N. 135 SENTENZA 20 - 23 aprile 1998

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Edilizia  residenziale  pubblica  -  Privati  proprietari  - Diretta
 esecuzione delle prescrizioni  del  piano  di  edilizia  economica  e
 popolare  con  lo  strumento dell'accordo con il comune interessato -
 Omessa previsione - Ragionevolezza nella scelta del mezzo rispetto al
 fine del perseguimento degli interessi generali  -  Riferimento  alla
 sentenza della Corte n. 155/1995. Non fondatezza.
 
 (Legge 22 ottobre 1971, n. 865, art. 35).
 
 (Cost., artt. 97, 41 e 42).
 
(GU n.17 del 29-4-1998 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici: prof. Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
 Cesare  MIRABELLI,  prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv. Massimo VARI,
 dott.  Cesare  RUPERTO,  dott.  Riccardo   CHIEPPA,   prof.   Gustavo
 ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,  prof.  Carlo  MEZZANOTTE,  avv.
 Fernanda CONTRI,  prof.  Guido  NEPPI  MODONA,  prof.  Piero  Alberto
 CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 35 della legge
 22 ottobre 1971, n.  865  (Programmi  e  coordinamento  dell'edilizia
 residenziale   pubblica;  norme  sulla  espropriazione  per  pubblica
 utilita'; modifiche ed integrazioni alle leggi  17  agosto  1942,  n.
 1150;  18  aprile  1962,  n.  167;  29  settembre  1964,  n.  847; ed
 autorizzazione di  spesa  per  interventi  straordinari  nel  settore
 dell'edilizia  residenziale, agevolata e convenzionata), promosso con
 ordinanza emessa il 4 luglio 1996 dal Tar per il Veneto  sul  ricorso
 proposto   dall'Anfora  s.r.l.    contro  il  Comitato  regionale  di
 controllo della Regione Veneto ed altro,  iscritta  al  n.  1375  del
 registro  ordinanze  1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 1997;
   Visto l'atto di costituzione dell'Anfora s.r.l., nonche' l'atto  di
 intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Udito  nell'udienza  pubblica  dell'11  novembre  1997  il  giudice
 relatore Piero Alberto Capotosti;
   Uditi l'avv.to Luigi Manzi per l'Anfora s.r.l. e l'avv. dello Stato
 Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei Ministri;
                           Ritenuto in fatto
   1. - La societa' proprietaria della gran parte dei fondi  destinati
 alla  realizzazione  delle  opere  previste  dal  Piano  di  edilizia
 economica e popolare (Peep) del comune di Noventa Padovana  proponeva
 all'ente  locale  la  stipula  di  una  convenzione avente ad oggetto
 l'esecuzione  di  detto  piano.  In  particolare,  la   societa'   si
 dichiarava  disposta  ad assumere l'obbligo di edificare gli immobili
 secondo tipologie conformi agli scopi dell'atto  programmatico  e  di
 locarli  e  venderli ai canoni ed ai prezzi concordati, se l'ente non
 avesse proceduto all'espropriazione dei suoli.
   Il  comune  accoglieva  la  proposta  ed  approvava  lo  schema  di
 convenzione,  che  era  pero'  annullato  dalla sezione di Padova del
 Comitato regionale di controllo del Veneto, in  quanto  giudicato  in
 contrasto  con  l'art.    10  della  legge  18  aprile  1962, n. 167,
 modificato  dall'art.  35  della  legge  22 ottobre 1971, n. 865, che
 imporrebbe    alla    pubblica    amministrazione    di     procedere
 all'espropriazione   delle  aree  delle  quali  intenda  ottenere  la
 disponibilita' allo scopo di realizzare il Peep.
   2. - La  societa'  impugnava  innanzi  al  Tar  per  il  Veneto  il
 provvedimento di diniego e ne chiedeva l'annullamento.
   La  ricorrente  eccepiva  che erroneamente il Comitato di controllo
 non aveva considerato che l'art. 11 della legge  7  agosto  1990,  n.
