N. 361 SENTENZA 26 ottobre - 2 novembre 1998

 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo penale - Disciplina in materia di formazione della prova  in
 dibattimento  -  Dichiarazioni  caratterizzate  dall'essere  rese  da
 imputati   e   dall'avere   per   oggetto   fatti   concernenti    la
 responsabilita' di altri imputati - Utilizzazione delle dichiarazioni
 nei  giudizi  in corso - Dichiarante che rifiuti o comunque ometta in
 tutto  o  in  parte   di   rispondere   su   fatti   concernenti   la
 responsabilita'   di   altri   gia'   oggetto  delle  sue  precedenti
 dichiarazioni - Mancanza dell'accordo  delle  parti  alla  lettura  -
 Applicazione  dell'art.  500,  commi  2-bis  e 4, del c.p.p. - Omessa
 previsione - Esame dell'imputato nel medesimo procedimento  su  fatti
 concernenti   la   responsabilita'  altrui  gia'  oggetto  delle  sue
 precedenti  dichiarazioni  rese  all'autorita'  giudiziaria  o   alla
 polizia  giudiziaria  su delega del Pubblico Ministero - Applicazione
 dell'art. 210 del c.p.p. - Omessa previsione - Persona che, esaminata
 a norma dell'art. 210 c.p.p.  in  dibattimento,  rifiuti  o  comunque
 ometta  in  tutto  o  in  parte di rispondere su fatti concernenti la
 responsabilita'  di  altri  gia'   oggetto   delle   sue   precedenti
 dichiarazioni   in  mancanza  di  consenso  dell'imputato  alla  loro
 utilizzazione - Applicazione dell'art. 500, commi 2-bis e 4 -  Omessa
 previsione  - Riferimento alla sentenza della Corte n. 254 del 1992 -
 Intervento additivo della Corte modificato dalla  legge  n.  267  del
 1997  - Irragionevolezza ed incoerenza del meccanismo processuale che
 preclude a priori l'acquisizione in dibattimento di elementi di prova
 raccolti  legittimamente  nel  corso  delle  indagini  preliminari  o
 nell'udienza preliminare - Lesione del diritto di difesa - Violazione
 del  principio  di  uguaglianza  -  Illegittimita'  costituzionale  -
 Costituzione del pubblico ministero nel giudizio incidentale e  della
 persona   offesa  "Provincia  di  Bologna"  che  non  era  parte  nel
 procedimento  a  quo  -  Erronea  evocazione  da  parte  del  giudice
 rimettente   dell'art.   514   del   c.p.p.   -   Inammissibilita'  -
 Dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 210  del  c.p.p.,
 assunte senza la presenza del difensore dell'imputato - Richiesta del
 recupero   esclusivamente  delle  precedenti  dichiarazioni  mediante
 lettura dei verbali assunti in altro  procedimento  -  Esistenza  del
 meccanismo  delle contestazioni - Non fondatezza - Restituzione degli
 atti ai tribunali di Torino, Cagliari, Sanremo, Savona, Trani,  e  al
 tribunale per i minorenni di Bologna.
 
 (C.P.P.,  art.  513, comma 2, ultimo periodo, 210, 238, comma 4, 513,
 comma 2, 514, 238, commi 2-bis e 4, 210, comma 4, e art. 6, commi 2 e
 5, della legge 7 agosto 1997, n. 267).
 
 (Cost., artt. 2, 3, 24, 25, secondo comma, 101, 101,  secondo  comma,
 102, primo comma, 111 e 112).
 
(GU n.44 del 4-11-1998 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici:  prof.  Giuliano  VASSALLI, prof. Francesco GUIZZI,   prof.
 Cesare MIRABELLI,  prof. Fernando SANTOSUOSSO,   avv.  Massimo  VARI,
 dott.   Cesare  RUPERTO,    dott.  Riccardo  CHIEPPA,  prof.  Gustavo
 ZAGREBELSKY, prof. Valerio ONIDA,   prof.  Carlo  MEZZANOTTE,    avv.
 Fernanda  CONTRI,  prof.  Guido  NEPPI  MODONA,   prof. Piero Alberto
 CAPOTOSTI,  prof.  Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma  4,
 del  codice  procedura penale, 238, comma 2-bis e 4, 513 e 514 stesso
 codice come modificati dalla legge 7 agosto 1997,  n.  267  (Modifica
 delle  disposizioni  del  codice  di  procedura  penale  in  tema  di
 valutazione delle prove), e art. 6 stessa legge, promossi:
     1)  con ordinanze emesse il 19 settembre 1997 dal tribunale per i
 minorenni di Bologna, il 12 novembre 1997 dal tribunale di Torino, il
 15 dicembre 1997 dal tribunale di Bergamo, il  1  dicembre  1997  dal
 tribunale  di Bologna, il 22 dicembre 1997 dal tribunale di Cagliari,
 iscritte ai nn. 776 e 915 del registro ordinanze 1997 ed ai  nn.  81,
 143,  153  del  registro  ordinanze  1998 e pubblicate nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 46,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1997  e nn. 3, 8, 11, prima serie speciale, dell'anno 1998 e fissate,
 per la discussione, all'udienza pubblica del 19 maggio 1998;
     2) con ordinanze emesse il 24 settembre  1997  dal  tribunale  di
 Perugia,  il  30  settembre  1997  dal  tribunale  di San Remo; il 13
 novembre 1997 dal tribunale militare di Torino; il  3  novembre  1997
 dal  tribunale  di Savona; il 16 ottobre 1997 dal tribunale di Trani,
 iscritte ai nn. 787, 861, 898, 908, 913 del registro ordinanze 1997 e
 pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica  nn.  47  e  52,
 prima  serie  speciale,  dell'anno 1997 e n. 3, prima serie speciale,
 dell'anno 1998, fissate, per la discussione, alla camera di consiglio
 del 20 maggio 1998.
   Visti, per i giudizi di cui al punto 1), gli atti  di  costituzione
 della  provincia  di  Bologna,  di  B.  F., di B. G., di N. S., della
 procura della Repubblica presso il tribunale di Torino, di B. C.,  di
 F.  L.    ed  altri,  di  G.  P.,  nonche' gli atti di intervento del
 Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Visti per i giudizi di cui al punto 2), gli atti di intervento  del
 Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Udito  nell'udienza  pubblica  del 19 maggio 1998 e nella camera di
 consiglio del 20 maggio 1998 il giudice relatore Guido Neppi Modona;
   Uditi nell'udienza pubblica del 19 maggio 1998 gli avvocati Umberto
 Guerini per la provincia di  Bologna,  Luigi  Chiappero  per  B.  F.,
 Delfino  Siracusano  e  Vittorio  Chiusano  per B. G., Piero Longo in
 sostituzione dell'avvocato Ennio Festa per N. S., il  dott.  Marcello
 Maddalena  per  la  procura  della  Repubblica presso il tribunale di
 Torino, gli avvocati Roberto Bruni e Giuseppe Frigo per B. C.,  Paolo
 Trombetti  e  Gaetano  Pecorella per F. L. ed altro, Patrizio Rovelli
 per G. P.  e l'avvocato dello Stato Paolo di Tarsia di  Belmonte  per
 il Presidente del Consiglio dei Ministri;
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Nel corso di un procedimento penale a carico di un minorenne
 imputato dei delitti aggravati di banda armata, strage per  attentare
 alla  sicurezza  dello  Stato,  pluriomicidio,  porto  di esplosivi e
 altro, commessi in concorso con maggiorenni nei confronti  dei  quali
 si  era  proceduto  separatamente,  il  tribunale  per i minorenni di
 Bologna, all'udienza iniziale del dibattimento,  in  data  18  aprile
 1997,  aveva  disposto, a norma dell'art. 238 del codice di procedura
 penale, l'acquisizione dei verbali delle dichiarazioni dibattimentali
 rese  dagli  imputati  maggiorenni,   nonche'   dei   verbali   delle
 dichiarazioni  dai  medesimi  rese  nelle precedenti fasi istruttorie
 innanzi al pubblico ministero o al giudice istruttore.
   Nel prosieguo  del  dibattimento  si  era  proceduto  all'esame  di
 persone  citate  a  norma dell'art. 210 cod. proc. pen., alcune delle
 quali si erano avvalse della facolta' di non rispondere.
   All'udienza  del  16  settembre  1997,  uno   degli   imputati   in
 procedimento  connesso si avvaleva parzialmente della facolta' di non
 rispondere, in relazione ad alcuni specifici temi di prova relativi a
 un fatto di omicidio. Il pubblico ministero chiedeva darsi lettura di
 quanto  in  precedenza  dichiarato  da  tale  imputato.  La difesa si
 opponeva alla richiesta, invocando il disposto dell'art.  513,  comma
 2, cod.  proc. pen., come novellato dalla legge 7 agosto 1997, n. 267
 (Modifica  delle  disposizioni del codice di procedura penale in tema
 di valutazione delle prove), acconsentendo  invece  alla  lettura  di
 alcune delle precedenti dichiarazioni, rese nel diverso dibattimento,
 da  altri imputati in procedimento connesso. Il pubblico ministero si
 opponeva a tale acquisizione parziale e, a seguito di  eccezione  del
 medesimo  organo,  il  tribunale,  con ordinanza in data 19 settembre
 1997  (registro  ordinanze  n.  776/1997),  sollevava  questione   di
 legittimita'  costituzionale  degli  artt.  513,  comma 2, 238, commi
 2-bis e 4, cod. proc. pen., e 6 della legge n.    267  del  1997,  in
 riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione.
   Osserva il tribunale che l'art. 513, comma 2, cod. proc. pen., come
 novellato,  viola  il  principio  di  ragionevolezza, ex art. 3 della
 Costituzione, perche' da un lato consente  la  utilizzabilita'  delle
 dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dalle persone
 imputate  in  un  procedimento  connesso  di  cui  non  sia possibile
 ottenere la  presenza  in  dibattimento,  dall'altro,  qualora  dette
 persone,  pur  comparendo,  si  rifiutino di rispondere, subordina la
 utilizzabilita' all'accordo delle parti. La norma sarebbe inoltre  in
 contrasto  con  gli  artt.  111  e  112  della  Costituzione, poiche'
 subordina all'accordo delle parti la possibilita' per il  giudice  di
 prendere conoscenza complessiva del materiale probatorio.
   Quanto all'art. 238 cod. proc. pen., anch'esso lede il principio di
 ragionevolezza,  perche'  discrimina,  quanto  a  utilizzabilita', le
 dichiarazioni testimoniali, che sono sempre  utilizzabili,  e  quelle
 rese  ex  art.  210 cod. proc. pen., che sono utilizzabili solo se il
 difensore dell'imputato sia stato presente nel procedimento  connesso
 nel  momento  in  cui  le dichiarazioni venivano rese. A giudizio del
 rimettente,  atteso  che  le  dichiarazioni  testimoniali  e   quelle
 provenienti  da  persona esaminata ex art. 210 cod. proc. pen. "hanno
 entrambe  valenza  processuale",  "non  si  giustificano  le  diverse
 conseguenze  che  la  legge  attribuisce al sopravvenuto silenzio del
 testimone in sede dibattimentale, rispetto all'analogo silenzio della
 persona esaminata ex art. 210 c.p.p.", potendosi solo nel primo  caso
 procedere  alla  contestazione  e alla utilizzazione delle precedenti
 dichiarazioni ai sensi dell'art. 500, commi 2-bis, 3,  4  e  5,  cod.
 proc. pen.
   Il  medesimo  art. 238 cod. proc. pen. sarebbe inoltre in contrasto
 con il diritto di difesa, ex art. 24 Cost., perche' mentre  non  sono
 utilizzabili  le  dichiarazioni rese a norma dell'art. 210 cod. proc.
 pen., possono essere utilizzate le sentenze  irrevocabili,  in  forza
 dell'art. 238-bis dello stesso codice.
