N. 427 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 febbraio 1998
N. 427 Ordinanza emessa il 20 febbraio 1997 (recte: 20 febbraio 1998) dal tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di Gharbi Faical Ben Ali' ed altro Processo penale - Dibattimento - Imputato contumace - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice di utilizzabilita' di tali dichiarazioni nei confronti di altri senza il loro consenso - Lamentata attribuzione ad una delle parti del potere di disporre della prova - Irragionevolezza - Lesione del principio del libero convincimento del giudice e di quello di obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale. (C.P.P. 1988, art. 513, comma 1). (Cost., artt. 3, 101, 111 e 112).(GU n.25 del 24-6-1998 )
IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza in relazione alle eccezioni di incostituzionalita' degli artt. 513 c.p.p. modificato dall'art 1, legge 7 agosto 1997, n. 267, e 6, commi 2 e 5 legge 7 agosto 1997 n. 267, con riferimento agli artt. 3 e 112 Cost., proposte dal p.m. all'udienza del 20 febbraio 1997 Sentite le difese; Osserva Il presente dibattimento si e' aperto il 9 luglio 1997, data in cui si e' tenuta la relazione introduttiva delle parti: lo stesso era percio' in corso al 12 agosto 1997, allorche' e' entrata in vigore la legge 7 agosto 1997, ma a tale data non erano state compiute attivita' processuali che avessero importato la lettura di dichiarazioni rese nella fase precedente al giudizio. All'udienza del 20 febbraio 1997, stante la contumacia del latitante Maklouk e l'irreperibilita' dei soggetti citati ex art. 210, c.p.p., il p.m., che in sede di richiesta delle prove aveva chiesto l'esame del coimputato Maklouk e degli imputati di reato connesso Essabar Karim ed Adam Ben (gia' separatamente giudicati per lo stesso fatto), ha prodotto, per la loro lettura, le dichiarazioni da costoro rese nella fase delle indagini preliminari. Le difese nulla hanno osservato in merito all'acquisizione dei verbali resi dagli imputati di reato connesso, mentre quella del Gharbi ha negato - a sensi dell'art. 513 n. 1 ultima parte c.p.p. - il proprio consenso all'utilizzabilita' anche nei confronti del proprio assistito delle dichiarazioni rese al g.i.p. ed al p.m. dal Maklouk. Il p.m. ha quindi eccepito, richiamando le argomentazioni gia' svolte il 10 novembre 1997, l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p. come novellato dalla legge n. 267/97 ed anche della disciplina transitoria di cui all'art. 6 della detta legge, disciplina la cui inapplicabilita' nel presente caso deriverebbe da un'intrinseca irrazionalita' della norma stessa, tale da importare lesione del principio di uguaglianza. Il p.m. pare aver mosso tali rilievi, ritenendo l'utilizzalibilita' "condizionata" di cui all'art. 513 c.p.p. riferibile sia alle dichiarazioni a carico dell'imputato Gharbi promananti dal coimputato Maklouk contumace, sia a quelle degli imputati di reato connesso Essabar Karim ed Adam Ben, non presentatisi in quanto irreperibili. Va detto sul punto che in relazione all'acquisizione dei verbali resi da tali ultimi due soggetti la norma non trova applicazione sotto quel profilo, si' che le eccezioni proposte sono entrambe irrilevanti. Cio', non tanto perche' la difesa non si e' opposta all'integrale utilizzo dei verbali sottoscritti dagli imputati di reato connesso, ma perche' Essabar Karim e Adam Ben risultano divenuti imprevedibilmente irreperibili. I documenti in questione devono percio' ritenersi acquisiti ex art. 512 c.p.p. e quindi senza che sussista alcuna facolta' di veto delle parti in ordine alla loro piena utilizzabilita'. Vero che lo stesso art 513, n. 2, c.p.p. nella parte in cui opera il rinvio all'art. 512 c.p.p. ora precisa che "l'impossibilita'" di ottenere la presenza del dichiarante o di procedere comunque in contraddittorio al suo esame - deve dipendere "da fatti o circostanze imprevedibili al momento