 241  stabilisce  il principio della piena fungibilita' dell'attivita'
 imperativa e di quella di  diritto  privato  della  p.a.  e,  quindi,
 sostanzialmente legittima la convenzione, in quanto idonea allo scopo
 avuto  di  mira  dal  comune,  senza  prevedere pero' il ricorso allo
 strumento espropriativo.
   La  Regione  Veneto,  nel   costituirsi   in   giudizio,   eccepiva
 l'infondatezza  della domanda, deducendo che l'art. 11 della legge n.
 241 del 1990 non contempla  affatto  lo  schema  convenzionale  quale
 modello  generale  dell'azione  della  p.a.  e  che esso era comunque
 inapplicabile nel caso di specie. L'acquisizione della proprieta' dei
 suoli al patrimonio comunale mira, infatti,  anche  a  consentire  la
 costituzione  del  diritto di superficie in favore dei privati, ossia
 una finalita' che non puo', invece, essere conseguita  attraverso  la
 convenzione.
   3.  -  Il  Tar  per  il Veneto, con ordinanza del 4 luglio 1996, ha
 sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 35 della
 legge  22  ottobre  1971,   n.   865   (Programmi   e   coordinamento
 dell'edilizia  residenziale  pubblica; norme sulla espropriazione per
 pubblica utilita'; modifiche ed integrazioni  alle  leggi  17  agosto
 1942,  n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre 1964, n. 847; ed
 autorizzazione di  spesa  per  interventi  straordinari  nel  settore
 dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata) nella parte in
 cui  non  prevede  la  possibilita' per i privati proprietari di dare
 esecuzione direttamente  alle  prescrizioni  del  piano  di  edilizia
 economica  e  popolare  con  lo  strumento dell'accordo con il comune
 interessato,  in  riferimento  agli  artt.  97,   41   e   42   della
 Costituzione.
   I  giudici  premettono  che la realizzazione dei Peep puo' avvenire
 soltanto attraverso l'espropriazione generalizzata delle  aree  e  la
 successiva   riassegnazione   delle   stesse,  parte  in  diritto  di
 superficie, parte in proprieta' piena. La norma  denunziata,  a  loro
 avviso,  non  e'  stata,  infatti,  innovata dalle disposizioni della
 legge n. 241 del 1990, sia  perche'  quest'ultima  e'  lex  posterior
 generalis,  sia perche'  l'art. 1 di detta legge contiene una riserva
 espressa di salvezza delle  norme  che  disciplinano  i  procedimenti
 amministrativi connotati di specialita', quali sono appunto quelli di
 "pianificazione e di programmazione".
   L'art.   35  della  legge  n.  865  del  1971,  secondo  i  giudici
 amministrativi, si porrebbe pero' in parte qua in contrasto:
     a) con il canone di buon andamento  della  p.a.  (art.  97  della
 Costituzione),   interpretato   come  prescrittivo  delle  regole  di
 semplificazione ed economicita'  del  procedimento,  valori  entrambi
 sottesi   sia   al   modello  di  azione  concordata  con  i  privati
 interessati, previsto da  norme  primarie  e  non  solo  in  tema  di
 programmi   di   recupero  e  riqualificazione  urbanistica,  sia  al
 principio  della  progressiva riduzione della proprieta' pubblica dei
 beni immobili, attuato significativamente nei progetti di dismissione
 delle stesse aree gia' incluse nei Peep e ora gravate di  diritti  di
 superficie;
     b)  con  il canone dell'art. 41 della Costituzione, che finalizza
 la liberta' di impresa economica del privato all'utilita' collettiva,
 in quanto la  norma  denunciata  impedisce  che  essa  "possa  essere
 indirizzata e coordinata a fini sociali";
     c)  con  il  canone  dell'art.  42  della  Costituzione, il quale
 contempera  la   protezione   della   proprieta'   privata   con   il
 perseguimento  di  finalita'  sociali,  imponendo  che non si proceda
 all'ablazione di tale diritto qualora la sua "funzione sociale" possa
 essere assicurata attraverso l'imposizione di limiti meno afflittivi.
