N. 629 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 maggio 1997- 6 agosto 1998

                                N. 629
  Ordinanza  emessa  il  28  maggio   1997   (pervenuta   alla   Corte
 costituzionale il 6 agosto 1998) dal pretore di Roma nel procedimento
 civile vertente tra s.r.l.  Piper 3 e s.a.s. Barsigno
 Processo civile - Interruzione del processo - Fallimento di una delle
    parti costituite - Interruzione subordinata alla dichiarazione del
    procuratore  della  parte - Lesione del principio di eguaglianza -
    Violazione del diritto di difesa.
 (C.P.C., art. 300).
 (Cost., artt. 3 e 24, secondo comma).
(GU n.37 del 16-9-1998 )
                              IL PRETORE
   Letti  gli  atti  di  causa,  sciogliendo  la  riserva che precede,
 rilevato:
     che nel giudizio n. r.g.  21679/94  la  parte  opposta  e'  stata
 dichiarata  fallita  dal tribunale di Roma con  sentenza n. 59402 del
 28 novembre 1996 (v. documentazione presentata dall'opponente);
     che, all'udienza del  28  maggio  1997,  la  parte  opponente  ha
 chiesto dichiararsi interrotto il processo;
     che,  alla  stessa  udienza,  nessuno  e'  comparso  per la parte
 opponente;
                             O s s e r v a
   L'art. 300 c.p.c., subordina  la  interruzione  del  processo  alla
 dichiarazione resa in giudizio dal procuratore costituito della parte
 in  relazione alla quale si e' verificato l'evento della morte ovvero
 di perdita della capacita'.
   La giurisprudenza della Cassazione  ha  ripetutamente  sottolineato
 l'impossibilita'  per  il  giudice di prescindere dalla dichiarazione
 dell'evento da  parte  del  procuratore  costituito.  Il  verificarsi
 dell'evento  puo',  dunque,  assumere  rilevanza,  secondo l'opinione
 maggioritaria, unicamente se dichiarato in giudizio  dal  procuratore
 costituito, ovvero se notificato da questi alle altre parti.
   La  dichiarazione  non  puo'  essere sostituita da alcun altro atto
 equipollente: non assume rilievo, pertanto, ne' la notizia  acquisita
 ex  officio, ne' la dichiarazione dei procuratori costituiti di altre
 parti diverse da  quella  a  carico  della  quale  si  e'  verificato
 l'evento.
   Nonostante  i  dubbi di parte della dottrina, la soluzione e' stata
 confermata  anche  nel   caso   in   cui   l'evento   che   determina
 l'interruzione  sia costituito dal fallimento della parte processuale
 (Giurisprudenza costante: Cass. 30 maggio 1969,  n.  1943;  Cass.  21
 febbraio  1970,  n.  411;  Cass.  9  febbraio  1987, n. 1374; Cass. 9
 febbraio 1993, n.  1588).
   Nel motivare tale interpretazione, la S.C. esalta le differenze che
 corrono tra la disciplina apprestata  dalla  legge  per  il  caso  di
 eventi  che  colpiscono  il procuratore costituito (morte, radiazione
 dall'albo: art. 301 c.p.c.), rispetto a quella che regola il caso  in
 cui  la  morte  o la perdita di capacita' si verifichi a carico della
 sola parte rappresentata in giudizio.
   Si e' osservato, in particolare, che, nel primo caso,  l'evento  ha
 una   immediata   efficacia   interruttiva;   nel   secondo,  invece,
 l'interruzione e' necessariamente subordinata alla dichiarazione resa
 in  giudizio  da  parte  del  procuratore  costituito  (ovvero   alla
 equivalente  attivita'  di  notificazione  dell'evento alla parte non
 colpita: ultima parte comma 1, art. 300 c.p.c.).
   Muovendo  dalla  premessa  secondo  la  quale  l'interruzione   del
 processo  e'  espressione di una forma di tutela dell'interesse della
 parte che ha subito (direttamente o mediatamente) l'evento  negativo,
 la  giurisprudenza  ha  spiegato la articolazione della disciplina in
 ragione del diverso  grado  di  incidenza  del  fenomeno  esterno  al
 processo sull'equilibrio del contraddittorio.