   Quanto  al comma 4 del medesimo art. 238 cod. proc. pen., anch'esso
 violerebbe gli artt. 3, 111  e  112  Cost.,  perche'  tale  norma  fa
 irragionevolmente  dipendere  la  utilizzabilita' delle dichiarazioni
 dal consenso dell'imputato, determinando una disparita' tra accusa  e
 difesa.
   Infine,  il  giudice  a quo sospetta che anche la norma transitoria
 (art. 6 della legge n. 267 del 1997) sia  incostituzionale,  perche',
 prevedendosi  la  immediata applicazione della normativa, non e' dato
 alcun rimedio diretto alla conservazione delle dichiarazioni rese  ex
 art.  210 cod. proc. pen., mentre nel caso di procedimento nella fase
 delle  indagini  preliminari  e'  possibile  ricorrere  all'incidente
 probatorio a norma dell'art. 392, lett. c) e d) cod. proc. pen.
   1.1.  - Si e' costituito il prof. Vittorio Prodi, nella qualita' di
 Presidente pro-tempore della provincia di  Bologna,  parte  lesa  nel
 procedimento  a  quo,  rappresentato  e  difeso dall'avvocato Umberto
 Guerini, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  manifestamente
 infondata.
   In  particolare,  con  riferimento alle censure mosse all'art. 513,
 comma 2, cod. proc. pen., il difensore della  persona  offesa  rileva
 che  la  possibilita'  per il giudice di conoscere o non conoscere le
 dichiarazioni rese precedentemente al dibattimento dalla persona  che
 si  avvalga della facolta' di non rispondere in sede di esame ex art.
 210 cod. proc. pen. e'  conseguenza  fisiologica  del  principio  del
 contraddittorio, che presuppone la facolta' delle parti di sottoporre
 all'esame  incrociato la persona che rende dichiarazioni rilevanti ai
 fini della decisione.
   Quanto  alle  censure  mosse  all'art.  238  cod.  proc.  pen.,  il
 difensore  della  persona offesa ritiene ragionevole la differenza di
 disciplina in ragione della qualita' di testimone o  di  imputato  di
 reato connesso del dichiarante, poiche', in tale ultima situazione, a
 differenza della prima, il dichiarante ha facolta' di non rispondere,
 sicche'  del  tutto  logicamente la legge condiziona la utilizzazione
 delle precedenti dichiarazioni  alla  circostanza  che  queste  siano
 state  rese  in contraddittorio con chi, nell'ulteriore procedimento,
 ne debba subire le conseguenze.
   Infine, relativamente alla disciplina  transitoria,  si  sottolinea
 che  essa del tutto ragionevolmente rende applicabile ai procedimenti
 in corso la "nuova" regola recata dal novellato art. 513  cod.  proc.
 pen.
   1.2.  -  E'  intervenuto  il Presidente del Consiglio dei Ministri,
 rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
 chiedendo  che  la  questione,  nei suoi vari profili, sia dichiarata
 infondata.
   Nell'atto di intervento, relativo anche  al  distinto  giudizio  di
 costituzionalita'  di  cui  alla  ordinanza  iscritta  al  n. 787 del
 registro  ordinanze  del  1997,  l'Avvocatura  rileva,  quanto   alla
 disciplina   dell'art.      513,   comma  2,  cod.  proc.  pen.,  che
 l'impossibilita' di ottenere la presenza del dichiarante per fatti  o
 circostanze  imprevedibili,  in presenza della quale e' consentita la
 lettura delle precedenti dichiarazioni, non e' equiparabile  al  caso
 in  cui  il soggetto si avvalga della facolta' di non rispondere, per
 il quale la norma ragionevolmente condiziona la  lettura  all'accordo
 delle  parti.  Ne'  a  sorreggere  la valutazione di irragionevolezza
 della norma denunciata puo' valere il richiamo alla sentenza  n.  254
 del  1992  di  questa Corte, che aveva ad oggetto un quadro normativo
 affatto diverso.
   Quanto al presunto contrasto con gli artt.  111  e  112  Cost.,  la
 limitazione  del giudicante nella conoscenza del materiale probatorio
 sarebbe conseguente alla scelta  del  legislatore  di  negare  valore
 probatorio  alle  pregresse  dichiarazioni  in  mancanza  del  vaglio
 dibattimentale.
   Con  riferimento  alle  censure rivolte all'art. 238-bis cod. proc.
 pen., l'utilizzabilita' condizionata dei verbali delle  dichiarazioni
 rese dalle sole persone di cui all'art. 210 cod. proc. pen., a fronte
 della    ampia   utilizzabilita'   delle   dichiarazioni   di   fonte
 testimoniale, troverebbe giustificazione nella minore  attendibilita'
 di   tali  soggetti.    Ne'  potrebbe  ravvisarsi  alcuna  violazione
 dell'art. 112 Cost., poiche' l'esercizio dell'azione penale non  puo'
 che avvenire nei limiti consentiti dalla legge.
   Infine,  nessuna censura meriterebbe la disciplina transitoria, per
 sua natura rimessa alla discrezionalita' sovrana del legislatore, che
 del  resto  equilibratamente  consente   il   ricorso   all'incidente
 probatorio pur dopo l'esercizio dell'azione penale.
   1.3.  -  In prossimita' dell'udienza, il Presidente della provincia
 di Bologna ha presentato una articolata memoria, ove si  ripercorrono
 le  vicende  legislative  e gli interventi della Corte costituzionale
 sull'art. 513 cod. proc. pen., rilevando, tra l'altro,  che  la  vera
 origine  delle  tensioni costituzionali in materia andrebbe ricercata
 nella disciplina del diritto al silenzio configurata  dall'art.  210,
 comma  4,  cod.  proc.  pen.  in  relazione  sia  alle  dichiarazioni
 autoaccusatorie,  sia  a  quelle  eteroaccusatorie;  disciplina   che
 sarebbe  peraltro  difficilmente  superabile,  a causa del rischio di
 incidere  sul  principio  nemo  tenetur  se  detegere.  Vengono   poi
 esaminati  i vari parametri costituzionali con riferimento a tutte le
 ordinanze  di  rimessione;  infine  la  memoria  si  sofferma   sulle
 peculiarita'  della  specifica  situazione  processuale  su cui si e'
 innestata l'ordinanza di rimessione del tribunale per i minorenni  di
 Bologna.
   In  particolare,  la difesa eccepisce il difetto di rilevanza della
 questione, non essendo adeguatamente motivate le ragioni per  cui,  a
 fronte  del  rifiuto solo parziale del dichiarante di rispondere alle
 domande nel  corso  dell'esame,  non  sarebbe  stato  possibile  fare
 ricorso  in  via  analogica  alla  disciplina prevista dall'art. 500,
 comma 2-bis, cod. proc. pen. per le contestazioni in  sede  di  esame
 dei testimoni, identica essendo la ratio che sottosta' alla posizione
 dei  testimoni  e delle persone che rendono dichiarazioni ex art. 210
 cod.  proc.  pen.  Al  riguardo,  viene  sollecitato  un   intervento
 interpretativo  di  questa  Corte. In ogni caso, la difesa rileva che
 nel  processo  a  quo  e'  stato  acquisito  un  imponente  materiale
 probatorio,  a  fronte  del  quale  sarebbe  carente  di  motivazione
 l'affermazione circa l'impossibilita' di definire il  giudizio  senza
 acquisire  le dichiarazioni delle persone esaminate a norma dell'art.
 210 cod. proc. pen.
   2. - Il tribunale di Torino, in un procedimento a  carico  di  vari
 imputati per i delitti di cui agli artt. 323 e 426 del codice penale,
 aveva esaminato in dibattimento, su richiesta del pubblico ministero,
 un  ex coimputato prosciolto in udienza preliminare, nonche', ex art.
 507  cod.  proc.  pen.,  un  coimputato  nel  medesimo  procedimento.
 Entrambi  si  erano avvalsi della facolta' di non rispondere ed erano
 state acquisite le  dichiarazioni  da  loro  rese  in  precedenza  al
 pubblico  ministero  e al giudice per le indagini preliminari.  Nelle
 more tra la chiusura dell'istruzione dibattimentale e l'inizio  della
 discussione  era  entrata  in  vigore  la  legge n. 267 del 1997 e il
 tribunale aveva disposto la riapertura dell'istruzione dibattimentale
 e la citazione dell'ex coimputato  in  procedimento  connesso  e  del
 coimputato:  entrambi  comparivano  e dichiaravano di avvalersi della
 facolta'  di  non rispondere. A seguito dell'opposizione della difesa
 degli  imputati  del  procedimento  a  quo  alla  acquisizione  delle
 dichiarazioni   predibattimentali   rese   dall'ex  coimputato  (gia'
 prosciolto in udienza  preliminare)  e  dal  coimputato,  i  relativi
 verbali  venivano  espunti  dal  fascicolo processuale.   Il pubblico
 ministero eccepiva questione di legittimita' costituzionale dell'art.