   4. - La ricorrente nel processo a quo si e' costituita nel giudizio
 innanzi alla Corte ed  ha  fatto  proprie  le  argomentazioni  svolte
 nell'ordinanza di rimessione.
   Il  Presidente  del  Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso
 dall'Avvocatura generale dello Stato  e'  intervenuto  nel  giudizio,
 eccependo l'infondatezza della questione.
   La difesa erariale contesta che la normativa lato sensu urbanistica
 permetta  di  ritenere  che  siano  stati recepiti sia il criterio di
 corrispondenza  tra  economicita'   e   semplificazione   dell'azione
 amministrativa,  che  renderebbe  indifferente la natura del soggetto
 cui  affidare  l'attuazione  dei  piani  edilizi,  sia  il  principio
 prescrittivo  della  riduzione  della  proprieta'  pubblica al minimo
 possibile.
   Secondo l'Avvocatura dello Stato l'azione della p.a.  diretta  alla
 riqualificazione  dei  centri abitati e' intuitivamente differente da
 quella diretta alla pianificazione degli insediamenti.  Analogamente,
 la   dismissione  da  parte  della  p.a.  del  residuale  diritto  di
 proprieta' del fondo, una volta che sia stata realizzata la finalita'
 sociale con l'assegnazione a terzi  delle  utilita'  "superficiarie",
 non  e'  affatto  comparabile  con  la  mancata  acquisizione di tale
 diritto ancor prima del completamento del programma residenziale.
   Il dubbio di legittimita' costituzionale dell'art. 35  della  legge
 n.  865 del 1971, ad avviso dell'interveniente, e' infondato, poiche'
 l'espropriazione   rappresenta   lo   strumento   che   realizza   il
 bilanciamento del "buon andamento" con la "imparzialita'" dell'azione
 amministrativa.  La forma espropriativa non e', quindi, connotata dai
 caratteri di "rilevante sproporzione" o di arbitrarieta' che, secondo
 la  giurisprudenza  costituzionale, costituiscono i soli limiti posti
 nella materia  alla  discrezionalita'  del  legislatore.  Infine,  il
 meccanismo  ablatorio  neanche  vulnera  la  liberta'  di  iniziativa
 economica,  in  quanto  il  parametro  e'  erroneamente  evocato   in
 riferimento ad un caso nel quale l'iniziativa economica non e' frutto
 di  un'autonoma  determinazione  individuale,  ma  e'  indotta  dalle
 determinazioni del potere pubblico.
   5. - La parte privata, in  prossimita'  dell'udienza  pubblica,  ha
 depositato  memoria, nella quale ha dedotto che l'art. 35 della legge
 n. 865 del 1971  puo'  essere  interpretato  in  maniera  conforme  a
 Costituzione,  ritenendo  che l'espropriazione delle aree incluse nel
 Peep costituisca una facolta' e non un obbligo del comune. L'art.  11
 della   legge   sul  procedimento  amministrativo  n.  241  del  1990
 esprimerebbe,   infatti,   il   recepimento   del   principio   della
 governabilita'   dell'azione   pubblica  secondo  regole  di  diritto
 privato.
   La  societa'  invoca,  infine,  come  significativo  precedente   a
 conforto  della  sua  tesi  la  sentenza  n.  155  del  1995,  che ha
 dichiarato infondata la questione di legittimita'  costituzionale  di
 una  norma  recante  la previsione dell'espropriazione generalizzata,
 proprio in quanto interpretata come prescrittiva di  una  facolta'  e
 non  dell'obbligo  dell'amministrazione di procedervi. La resistente,
 in linea gradata, deduce di aderire alla  prospettazione  svolta  dai
 giudici a quibus.
   All'udienza   pubblica   l'interveniente   e  la  resistente  hanno
 insistito per l'accoglimento delle rispettive conclusioni.