   L'incidenza sul giudizio sarebbe piu' diretta ed immediata nel caso
 in  cui  l'evento  abbia colpito il procuratore costituito rispetto a
 quella che, invece, si avrebbe nel caso in cui l'evento  interruttivo
 colpisca la parte. In questo caso - si sostiene - gli interessi della
 parte  continuano ad essere curati dal procuratore costituito, che la
 rappresenta in giudizio. Dunque, nessuna  lesione  concreta  potrebbe
 aversi   per   l'interesse   della  parte  sostanziale.  La  dottrina
 maggioritaria, dal canto  suo,  anch'essa  ferma  nella  tradizionale
 ricostruzione  del  dato  normativo, ha - invano - tentato di fornire
 spiegazioni dogmatiche dell'assetto della disciplina.
   Le varie opinioni che si registrano a tale riguardo sono largamente
 insoddisfacenti. Cosi', ad  esempio,  si  deve  escludere  che  possa
 spiegarsi  il  fenomeno  della prosecuzione del processo ad opera del
 difensore, nonostante la morte o sopravvenuta incapacita' della parte
 o del suo legale rappresentante,  attribuendo  tale  effetto  ad  una
 pretesa  ultrattivita' del mandato difensivo, ovvero ad un suo tacito
 rinnovo da parte di coloro cui spetti proseguire il giudizio.
   Tali spiegazioni, per quanto di autorevole fonte, non costituiscono
 che mere  rappresentazioni  suggestive,  ma  non  sono  in  grado  di
 giustificare - tra l'altro - la anomalia di un mandato che, contro la
 regola generale, sopravvive alla morte del mandante.
   Piu'  realisticamente,  occorre  prendere  atto  che  la disciplina
 apprestata dal  codice  e'  oggettivamente  orientata  nel  senso  di
 apprestare  una  idonea  tutela  della  posizione  della parte che ha
 subito l'evento interruttivo: di quella parte, cioe', che, per essere
 stata colpita da uno degli eventi indicati dalla legge, riceverebbe -
 in conseguenza di tali  eventi  -  una  grave  menomazione  sotto  il
 profilo della effettvita' del contraddittorio di cui e' protagonista.
   Nell'intento  di  garantire,  da  un lato, la tutela dell'interesse
 della parte colpita dall'evento, e,  dall'altro,  di  raggiungere  il
 difficile   equilibrio   tra   la   non   automaticita'  dell'effetto
 interruttivo  (per  evitare  censure  non  volute   nella   attivita'
 processuale)  e la concreta possibilita' di determinare una effettiva
 interruzione del corso  della  causa,  il  legislatore  ha  preferito
 affidarsi alla figura del difensore, quale unico soggetto che (quando
 non   colpito   direttamente   da  un  evento  idoneo  a  determinare
 l'interruzione del processo)  e'  apparso  idoneo  ad  assumere  ogni
 opportuna iniziativa, tanto nel senso di favorire la prosecuzione del
 giudizio   (attraverso   la   costituzione   dei   soggetti   a  cio'
 legittimati), tanto  nel  senso  di  provocare  la  interruzione  del
 processo.
   Tale ricca ed articolata disciplina e' pero' stata costruita avendo
 riguardo  unicamente  all'interesse  della parte colpita dall'evento,
 senza tener conto che, in alcune situazioni, si determina il completo
 sacrificio degli interessi obiettivi del processo o,  quantomeno,  di
 quelli della parte che non ha subito l'evento.
   In  effetti, alla stregua della disciplina apprestata dal codice di
 rito; e' pienamente giustificata la affermazione, largamente  diffusa
 e  condivisa, secondo la quale la legge non attribuirebbe rilevanza e
 non considererebbe degno di protezione l'interesse  della  parte  non
 colpita dall'evento interruttivo.
   V'e'  anche da rilevare, tuttavia, che tale posizione di favore nei
 confronti della parte opposta, ha spesso determinato la  adozione  di
 regole  che  recavano seco, in una con la tutela della parte colpita,
 un illegittimo  sacrificio,  sotto  il  profilo  costituzionale,  dei
 diritti   di  difesa  della  sua  controparte:  tanto  che,  in  piu'
 occasioni, la Corte costituzionale ha dovuto darsi carico di emendare
 la  disciplina  della  interruzione  del  processo  in   alcune   sue
 importanti articolazioni.
