N. 265 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 febbraio 1998

                                N. 265
  Ordinanza emessa il 6 febbraio 1998 dal tribunale militare di Torino
 nel procedimento penale a carico di Bonamini Gianni
 Processo penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata  in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    -  Lettura  dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso
    delle indagini preliminari -  Preclusione  per  il  giudice  salvo
    l'accordo   delle  parti  -  Irragionevolezza  posta  la  prevista
    utilizzabilita' di tali  precedenti  dichiarazioni  nella  diversa
    ipotesi  in  cui  non  sia  possibile  ottenere  la  presenza  del
    dichiarante o procedere all'esame in altro modo -  Disparita'  tra
    le   parti   processuali   -   Incidenza   sulla   formazione  del
    convincimento   del   giudice   -   Lesione   del   principio   di
    obbligatorieta' dell'azione penale.
 (C.P.P.  1988,  art.  513,  comma  2, sostituito dalla legge 7 agosto
    1997, n. 267, art. 1).
 (Cost.,  artt.  3,  24,  secondo  comma, 25, secondo comma, 101, 102,
    primo comma, 111 e 112).
(GU n.16 del 22-4-1998 )
                         IL TRIBUNALE MILITARE
   Ha, in pubblica udienza,  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel
 procedimento  penale a carico di Bonamini Gianni, nato a La Spezia il
 30 marzo 1948, imputato del reato di "peculato militare continuato in
 concorso", come in atti.
                             O s s e r v a
   Nel corso dell'istruttoria dibattimentale, il  p.m.  chiedeva,  tra
 l'altro,  l'escussione  di  Di  Gioia  Giuseppe, Marchesi Piergianni,
 Nucera Salvatore, imputati di reato connesso. Sulla dichiarazione  di
 questi  ultimi di avvalersi della facolta' di non rispondere, il p.m.
 chiedeva l'acquisizione al fascicolo  del  dibattimento  dei  verbali
 contenenti   le   dichiarazioni   rese   dai  predetti  all'Autorita'
 giudiziaria nel rispetto delle  norme  di  legge  all'epoca  vigenti.
 Oppostasi  la  Difesa  del  Bonamini,  l'Accusa  eccepiva  allora  la
 legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p.  nella  formulazione
 risultante dalle modifiche operate dall'art. 1 legge 7 agosto 1997 n.
 267  nonche'  dell'art.    6,  commi  2  e  5,  della medesima legge,
 proponendo le motivazioni riportate nel verbale di udienza. Ad avviso
 dell'organo requirente, le dichiarazioni dei detti imputati di  reato
 connesso sono indispensabili per far luce sui rapporti intercorsi tra
 il  Di  Gioia  (titolare di azienda fornitrice di materiale e servizi
 all'Ospedale militare di Torino) ed il Bonamini  (capo  del  servizio
 amministrativo  del  nosocomio  militare), rapporti caratterizzati da
 versamenti dall'uno all'altro di rilevanti somme di denaro in assegni
 - piu' di un miliardo e cento milioni nell'arco  di  quattro  anni  -
 frutto di liquidazione di fatture di comodo emesse dal primo a carico
 dell'Amministrazione  militare,  con  contabilita'  in  nero e previo
 prelievo di un aggio del 30%  circa  dell'ammontare  delle  somme,  e
 liquidate   ad   opera   del  secondo  senza  che  corrispondesse  la
 prestazione in esse fatture indicata.
   Quanto alla rilevanza della questione, il Collegio fa presente  che
 le  prove documentali testimoniali finora acquisite, gia' evidenziano
 la struttura e l'evoluzione contabile dei rapporti tra il Di Gioia ed
 il personale  del  Servizio  amministrativo  del  nosocomio  militare
 (anche  Nucera  e  Marchese  ne facevano parte), ma non la causa o le
 ragioni delle dazioni  di  denaro  in  cosi'  elevata  quantita'  che
 l'attuale  imputato, secondo le di lui spontanee dichiarazioni finora
 rilasciate  in  dibattimento,  ascrive  all'aver  dovuto   soddisfare
 indilazionabili  esigenze dell'Ospedale militare a fronte delle quali
 non aveva ricevuto fondi  sufficienti:  le  dichiarazioni  gia'  rese
 dagli  imputati  all'Autorita'  giudiziaria nella fase delle indagini
 preliminari, che non possono per  effetto  della  nuova  formulazione
 dell'art.  513  c.p.p. entrare nel compendio probatorio del processo,
 appaiono allora indiscutibilmente rilevanti qualora illustrino,  come
 indicato dal p.m., le ragioni del dedotto profitto.