                         Considerato in diritto
   1. - La questione di  legittimita'  costituzionale,  sollevata  con
 l'ordinanza  in  epigrafe,  riguarda l'art. 35 della legge 22 ottobre
 1971, n. 865, nella parte in cui non prevede la  possibilita'  per  i
 privati proprietari di dare esecuzione direttamente alle prescrizioni
 del  piano  di  edilizia  economica  e  popolare,  con  lo  strumento
 dell'accordo con il comune interessato. Secondo i giudici rimettenti,
 la norma censurata sarebbe in "contrasto con  le  disposizioni  degli
 artt.  97,  41 e 42 della Costituzione e coi principi generali che da
 tali norme derivano, cosi' come  resi  palesi  anche  dall'evoluzione
 normativa  che  caratterizza lo specifico settore". L'art. 97 sarebbe
 violato poiche' tra i principi atti a  garantire  il  buon  andamento
 dell'Amministrazione    rientrano   anche   quelli   della   "massima
 collaborazione coi privati (...) e  della  piena  fungibilita'  dello
 strumento autoritativo con quello concordato, laddove il fine (ovvero
 l'assetto  degli interessi) voluto dalla legge sia raggiunto". L'art.
 42 sarebbe violato poiche' l'affermazione che "la proprieta'  privata
 e'   "riconosciuta   e   garantita"   implica   necessariamente   che
 l'espropriazione  vada  limitata  a  quei  casi  in  cui  non  appaia
 possibile   il   risultato   di  "assicurarne  la  funzione  sociale"
 semplicemente ponendo limiti di minore entita'".   Infine, l'art.  41
 sarebbe  violato in quanto, non consentendo ai privati proprietari di
 dare essi stessi attuazione ai  programmi  di  edilizia  economica  e
 popolare  sotto  il  controllo  dell'Ente  competente, non si sarebbe
 rispettato  il  principio   di   liberta'   di   impresa   economica,
 conformandola  "perche'  possa essere indirizzata e coordinata a fini
 sociali".
   2. - La questione non e' fondata.
   L'ordinanza di  rimessione  espressamente  sottolinea  che  sarebbe
 seriamente  dubitabile  "l'attuale  conformita'" a Costituzione della
 gia'  citata  norma  dell'art.  35,  in  ragione  di  "sopravvenienze
 normative",  nonche'  di  un  "emergente mutamento di orientamento in
 merito all'opportunita' e convenienza del formarsi di  una  sorta  di
 manomorta   comunale   (quali   sono   le  aree  Peep)".  L'insistito
 riferimento a presunti cambiamenti e sopravvenienze  negli  indirizzi
 della  legislazione  di  settore  impone  pertanto  che ai fini dello
 scrutinio   di   costituzionalita'   si   proceda    prioritariamente
 all'individuazione   e  collocazione  della  originaria  ratio  della
 disposizione censurata nella complessiva evoluzione  della  normativa
 in oggetto, nel cui ambito la disciplina dell'acquisizione delle aree
 fabbricabili  e'  stata  sempre  considerata  uno  dei  piu' gravi ed
 importanti problemi a decorrere dalla nota legge Luzzatti  31  maggio
 1903, n. 254.
   In  proposito  i  vari  atti legislativi, che si sono succeduti nel
 tempo, hanno adottato diverse soluzioni organizzative, sia per quanto
 concerne la spettanza dell'onere della costruzione delle  abitazioni,
 sia  per quanto concerne modi e tempi  delle procedure espropriative.
 Ma e' interessante notare che gia' la predetta legge n. 254 del  1903
 disponeva  (art.  18)  che  "quando  sia  riconosciuto  il bisogno di
 provvedere alloggi per le classi meno  agiate  (...)  i  comuni  sono
 autorizzati  a intraprendere la costruzione di case popolari soltanto
 per darle a pigione, conformandosi alle leggi vigenti ed  a  tutti  i
 provvedimenti  che  disciplinano l'assunzione di pubblici servizi per
 parte di municipi".  Si disponeva altresi' (art. 20) che i comuni nei
 quali sia riconosciuta la necessita' di "provvedere alla deficenza di
 alloggi e case popolari, dovranno compilare, a norma  degli  articoli
 86 e 93 della legge 25 giugno 1865, sulla espropriazione per pubblica
 utilita', i rispettivi piani regolatori e di ampliamento", per la cui
 esecuzione  i comuni stessi venivano "autorizzati a valersi dell'art.