   Per  quanto  rileva ai fini delle decisioni da assumere nella causa
 che ha dato origine alle  presenti  considerazioni,  la  domanda  che
 occorre  porre e', allora, se la posizione di completa subordinazione
 di una parte alla iniziativa  e  alla  valutazione  (non  solo  della
 controparte,  ma,  addirittura) del procuratore costituito dell'altra
 rientri nel margine di discrezionalita' del  legislatore,  ovvero  se
 rimettendo   in   via  esclusiva  al  monopolio  del  procuratore  un
 iniziativa processuale capace di determinare la cesura del  giudizio,
 non  vengano  lesi  i diritti di difesa della parte che non ha subito
 l'evento virtualmente interruttivo.
   Per verificare tale  eventualita'  occorre  compiere  una  indagine
 sulla natura degli interessi giuridicamente rilevanti della parte che
 non  ha  subito  l'evento,  per valutare, poi, se la lesione di detti
 interessi sia tale da non escludere la lesione del diritto di  difesa
 costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.).
   Orbene, se si tipizzano gli interessi della parte che non ha subito
 l'evento  astrattamente  doneo  a  determinare  la  interruzione  del
 processo, si deve rilevare che tale parte e'  normalmente  portatrice
 di  un  interesse degno di tutela alla definizione della controversia
 con il reale titolare dell'interesse in contestazione.
   Tale interesse  non  subisce  effettive  limitazioni,  alterazioni,
 compressioni  o nocumento quando l'evento interruttivo e' costituito,
 ad esempio dalla morte della parte, atteso che il  processo  prosegue
 comunque   efficacemente   nei   confronti  delle  parti  originarie,
 spiegando, poi, i propri effetti rispetto agli eventuali successori.
   La situazione muta radicalmente nel  caso  del  fallimento  di  una
 delle  parti  processuali:  in  tale  ipotesi,  infatti,  secondo  la
 dottrina piu' accreditata si  determinerebbe  una  menomazione  della
 capacita'  del  soggetto  colpito e, ad un tempo, l'inefficacia della
 sentenza  nei  confronti  del   fallimento.   Pertanto,   quando   il
 procuratore  costituito non abbia ritenuto di dichiarare la esistenza
 di un evento idoneo a cagionare l'interruzione del processo ovvero  -
 come   nel   caso   del  giudizio  che  ha  dato  luogo  al  presente
 provvedimento - non sia stato presente all'udienza, si determina  una
 situazione di grave menomazione per la parte non colpita dall'evento:
 questa,  infatti,  come  si riconosce dai piu', non potrebbe giovarsi
 della sentenza se non nell'ipotesi del ritorno del fallito in bonis.
   Proprio per tale situazione, alcune  isolate  voci  della  dottrina
 hanno  sostenuto  la  necessita' che il fallimento dovrebbe ritenersi
 causa di interruzione ipso jure, a  prescindere  dalla  dichiarazione
 dell'evento fatta dal procuratore costituito in udienza.
   La  giurisprudenza,  tuttavia,  come  accennato  in  precedenza, ha
 ritenuto che  il  dato  testuale  non  consentisse  di  escludere  il
 fallimento  dall'  ambito di applicazione dell'art. 300 c.p.c.. e non
 consentisse,  quindi,  di   prescindere   dalla   dichiarazione   del
 procuratore   costituito   per   la  integrazione  della  fattispecie
 interruttiva.
   Portando ad effetto tale interpretazione si dovrebbe  ritenere  che
 il  procuratore  costituito;  anche  in caso di fallimento di uno dei
 soggetti processuali, potrebbe, da un lato, impedire la  interruzione
 del  processo  (non  dichiarando  l'evento interruttivo); dall'altro,
 costringere le altre  parti  processuali  a  proseguire  un  giudizio
 destinato  a  sfociare  in  una  sentenza  che,  anche  qualora fosse
 favorevole alle parti non colpite dall'evento,  non  gioverebbe  alle
 stesse, perche' inopponibile al fallimento in corso; e rivelerebbe la
 sua  pratica  utilita'  unicamente  nel caso, del tutto eventuale, di
 ritorno in bonis del fallito.
   In sostanza, nel caso di fallimento, la applicazione della norma di
 favore per la parte colpita dall'evento porterebbe  ad  una  completa
 subordinazione   dell'interesse   della   controparte   non   colpita
 all'iniziativa del procuratore costituito,  unico  effettivo  arbitro
 delle sorti del processo.