 513 cod. proc. pen., come modificato dalla legge n. 267 del  1997,  e
 della   relativa   disciplina  transitoria.  Il  tribunale,  revocata
 l'ordinanza  con  la  quale  erano  stati  espunti  i  verbali  delle
 dichiarazioni  predibattimentali,  sollevava con ordinanza in data 12
 novembre  1997  (registro  ordinanze  n.   915/1997)   questione   di
 legittimita'  costituzionale dell'art. 6, comma 5, della legge n. 267
 del 1997, in riferimento agli artt. 3, 24, comma secondo, 101,  comma
 secondo,  e  112 della Costituzione.   Il collegio rimettente ritiene
 che la disposizione transitoria, contraddicendo il  principio  tempus
 regit  actum,  attribuisce  alle  dichiarazioni  di  cui  al  comma 2
 dell'art. 6 della legge n. 167 del  1997  (gia'  acquisite  ai  sensi
 dell'art.  513  cod.  proc.  pen.  previgente,  rese  da soggetti che
 nuovamente citati dopo l'entrata in vigore della  legge  n.  267  del
 1997  si  avvalgono  della  facolta'  di non rispondere) "una valenza
 probatoria di  segno  intermedio  per  i  processi  in  corso,  ossia
 attenuata  rispetto  al vecchio testo dell'art. 513 cod. proc.  pen.,
 preclusa invece dal  nuovo  testo",  con  conseguente  disparita'  di
 trattamento  per i reati commessi anteriormente all'entrata in vigore
 della  legge  (art.  3  Cost.).  Mentre  il  fatto  che  la   diversa
 utilizzazione  dello  stesso  tipo  di prova, in relazione a reati in
 ipotesi commessi tutti prima della nuova  legge,  sia  ricollegata  a
 circostanze  del  tutto  casuali,  quali  lo  stato del procedimento,
 costituirebbe altresi' palese violazione  del  diritto  di  difesa  e
 dunque  dell'art.    24, comma secondo, della Costituzione.  A parere
 del tribunale, inoltre, la norma transitoria,  cosi'  come  il  nuovo
 testo  dell'art. 513 cod. proc. pen., consente la utilizzazione delle
 dichiarazioni  precedentemente  rese  dall'imputato  in  procedimento
 connesso   solo   con   il  consenso  delle  parti;  ma  poiche'  per
 l'opposizione non e' richiesta alcuna motivazione, il diritto di veto
 attribuito alle parti in  relazione  alla  acquisizione  della  prova
 costituirebbe  violazione  del  principio  per il quale il giudice e'
 soggetto soltanto alla legge, e quindi dell'art. 101, comma  secondo,
 della  Costituzione.    Infine,  "l'utilizzo  variabile  della stessa
 prova, confligge con il  principio,  piu'  volte  riconosciuto  dalla
 Corte  costituzionale,  della  necessita'  di  non  dispersione della
 prova"; il potere di vietare l'ingresso di una  prova,  rimesso  alla
 volonta'  anche  di una sola delle parti, contrasterebbe, dunque, con
 l'art. 112 della  Costituzione,  in  quanto  l'esercizio  dell'azione
 penale  verrebbe  "incrinato" da una facolta' attribuita ad una delle
 parti e il processo  penale  subirebbe  per  tale  via  "un  completo
 stravolgimento".    D'altro canto, a parere del tribunale rimettente,
 il rifiuto di rendere  dichiarazioni  in  dibattimento  dei  soggetti
 indicati al comma 1 e al comma 2 dell'art. 513 cod. proc. pen. "rende
 le  precedenti  dichiarazioni  da  costoro rese, ''irripetibili'', al
 pari delle altre situazioni ''imprevedibili''  di  cui  all'art.  512
 c.p.p.",  mentre  e'  invece  completamente  diverso  il  trattamento
 processuale riservato a chi si rende irreperibile per non rispondere,
 rispetto a chi "a viso aperto  dichiari  di  non  volere  rendere  la
 dichiarazione".    2.1.  -  Si  sono  costituiti  gli  imputati S.N.,
 rappresentato e difeso dall'avvocato Ennio Festa, G.B.  rappresentato
 e difeso dagli avvocati Vittorio Chiusano e Delfino Siracusano, F.B.,
 rappresentato  e  difeso  dall'avvocato Luigi Chiappero.  I difensori
 degli  imputati,  nei  loro  atti  di  costituzione   sostanzialmente
 identici,  chiedono che la questione venga dichiarata inammissibile e
 comunque infondata, rinviando per quanto riguarda  la  non  rilevanza
 alle  deduzioni illustrate nel processo a quo. Per quanto concerne la
 non fondatezza,  i  difensori  osservano  che  non  basta  denunciare
 genericamente  una  violazione  del principio di razionalita' perche'
 una  norma  sia  da  ritenere  incostituzionale.  Al  contrario,   la
 previsione   di   diverse  discipline  a  seconda  dello  stadio  del
 procedimento  (incidente  probatorio  per   i   procedimenti   nuovi,
 possibilita'  di  nuova audizione, a richiesta, per i procedimenti in
 corso)   appare   ragionevolmente   contemperare   le   esigenze   di
 conservazione  dei  mezzi  di  prova  e  del contraddittorio. D'altro
 canto,   ogni   modifica   legislativa   irrimediabilmente   comporta
 diversita'  di  "trattamento"  in  relazione al momento di entrata in
 vigore delle nuove  disposizioni,  e  la  disciplina  transitoria  ha
 solamente voluto temperare gli effetti dell'immediata applicazione in
 base  alla  regola  tempus  regit  actum,  proprio in vista della non
 totale dispersione dei mezzi di prova precedentemente acquisiti,  nel
 rispetto  dell'esigenza  prioritaria  di  garantire  il principio del
 contraddittorio e contestualmente il diritto di difesa.  2.2. - Si e'
 costituita la Procura della Repubblica  di  Torino,  in  persona  del
 Procuratore   della   Repubblica  aggiunto.    Il  Procuratore  della
 Repubblica  aggiunto  insiste  preliminarmente  sulla  ammissibilita'
 della  propria  costituzione.  Pur  tenendo  presenti i precedenti di
 questa Corte, il Procuratore della Repubblica confida in un mutamento
 di giurisprudenza, fondato sul non dubitabile connotato di parte  del
 pubblico ministero, tanto piu' in sede dibattimentale (al riguardo si
 richiamano  le  sentenze n. 249 del 1990, n. 353 del 1990, n. 190 del
 1991, n. 363 del 1991, n. 96 del 1997),  e  argomenta  come  parrebbe
 irragionevole far discendere dalla, pur peculiare, posizione di parte
 pubblica  del  pubblico  ministero  la  sua  totale  esclusione dalla
 partecipazione ad un giudizio incidentale  che  e'  fondamentale  per
 l'esito  del  processo.  In  particolare  non  potrebbe ritenersi che
 l'interesse del pubblico ministero sia assorbito  dalla  possibilita'
 di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio dei Ministri, poiche'
 questi  rappresenta  l'indirizzo  politico  del  Governo,  mentre  il
 pubblico  ministero  agirebbe  "in  qualita'  di  (neutro)  tutore  e
 promotore di ''legalita''' (anche costituzionale)".   Nel merito,  il
 procuratore   della  Repubblica  di  Torino  conduce  una  articolata
 disamina, anche con riferimento a norme  e  parametri  costituzionali
 non  richiamati  nell'ordinanza di rimessione. Premesso che nel corso
 dei lavori parlamentari erano stati sollevati  dubbi  e  perplessita'
 sulla   costituzionalita'  delle  nuove  disposizioni,  le  deduzioni
 insistono soprattutto sulla portata del principio di non  dispersione
 degli  elementi  di  prova,  quale delineato dai precedenti di questa
 Corte, sulla "irragionevolezza" di riservare un diverso  trattamento,
 quanto alla loro utilizzabilita', alle dichiarazioni testimoniali e a
 quelle  rese  contra  alios  dall'imputato  in procedimento connesso,
 sulla assimilabilita' della facolta' di  non  rispondere  alle  altre
 situazioni di irripetibilita' delle dichiarazioni rese in precedenza,
 sul  fatto  che  si  attribuisca  non solo alle parti, ma anche ad un
 terzo estraneo rispetto al processo, quale e' appunto  l'imputato  in
 procedimento  connesso,  la facolta' di condizionare la qualita' e la
 quantita' del bagaglio di conoscenze destinato ad  essere  utilizzato
 dal  giudice  per  la  decisione.    Infine,  per  quanto concerne la
 disciplina  transitoria,  rileva  come  sarebbe   irragionevole   far
 dipendere   la   dichiarazione   di   innocenza   o  di  colpevolezza
 dell'imputato dalla sola  circostanza  occasionale  che  il  processo
 fosse o no in corso alla data di entrata in vigore della legge n. 267
 del  1997.    2.3. - Si e' costituito il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,   chiedendo  che  la  questione  venga  dichiarata  infondata.
 L'Avvocatura dello Stato si richiama in generale alle  considerazioni
 gia'  espresse  nell'atto  di  intervento  relativo  al  giudizio  di
 costituzionalita' promosso con le ordinanze iscritte ai nn. 776 e 787
 del registro ordinanze del 1997,  rilevando  in  particolare:  quanto
 alla  censura  di irragionevolezza mossa alla disciplina transitoria,
 che la scelta di fissare il discrimine della avvenuta  lettura  degli
 atti  ai  fini  della operativita' della normativa transitoria appare
 ragionevolmente  volta  a  contemperare  le  esigenze   di   economia
 processuale  e  le ragioni di garanzia che hanno portato alla novella
 legislativa,   mentre   l'ampliamento   richiesto   dal    rimettente
 costituirebbe  invasione della sfera di discrezionalita' riservata al
 legislatore; quanto alla dedotta  violazione  del  principio  di  non
 dispersione  dei  mezzi  di prova per il tramite dell'art. 112 Cost.,
 che perlomeno di pari rilievo  costituzionale  sono  le  esigenze  di
 garanzia  dell'imputato.  2.4. - Con successiva memoria, l'Avvocatura
 dello Stato, richiamandosi tra l'altro  ai  rilievi  contenuti  nelle
 deduzioni  del  pubblico  ministero,  secondo cui la nuova disciplina
 esporrebbe  l'imputato  in  procedimento  connesso  a  coercizioni  e
 intimidazioni  perche'  si  avvalga della facolta' di non rispondere,
 rileva che la scelta del legislatore e' coerente con le  cautele  che
 debbono circondare la chiamata in correita'; inoltre, con riferimento
 alla supposta violazione del principio di obbligatorieta' dell'azione
 penale,  l'interveniente  precisa  che  il  contemperamento  tra  ius
 puniendi  e  ius  libertatis  giustifica   i   limiti   eventualmente
 introdotti  all'art.  112 Cost., alla luce delle garanzie che debbono
 essere riservate all'imputato. Infine, con riferimento all'art.  111,
 comma  secondo, della Costituzione e ai principi di non dispersione e
 di indisponibilita' delle prove  che  da  tale  norma  vengono  fatti
 discendere,  l'Avvocatura  rileva che tali principi non costituiscono
 precetti costituzionali,  ma  canoni  processuali  dettati  da  norme
 ordinarie,  suscettibili di interventi legislativi volti a consentire
 il  contraddittorio  e  a  meglio  garantire   l'attendibilita'   del
 materiale probatorio.
   3.  -  Il tribunale di Bergamo, nel corso di un procedimento penale
 per i reati di cui agli artt. 110 e 319 del  cod.  pen.,  all'udienza
 dibattimentale  del 28 novembre 1997 ammetteva l'esame di imputati in
 procedimento connesso, gia' giudicati ai  sensi  degli  artt.  444  e
 segg.  cod.  proc.  pen.    Poiche'  uno  di questi si avvaleva della
 facolta' di non rispondere, il pubblico ministero e i difensori della
 parte  civile  chiedevano   l'acquisizione   delle   sue   precedenti
 dichiarazioni   ai  sensi  dell'art.    513  cod.  proc.  pen.,  come
 modificato dall'art. 1 della legge n.  267  del  1997;  oppostasi  la
 difesa dell'imputato, il pubblico ministero reiterava la richiesta ai
 sensi  dell'art.  6  della  legge  n.  267  del 1997.   Il tribunale,
 rilevato che nel caso in esame non  poteva  trovare  applicazione  la
 disciplina  transitoria  dettata  dall'art.  6 della legge n. 267 del
 1997, poiche' alla data di entrata  in  vigore  di  detta  legge  (12
 agosto  1997)  non solo non era stata data lettura, a norma dell'art.
 513  cod.  proc.  pen.  previgente,  delle  precedenti  dichiarazioni
 dell'imputato  di  reato  connesso,  ma  non  era  ancora in corso il
 dibattimento de quo, con ordinanza del  15  dicembre  1997  (registro
 ordinanze  n.  81/1998)  sollevava, in riferimento agli artt.  2 (non
 riprodotto nel dispositivo), 3, 24, comma secondo, 25, comma secondo,
 101, 102, comma primo, 111 e 112  della  Costituzione,  questione  di
 legittimita'  costituzionale: 1) degli artt. 210, comma 4, e 513 cod.
 proc. pen., nella parte in cui  prevedono  che  le  persone  indicate
 nell'art.  210  cod.  proc.  pen.  le  quali abbiano reso al pubblico
 ministero dichiarazioni indizianti a carico di determinati  soggetti,
 possono  avvalersi,  nel  dibattimento  a  carico di questi soggetti,
 della facolta' di non rispondere; 2) dell'art.  513,  comma  2,  cod.
 proc.  pen., come sostituito dall'art. 1 della legge n. 267 del 1997,
 nella parte in cui subordina all'accordo delle parti la  lettura  dei
 verbali  contenenti  dichiarazioni  rese  al pubblico ministero dalle
 persone indicate nell'art.  210 cod. proc. pen. qualora esse si siano
 avvalse della facolta' di non rispondere o, nel caso di  accoglimento
 della  questione sub a) si siano rifiutate di rispondere.  Nel merito
 il rimettente rileva che:  a) l'art. 513, comma 2, cod.  proc.  pen.,
 nel  testo  sostituito dall'art. 1 della legge n. 267 del 1997, nella
 parte in cui subordina all'accordo delle parti la lettura dei verbali
 contenenti le dichiarazioni predibattimentali delle persone  indicate
 nell'art.  210  cod. proc.   pen. che si siano avvalse a dibattimento
 della facolta' di non rispondere, si pone in contrasto con gli  artt.