 22  della  citata  legge  domandando  l'espropriazione  dei   terreni
 compresi nel piano medesimo".
   E  sono  proprio stati i profili strutturali e funzionali di questo
 schema organizzativo di base, cui  si  sono  variamente  ispirate  le
 soluzioni  legislative via via adottate, ad indurre una nota dottrina
 a configurare, sin dagli anni Cinquanta, questa attivita' in  termini
 di  servizio  pubblico,  sulla  base  sia  delle  finalita',  sia del
 contenuto,  sia  del  regime  giuridico,  sia  infine  dei   soggetti
 coinvolti.
   Questo disegno legislativo si e' peraltro ulteriormente specificato
 con  la  legge  18  aprile  1962,  n.  167,  con  cui  si  mirava, in
 particolare, oltre che a favorire l'acquisizione di aree fabbricabili
 a basso costo attraverso  uno  speciale  criterio  di  determinazione
 dell'indennita'   di   espropriazione,  a  consentire  ai  comuni  di
 costituire, nell'ambito dei  piani  di  zona  destinati  all'edilizia
 economica   e  popolare,  un  patrimonio  indisponibile  di  aree  da
 urbanizzare e da cedere, a titolo di proprieta' o  di  superficie,  a
 enti  o  privati  per  la  realizzazione  di  abitazioni  a carattere
 economico e  popolare.  Ma  proprio  questa  parte  della  disciplina
 legislativa  non ha nei fatti prodotto un risultato soddisfacente. Le
 ragioni di questo insuccesso sono state  individuate  dalla  dottrina
 precipuamente   in  tre  ordini  di  fattori:  in  un  meccanismo  di
 determinazione dell'indennita' di espropriazione, che non  consentiva
 l'acquisizione  delle  aree ad un prezzo sufficientemente basso, tale
 comunque da impedire che il proprietario godesse degli incrementi  di
 valore  connessi  proprio all'inserimento dell'area nel piano di zona
 con  destinazione  residenziale;  nella   pluralita'   dei   soggetti
 legittimati  ad  espropriare  le  aree con conseguente difficolta' di
 attuare in modo organico ed unitario le  operazioni  concernenti  gli
 insediamenti  e  l'urbanizzazione;  nella inadeguatezza dei metodi di
 programmazione e di coordinamento  degli  interventi  all'interno  ed
 all'esterno del piano di zona.
   3.  -  In  questo contesto normativo si colloca la legge 22 ottobre
 1971, n. 865, la  quale  si  propone  di  fare  fronte  alle  carenze
 normative   ora   descritte   con  una  nuova  sistematica,  che,  in
 particolare, per  quanto  qui  interessa,  espressamente  dispone  la
 sostituzione  e  l'abrogazione  rispettivamente  degli  artt. 10 e 16
 della  legge  n.  167  del  1962,  i  quali consentivano ai comuni di
 "riservarsi l'acquisizione,  anche  mediante  esproprio,  delle  aree
 comprese  nel  piano", nonche' ai privati di "costruire direttamente,
 sulle aree stesse, fabbricati aventi caratteristiche di abitazione di
 tipo economico e popolare". Questo regime e'  stato  dunque  innovato
 dalle  norme dell'art. 35, nonche' dell'art. 39 della citata legge n.
 865 non solo per conformarsi alla sentenza di questa Corte n. 22  del
 1965, ma soprattutto per modificare un assetto legislativo, che, come
 gia'  rilevato, non aveva prodotto gli effetti voluti. Effetti che si
 riteneva invece potessero essere conseguiti  mediante  l'acquisizione
 delle  aree  comprese  nei  piani  di zona per l'edilizia economica e
 popolare  attraverso   una   espropriazione,   che   puo'   definirsi
 generalizzata ed obbligatoria.