delle dichiarazioni". Non bisogna pero' incorrere nell'errore di ritenere che debba considerarsi sempre prevedibile che i soggetti di cui all'art. 210 c.p.p., per il fatto di essere usciti dalla scena processuale e di essere quindi scarsamente stimolati da eventuali benefici ancora sub iudice, si rendano addirittura irreperibili: una tale interpretazione imporrebbe al p.m., posto che tale ipotesi e' sempre in astratto plausibile, di porre sempre preventivo riparo (mediante incidente probatorio) e restringerebbe la possibilita' di fare ricorso all'art. 512 c.p.p. a soli casi eccezionali, quali la morte, l'evasione, l'impedimento psichico (o quello fisico all'eloquio) del dichiarante. Secondo nozioni pacifiche - che vengono ad esempio in considerazione quando si prende in esame il reato colposo - la prevedibilita' di un evento si fonda sulla probabilita' concreta del suo verificarsi, non sulla sola astratta possibilita' che esso si produca, ed e' alla prevedibilita' che la legge fa riferimento. Nel caso di specie, il Collegio reputa che l'impossibilita' di procedere a nuovo esame dell'Adam Ben e dell'Essabar Karim non sia derivata da fatti o circostanze prevedibili al momento delle dichiarazioni: che gli stessi potessero rendersi irreperibili era da ritenersi possibile, certo; non si hanno, pero', elementi concreti per ritenere che cio' fosse probabile (infatti i soggetti in questione, per quanto stranieri, risultavano abitare stabilmente a Torino ove avevano eletto domicilio). Il limite alla piena utilizzabilita' delle dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari ora previsto dall'art. 513, n. 1, c.p.p. viene dunque in gioco per i soli verbali resi dal coimputato Maklouk. Ricordiamo che la norma, nella nuova formulazione di cui alla legge n. 267/97, mira ad ottenere la reiterazione in dibattimento delle dichiarazioni a carico di coimputati rese nella fase delle indagini preliminari: ove cio' non sia possibile (per la contumacia del soggetto o perche' questi non si sottopone all'esame, ovvero, se sia stata separata la sua posizione ed egli abbia acquisito lo status di imputato di reato connesso, nel caso tale persona si avvalga della facolta' di non rispondere), prevede che l'utilizzabilita' delle dichiarazioni conseguentemente acquisite sia condizionata all'accordo di tutte le parti, se le dichiarazioni provengono da una delle persone indicate nell'art. 210, c.p.p. e al consenso dell'imputato se provengono da coimputato. Con l'introduzione del nuovo testo dell'art. 513 c.p.p., il legislatore ha altresi' dettato, all'art. 6, legge cit., una disciplina transitoria, che consente (o meglio consentiva, dato che e' ormai perento il termine di due mesi previsto) di ricorrere all'incidente probatorio anche dopo l'esercizio dell'azione penale e che stabilisce una deroga al principio del tempus regit actum per i dibattimenti, che, gia' iniziati alla data di entrata in vigore della legge, avessero prima di tale data visto l'acquisizione di dichiarazioni delle persone di cui all'art. 513 c.p.p. Per le dichiarazioni gia' legittimamente acquisite, la cui utilizzabilita' all'atto della successiva decisione sarebbe stata esclusa dall'intervento della nuova disciplina, si e' infatti delineato un meccanismo di parziale salvataggio: una nuova citazione dei soggetti che abbiano reso tali dichiarazioni, a seguito della quale resti immutata la situazione, da' luogo alla deroga alla nuova regola, consentendo ancora un utilizzo, sia pure con alcuni limiti, dei verbali gia' acquisiti. La disciplina introdotta con la legge n. 267/97 ad avviso del p.m. dovrebbe essere censurata in sede costituzionale: In primo luogo, perche' l'art. 6 della legge, subordinando il regime intermedio di valutazione probatoria di cui al comma 5 al requisito della avvenuta lettura - condizione che la fa ritenere inapplicabile nel presente procedimento - sarebbe formulato in violazione dell'art. 3 della