 3, 24, comma secondo, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111 e
 112  della  Costituzione: 1) apparendo priva di ragionevolezza (viene
 richiamata la sentenza n.   254 del 1992) la  diversa  disciplina  di
 utilizzabilita' degli atti "a seconda che si tratti di dichiaranti in
 relazione  ai quali non e' possibile ottenere la presenza o procedere
 all'esame (...) per fatti  o  circostanze  imprevedibili  al  momento
 delle  dichiarazioni,  ovvero  che  si  tratti  di dichiaranti che si
 presentano a dibattimento, ma che si avvalgono della facolta' di  non
 rispondere",  poiche'  e' evidente che l'irripetibilita' dell'atto e'
 imprevedibile anche quando dipende da una scelta rimessa all'arbitrio
 del soggetto (viene richiamata la  sentenza  n.  179  del  1994);  2)
 risultando  vulnerato  il  principio  di non dispersione della prova,
 enucleato dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 254 e 255 del
 1992 e tendente  a  contemperare  il  rispetto  del  principio  guida
 dell'oralita'   con  l'esigenza  di  evitare  la  perdita  di  quanto
 acquisito prima del dibattimento, nonche', in virtu' di un  malinteso
 principio dispositivo (viene richiamata la sentenza n. 111 del 1993),
 i  principi  di  indefettibilita'  della  giurisdizione,  del  libero
 convincimento del giudice e della sua soggezione solo alla legge,  in
 quanto  il  diritto  riconosciuto  all'imputato di opporsi ad libitum
 all'utilizzazione di prove a suo carico gli consentirebbe di disporre
 del processo e impedirebbe  al  giudice  di  conoscere  i  fatti  del
 processo  e  di valutare complessivamente il materiale probatorio; 3)
 discendendo, infine, dalla normativa  impugnata,  la  violazione  dei
 principi   di  obbligatorieta'  dell'azione  penale  e  di  legalita'
 nell'uguaglianza affermati dalla Corte costituzionale nella  sentenza
 n.  88 del 1991, nonche' del diritto di difesa della parte civile; b)
 gli artt. 210, comma 4, e 513 cod. proc. pen.,  nella  parte  in  cui
 prevedono  che  l'imputato  in  procedimento connesso, che abbia reso
 dichiarazioni accusatorie a carico di soggetti non presenti  all'atto
 di  assunzione  davanti  al  pubblico ministero, possa avvalersi, nel
 dibattimento a  carico  di  quei  soggetti,  della  facolta'  di  non
 rispondere,  si  porrebbero inoltre in contrasto con gli artt. 3, 24,
 comma secondo, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo,  111  e  112
 della  Costituzione, poiche', tutelandosi sino all'estremo limite per
 un verso il diritto all'assunzione delle  prove  nel  contraddittorio
 delle  parti e per l'altro il diritto degli imputati a non sottoporsi
 all'esame dibattimentale, si finisce per sacrificare: 1)  l'esercizio
 della  funzione  giurisdizionale  e  la possibilita' di emettere "una
 giusta decisione" attraverso la piena conoscenza dei fatti  ad  opera
 del giudice (artt. 2, 3, 25, comma secondo, 101, comma secondo, 102 e
 111  della  Costituzione); 2) l'equilibrio tra i diritti di difesa di
 cui  sono  titolari  i  diversi  soggetti  del  procedimento.  A  tal
 proposito il tribunale rimettente osserva che "il conflitto reale non
 e'  tra diritto di difesa e giurisdizione, ma tra i diritti di difesa
 di cui sono titolari i diversi soggetti" e  che  tale  conflitto  "e'
 stato  erroneamente  risolto (dal legislatore del 1997) a tutto danno
 della giurisdizione", con conseguente lesione degli  artt.  3  e  24,
 comma  secondo,  della  Costituzione.  Unica  via  razionale  per  la
 soluzione del problema sarebbe, dunque, ammettere che "il diritto  di
 difesa del dichiarante si affievolisca di fronte al diritto di difesa
 dei   chiamati  in  causa,  ai  quali  deve  essere  riconosciuta  la
 possibilita' di interrogarlo" sulle  accuse  loro  mosse:  posto  che
 l'indagato o imputato che accusa altri da un lato esercita il proprio
 diritto  di  difesa,  ma  dall'altro  pone  a  carico  dell'autorita'
 giudiziaria l'onere di approfondire e indagare quelle  dichiarazioni,
 non  pare  possibile  "esimere  il  dichiarante  da una assunzione di
 responsabilita' che comporti, quanto meno,  l'obbligo  di  rispondere
 alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame", ferma la sua
 facolta' di "dare versioni diverse, ritrattare, perfino mentire".  Al
 legislatore  rimarrebbe  da  valutare,  secondo  il rimettente, se il
 dichiarante-accusatore debba essere equiparato  al  testimone  o,  in
 caso   contrario,   se   debba   introdursi  un  nuovo  reato  contro
 l'amministrazione  della  giustizia,  costituito   dal   rifiuto   di
 rispondere.    La declaratoria di illegittimita' dell'art. 513, comma
 2, cod.  proc. pen., nella parte in cui subordina al  consenso  delle
 parti  l'acquisizione  delle  dichiarazioni  di colui il quale si sia
 illegittimamente avvalso della facolta' di  non  rispondere,  sarebbe
 comunque conseguenziale alla declaratoria di illegittimita' dell'art.
 210  cod.  proc.  pen.,  nella  parte in cui consente all'imputato di
 reato connesso di avvalersi della facolta' di non rispondere.  3.1. -
 Si e'  costituito  l'imputato  C.B.,  rappresentato  e  difeso  dagli
 avvocati  Giuseppe  Frigo e Roberto Bruni, chiedendo che la questione
 sia dichiarata infondata. In particolare  i  difensori  rilevano,  in
 ordine  alla  denunciata illegittimita' costituzionale dell'art. 513,
 comma 2, cod. proc. pen., che l'esercizio da  parte  del  dichiarante
 dello  ius tacendi a dibattimento rientra pienamente nel novero delle
 evenienze prevedibili, tanto  che  la  nuova  legge  disciplina  piu'
 ampiamente  la  possibilita'  di far ricorso all'incidente probatorio
 per scongiurarne gli effetti, ed e' proprio l'incidente probatorio il
 sistema per contemperare esigenze di oralita' e  di  non  dispersione
 dei  mezzi  di  prova. E' errato poi, a giudizio della parte privata,
 l'assunto per il quale sarebbe  lasciato  alle  parti  il  potere  di
 disporre della prova: al contrario, in via di principio il sistema e'
 improntato  al  canone  per  cui  "in  tanto  un  atto  puo' assumere
 efficacia probatoria nei confronti di un soggetto, in  quanto  questi
 abbia  potuto  partecipare  alla  sua formazione in contraddittorio";
 cosi' le dichiarazioni di una delle persone  indicate  dall'art.  210
 cod.  proc.  pen.,  assunte  unilateralmente dal pubblico ministero o
 dalla polizia giudiziaria, non hanno attitudine probatoria, mentre il
 consenso delle parti puo' conferire efficacia di prova ad atti che ab
 origine  tale  efficacia  non  hanno,  come  nel  caso  del  giudizio
 abbreviato. Di conseguenza l'art. 513, comma 2, cod. proc. pen. vieta
 la  lettura  in  via di principio, riconoscendo peraltro all'imputato
 che  consenta  ad  essa,  e  cosi'  rinunci   al   suo   diritto   al
 contraddittorio  per la prova, la facolta' di accettare di quell'atto
 un effetto probatorio che altrimenti l'atto non avrebbe.   Quanto  al
 libero   convincimento   esso   e'   principio  deputato  ad  operare
 nell'ambito di cio' che il  legislatore  disciplina  come  idoneo  ad
 avere  efficacia  probatoria, e non e' da confondere con l'arbitraria
 utilizzazione di ogni materiale comunque strutturato o acquisito.  In
 conclusione, la difesa sostiene che nel rispetto  del  principio  del
 contraddittorio  (che  non  necessariamente  coincide  con oralita' e
 immediatezza) sta il discrimine tra cio' che il legislatore considera
 prova e  cio'  che  tale  non  e',  e  che  proprio  tale  principio,
 tutt'altro  che  irragionevole,  costituisce uno dei principi cardine
 del  "giusto  processo"  (anche  alla   stregua   delle   convenzioni
 internazionali  sui diritti dell'uomo).  Per quanto concerne, poi, la
 questione di legittimita' costituzionale dell'art. 210, comma 4, cod.
 proc. pen., la difesa da un lato mette  in  luce  le  difficolta'  di
 distinguere  tra  dichiarazioni  sul  fatto  proprio (per le quali il
 diritto al silenzio non potrebbe mai  affievolirsi)  e  dichiarazioni
 sul fatto altrui, dall'altro segnala che la soluzione - auspicata dal
 rimettente - di imporre un obbligo di rendere l'esame in dibattimento
 in  ordine  alle  dichiarazioni  sul  fatto  altrui comporterebbe una
 molteplicita' di opzioni: si dovrebbe ad  esempio  stabilire  se  sia
 sufficiente,  quale presupposto dell'obbligo di sottoporsi all'esame,
 la rinuncia al diritto  al  silenzio  espressa  davanti  al  pubblico
 ministero  o  alla  polizia giudiziaria; ed ancora, dovrebbero essere
 stabilite  idonee  garanzie  contro  il  rischio  che   comunque   le
 dichiarazioni  dibattimentali  possano  essere  utilizzate  contro il
 dichiarante.   La materia  non  si  presterebbe  pertanto  ad  essere
 oggetto di una decisione, sia pure additiva, della Corte, ma potrebbe
 solo  porsi  come  futuro  impegno  del  legislatore.    3.2. - Si e'
 costituito il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato  e
 difeso    dall'Avvocatura    generale   dello   Stato,   riportandosi
 integralmente  all'atto  di  intervento  relativo  al   giudizio   di
 costituzionalita' promosso con le ordinanze iscritte ai nn. 776 e 787
 del  registro  ordinanze  del 1997.   3.3. - Con memoria del 4 maggio
 1998 l'Avvocatura dello Stato ha precisato e integrato quanto dedotto
 nell'atto  di  intervento,  insistendo  per  la  infondatezza   della
 questione.