   Con  lo  strumento  espropriativo, in realta', si mira a conseguire
 essenzialmente una triplice finalita'. In primo  luogo,  sottoponendo
 ad  esproprio  tutte  le  aree  situate  dentro  il  piano di zona ed
 immettendole nel proprio "patrimonio  indisponibile"  il  comune  non
 solo   mira  a  realizzare  effettivamente  il  piano,  ma  anche  ad
 assicurare parita' di trattamento a tutti i  proprietari,  eliminando
 la  situazione  di vantaggio di chi resterebbe proprietario dell'area
 e, costruendo, potrebbe ricavare la relativa rendita fondiaria, e  la
 corrispondente  situazione  di  svantaggio di chi invece percepirebbe
 soltanto l'indennita' di esproprio.  In  secondo  luogo,  il  comune,
 attraverso  la  espropriazione,  puo'  ottenere  le aree ad un prezzo
 equo, mentre, con il sistema  della  compravendita,  al  proprietario
 venditore  va corrisposto il maggior valore derivante da tutti i vari
 elementi inerenti alla posizione del terreno. Infine, e  soprattutto,
 con  la  generalizzazione e l'obbligatorieta' della espropriazione il
 comune consegue  anche  l'importante  scopo  pratico  di  attuare  il
 controllo  del territorio, organizzando in modo coordinato e in tempi
 certi la realizzazione  del  piano,  diversamente  da  quanto  poteva
 accadere   con   le  precedenti  disposizioni,  che  prevedevano  una
 pluralita' di soggetti  esproprianti  ed  una  pluralita'  di  regimi
 giuridici delle aree interessate.
   Queste  finalita',  del  resto,  si evincono agevolmente dai lavori
 preparatori della legge,  dove,  tra  l'altro,  viene  affermato  dal
 ministro proponente che l'intento legislativo e' quello di consentire
 ai  comuni un nuovo regime dei suoli edificatori idoneo ad assicurare
 "il controllo di essi per una migliore  e  moderna  sistemazione  del
 territorio  e  dello sviluppo della citta'" e idoneo altresi' a "dare
 al sistema della loro utilizzazione per la costruzione delle  case  e
 delle   abitazioni   una  strumentazione  che  renda  impossibile  la
 rigenerazione e la riproduzione del meccanismo della  speculazione  e
 della  rendita  parassitaria sulle aree" (Atti Camera dei deputati, V
 legislatura, seduta del 18 maggio 1971).
   4. - Individuata cosi', nella dinamica legislativa di quegli  anni,
 la  ratio  della norma censurata, appare infondata, innanzi tutto, la
 violazione dell'art. 97  della  Costituzione,  prospettata  sotto  il
 profilo   di   un   eccesso  nell'uso  dello  strumento  autoritativo
 dell'espropriazione  nei  confronti  dei  privati   proprietari.   In
 proposito  occorre  ricordare  che  il canone costituzionale del buon
 andamento riguarda anche  gli  aspetti  attinenti  alle  funzioni  ed
 all'esercizio   dei  poteri  amministrativi,  cosicche'  "i  relativi
 procedimenti  debbono  essere  idonei  a   perseguire   la   migliore
 realizzazione  dell'interesse  pubblico  nel  rispetto  dei diritti e
 degli  interessi  legittimi  dei  soggetti  coinvolti  nell'attivita'
 amministrativa"  (sentenza  n.  40  del  1998).  L'obiettivo del buon
 andamento della Amministrazione puo'  essere  tuttavia  perseguito  e
 realizzato  con strumenti e modalita' diversi, parimenti efficaci, la
 cui  scelta  e'  rimessa  alla  discrezionalita'   del   legislatore,
 naturalmente  nei  limiti  della  ragionevolezza (sentenza n. 103 del
 1993). Sotto questo profilo, la  disciplina  introdotta  dalla  norma
 impugnata  non  puo'  certo  definirsi  incoerente  ed  incongrua nel
 prevedere la formazione di un patrimonio comunale "indisponibile"  di
 aree edificabili, considerato, non irragionevolmente, quale strumento
 principale  per  perseguire l'interesse generale della costruzione di
 alloggi di edilizia economica e popolare nel quadro  di  un  ordinato
 sviluppo  edilizio  ed  urbanistico  del  territorio, evitando, nello
 stesso tempo, forme di rendita speculativa (sentenza n. 44 del 1966).