Costituzione: l'applicabilita' o meno della norma transitoria a procedimenti in corso al momento dell'entrata in vigore della legge deriverebbe, ad avviso del p.m., da un presupposto "assolutamente casuale". In secondo luogo, perche', comunque, l'art. 513 c.p.p. nel nuovo testo si porrebbe in contrasto con lo scopo del processo penale: essendo lo stesso, come piu' volte sottolineato dalla Corte costituzionale, finalizzato all'accertamento della verita', accertamento della verita' che implica la non dispersione dei mezzi di prova, la concessione alla difesa della facolta' di inibire l'utilizzo di un mezzo di prova porterebbe alla violazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale e sarebbe di ostacolo alla punizione dei colpevoli. Il collegio non ritiene rilevanti le eccezioni proposte dal p.m. in ordine alla disciplina transitoria. Si deve osservare che quand'anche si ritenesse non manifestamente infondata la censura mossa dal p.m. alla norma transitoria, reputando che sussista irragionevole disparita' di trattamento tra i dibattimenti in corso che gia' abbiano registrato, al momento della nuova disciplina, lettura di dichiarazioni acquisite ex art. 513 c.p.p. e dibattimenti che, parimenti gia' in corso, non abbiano visto - come in questo caso - il verificarsi di tale condizione, la questione non sarebbe rilevante. Siamo infatti qui in presenza di situazione che deriva dalla contumacia del soggetto che ha precedentemente reso dichiarazioni accusatorie nei confronti del coimputato: anche ove una decisione della Corte sul punto permettesse di superare il dato che delle dichiarazioni rese al p.m. non e' stata data lettura prima dell'entrata in vigore della legge, la norma transitoria non troverebbe applicazione. Infatti, ancorche' l'art. 6 legge cit. esordisca - al comma 2 - con il riferimento a tutte le "persone indicate nell'art. 513 c.p.p.", esso prosegue - al comma 5 - stabilendo che si provveda, ad istanza di parte, ad una nuova citazione delle predette persone e che "ove le stesse si siano ulteriormente avvalse della facolta' di non rispondere ovvero non si siano presentate, nonostante il ricorso alle misure di cui al comma 2, primo periodo dell'art. 513 del codice di procedura penale, come sostituito...", le dichiarazioni acquisite possano essere valutate come prova, ma secondo nuovi parametri di valutazione. Posto che si parla di nuova citazione e che tra le misure cui si deve fare ricorso per ottenere la presenza del soggetto in questione vi e' quella dell'accompagnamento, misura non adottabile nei confronti dell'imputato - la cui presenza non puo' essere ottenuta coattivamente se non per l'unica e diversa ipotesi del confronto - e' chiaro che la norma riguarda, in realta', le sole dichiarazioni dei soggetti di cui all'art. 210 c.p.p. Infatti, anche ove si voglia interpretare la dizione "citazione" in senso ampio (il che pare arduo), facendone cioe' discendere un rinnovo della citazione a giudizio nei confronti di chi non si sia presentato o di chi presentatosi si sia allontanato dopo aver rifiutato di reiterare precedenti dichiarazioni, al persistere della contumacia o del lecito atteggiamento processuale dell'imputato da ritenersi gia' presente, non potrebbe opporsi, senza ledere il diritto di difesa, nessuna attivita' di coazione. Al piu' si potrebbe ritenere che la norma riguardi anche il coimputato, laddove si interpreti la dizione "disposta la citazione" anche in senso atecnico, sostanziandola cioe' in una richiesta, rivolta al coimputato presente che si sia sottratto all'esame, per accertare se intenda persistere nella sua scelta processuale (ed in tal caso utilizzandone le dichiarazioni gia' acquisite ex art. 513 c.p.p. nei limiti di cui al comma 5). Ma le dichiarazioni acquisite al presente procedimento ex art. 513 c.p.p. senza assenso del difensore dell'imputato Gharbi alla loro piena utilizzabilita' promanano, come sopra detto, da coimputato