   Quanto alla non manifesta infondatezza, ritiene il tribunale che la
 norma   impugnata  abbia  sostanzialmente  quel  vizio  di  manifesta
 irragionevolezza cui  la  stessa  Corte  costituzionale  aveva  posto
 rimedio   con   la   sentenza   n.   254  del  1992,  dichiarando  la
 illegittimita' costituzionale dell'art.  513  comma  2  c.p.p.  nella
 formulazione in allora vigente "nella parte in cui non prevede che il
 giudice,  sentite  le  parti,  dispone  la  lettura dei verbali delle
 dichiarazioni ... rese dalle persone indicate nell'art.  210  c.p.p.,
 qualora queste si avvalgano della facolta' di non rispondere".
   In  quella  occasione,  la  Corte  osservo'  che il principio guida
 dell'oralita' deve essere contemperato con  l'esigenza di evitare  la
 perdita,  ai  fini  della  decisione,  di  quanto acquisito prima del
 dibattimento e che in tale sede sia irripetibile; rimarcando  che  in
 tale   categoria   la   stessa   legge   delega  ricomprendeva  anche
 l'indisponibilita' dell'imputato all'esame.
   E proseguendo nella  strada  di  indicare  principi  costituzionali
 certi  in materia di acquisizione e di utilizzabilita' della prova la
 Corte,  con   una   successiva   sentenza   (n.   255/92)   attribui'
 esplicitamente  rilievo costituzionale al "principio di conservazione
 della prova" osservando che "...il sistema accusatorio  positivamente
 instaurato   ha   prescelto   la   dialettica   del   contraddittorio
 dibattimentale quale criterio  rispondente  all'esigenza  di  ricerca
 della verita'; ma accanto al principio dell'oralita' e' presente, nel
 nuovo  sistema  processuale, il principio della non dispersione degli
 elementi prova non compiutamente acquisibili con il metodo orale...".
   Ancora piu' recentemente, sulla base del principio secondo il quale
 fine centrale del processo e' la ricerca della verita', la Corte  con
 la  sentenza  n.  179  del 1994 ha confermato il proprio orientamento
 relativamente all'ipotesi, in tutto e per tutto analoga a  quella  in
 esame,  dell'esercizio  della  facolta'  di  astenersi  dal  deporre,
 riservata dall'art. 199 c.p.p. ai prossimi congiunti dell'imputato.
   Muovendo   da   una   questione    di    costituzionalita'    circa
 l'applicabilita'  della  disciplina  prevista  dall'art.  512  c.p.p.
 all'ipotesi di prossimo congiunto che, dopo aver  reso  dichiarazioni
 in  sede  di  indagini  preliminari,  si  avvalga  della  facolta' di
 astenersi solo in sede dibattimentale,  la  Corte  ha  dichiarato  la
 questione  non  fondata, e, con una pronuncia c.d. "interpretativa di
 rigetto", ha concluso nel senso che "la testimonianza cosi' acquisita
 e' legittimamente,  e  soprattutto,  stabilmente  acquisita"  ed  "e'
 certamente   fuori   di   dubbio   che   l'acquisizione  della  prova
 testimoniale legittimamente  assunta  non  puo'  essere  condizionata
 dall'eventualita' di una successiva invalidazione da parte del teste,
 nel  caso  di  un suo tardivo esercizio della facolta' di astenzione;
 non esiste nell'ordinamento alcuna  disposizione  che  autorizzi  una
 interpretazione  del  genere".  La conclusione cui la citata sentenza
 perviene (ossia la possibilita' di  lettura,  ex  art.  512,  c.p.p.,
 delle  dichiarazioni  in precedenza rese) si pone in linea con quello
 che deve essere senz'altro definito un caposaldo  della  elaborazione
 della  giurisprudenza  costituzionale  dopo  l'entrata  in vigore del
 codice di procedura penale del  1988,  tendente  a  "contemperare  il
 rispetto  del  principio  dell'oralita'  con l'esigenza di evitare la
 perdita, ai fini  della  decisione  di  quanto  acquisito  prima  del
 dibattimento e che sia  irripetibile in tale sede".