   Il procedimento disegnato, in questa fattispecie,  dal  legislatore
 per  il  perseguimento  del  pubblico  interesse  non appare pertanto
 incongruo, perche' si basa su strumenti e modalita'  applicative  che
 appaiono   adeguati   sia   al   canone   di  efficienza  dell'azione
 amministrativa (sentenza n. 266  del  1993),  sia  al  raggiungimento
 degli obiettivi prefissati; d'altra parte, procedere ad un esame piu'
 penetrante   delle   ragioni  di  questa  opzione  legislativa  quasi
 inevitabilmente "comporterebbe un controllo delle scelte, lato  sensu
 politiche,  del  legislatore,  che e' sottratto alle competenze della
 Corte" (sentenza n. 95 del 1966).
   Lo stesso giudizio di ragionevolezza porta ad escludere altresi' la
 lesione dell'art. 42 della Costituzione, prospettata sotto il profilo
 che l'espropriazione prevista dalla norma impugnata e'  generalizzata
 ed  obbligatoria, eccedendo cosi' le ipotesi in cui non sia possibile
 assicurare altrimenti la  "funzione  sociale"  della  proprieta'.  Ed
 invero, va rilevato che, secondo la giurisprudenza costituzionale, il
 sacrificio   degli   interessi   dei   privati   proprietari  non  e'
 irragionevole tutte le volte che i motivi di interesse generale,  che
 legittimano l'espropriazione della proprieta' privata, siano tali non
 solo  da escludere che il provvedimento ablatorio possa perseguire un
 interesse meramente privato, ma da postulare anche che esso miri alla
 "soddisfazione di effettive e specifiche esigenze  rilevanti  per  la
 comunita'" (sentenza n. 95 del 1966).
   Nel caso di specie, premesso che le opere previste sono a tutti gli
 effetti  dichiarate  di  "pubblica utilita'" dalla legge, i motivi di
 interesse  generale,  che  possono  giustificare  il   ricorso   allo
 strumento   espropriativo,   sono  essenzialmente  individuabili  nel
 soddisfacimento, per  le  categorie  meno  abbienti,  della  primaria
 necessita'  dell'abitazione,  attraverso  un  nuovo  regime dei suoli
 edificatori, sia pure limitato a parte  del  territorio  urbano,  che
 garantisca  il loro controllo, attribuendo al comune il potere-dovere
 di acquisire le aree, mediante la procedura coattiva,  ad  un  prezzo
 equo e in modo contestuale, cosi' da permettere l'attuazione organica
 e  programmata  del  piano,  senza  ritardi e discrasie. Un ulteriore
 motivo specifico di giustificazione del procedimento  ablatorio  puo'
 poi  fondarsi,  come  ha affermato questa Corte nella sentenza n. 155
 del  1995,  nella  circostanza  che   "il   carattere   generalizzato
 dell'esproprio  rende  i  proprietari  delle  aree  indifferenti alla
 destinazione delle stesse, eliminando in radice  il  rischio  che  su
 alcune  aree  piuttosto  che  su  altre  si accumuli un incremento di
 valore  quale  effetto  indotto   dal   complessivo   intervento   di
 riqualificazione  della  zona".  Non senza considerare che i tempi di
 realizzazione del  piano  risulterebbero  inevitabilmente  frazionati
 qualora    l'espropriazione   delle   aree   fosse   sistematicamente
 condizionata alle singole, eventuali inadempienze dei proprietari.
   Non appare quindi, per  tutte  queste  considerazioni,  palesemente
 arbitrario   o   sproporzionato   il   bilanciamento  effettuato  dal
 legislatore tra le finalita' d'interesse generale  perseguite  ed  il
 sacrificio imposto agli interessi dei privati proprietari, cosicche',
 sotto questi profili, non e' configurabile la violazione dell'art. 42
 della Costituzione.