contumace, si' che, da quanto sopra osservato, deriva l'irrilevanza nel caso qui in esame della questione proposta dal p.m. in ordine alla disciplina dettata dall'art. 6, legge 7 agosto 1997, n. 647. Diciamo, per completezza, che la difesa ha osservato che il p.m. avrebbe potuto, per il presente processo, fare ricorso, nel termine, al comma 1, dell'art. 6, legge cit. Sul punto sono da condividere gli argomenti del p.m. Se il consentire di ricorrere anche dopo la richiesta di rinvio a giudizio all'incidente probatorio poteva rispondere all'esigenza di permettere di prevenire, ove lo si ritenesse probabile, il verificarsi di una situazione in cui le dichiarazioni a carico di un imputato non fossero piu' reiterate in contraddittorio, prevedere, per il caso che in un dibattimento in corso alla data di entrata in vigore della nuova normativa non sia gia' stata data lettura di dichiarazioni acquisite ex art. 513 c.p.p., la possibilita' di instaurare un incidente probatorio anche durante la fase del giudizio, non avrebbe avuto senso alcuno, posto che funzione dell'incidente probatorio e' anticipare la formazione di un contraddittorio che, una volta iniziata la fase del giudizio, gia' sussiste nella sua pienezza. Diversa l'opinione del tribunale in ordine ai rilievi mossi all'art. 513 ,n. 1, c.p.p. La questione e' rilevante per la decisione: il coimputato Maklouk ha infatti reso avanti il g.i.p. ed il p.m. interrogatori in cui ha anche fornito elementi a carico del Gharbi. Per via dell'atteggiamento processuale legittimamente assunto dalla difesa del Gharbi, di tali elementi pero', in assenza di una pronuncia della Corte che dichiari incostituzionale il diritto di veto che l'art. 513 c.p.p., conferisce alla parte che vede contro di se' prodotte dichiarazioni promananti da coimputati, il collegio non potra' tenere conto all'atto della decisione. Si tratta ora di vedere se la nuova regola che disciplina la fase di acquisizione della prova, che si muove in una ottica di accentuazione del processo accusatorio come processo di parti, urti o meno contro parametri costituzionali. Un'indicazione per procedere a tale valutazione puo' e deve essere tratta dalle pronunce della Corte costituzionale. La stessa ha gia' individuato nella Costituzione limiti al processo accusatorio, ove i nuovi istituti o le nuove regole, rendendolo conforme al solo modello astratto di processo di parti, si prestino a storture, si' da ledere l'effettivo svolgimento della funzione giurisdizionale. Si deve tenere presente che la Corte ha considerato irragionevoli il divieto di testimonianza de relato della p.g., l'omessa previsione della possibilita' di acquisire dichiarazioni di imputati in procedimento connesso, quando essi si fossero avvalsi della facolta' di non rispondere, l'utilizzo solo a fini della valutazione di attendibilita' delle dichiarazioni contestate ai testimoni; che ha riconosciuto l'acquisibilita' ex art. 512 c.p.p. delle dichiarazioni di congiunti che si siano avvalsi della facolta' di astenersi dal deporre e di quelle del teste affetto da amnesia dovuta ad infermita'; che ha dettato regole interpretative sull'art. 507, considerato legittimo solo ove l'impulso giudiziale all'acquisizione probatoria possa sostituirsi pienamente all'inerzia delle parti. Tali decisioni sono basate su affermazioni, in ordine alla indefettibilita' della giurisdizione, alla funzione del processo penale ed al ruolo di ricerca di una verita' non meramente formale assegnato costituzionalmente al medesimo, che giova ricordare. La Corte con la sent. n. 88/91 ha ricordato come i principi di legalita' ed uguaglianza si possano realizzare solo grazie all'indipendenza del p.m. garantita dall'obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale, principio che il nuovo processo non puo' pertanto intaccare. A tutela dell'effettivita' dell'azione penale, della sua completezza e della sua imparzialita' il dovere del p.m., soggetto, come