   Del  resto,  diversamente  opinando,  l'oralita'  si atteggerebbe a
 principio fine a se' stesso al quale verrebbe  sacrificato  lo  scopo
 essenziale  del  processo  penale,  che - come il Collegio non reputa
 possa revocarsi in dubbio - consiste nella ricerca  della  verita'  e
 nella  pronuncia di una giusta decisione. Per un elementare principio
 di  civilta'  giuridica,  affermato  dalla  Corte  costituzionale   e
 diventato   patrimonio  comune,  l'impossibilita'  di  consentire  la
 dispersione della prova ha imposto  al  legislatore  di  prevedere  e
 rendere   possibile   la  lettura  di  atti  formati  nelle  indagini
 preliminari  allorche'  per qualsivoglia ragione (che puo' consistere
 anche nel puro arbitrio del soggetto) l'atto non  sia  ripetibile  in
 dibattimento.
   E cosi', di fronte al testimone che opponga un irremovibile rifiuto
 di  testimoniare  nell'alternativa  tra  il disperdere la prova e non
 fare giustizia e valorizzare invece gli atti  formati  anteriormente,
 il  Legislatore  ha  operato    questa seconda scelta, consentendo la
 lettura  e  quindi  l'utilizzazione  delle  dichiarazioni  rese.   La
 disciplina dell'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali
 dell'imputato  in procediemnto connesso che si avvalga della facolta'
 di non rispondere, introdotta dalla stessa Corte  costituzionale  con
 la sentenza n. 254 del 1992, tendeva a bilanciare due valori diversi:
 l'esercizio  dell'azione  penale,  ma  soprattutto  l'esercizio della
 funzione  giurisdizionale  stessa,  da  un   lato,   e,   dall'altro,
 l'esercizio  del diritto di difesa, che non rimaneva affatto impedito
 ma soltanto limitato  dall'esercizio,  da  parte  del  coimputato  od
 imputato  in procedimento connesso, del suo diritto di difesa, di non
 rispondere al  dibattimento  alle  domande  di  chi,  direttamente  o
 indirettamente, aveva accusato.
   Anche nel caso delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. si e' in
 presenza di soggetti che nella fase delle indagini preliminari non si
 sono  avvalse della facolta' di non rispondere e che hanno esercitato
 tale diritto in dibattimento.
   Sembra  allora  al  Collegio,  in  ossequio  peraltro  all'indicato
 insegnamento,  di  poter  concludere per l'irrazionalita' della norma
 dell'art.  513  c.p.p.,  nuova   formula,   che,   in   merito   alle
 dichiarazioni  rese  nella  fase  delle  indagini  preliminari con le
 dovute   garanzie   difensive,   ne   stabilisce    l'utilizzabilita'
 allorquando  non  sia possibile ottenere la presenza della persona in
 dibattimento o non sia possibile escuterla a domicilio  o  con  altra
 specifica  modalita'  (comma  2,  prima  parte)  mentre ne dispone la
 inutilizzabilita' allorquando non vi sia accordo  delle  parti  sulla
 lettura  di  esse  in caso di presenza della persona che le ha rese e
 che si rifiuta di rispondere (comma 2, seconda parte).  In  sostanza,
 la lettura delle dichiarazioni medesime dipende dal fatto - meramente
 fenomenico,  lasciato  alla  discrezionalita'  di  un  terzo  - della
 presenza di quegli al dibattimento celebrantesi a carico del correo e
 della disponibilita' manifestata dalle parti in causa in caso del  di
 lui  rifiuto a rispondere. In entrambe le ipotesi normative ora messe
 in evidenza, l'atto e'  irripetibile  ed  il  meccanismo  scelto  dal
 legislatore  con  la  legge  n.  267/1997, tutelando il diritto degli
 imputati al contradditorio fino all'estremo limite di condizionare al
 consenso delle parti anche la lettura delle dichiarazioni di  cui  si
 discute,  sacrifica  non solo l'esercizio della giurisdizione volta a
 perseguire una sentenza giusta attraverso l'osservanza del  principio
 della  conservazione delle prove (artt. 3, 25 comma secondo 101 comma
 secondo, 111 Cost.), ma lede anche il diritto delle  stesse  parti  a
 vedersi   riconosciuto   il   diritto  alla  formazione  della  prova
 attraverso l'oralita' ed il contradditorio posti a base  del  sistema
 tendenzialmente accusatorio scelto dal codice.