   4. - Il tribunale di Bologna, nel corso di un procedimento penale a
 carico   di   numerose  persone  imputate  di  molteplici  reati  (in
 particolare, corruzioni proprie connesse a una truffa pluriaggravata,
 a vari reati fiscali e a falsi in bilancio), disponeva per  l'udienza
 dell'11  giugno  1997  la citazione ai sensi dell'art. 210 cod. proc.
 pen. di due ex coimputati, gia' giudicati ai sensi dell'art. 444 cod.
 proc. pen.  In tale udienza, precedente all'entrata in  vigore  della
 legge n.  267 del 1997, tali soggetti si avvalevano della facolta' di
 non  rispondere, sicche' su richiesta del pubblico ministero venivano
 "acquisite" al  fascicolo  del  dibattimento,  ma  non  materialmente
 lette,  le  dichiarazioni  da  essi  rese  nel  corso  delle indagini
 preliminari. Nel prosieguo del dibattimento, entrata ormai in  vigore
 la  legge  n.  267  del  1997,  alcuni difensori chiedevano, ai sensi
 dell'art. 6, comma 2, della legge citata, un nuovo esame di  uno  dei
 due   imputati  nel  procedimento  connesso,  il  quale  si  avvaleva
 nuovamente  della  facolta'  di  non  rispondere.     Nelle   udienze
 successive  tutti  gli  altri  soggetti  citati  a comparire ai sensi
 dell'art. 210 cod. proc. pen. rifiutavano di rispondere e il pubblico
 ministero  chiedeva  che   fossero   acquisite   al   fascicolo   del
 dibattimento   tramite  lettura  le  dichiarazioni  rese  durante  le
 indagini preliminari. Alla richiesta si opponevano i difensori  degli
 imputati in base a quanto disposto dall'art. 513, comma 2, cod. proc.
 pen.,  come  sostituito  dall'art.  1 della legge n. 267 del 1997, di
 immediata applicabilita' nel processo in corso.    Su  eccezione  del
 pubblico  ministero,  il  tribunale  di  Bologna, con ordinanza del 1
 dicembre 1997 (registro ordinanze n. 143/1998), sollevava quindi,  in
 riferimento   agli   artt.  3,  24,  101,  112  Cost.,  questione  di
 legittimita' costituzionale dell'art. 6, commi 2 e 5, legge n.    267
 del  1997, in quanto rende immediatamente applicabile il nuovo regime
 di acquisizione della prova ai giudizi di primo grado,  anche  quando
 non   sia  possibile,  come  nella  specie,  ricorrere  all'incidente
 probatorio  perche'  si  e'  ormai  pervenuti  a  dibattimento.    Il
 tribunale,  richiamando la giurisprudenza costituzionale in argomento
 (sentenze nn. 255 del 1992, 24 e 254 del 1992, 179 del 1994, 111  del
 1993,  88  del  1991, 56 del 1992, 92 del 1992, 56 del 1993), pone in
 evidenza come - alla  luce  di  principi  fondamentali  del  processo
 penale,  quali  quello  della  ricerca  della  verita'  e  della  non
 disponibilita', se non entro determinati limiti, della prova - l'art.
 6, commi 2 e 5, legge n. 267 del 1997 sia censurabile in  riferimento
 all'art.   3 della Costituzione in quanto determina una irragionevole
 disparita' di trattamento fra situazioni processuali equipollenti. Ed
 infatti la norma impugnata, pur introducendo  ai  commi  2  e  5  una
 disciplina di salvaguardia delle situazioni in cui il dichiarante sia
 gia'  stato esaminato prima dell'entrata in vigore della legge, nulla
 dispone in ordine  alla  situazione  del  tutto  analoga  in  cui  il
 dichiarante, esaminato in dibattimento dopo l'entrata in vigore della
 legge,  si  avvalga della facolta' di non rispondere senza che vi sia
 stata  neppure  la  possibilita'  di  esperire   tempestivamente   un
 eventuale  incidente  probatorio,  con  conseguente dispersione degli
 elementi di prova  legittimamente  acquisiti.    Tale  conseguenza  -
 dipendente  dalla  circostanza  del  tutto  casuale dello svolgimento
 dell'esame anteriormente  o  successivamente  all'entrata  in  vigore
 della  legge  -  si  rivela,  a  parere  del  rimettente,  tanto piu'
 irragionevole quando, come nella  specie,  il  procedimento  riguarda
 numerosi  imputati,  alcuni  esaminati  prima  dell'entrata in vigore
 della legge ed altri citati successivamente ad essa:  invero,  in  un
 caso  trova  applicazione  la  disciplina  transitoria (e, dunque, il
 particolare  criterio  di  valutazione   delle   dichiarazioni   rese
 anteriormente  al dibattimento, previsto al comma 5 dell'art. 6 della
 legge n. 267 del  1997),  nell'altro  la  disciplina  a  regime  (con
 conseguente    impossibilita'    di   utilizzare   le   dichiarazioni
 precedentemente rese in assenza di accordo delle  parti).  Ne  deriva
 che  il  giudice  e'  costretto  a  ignorare  nei confronti di alcuni
 imputati quanto e' invece tenuto a valutare nei confronti  di  altri,
 cosi'   seguendo   "metodiche   decisionali   poco   comprensibili  e
 praticabili" contrarie non solo ai principi di legalita',  soggezione
 del  giudice  soltanto  alla legge (art. 101 Cost.) e obbligatorieta'
 dell'azione penale  (art.  112  Cost.),  ma  anche  al  principio  di
 ragionevolezza  (art. 3 Cost.).  Il rimettente dubita, inoltre, della
 ragionevolezza della disciplina  transitoria  nel  suo  funzionamento
 interno   (oltre  che  nei  rapporti  con  la  normativa  a  regime),
 censurando  il  fatto  che  l'utilizzabilita'   delle   dichiarazioni
 precedentemente  rese  sia  condizionata dalla scelta del soggetto di
 non sottoporsi all'esame dibattimentale, scelta che,  oltre  a  poter
 risultare   "arbitraria   e  casuale,  non  puo'  neppure  facilmente
 giustificarsi con ragioni difensive dell'interessato quando si tratti
 di ex coimputato nei cui confronti sia  divenuta  irrevocabile,  come
 nella  specie,  una  sentenza  di applicazione della pena ex art. 444
 c.p.p.".   4.1. - Si  sono  costituiti  gli  imputati  L.F.  e  A.D.,
 rappresentati  e  difesi dall'avvocato Paolo Trombetti, chiedendo che
 la questione sia  dichiarata  infondata.    A  giudizio  della  parte
 privata,  la disciplina transitoria di cui ai commi 2 e 5 dell'art. 6
 della  legge  n.  267  del  1997  non  violerebbe  il  principio   di
 ragionevolezza,  in  quanto  il  legislatore ha derogato al principio
 tempus regit actum (in base al quale l'art.  513  cod.    proc.  pen.
 novellato   avrebbe   dovuto   trovare   immediata  applicazione  nei
 procedimenti in corso) solo nell'ipotesi in cui la lettura  sia  gia'
 stata disposta prima dell'entrata in vigore della legge. Tale deroga,
 ad  avviso  della  difesa, risulta ispirata non gia' dal principio di
 non dispersione della prova, ma all'intento di "temperare  il  valore
 di dichiarazioni assunte - pur validamente, a fronte della precedente
 formulazione  della  norma  - fuori dal contraddittorio".  Sotto tale
 profilo la questione  dovrebbe  essere  piu'  esattamente  dichiarata
 irrilevante perche' intempestiva, dal momento che, con riferimento al
 comma  2,  l'art. 6 impugnato dovrebbe aver gia' trovato applicazione
 e, con riferimento al comma 5, la sua applicazione  e'  rimandata  al
 momento  della  decisione.    Del  resto - osserva ancora la difesa -
 l'intervento richiesto dal  rimettente  (sostanzialmente  rivolto  ad
 introdurre  una  disciplina  transitoria  diversa  - e derogatoria in
 malam  partem  rispetto  al  principio  tempus  regit  actum)   esula
 dall'ambito   del   controllo   di   costituzionalita',   poiche'  si
 tradurrebbe   in   una    inammissibile    pronuncia    additiva    e
 rappresenterebbe   uno   sconfinamento   in   spazi   riservati  alla
 discrezionalita' legislativa.  Da ultimo nell'atto di costituzione si
 sottolinea che la disciplina transitoria racchiusa nei commi  2  e  5
 dell'art. 6 legge n. 267 del 1997, costituendo una eccezione in bonam
 partem  al  principio  tempus  regit actum (e alla regola di giudizio
 contenuta nell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen.), non  puo'  essere
 estesa al caso - ritenuto analogo dal rimettente - di esercizio della
 facolta'  di  non  rispondere  successivo all'entrata in vigore della
 legge,  poiche'  essa  si  trasformerebbe  inevitabilmente  in   "una
 eccezione   in  malam  partem  di  quel  principio",  come  tale  non
 consentita  in  sede  di  scrutinio  di  legittimita'.    4.2.  -  E'
 intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e
 difeso   dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo  che  la
 questione sia  dichiarata  infondata  e  riportandosi  integralmente,
 stante l'analogia delle questioni, all'atto di intervento relativo ai
 giudizi  di  costituzionalita'  promossi con le ordinanze iscritte ai
 nn. 776 e 787 del registro ordinanze del 1997.   4.3. -  Con  memoria
 del  4  maggio 1998 l'Avvocatura dello Stato ha precisato e integrato
 quanto  dedotto  nell'atto   di   intervento,   insistendo   per   la
 infondatezza della questione.
   5.  -  Nel  corso  di  un  procedimento  penale pendente dinanzi al
 Tribunale di Cagliari a carico di diversi  imputati  del  delitto  di
 rapina  aggravata,  nelle more della celebrazione del dibattimento il
 pubblico ministero, entrata in vigore  la  legge  n.  267  del  1997,
 formulava  ai  sensi  dell'art.    6  della legge citata richiesta di
 incidente probatorio, onde procedere all'esame di due coimputati  che
 in  sede  di  indagini  avevano  reso ampia confessione, chiamando in
 correita' altri due imputati.  In sede di incidente  probatorio  tali
 soggetti  si  avvalevano  della facolta' di non rispondere, ribadendo
 detta volonta' in dibattimento, ove tuttavia rendevano  dichiarazioni
 spontanee negando la loro responsabilita'.  Su richiesta del pubblico
 ministero  venivano  acquisiti  al fascicolo del dibattimento, previa
 lettura, i verbali delle dichiarazioni  da  costoro  rese  nel  corso
 delle  indagini  preliminari  e  gia'  acquisiti in sede di incidente
 probatorio. Tutti i difensori degli  imputati  negavano  il  consenso
 alla  utilizzazione  nei  confronti dei loro assistiti delle suddette
 dichiarazioni, ai sensi del comma 1 dell'art.  513  cod.  proc.  pen.
 novellato.      All'esito  del  dibattimento  il  pubblico  ministero
 concludeva  nel  merito  per  la  condanna  di  tutti  gli  imputati,
 ritenendo  utilizzabili, ai sensi del comma 5 dell'art. 6 della legge
 n.  267  del  1997,  le  dichiarazioni  rese  in  sede  di   indagini
 preliminari dai due coimputati che si erano avvalsi della facolta' di
 non   rispondere,   ed   eccepiva   in   subordine   l'illegittimita'
 costituzionale degli artt. 513 cod.  proc. pen. e 6  della  legge  n.
 267  del  1997.    Il  Tribunale  con  ordinanza del 22 dicembre 1997
 (registro ordinanze n. 153/1998) sollevava, in riferimento agli artt.