il giudice solo alla legge, di estendere le proprie indagini a tutto cio' che puo' formare oggetto di prova. La Corte ha rammentato come, di conseguenza, il nuovo ordinamento processuale abbia previsto istituti a rimedio dell'inerzia del p.m. stesso, quali i poteri di controllo del g.i.p., quelli della parte lesa a fronte di richiesta di archiviazione, il potere di avocazione del p.g. e come essa stessa abbia, con le sent. 409 e 445 del 1990, reso concreto il potere di impulso del g.i.p. La Corte, ha altresi' precisato, con la sent. n. 255 del 1992, che dei mezzi di prova raccolti occorre evitare la successiva dispersione, perche' cio' porterebbe a frustrare lo scopo stesso del processo penale. Sul fine del processo, la Corte, con la sent. n. 111 del 1993 - sull'interpretazione da dare all'art. 507 c.p.p. per poterne ritenere la portata conforme al dettato costituzionale - ha ribadito quanto gia' precisato nelle sentenza n. 255 del 1992 e 258 del 1991, cioe' che "fine primario ed ineludibile del processo penale non puo' che rimanere quello della ricerca della verita'" e dettato alcuni principi di particolare rilievo per la presente decisione. Ha sottolineato come, attesa la natura non meramente formale della verita' cui si deve tendere, la scelta del contraddittorio dibattimentale quale opzione migliore rispetto al fine assegnato costituzionalmente al processo non implichi che l'oralita' debba essere veicolo esclusivo di formazione della prova e ricordato i numerosi casi di acquisizione al dibattimento di prove gia' costituitesi aliunde, la cui previsione e' fondata proprio sul ricordato principio "della non dispersione". L'acquisizione dei mezzi di prova tende a consentire l'accertamento di una verita' conforme alla realta' dei fatti, non la formazione di una verita' "processuale" rimessa al solo impulso delle parti e della quale le stesse dunque potrebbero disporre: "sarebbe contrario ai principi costituzionali di legalita' ed obbligatorieta' dell'azione concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale". La Corte, ricordando che il nuovo codice non prevede alcun caso in cui sia riconosciuto alle parti il potere di vincolare il giudice, ha sottolineato come riconoscere alle parti un principio dispositivo sul piano probatorio significherebbe "rendere disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda". Sarebbe incompatibile con i principi di uguaglianza, legalita' ed obbligatorieta' dell'azione penale un processo "ridotto a tecnica di risoluzione delle controversie nel cui ambito al giudice sarebbe riservato essenzialmente un ruolo di garante dell'osservanza delle regole di una contesa tra parti contrapposte ed il giudizio avrebbe la funzione non di accertare i fatti reali onde pervenire ad una decisione il piu' possibile corrispondente al risultato voluto dal diritto sostanziale, ma di attingere - nel presupposto di una accentuata autonomia finalistica del processo - quella sola 'verita'' processuale che sia possibile conseguire attraverso la logica dialettica del contraddittorio e nel rispetto di rigorose regole metodologiche e processuali coerenti al modello". E' ad evitare che l'inerzia delle parti porti alla dispersione delle prove e che la stessa si traduca di conseguenza in atto di disposizione della res iudicanda, che deve secondo la Corte essere esercitato dal giudice il potere di cui all'art. 507 c.p.p., potere che, pur suppletivo, non e' dunque eccezionale, posto che si tratta di impedire che il dibattimento non assolva "la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione" di evitare cioe' assoluzioni o condanne immeritate. Dunque, il legislatore non puo' introdurre regole che consentano ad una delle parti di disporre della prova e di conseguenza del processo. Cio' e' avvenuto con la legge n. 267/97: l'art. 513 c.p.p., nel nuovo testo, conferisce ad uno dei soggetti processuali, in sostanza la difesa, la facolta' di inibire, per il