   La  norma  impugnata,  invero,  appare  in contrasto con i disposti
 degli artt. 3, 25,  secondo  comma,  102  e  112  della  Costituzione
 laddove, prima al p.m., poi al giudice viene sottratta la valutazione
 di  una  prova  per  effetto dell'attribuito pieno potere dispositivo
 delle   parti  in  ordine  alla  prova  medesima  a  seconda  che  il
 dichiarante sia o meno presente al dibattimento celebrantesi a carico
 di un terzo e nella parte in  cui,  condizionando  il  giudice  sugli
 elementi  di  prova  raccolti, si consente all'imputato, mediante una
 scelta  discrezionale,   immotivata,   insindacabile,   eventualmente
 ispirata  ad    interessi  non  tutelabili, di sottrarsi alle proprie
 responsabilita'. Non sembra, invero, superfluo  sottolineare  che  il
 potere  concesso  dal nuovo art.   513, comma 2, c.p.p. alle parti e'
 cosi' ampio - si parla infatti di accordo "delle parti"  e  non  gia'
 delle parti "interessate" - che ciascuna puo' opporsi all'utilizzo di
 prove irrilevanti rispetto alla sua posizione ma rilevanti rispetto a
 posizioni  diverse  senz'altro  scopo  che il porre un impedimento al
 regolare esercizio della giurisdizione.
   La situazione si aggrava proprio quando la parte -  in  particolare
 l'imputato  -  si  oppone  alla lettura di dichiarazioni irripetibili
 rese direttamente a suo carico: in tal caso, infatti, posto che  tali
 dichiarazioni  non sono considerate ontologicamente dal Legislatore -
 che, altrimenti,  non  ne  avrebbe  consentito  la  documentazione  e
 l'utilizzo  anche  in  fase  di  indagini preliminari ed anche a fini
 cautelari - il meccanismo normativo risulta semplicemente paradossale
 in quanto i veti incrociati  di  soggetti  privati,  quali  sono  gli
 imputati  e gli imputati in procedimento connesso, possono precludere
 l'esercizio  stesso  della  giurisdizione  e  prima   ancora   quello
 dell'azione penale.  Considerato che i soggetti predetti agiscono per
 interessi  privatissimi  e  sinanco meramente egoistici,   l'ostacolo
 frapposto all'esercizio  della  giurisdizione  non  puo'  non  essere
 ritenuto irrazionale.
   Come  la  stessa Corte Costituzionale (Sentezza n. 111 del 1993) ha
 considerato illegittimo il potere riconosciuto al Pubblico  Ministero
 di  influire  sull'esito  del  dibattimento  disponendo  della  prova
 (potere riconosciutogli dai giudici di merito  remittenti  grazie  ad
 una  interpretazione  dell'art. 507 c.p.p. poi ritenuta illegittima),
 non si puo' non considerare illegittimo a maggior  ragione  l'analogo
 potere  riconosciuto  dalla  legge a soggetti privati che, come tali,
 orientano   i   loro   comportamenti   secondo   logiche    meramente
 individualistiche.
