene  ad  un  esito  apparentemente  paradossale,
 poiche'  se  l'imputato  resta in silenzio il giudice non potra' fare
 uso, nei confronti di altri che non prestano il loro consenso,  delle
 dichiarazioni  rese  nel  corso  delle indagini; se invece l'imputato
 parla per negare  quanto  riferito  in  precedenza  i  verbali  delle
 dichiarazioni  pregresse sono utilizzabili ai fini della prova, anche
 per dimostrare il contrario di quello che ha detto nel dibattimento.
   Altra irragionevole disparita' di trattamento  si  ha  rispetto  al
 regime  previsto  dall'art. 503 comma quinto per l'ipotesi di rifiuto
 da parte dei testi, quando risulta che il teste e' stato sottoposto a
 violenza, minaccia, offerta o promessa di denaro  o  altra  utilita'.
 Cio'  integra  una  evidente  disparita',  non  essendo consentito al
 giudice alcun controllo sulla spontaneita' del rifiuto di rispondere,
 sulla presenza di forme di intimidazione, ne' al p.m.  o  alle  altre
 parti   private   di  poter  provare  eventuali  forme  di  pressione
 sull'imputato gia' dichiarante al fine di ottenere il suo silenzio.
   Per le considerazioni che precedono la  questione  di  legittimita'
 costituzionale dell'art. 513 primo comma c.p.p. sollevata dalla parte
 civile   e  dal  pubblico  ministero  va  ritenuta  rilevante  e  non
 manifestamente infondata.
   Ai  sensi  dell'art.  23  legge  11  marzo  1953  n.  87  gli  atti
 riguardanti l'imputato Condello Giuseppe vanno trasmessi  alla  Corte
 costituzionale  ed  il  giudizio che riguarda il predetto imputato va
 sospeso fino  all'esito  del  giudizio  incidentale  di  legittimita'
 costituzionale.
                               P. Q. M.
   Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953 n. 87;
   Dichiara  rilevante  e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita'  costituzionale  sollevata  dalla  p.c.  e   dal   p.m.,
 dell'art.    513  primo  comma  c.p.p., come modificato dalla legge 7
 agosto 1997 n. 267, per violazione degli artt. 2, 3,  24,  101,  102,
 111 e 112 Cost.;
   Dispone    l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
 costituzionale;
   Sospende il giudizio in corso a carico di  Condello  Giuseppe  fino
 all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale;
   Ordina  che  la  presente  ordinanza  sia  notificata  a cura della
 cancelleria al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata  al
 Presidente  del  Senato della Repubblica e al Presidente della Camera
 dei deputati.
   Cosi' deciso in Agrigento, il 10 febbraio 1998.
                         Il presidente: Ciccone
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