solo fatto che - per una lecita scelta difensiva (nel caso di specie, di restare contumace) - non risulta piu' possibile svolgere rispetto ad essi il contraddittorio, l'acquisizione al dibattimento di elementi di prova legittimamente e doverosamente raccolti dalla controparte. Causa una scelta discrezionale immotivata ed insindacabile, e per la sua natura di scelta personale non prevedibile, quale quella dell'imputato di rendersi contumace o di sottrarsi all'esame, se presente, le dichiarazioni precedentemente rese divengono irripetibili. Di fronte ad altri atti divenuti imprevedibilmente irripetibili il legislatore aveva previsto meccanismi di recupero che ne consentissero tuttavia l'acquisizione e l'utilizzabilita' per la decisione: ora, invece, rimasta inalterata per l'imputato che con le sue dichiarazioni abbia accusato il coimputato la facolta' di sottrarsi all'esame, l'aver subordinato al consenso di parte, in particolare del soggetto a carico del quale sono state raccolti in precedenza elementi, l'acquisizione dei mezzi di prova divenuti cosi' irripetibili, permette l'apposizione di un blocco al meccanismo di formazione della prova previsto suppletivamente laddove non sia possibile ricorrere all'oralita'. Posto quanto messo in luce dalla Corte sulla funzione del p.m. e sullo scopo del processo, c'e' da dubitare della legittimita' di una regola processuale che si traduce in una preclusione al razionale esercizio dell'azione penale e che si risolve nell'inibizione al giudice di utilizzare atti che possono portarlo ad una piu' completa conoscenza del fatto, al fine di pervenire ad una giusta decisione. La disciplina in esame contrasta con il principio di razionalita' nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale (artt. 3 e 112 della costituzione). L'esercizio dell'azione penale non e' facoltativo, bensi', a tutela dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, obbligatorio per l'inquirente. I verbali - documenti che godono di particolari garanzie di rispondenza al vero del loro contenuto - di dichiarazioni rese nella fase delle indagini danno conto di atti compiuti da un organo giudiziario, pubblico ed indipendente, il p.m., la cui attivazione e' prevista obbligatoriamente solo in funzione dell'applicazione della legge. L'utilizzo da parte del p.m. delle risultanze ottenute, al fine di indirizzare le indagini e' percio' altrettanto obbligatorio: egli non puo' trascurare di valutare il materiale che gli e' cosi' pervenuto o rifiutarsi di raccogliere eventuali elementi a favore dell'indagato. E' dunque irrazionale imporre all'organo dell'accusa di raccogliere i mezzi di prova, di prendere le conseguenti iniziative (quali la richiesta di misura restrittive, o la richiesta di revoca di quelle in precedenza ottenute), prevedere rimedi alla sua inerzia istruttoria e dibattimentale con l'intervento di impulso del g.i.p. e quello suppletivo del giudice, da un lato, stabilire, pero', dall'altro, che se gli atti compiuti divengono irripetibili per la libera scelta di uno dei soggetti che ha contribuito alla loro formazione, la controparte processuale a carico della quale tali elementi l'accusa ha raccolto, possa, con una decisione ovviamente presa in un'ottica di privato interesse in collisione con il fine del processo penale, disporre della loro utilizzabilita'. Si pone un ostacolo, rimesso all'arbitrio o comunque all'interesse esclusivo ed egoistico di una parte, alla formazione della prova, che non viene consentito opporre in altre situazioni: tale ostacolo non sussiste per l'acquisizione di dichiarazioni di imputati di reato connesso divenuti irreperibili, per il caso di decesso, di infermita' che abbia portato ad amnesia, per il caso di soggetto che si avvalga della facolta' di non rispondere su singoli punti (per il che e' consentita la contestazione ed utilizzazione delle dichiarazioni predibattimentali). Si tratta, si badi, di situazioni identiche