   Ebbene,  a  parere  del  Collegio,  la  normativa di cui si tratta,
 introducendo il potere delle parti di disporre della prova,  consente
 di  sottrarla  alla  razionale e motivata valutazione del giudice, in
 tal modo impedendogli di formarsi un convincimento che si avvicini il
 piu'  possibile  alla  reale  verificazione  dei  fatti  e,   quindi,
 impedendo  la pronuncia di una giusta decisione. "Il metodo dialogico
 di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo  di
 conoscenza dei fatti ritenuto maggiormanete idoneo al loro per quanto
 piu'   possibile   accertamento,   e   non  come  strumento  per  far
 programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal  mero
 confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne
 sarebbe  risultata  tradita la funzione conoscitiva del processo, che
 discende dal principio  di  legalita'  e  dal  quel  suo  particolare
 aspetto  costituito  dal  principio  di  obbligatorieta'  dell'azione
 penale".
   Le  scelte  operate  dal  legislatore  del  1997,  che condizionano
 l'esercizio della giurisdizione,  incidendo  in  misura  determinaate
 sulla  liberta'  del  giudice  nel  significato  che tale concerto ha
 assunto nella giurisprudenza costituzionale, non vengono  scongiurate
 dalla previsione dell'incidente probatorio previsto dall'art. 4 legge
 n.  267/1997, poiche' anche in tale sede resterebbe comunque ferma la
 facolta' di non rendere le dichiarazioni: e' evidente, percio',  come
 l'adozione  di  tale  meccanismo,  lungi dal poter essere considerata
 alla stregua di "valvola di sicurezza"  del  sistema,  si  riduce  in
 effetti  alla  mera  anticipatazione  dei  tempi di assunzione di una
 prova e non da' la garanzia dell'effettiva acquisizione  di  essa  al
 processo.
   Quelle   scelte,  infine,  non  tutelano  neppure,  ad  avviso  del
 Collegio, l'attivita'  di  formazione  della  prova  da  parte  degli
 interessati  al  processo.  Della posizione dell'Accusa si e' detto a
 sufficienza:  riguardo alla posizione della Difesa,  basti  osservare
 che  le  dichiarazioni del correo potrebbero essere di utilita' anche
 all'imputato del processo principale qualora sia il p.m.,  seppur  in
 violazione dei principi di correttezza e di perseguimento di elementi
 a  favore dell'imputato come prescrittogli dall'art. 358 c.p.p. o per
 altri legittimi motivi, a non dare il consenso all'acquisizione,  con
 cio'  precludendo  all'imputato  medesimo di esercitare pienamente la
 propria difesa.
   Le suesposte argomentazioni, ove accolte, assorbono, ad avviso  del
 Tribunale, il profilo della dedotta illegittimita' dell'art.  6 della
 legge n. 267/1997.
                                P. Q. M.
   Visto  l'art.  23  legge 11 marzo 1953 n. 87, ritenute le questioni
 dedotte rilevanti e non  manifestamente  infondate,  in  accoglimento
 dell'eccezione del p.m.;
   Solleva  questione  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 513,
 comma 2, c.p.p. come sostituito dall'art. 1, legge n. 267/1997, nella
 parte in cui subordina  esclusivamente  all'accordo  delle  parti  la
 lettura  dei  verbali  contenenti le dichiarazioni rese al p.m. dalle
 persone indicate nell'art. 210 c.p.p. qualora queste si siano avvalse
 della facolta' di non rispondere o si siano rifiutate di  rispondere,
 e,  cio',  per  violazione degli artt. 3, 24 comma secondo, 25, comma
 secondo, 101, 102, comma primo, 111, 112 della Costituzione;
   Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla    Corte
 costituzionale;
   Sospende  il  processo  fino all'esito del giudizio di legittimita'
 costituzionale;
   Ordina che la presente  ordinanza  sia  notificata,  a  cura  della
 Cancelleria, al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al
 Presidente  del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera
 dei deputati.
   Cosi' deciso, in Torino, il 6 febbraio 1998
                         Il presidente: Rosin
                                                      Il giudice: Gili
 98C0385