 3, 25, 101, 111 e 112 Cost., questione di legittimita' costituzionale
 dell'art. 513, comma 1, cod. proc.  pen.  "nella  parte  in  cui,  in
 assenza  di  consenso degli altri imputati, esclude l'utilizzabilita'
 nei confronti di ciascuno di essi  delle  dichiarazioni  rese  da  un
 imputato nel corso delle indagini preliminari qualora in dibattimento
 questi si sia avvalso della facolta' di non rispondere" e dell'art. 6
 della  legge  n.  267  del  1997  "nella  parte  in  cui non consente
 l'applicazione della disciplina transitoria di cui  al  quinto  comma
 della  medesima  disposizione  ai  procedimenti in cui sia gia' stato
 disposto il giudizio".  In ordine alla rilevanza della questione,  il
 collegio  rimettente  osserva  in  primo  luogo  che,  contrariamente
 all'assunto del pubblico ministero, il  comma  5  dell'art.  6  della
 legge  n.  267  del  1997  non  e'  applicabile  alla  situazione dei
 coimputati che abbiano  esercitato  la  facolta'  di  non  rispondere
 nell'incidente  probatorio  disposto  ai  sensi  del  comma  1  della
 medesima  disposizione  (e  successivamente  abbiano  ribadito  detta
 volonta'  in  dibattimento),  dovendosi  la  disciplina contenuta nel
 comma 5 intendersi riferita solo alle ipotesi, contemplate nel  comma
 2  dell'art. 6, in cui alla data di entrata in vigore della legge sia
 stata gia' disposta la lettura dei verbali delle  dichiarazioni  rese
 dai  soggetti  indicati  nell'art.  513  cod.  proc.  pen.  Di qui la
 rilevanza  della  questione,  che  per  il  rimettente  si   appalesa
 pregiudiziale  rispetto  alla  decisione  da  adottare in ordine alla
 responsabilita' di tutti gli imputati, le cui posizioni  non  possono
 essere  definite senza l'apporto delle indicate dichiarazioni, per un
 verso confessorie  e  per  l'altro  accusatorie:  tali  dichiarazioni
 infatti,  precisa il giudice a quo, pur utilizzabili nei confronti di
 chi le ha rese, non potrebbero essere valutate quali prove dei  fatti
 in  esse  affermati in relazione alla responsabilita' degli altri due
 imputati, ne' potrebbero essere utilizzate  "ai  fini  del  riscontro
 reciproco"  stante il dissenso espresso dai difensori.  Nel merito il
 rimettente, richiamando la sentenza n. 254 del 1992 di questa  Corte,
 ritiene  che  l'art.  513 cod. proc. pen., nel testo modificato dalla
 legge n. 267 del 1997, violi l'art. 3 della  Costituzione  in  quanto
 determina   una   irragionevole  disparita'  di  trattamento  fra  la
 disciplina riservata agli atti irripetibili (per cause  originarie  o
 sopravvenute),  di  cui  e'  consentita  la  utilizzabilita'  a  fini
 decisori,  e  quella  prevista  in   relazione   alle   dichiarazioni
 dell'imputato  che  si  avvalga della facolta' di non rispondere, che
 pure a quella categoria appartengono, per le quali  invece  il  nuovo
 art.  513  cod.  proc.  pen.    vieta l'utilizzazione contra alios in
 mancanza del loro consenso.   Fra le  situazioni  "consimili"  eppure
 diversamente   disciplinate,   il   giudice   a   quo  indica  quella
 dell'esercizio della facolta' dei prossimi congiunti di astenersi dal
 deporre, esercizio che, quale causa di irripetibilita'  sopravvenuta,
 non  preclude,  secondo  l'interpretazione  che di tale disciplina ha
 dato la Corte nella sentenza n. 179 del 1994, l'utilizzabilita' delle
 dichiarazioni   precedentemente   rese.      Inoltre,   si    osserva
 nell'ordinanza,  l'art.  513  cod.  proc.  pen.    nella  sua attuale
 formulazione,  allorquando   "fa   dipendere   il   dispiegarsi   del
 contraddittorio  dibattimentale  dall'esercizio della facolta' di non
 sottoporsi all'esame da parte di imputati che  in  sede  di  indagini
 abbiano  reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri e alla
 mancanza del contraddittorio fa conseguire  l'impossibilita'  per  il
 giudice di conoscere e valutare le dichiarazioni rese", contrasta con
 il  principio  di non dispersione della prova piu' volte affermato da
 questa Corte (sentenze n. 255 del 1992, n. 88 del 1991,  n.  111  del
 1993).  Ulteriore profilo di irragionevolezza del nuovo art. 513 cod.
 proc.      pen.   deriverebbe,   a  giudizio  del  rimettente,  dalla
 impossibilita'  di  valutare  le   ragioni   del   silenzio   opposto
 dall'imputato,  quanto  meno  nei  termini  nei quali ad esse e' data
 rilevanza nella pur diversa situazione dell'esame del testimone (art.
 500, comma 5,  cod.  proc.    pen.).    Sarebbe  inoltre  violato  il
 principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale di cui all'art. 112
 Cost., teso a realizzare nell'ambito del principio di legalita' (art.
 25  Cost.)  l'uguaglianza  fra  i  cittadini, in quanto la disciplina
 impugnata produrrebbe l'effetto di paralizzare  l'iniziativa  penale,
 subordinando  ad  "insondabili  scelte del dichiarante" la conoscenza
 delle  prove da parte del giudice, con violazione anche del principio
 della sottoposizione  del  giudice  soltanto  alla  legge  (art.  101
 Cost.).    Altro  profilo di illegittimita' sarebbe ravvisabile nella
 mancata estensione della disciplina transitoria introdotta nel  comma
 5  dell'art.   6 della legge n. 267 del 1997 a tutti i casi in cui il
 pubblico ministero abbia gia'  esercitato  l'azione  penale.  Sarebbe
 infatti lesivo del principio di obbligatorieta' dell'azione penale il
 fatto  che  il medesimo materiale probatorio, sulla base del quale il
 pubblico  ministero  puo'   nel   corso   delle   indagini   chiedere
 l'applicazione di misure cautelari o addirittura il rinvio a giudizio
 dell'imputato,  venga  all'improvviso  reso  "indisponibile"  a causa
 dell'esercizio  della   facolta'   di   non   rispondere   da   parte
 dell'imputato.  Tale situazione si presenta piu' grave nei casi, come
 quello di specie, in cui e' "gia' stata  esercitata  l'azione  penale
 con  il  rinvio  a  giudizio degli attuali imputati":  in questi casi
 infatti il materiale probatorio non e' piu'  surrogabile,  avendo  il
 pubblico  ministero perduto la "disponibilita' delle indagini".  5.1.
 - Si e' costituito  in  giudizio  l'imputato  P.G.,  rappresentato  e
 difeso dall'avvocato Patrizio Rovelli, chiedendo che la questione sia
 dichiarata  infondata.   In particolare, il difensore contesta che al
 principio di non dispersione della prova  possa  essere  riconosciuta
 valenza  costituzionale:  la  stessa  giurisprudenza  richiamata  dal
 rimettente attribuirebbe, invece,  a  tale  principio  il  valore  di
 semplice  "espressione  della  volonta' del legislatore", di volta in
 volta derogabile in ragione del suo contemperamento con altri  valori
 altrettanto   rilevanti   (oralita'  e  contraddittorio).  In  questa
 direzione,   quindi,   rientrerebbe   nella   discrezionalita'    del
 legislatore  modificare  e  correggere le proprie precedenti scelte e
 determinazioni.  A giudizio del difensore non sussisterebbe, inoltre,
 la asserita irragionevole disparita' di trattamento tra la disciplina
 prevista per le dichiarazioni rese durante  le  indagini  preliminari
 dal  teste  che  si  avvalga  della  facolta'  di  astenersi e quella
 prevista per le dichiarazioni  rese  dall'imputato  che  esercita  il
 diritto  al  silenzio,  stante la diversita' delle situazioni poste a
 confronto.   Quanto  alla  censura  mossa  dal  giudice  a  quo  alla
 disciplina   impugnata  sotto  il  profilo  della  impossibilita'  di
 valutare le ragioni dell'esercizio della facolta' di non  rispondere,
 nell'atto   di   costituzione  si  osserva  che  essa  andrebbe  piu'
 correttamente rivolta all'art. 210 cod. proc.  pen., che tale diritto
 riconosce,  piuttosto  che  all'art.  513  cod.    proc.  pen.,   che
 regolamenta   il   regime   di  utilizzabilita'  delle  dichiarazioni
 precedentemente rese.   Ancora, la difesa mostra  di  dissentire  dal
 giudizio  di irragionevolezza espresso dal giudice a quo in ordine ai
 "meccanismi di recupero  delle  dichiarazioni  rese  dagli  indagati"
 predisposti   dalla  disciplina  transitoria,  che  sarebbero  invece
 opportunamente differenziati a seconda della fase in cui si trova  il
 processo  al  momento  dell'entrata  in  vigore  della  nuova  legge.
 Apodittica apparirebbe, inoltre, l'affermazione del contrasto di tale
 normativa con il principio  di  obbligatorieta'  dell'azione  penale.
 Infine, si ricorda come, per costante giurisprudenza di questa Corte,
 rientra nella discrezionalita' del legislatore regolare nella maniera
 ritenuta  piu'  opportuna i rapporti processuali pendenti mediante il
 diritto transitorio (si richiama la sentenza n. 268 del 1986).   5.2.
 -  Nel  giudizio  e'  intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio dei
 Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato
 chiedendo  che  la questione sia dichiarata infondata e riportandosi,
 stante l'analogia delle questioni, all'atto di intervento relativo al
 giudizio di costituzionalita' promosso con ordinanza iscritta  al  n.
 861  del  registro  ordinanze  del  1997.    5.3.  -  In  prossimita'
 dell'udienza il difensore dell'imputato ha  depositato  una  lunga  e
 articolata  memoria,  nella  quale vengono premesse considerazioni di
 ordine generale sull'impianto accusatorio del codice  del  1988,  sul
 diritto  al  contraddittorio  e  sulla  portata  dell'art.    6 della
 Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
 liberta' fondamentali. La parte iniziale  della  memoria  e'  inoltre
 dedicata all'esame delle varie formulazioni degli attuali artt. 513 e
 210  cod.  proc.  pen.  nel corso dei lavori preparatori del codice e
 delle antinomie che alla fine sono  derivate  dal  confronto  tra  il
 testo  definitivo  delle  due  norme; antinomie in cui, ad avviso del
 difensore, va ricercata la  spiegazione  degli  interventi  pendolari
 della  Corte  costituzionale e, poi, del legislatore del 1997 in tema
 di utilizzazione delle dichiarazioni relative alla responsabilita' di
 terzi rese dall'imputato nel medesimo  o  in  separato  procedimento.
 Sulla base di queste premesse, la difesa ribadisce che non sussistono
 le  violazioni  dei  principi  di  non  dispersione degli elementi di
 prova, di  obbligatorieta'  dell'azione  penale,  dell'essenza  della
 funzione   giurisdizionale,   di  indisponibilita'  della  prova,  di
 uguaglianza e di ragionevolezza, con riferimento  sia  all'art.  513,
 comma 1, cod.  proc. pen. che alla disciplina transitoria.  5.4. - In
 prossimita'  dell'udienza  l'Avvocatura dello Stato ha presentato una
 memoria integrativa, nella quale ha eccepito  l'inammissibilita'  per
 difetto  di  motivazione,  in  quanto  l'ordinanza di rimessione, pur
 denunciando il mancato  contemperamento  tra  principi  di  rilevanza
 costituzionale,  avrebbe omesso di verificare se tale contemperamento
 sia stato attuato dalle norme impugnate, attribuendo valore  assoluto
 alle norme di "azione", e sacrificando quelle di garanzie e di tutela
 della  liberta'.    Quanto  al  merito,  l'Avvocatura  assume  che e'
 inesatto tacciare di irragionevolezza la  diversita'  di  trattamento
 tra  testimone  prossimo  congiunto  e  imputato  di  reato connesso,
 poiche' tra le due situazioni non e'  possibile  alcuna  analogia.  A
 parere  dell'Avvocatura,  poi, non sussisterebbe neppure il contrasto
 con l'art. 112 Cost.: il principio  dell'obbligatorieta'  dell'azione
 penale   sarebbe,   infatti,  deputato  a  garantire  l'imparzialita'
 dell'amministrazione della  giustizia,  per  escluderne  ogni  potere
 discrezionale nella scelta dei reati da perseguire, non per garantire
 un  esercizio di quella funzione incondizionato e prioritario su ogni
 altro interesse; il contemperamento che la  Costituzione  impone  tra
 ius   puniendi   e   ius   libertatis  non  consente  di  individuare
 l'attribuzione di un potere che non soffra limiti, ne'  di  censurare
 scelte  di politica legislativa che offrano alla difesa dell'imputato
 garanzie piu' ampie rispetto alla disciplina  previgente.    Sarebbe,
 del   pari,   infondata  la  censura  relativa  ai  principi  di  non
 dispersione e di indisponibilita' delle prove,  in  riferimento  agli
 artt.  25, 101 e 111 Cost., in quanto quei principi non costituiscono
 precetti costituzionali ma principi  processuali,  desumibili  dunque
 dalla  normativa ordinaria, seppure funzionali alla realizzazione del
 "giusto processo".  Peraltro,  a  parere  dell'Avvocatura,  le  norme
 impugnate  non  impediscono  l'attuazione  di  tali  principi,  ma si
 limitano  a  variarne  le  regole per consentire il contraddittorio e
 meglio garantire l'attendibilita' del materiale probatorio.    Quanto
 all'osservazione  secondo  la  quale  sarebbe  incongruo  rispetto ai
 principi   costituzionali   far   discendere   il   dispiegarsi   del
 contraddittorio dibattimentale dall'esercizio da parte degli imputati
 della  facolta'  di non sottoporsi al contraddittorio dibattimentale,
 potrebbe, secondo l'Avvocatura, agevolmente controbattersi che non e'
 irragionevole che la scelta legislativa del 1997 trovi fondamento nel
 sospetto sulla genuinita' delle chiamate di correo fatte  innanzi  al
 pubblico  ministero senza contraddittorio o contro-esame.  Infine, in
 ordine  alla  censura,  riferita  agli  artt.  3  e  101  Cost.,   di
 irragionevolezza  della  disciplina  che  consente  al dichiarante di
 sottrarsi all'esame  dibattimentale  nel  procedimento  a  carico  di
 alcuni coimputati e non in quello a carico di altri, l'Avvocato dello
 Stato  osserva  che  la legge prevede per la generalita' dei casi gli
 strumenti per evitare contrasti tra giudicati: ma  ogni  processo  ed
 ogni  sentenza restano autonomi, per cui l'opposta tesi condurrebbe a
 ritenere incostituzionali tutte le norme  della  procedura  penale  e
 della  procedura civile che consentono che i giudizi su casi identici
 vengano definiti in modo diverso.