a quella che si produce nel silenzio dibattimentale dell'imputato che abbia reso precedentemente dichiarazioni a carico del coimputato, posto che, anche se la causa della situazione e' in alcuni dei casi sopracitati naturale, in altri giuridica e nel nostro solo giuridica (il riconoscimento del diritto a restare contumace o della facolta' di sottrarsi all'esame), l'effetto sulla parte interessata e' sempre lo stesso, quello di inibirle il contraddittorio. Vi e' dunque, in violazione dell'art. 3 della Costistuzione, una irragionevole disparita' di trattamento tra situazioni processuali influenti sulla formazione della prova che sono identiche, cui consegue la possibile vanificazione della finalita' del processo, che e' quella di ricostruire la verita' dei fatti, onde accertarne le responsabilita' e di perseguirne i colpevoli. Infatti, se all'imputato, che non puo' interdire l'assunzione di elementi di prova a suo carico promananti da coimputati, elementi che il p.m. ha l'obbligo di raccogliere e su cui possono essersi fondate ulteriori doverose e legittime attivita' dell'accusa, si consente, ove non possa farsi ricorso all'oralita' - che s'e' gia' detto essere opzione preferenziale, ma non unica del legislatore -, di interdire l'utilizzo di tali elementi in sede dibattimentale, si permette allo stesso di sottrarre al giudice elementi per l'accertamento della eventuale responsabilita' dell'imputato medesimo. Ad avviso del tribunale, il meccanismo previsto dalla norma in questione collide infine anche con gli artt. 101 e 111 della Costituzione. Il potere concesso alle parti con l'art. 513, n. 1, c.p.p. sulla formazione della prova e' cosi' ampio, essendo preclusa ogni sindacabilita' sul suo esercizio, che si concreta in un impedimento, possibile grazie all'introduzione di quello che e' un vero e proprio principio di disposizione della prova e dell'oggetto stesso del processo, al regolare svolgimento della giurisdizione. Risultano violate le regole secondo le quali il giudice e' soggetto solo alla legge e deve pervenire a decisione in base ad un razionale e motivato convincimento: infatti, se l'ultima parola sull'utilizzabilita' di una prova viene demandata al potere discrezionale di una parte, la decisione del giudice viene coartata, non nasce piu' da un libero convincimento sorto dalla valutazione di tutti i mezzi di prova raccolti. Ne' si puo' invocare a giustificazione il diritto di difesa: la Corte ha sempre affermato che lo stesso, per quanto inviolabile, non puo' non trovare bilanciamento rispetto ai principi costituzionali dettati a tutela della funzione pubblica giurisdizionale ed a garanzia del corretto perseguimento dei suoi compiti (proprio in un'ottica di bilanciamento tra esercizio dell'azione penale e della funzione giurisdizionale e diritto di difesa, si era mossa la Corte con la sent. n. 254 del 1994, introduttiva della disciplina dell'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali dell'imputato di reato connesso che si fosse avvalso della facolta' di non rispondere: si sottolineava che l'imputato doveva necessariamente vedere limitato il suo diritto al contraddittorio dall'esercizio di tale facolta' e l'attivazione di un procedimento alternativo di formazione della prova).
P.Q.M. Letto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara non rilevanti le questioni di illegittimita' costituzionale degli artt. 513, n. 2, c.p.p. e 6, legge 267/1997; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale delI'art. 513, n. 1 c.p.p., in relazione agli artt. 3, 112, 101 e 111 della Costituzione; Sospende il dibattimento; Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, mandando alla Cancelleria per la notificazione della presente ordinanza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e per la comunicazione ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Torino, addi' 20 febbraio 1997 Il presidente: Bernardi L'estensore: Pennello 98C0671