   Per  le  stesse  argomentazioni  non  sussiste  neppure  la lesione
 dell'art.  41 della Costituzione, prospettata sotto il profilo che la
 norma censurata non consentirebbe ai proprietari interessati di  dare
 essi stessi attuazione ai programmi di edilizia economica e popolare.
 Ed invero, la mancata previsione normativa di strumenti sollecitatori
 dell'iniziativa  del  privato  proprietario  per prevenire ed evitare
 l'espropriazione non e' incoerente, nella specie, con  le  scelte  di
 politica  edilizia  ed  urbanistica  nel  settore  in  esame, essendo
 demandata al legislatore ordinario la determinazione  della  concreta
 misura dell'intervento pubblico nell'economia e "spettando alla Corte
 costituzionale  solo  l'identificazione  del  fine  sociale  e  della
 riferibilita' ad esso di programmi e controlli" (sentenza n.  63  del
 1991).  E  nella  fattispecie  in  esame  l'intervento pubblico si e'
 spinto, nel perseguimento di un apprezzabile  fine  sociale,  sino  a
 prevedere  una  forma  di  espropriazione  di  aree  generalizzata ed
 obbligatoria ritenuta da questa Corte non incongrua e  tale  comunque
 da  precludere  logicamente  ogni  spazio per una autonoma iniziativa
 economica dei privati proprietari proprio su quei  suoli,  che  ormai
 non sono piu' di proprieta' privata.
   5.  -  In  definitiva,  la  norma  censurata, per le considerazioni
 esposte, appare complessivamente diretta  a  perseguire,  avvalendosi
 dello  strumento espropriativo, "motivi di interesse generale", senza
 mostrare "una palese irragionevolezza nella scelta del mezzo rispetto
 al fine, ovvero una rilevante sproporzione tra l'interesse generale e
 lo strumento prescelto con correlativo  sacrificio  del  proprietario
 dell'immobile  trasferito,  compensato dall'indennizzo espropriativo"
 (sentenza n.  155 del 1995).
   La infondatezza della questione non preclude tuttavia  una  diversa
 valutazione    politica   del   Parlamento,   che   consenta,   nella
 discrezionalita' delle opzioni legislative, di perseguire gli  stessi
 "motivi  di  interesse  generale", ma avvalendosi di altri strumenti,
 parimenti efficaci, differenti da quello espropriativo. Indicativo in
 questo senso potrebbe essere il recente indirizzo legislativo che  si
 e'  espresso  in  particolare,  anche  se  nel quadro delle misure di
 razionalizzazione della finanza  pubblica,  nell'art.  3,  comma  75,
 della  legge  28 dicembre 1995, n.  519, che ha previsto un programma
 di dismissione, da parte dei comuni, delle aree dei piani di edilizia
 economica e popolare  concesse  in  diritto  di  superficie,  nonche'
 nell'art.  3,  comma 63, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, che ha
 eliminato ogni limite, minimo e massimo, relativo alle aree, comprese
 nei piani di zona, che  i  comuni  possono  cedere  in  proprieta'  a
 determinati soggetti.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Dichiara  non  fondata  la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 35 della  legge  22  ottobre  1971,  n.  865  (Programmi  e
 coordinamento   dell'edilizia   residenziale  pubblica;  norme  sulla
 espropriazione per pubblica utilita'; modifiche ed integrazioni  alle
 leggi  17  agosto 1942, n. 1150; 18 aprile 1962, n. 167; 29 settembre
 1964, n. 847; ed autorizzazione di spesa per interventi  straordinari
 nel  settore  dell'edilizia residenziale, agevolata e convenzionata),
 sollevata,  in  riferimento  agli  articoli  97,  42   e   41   della
 Costituzione,  dal  Tar  per  il  Veneto  con l'ordinanza indicata in
 epigrafe.
   Cosi' deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 20 aprile 1998.
                        Il Presidente: Granata
                        Il redattore: Capotosti
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 23 aprile 1998.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
 98C0449