   Certo,  puo'  anche  osservarsi  che  il  curatore  potrebbe sempre
 intervenire nel processo e renderne parte  il  fallimento.  Ma,  tale
 accadimento costituisce pur sempre una mera eventualita', subordinata
 all'apprezzamento  di  convenienza  del  curatore,  che  ben potrebbe
 scegliere, nell'interesse obiettivo dell'ufficio che ricopre, di  non
 coltivare  le  azioni  di cui era protagonista il fallito, tanto piu'
 che gli esiti sarebbero comunque inopponibili al fallimento stesso.
   Ancora,  non  puo'  essere  sufficiente  ad  attenuare   la   grave
 situazione  in  cui  versa  la  parte  non  colpita  dall'evento,  la
 possibilita' (che qualche autore si spinge a consigliare) di ottenere
 comunque  (per  esempio,  attraverso  la   articolazione   di   mezzi
 istruttori,  quali  l'interrogatorio  formale)  la  dichiarazione  in
 giudizio dell'evento come alternativa ad un esito  sfavorevole  della
 prova  stessa (ad es., per mancata risposta all'interrogatorio). V'e'
 infatti da rilevare che la  strategia  processuale  che  la  dottrina
 indica  costituirebbe  pur sempre frutto di una indebita costrizione:
 una via indiretta (peraltro, non sempre tecnicamente praticabile) che
 eluderebbe nella pratica un  inconveniente  della  cui  legittimita',
 appunto, si puo' dubitare.
   La gravita' di tali conseguenze e' tale da indurre a prospettare il
 dubbio   circa   la   legittimita'  costituzionale  della  disciplina
 dell'interruzione del  processo  nella  parte  in  cui,  in  caso  di
 fallimento di una parte processuale, subordina la interruzione stessa
 alla    dichiarazione    del   procuratore   costituito,   escludendo
 l'iniziativa sostitutiva della parte avversa o del giudice.
   In  tale  articolazione,   tenuto   conto   della   interpretazione
 assolutamente prevalente, la disciplina che la legge detta non appare
 conforme  all'art. 24 e all'art. 3 della Costituzione. Essa, infatti,
 determina la paralizzazione della attivita' processuale  della  parte
 non colpita dall'evento alla insindacabile iniziativa del procuratore
 dell'altra,  senza,  nel  contempo, garantire la insensibilita' per i
 suoi interessi processuali rispetto a tale scelta.
   Pertanto, appare  non  manifestamente  infondata  la  questione  di
 costituzionalita'  dell'art. 300 c.p.c., nella parte in cui subordina
 alla dichiarazione del procuratore  della  parte  l'interruzione  del
 processo, per il possibile contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost..
   Quanto al profilo della rilevanza della questione, e' evidente che,
 facendo   applicazione   delle   norme,  nella  loro  interpretazione
 corrente, si dovrebbe disporre la prosecuzione del giudizio: infatti,
 solo se la questione di legittimita' costituzionale venisse  ritenuta
 fondata  potrebbe  procedersi  alla dichiarazione di interruzione del
 processo.
   La  decisione  sulla  questione  di  costituzionalita'   sollevata,
 condiziona obiettivamente il corso del giudizio a quo non consentendo
 allo  stesso  di  essere definito indipendentemente dalla risoluzione
 della questione stessa.
                                P. Q. M.
   Letti  gli  artt. 137 della Costituzione e 23, legge 11 marzo 1987,
 dichiara non manifestamente infondata e  rilevante  la  questione  di
 legittimita' costituzionale dell'art. 300 c.p.c., nei sensi di cui in
 motivazione, per contrasto con gli artt. 24 e 3 Cost.;
   Dispone   la   immediata   trasmissione   degli   atti  alla  Corte
 costituzionale;
   Sospende il giudizio;
   Dispone che il presente provvedimento  sia  notificato  alle  parti
 costituite, e al Presidente del Consiglio dei  Ministri;
   Dispone,  altresi', che il presente provvedimento sia comunicato al
 Presidente della Camera dei deputati e al Presidente del Senato della
 Repubblica;
     Roma, addi' 28 maggio 1997
                           Il pretore: Rizzi
 98C1008