   6. - Nel corso di un procedimento penale a carico  di  un  imputato
 del delitto di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.), il Tribunale
 di Perugia nell'udienza dibattimentale del 19 dicembre 1996 acquisiva
 a norma dell'art. 238 cod. proc. pen. alcuni verbali di dichiarazioni
 rese  nell'ambito  di  separato  dibattimento da soggetti imputati di
 reato connesso.  Successivamente, entrata in vigore la legge  n.  267
 del  1997,  il  difensore dell'imputato, che non aveva partecipato al
 separato  dibattimento,   dichiarava   di   non   acconsentire   alla
 utilizzazione  di alcuni di detti verbali, a norma del novellato art.
 238, comma 4, cod. proc. pen.  All'udienza del 24 settembre  1997  il
 Tribunale,   rilevato  che  non  era  stato  prestato  consenso  alla
 utilizzazione di alcune dichiarazioni rese da un  soggetto  esaminato
 nel  separato  procedimento  a norma dell'art.   210 cod. proc. pen.,
 ritenute influenti ai fini del decidere, sollevava con  ordinanza  in
 pari data (r.o. n. 787/1997) questione di costituzionalita' dell'art.
 238,  comma  2-bis,  cod.  proc. pen., introdotto dall'art.   3 della
 legge n. 267 del 1997, in riferimento agli artt. 112, 3,  101,  comma
 secondo,  e  111  Cost., "nella parte in cui limita l'utilizzabilita'
 delle dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art. 210  c.p.p.
 agli   imputati   i  cui  difensori  abbiano  partecipato  alla  loro
 assunzione ovvero, in subordine, nella parte in cui non  prevede  che
 nei  procedimenti  nei  quali  i  verbali siano stati acquisiti prima
 dell'entrata in vigore della legge di modifica,  sia  applicabile  il
 regime transitorio di cui all'art. 6 legge n. 267 cit. e comunque, in
 generale,  nella parte in cui non prevede l'utilizzabilita' attenuata
 di cui all'art. 6, comma 5, legge n. 267 cit.".  Osserva il Tribunale
 che l'art. 238, comma 2-bis, cod. proc. pen.  si pone, innanzi tutto,
 in contrasto con l'art.  112  della  Costituzione,  perche',  facendo
 dipendere   dalla   partecipazione   del   difensore   nel   separato
 procedimento l'utilizzabilita' delle dichiarazioni rese ex  art.  210
 cod. proc. pen., rende inefficace l'esercizio dell'azione penale (che
 su tali fonti si sia legittimamente fondata) nella fase del giudizio,
 tanto  piu'  quando, come nel caso in esame, al momento di entrata in
 vigore della nuova disciplina fosse gia' avvenuto il rinvio  giudizio
 e,  quindi,  non  fosse  piu' attivabile l'incidente probatorio.   La
 norma censurata, inoltre, violerebbe sotto vari profili il  principio
 di  ragionevolezza,  ex  art.  3  Cost.   In primo luogo, la radicale
 inutilizzabilita' stabilita in favore dell'imputato il cui  difensore
 non  abbia  partecipato  all'assunzione delle pregresse dichiarazioni
 viola il fondamentale principio  di  non  dispersione  dei  mezzi  di
 prova,   che  informa  il  sistema  processuale  penale,  preordinato
 all'accertamento della  verita';  e  cio'  a  differenza  del  regime
 previsto  per  altre  dichiarazioni  (quelle  testimoniali  o  quelle
 divenute irripetibili), delle quali e' invece consentito il  recupero
 in  sede  dibattimentale.   E' inoltre irragionevole far dipendere il
 regime di utilizzazione non  dal  meccanismo  di  acquisizione  delle
 dichiarazioni, ma da contingenti valutazioni opportunistiche circa il
 loro   contenuto,  rimesse  al  consenso  dell'imputato.    La  norma
 violerebbe ancora il canone della ragionevolezza in quanto postula un
 contraddittorio che non poteva essere realizzato nel  procedimento  a
 quo:  non  solo  perche'  in  tale  sede  non  si  procedeva a carico
 dell'imputato, divenuto tale solo successivamente, ma  anche  perche'
 l'istituto  dell'estensione  del contraddittorio e' realizzabile solo
 nell'incidente probatorio e non nel dibattimento.  Irragionevolmente,
 poi, il legislatore impone una  serie  indeterminata  di  ripetizioni
 delle   dichiarazioni   nei   vari   processi,  a  scapito  non  solo
 dell'economia processuale, ma anche della chiarezza e  della  verita'
 (in  considerazione  del  progressivo  affievolirsi  della  memoria),
 mentre rende utilizzabile  la  sentenza  irrevocabile  pronunciata  a
 carico di terzi, ex art. 238-bis cod. proc. pen.  Ancora, la norma in
 questione  appare  irragionevole  perche',  ove  il  dichiarante  nel
 precedente dibattimento abbia avuto la veste  di  testimone,  e  solo
 successivamente  sia  divenuto,  per indizi sopraggiunti, imputato di
 reato  connesso,  il  pubblico  ministero  poteva   confidare   nella
 utilizzabilita'  delle  dichiarazioni, senza poi essere piu' in grado
 di richiedere l'incidente probatorio.   Inoltre,  l'art.  238,  comma
 2-bis,  cod. proc. pen. irragionevolmente discrimina tra soggetti che
 hanno, da un lato, la qualita' di imputato di reato connesso, ex art.
 210  cod.  proc.  pen.,  e,  dall'altro,  di  imputato  nello  stesso
 procedimento  qualora  quest'ultimo  abbia  reso  dichiarazioni in un
 separato procedimento.  Mentre, poi, per le  dichiarazioni  acquisite
 ai  sensi dell'art.   513 cod. proc. pen. l'art. 6 della legge n. 267
 del 1997  introduce  una  disciplina  transitoria  che  consente  una
 utilizzazione attenuata, correlata alla sussistenza di altri elementi
 di  conferma,  in  caso  di  nuovo rifiuto di rispondere del soggetto
 chiamato all'esame ex art. 210 cod. proc. pen., nulla  di  simile  e'
 previsto  per le analoghe dichiarazioni acquisite (prima dell'entrata
 in vigore della legge) da altro procedimento a  norma  dell'art.  238
 cod.  proc.  pen.,  le  quali, in mancanza di consenso dell'imputato,
 restano radicalmente  inutilizzabili.    Infine,  il  giudice  a  quo
 ravvisa  il contrasto tra la norma denunciata e il combinato disposto
 degli artt. 101, comma secondo, e 111  Cost.,  perche'  fa  dipendere
 l'esercizio  della  giurisdizione  non dal convincimento del giudice,
 espresso sulla base del materiale probatorio raccolto, ma da elementi
 spuri, quali  il  consenso  immotivato  dell'imputato,  e  cioe'  del
 soggetto  la  cui  condotta  forma  oggetto dell'accertamento penale,
 tanto piu' quando, come nella  specie,  ad  esso  sia  consentita  la
 selezione  del  materiale  utilizzabile.    6.1.  - E' intervenuto il
 Presidente   del  Consiglio  dei  Ministri,  rappresentato  e  difeso
 dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione, nei
 suoi vari profili, sia dichiarata infondata.    Osserva  l'Avvocatura
 nell'atto  di intervento, relativo anche all'ordinanza iscritta al n.
 776 del r.o. del 1997, che,  quanto  alle  censure  che  si  dirigono
 contro    l'art.   238-bis   cod.   proc.   pen.,   la   condizionata
 utilizzabilita' dei  verbali  delle  dichiarazioni  rese  dalle  sole
 persone  di  cui  all'art.  210 cod. proc. pen., a fronte della ampia
 utilizzabilita' delle  dichiarazioni  di  fonte  testimoniale,  trova
 giustificazione  nella  minore  attendibilita'  di tali soggetti. Ne'
 puo'  ravvisarsi  alcuna  violazione  dell'art.  112  Cost.,  poiche'
 l'esercizio  dell'azione  penale  non  puo'  che  avvenire nei limiti
 consentiti  dalla  legge.    Non  viola,  poi,  il  principio   della
 soggezione   del   giudice   soltanto   alla  legge,  la  scelta  non
 irragionevole del legislatore di far dipendere la utilizzabilita'  di
 dichiarazioni  ad  efficacia  probatoria  "incompleta"  dal  consenso
 dell'imputato, e cioe' del  soggetto  contro  il  quale  le  medesime
 potrebbero  gravare.    L'interveniente  osserva  inoltre che nessuna
 censura merita la disciplina transitoria, per sua natura rimessa alla
 discrezionalita'   sovrana   del   legislatore,   che    del    resto
 equilibratamente  consente  il  ricorso  all'incidente probatorio pur
 dopo l'esercizio dell'azione penale.
   7. - Nel corso di un dibattimento innanzi al Tribunale di San Remo,
 dopo che erano stati acquisiti i verbali degli interrogatori resi nel
 corso delle indagini preliminari da due  persone  che,  esaminate  in
 dibattimento  ex  art.  210  cod.  proc. pen., si erano avvalse della
 facolta' di non rispondere, essendo  successivamente  intervenuta  la
 legge  7  agosto 1997, n. 267, veniva disposto il nuovo esame di tali
 soggetti e di una terza persona, imputata in  procedimento  connesso.
 Tutti si avvalevano della facolta' di non rispondere.  Preso atto del
 difetto  di  consenso  da  parte  della  difesa  alla  lettura  delle
 dichiarazioni rese nella fase  delle  indagini  preliminari  da  tali
 soggetti,   il   Tribunale,  su  eccezione  del  pubblico  ministero,
 sollevava, con  ordinanza  emessa  alla  predetta  udienza  (r.o.  n.
 861/1997),  questione di costituzionalita' degli artt. 513 e 514 cod.
 proc. pen., e 6, comma 2, della legge n. 267 del 1997, in riferimento
 agli artt.  3, 24, 111 e 112 Cost.  Osserva il Tribunale che il nuovo
 testo dell'art. 513 cod. proc.    pen.  introduce  una  irragionevole
 differenziazione  di  disciplina  tra  le  dichiarazioni sul fatto di
 altri precedentemente rese dall'imputato nello stesso procedimento  e
 quelle  della  persona  esaminata  ex art.   210 cod. proc. pen., "in
 quanto solo per il primo  si  e'  ritenuta  in  concreto  sussistente
 l'ipotesi della sopravvenuta irripetibilita' dell'atto in caso di non
 presenza  in  dibattimento  o  di  esercizio  della  facolta'  di non
 rispondere,   ritenute   quindi   situazioni   di   pari   rilevanza,
 considerando  invece in modo diverso e con differente trattamento sul
 piano  probatorio  delle   relative   dichiarazioni,   le   identiche
 fattispecie  se rilevate nei confronti delle persone ex art. 210 cod.
 proc. pen.".  Il giudice a quo rileva  al  riguardo  che  proprio  in
 considerazione  di un diverso ingiustificabile regime tra i commi 1 e
 2 dell'art.   513 cod.  proc.  pen.  la  Corte  costituzionale  aveva
 dichiarato  incostituzionale,  con  la  sentenza  n. 254 del 1992, la
 disciplina del comma 2.  Un ulteriore profilo di incostituzionalita',
 con riferimento agli  artt.  3  e  24  Cost.,  viene  desunto  "dalla
 circostanza  che  l'ingresso del materiale probatorio sottoposto alla
 valutazione del giudice si fa discendere dalla volonta' delle  parti,
 violandosi cosi' anche i principi informatori del codice di rito come
 la  parita'  tra accusa e difesa nella partecipazione al processo, la
 garanzia del diritto delle parti e del PM ad ottenere l'ammissione  e
 l'acquisizione  dei mezzi di prova, l'obbligo del giudice di assumere
 le prove a discarico e a  carico  dell'imputato".    Tale  intrinseca
 illogicita'  della  scelta  del  legislatore determinerebbe anche una
 violazione  degli  artt.  111  e  112   Cost.,   perche'   l'evidente
 sperequazione  tra  le  parti  processuali  "porta  ad incidere sulla
 possibilita' del giudice  di  conoscere  i  fatti  del  processo  con
 impedimento di una valutazione complessiva del materiale probatorio".
 I  medesimi  aspetti  di  incostituzionalita',  osserva  da ultimo il
 Tribunale, riguardano anche il regime transitorio di cui all'art.  6,
 comma 2, della legge n. 267 del 1997, rilevante nel  caso  di  specie
 con  riferimento  specifico  alla  posizione  dei due soggetti le cui
 dichiarazioni predibattimentali, stante la loro  dichiarata  volonta'
 di   non   rispondere  all'esame  dibattimentale,  erano  state  gia'
 acquisite prima della entrata in vigore della predetta legge.  7.1. -
 E'  intervenuto   il   Presidente   del   Consiglio   dei   Ministri,
 rappresentato   e   difeso   dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,
 chiedendo che la questione sia dichiarata infondata, e  riportandosi,
 stante l'analogia delle questioni, all'atto di intervento relativo ai
 giudizi  di  costituzionalita'  promossi con le ordinanze iscritte ai
 nn. 776 e 787 del r.o. del 1997.
   8. - Nel corso di un dibattimento innanzi al Tribunale militare  di
 Torino il pubblico ministero chiedeva l'esame di un imputato di reato
 connesso, il quale tuttavia non si presentava e anzi, tramite missiva
 inoltrata  a  mezzo  del  difensore,  dichiarava  di  avvalersi della
 facolta' di non rispondere.  Il Tribunale, rilevato  che,  stante  il
 mancato    consenso   della   difesa   dell'imputato   nel   presente
 procedimento,  non  era  possibile   acquisire   il   verbale   delle
 dichiarazioni   rese  dal  soggetto  indicato  in  sede  di  indagini
 preliminari, e che tali dichiarazioni erano  indispensabili  ai  fini
 del  decidere,  con  ordinanza  in  data  13 novembre 1997 (r.o.   n.
 898/1997) sollevava questione di costituzionalita':  1)  degli  artt.
 210, comma 4, e 513 cod. proc. pen., in riferimento agli artt. 3, 24,
 comma  secondo,  25,  comma secondo, 101, 102, comma primo, 111 e 112
 della Costituzione, "nella parte in cui prevedono che  l'imputato  in
 un  procedimento  connesso,  che  abbia  reso  al  pubblico ministero
 dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a  carico  di
 determinati  soggetti,  possa avvalersi, nel dibattimento a carico di
 quei soggetti, della facolta' di non rispondere"; 2) dell'art.   513,
 comma  2, cod. proc. pen., come sostituito dall'art. 1 della legge n.
 267 del 1997, in riferimento agli artt. 3, 25,  comma  secondo,  101,
 102,  comma  primo,  111  e  112 Cost., "nella parte in cui subordina
 esclusivamente  all'accordo  delle  parti  la  lettura  dei   verbali
 contenenti  le dichiarazioni rese al pubblico ministero dalle persone
 indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste si siano avvalse  della
 facolta'  di  non  rispondere  o,  nel  caso  di  accoglimento  della
 eccezione sub 1), si siano rifiutate  di  rispondere".    Osserva  il
 Tribunale  come  la  giurisprudenza  costituzionale  abbia  in  varie
 pronunce evidenziato che  il  rispetto  del  principio  dell'oralita'
 debba  essere  contemperato con la esigenza di evitare la perdita, ai
 fini  della  decisione,  di quanto acquisito prima del dibattimento e
 che sia irripetibile in tale sede.  In particolare, con  la  sentenza
 n.  179  del  1994,  la Corte ha affermato che nell'ipotesi in cui il
 prossimo congiunto dell'imputato, dopo avere reso dichiarazioni nella
 fase delle indagini preliminari, si avvalga  della  facolta'  di  non
 rispondere   solo   in   sede  di  testimonianza  dibattimentale,  le
 precedenti dichiarazioni, ritualmente acquisite, non  possono  subire
 una  successiva  invalidazione  per il tardivo esercizio da parte del
 testimone della facolta' di astensione, sicche' esse  possono  essere
 utilizzate,  quali  atti  irripetibili,  a norma dell'art.   512 cod.
 proc. pen. Anche nel caso delle persone esaminate ex art.   210  cod.
 proc.  pen.  si  e'  in  presenza  di  soggetti  che nella fase delle
 indagini preliminari non  si  sono  avvalse  della  facolta'  di  non
 rispondere;   con  la  conseguenza  che  la  loro  decisione  di  non
 rispondere   in   sede   di   esame   dibattimentale   rende   l'atto
 oggettivamente   e  imprevedibilmente  irripetibile.    Ne  consegue,
 secondo il giudice a quo, che la disciplina introdotta dal  novellato
 art.  513  cod.  proc.  pen.  e'  doppiamente censurabile:   non solo
 perche' differenzia ingiustificatamente la posizione di  chi  non  si
 presenti   all'esame   dibattimentale   rispetto  a  quella  di  chi,
 comparendo, si avvalga della facolta' di non  rispondere  (in  quanto
 nel primo caso, a differenza del secondo, le precedenti dichiarazioni
 possono   essere   utilizzate),   ma,   piu'   in  generale,  perche'
 irragionevolmente sacrifica il potere del giudice del dibattimento di
 pervenire alla  piena  conoscenza  dei  fatti  oggetto  del  processo
 affinche' possa essere emessa una giusta decisione, e, ad un tempo, i
 principi  di  uguaglianza,  legalita',  esercizio dell'azione penale,
 funzione  conoscitiva   del   processo   e   indefettibilita'   della
 giurisdizione, in violazione degli artt. 2, 3, 24, secondo comma, 25,
 comma  secondo, 101, comma secondo, 102, comma primo, 111 e 112 della
 Costituzione.   La salvaguardia del  contraddittorio  dibattimentale,
 costituente  un principio cardine della riforma del 1988, puo' essere
 realizzata,  osserva  il  Tribunale,  solo  se  il  soggetto  che  e'
 sottoposto   all'esame   incrociato,   e  che  abbia  consapevolmente
 rilasciato dichiarazioni nella fase delle indagini  preliminari,  sia
 gravato  dell'obbligo  di  rispondere  alle  domande  che gli vengono
 rivolte;  fermo  restando   che   una   eventuale   declaratoria   di
 incostituzionalita'  non  equivarrebbe  di  per se' a parificare tale
 soggetto al testimone (in particolare quanto all'obbligo di  dire  la
 verita'),  essendo  una  simile  scelta  rimessa  al legislatore, che
 sarebbe libero di stabilire se  sanzionare,  e  in  quali  forme,  la
 violazione   del   dovere  di  rispondere  all'esame.    In  presenza
 dell'attuale disciplina, invece,  il  soggetto  esaminato  resterebbe
 arbitro  di  vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame.  Il
 Tribunale ritiene inoltre che l'art. 513, comma 2, cod. proc.   pen.,
 nella parte in cui rimette all'accordo delle parti la utilizzabilita'
 delle  dichiarazioni  rese  nella fase predibattimentale dal soggetto
 che in sede di esame dibattimentale ex art. 210 cod. proc. pen. abbia
 deciso  di  non  rispondere,   determini,   per   altro   verso,   un
 irragionevole  ostacolo all'esercizio della giurisdizione penale.  Un
 simile potere immotivato, discrezionale e incontrollabile delle parti
 di disporre della prova, contrastante con reiterate  affermazioni  di
 principio  della  giurisprudenza costituzionale (in particolare viene
 richiamata la sentenza n. 111 del 1993), inciderebbe sul principio di
 soggezione  del  giudice soltanto alla legge: la disponibilita' della
 prova  rende  infatti  disponibile,  indirettamente,  la  stessa  res
 judicanda,   che   viene   cosi'   a   sfuggire  all'esercizio  della
 giurisdizione, in violazione dell'art. 101, comma secondo, Cost.   Il
 giudice  a  quo  prospetta  anche  la  violazione dell'art. 25, comma
 secondo, Cost., che implica la punibilita' dei  colpevoli  di  reati:
 infatti,  condizionandosi l'utilizzo da parte del giudice di elementi
 di prova irripetibili al  consenso  dell'imputato,  si  consente  che
 quest'ultimo, mediante una scelta totalmente discrezionale, impedisca
 l'accertamento    del   fatto   e   percio'   delle   sue   eventuali
 responsabilita'.  8.1. - E' intervenuto il Presidente  del  Consiglio
 dei  Ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
 Stato,  chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  infondata,  e
 riportandosi,   stante   l'analogia   delle  questioni,  all'atto  di
 intervento relativo ai giudizi di costituzionalita' promossi  con  le
 ordinanze iscritte ai nn. 776 e 787 del r.o. del 1997.
   9.  -  Nel corso di un procedimento penale nei confronti di diversi
 imputati, il Tribunale di Savona alla  udienza  del  27  giugno  1996
 disponeva,  su  richiesta  del pubblico ministero, l'acquisizione dei
 verbali  delle  dichiarazioni  rese   nella   fase   delle   indagini
 preliminari  da  un  ex  coimputato,  la cui posizione era gia' stata
 definita  ex  art.  444  cod.  proc.  pen.,  il  quale,  comparso  in
 dibattimento  per  essere  esaminato a norma dell'art. 210 cod. proc.
 pen., si era avvalso della facolta' di non rispondere.    Entrata  in
 vigore  la legge n. 267 del 1997, alla udienza del 20 ottobre 1997 il
 pubblico ministero chiedeva, a norma  dell'art.  6,  comma  2,  della
 predetta   legge,  che  venisse  disposta  nuova  citazione  di  tale
 soggetto, nonche' di  altro  imputato  di  reato  connesso,  nei  cui
 confronti,   al  pari  del  primo,  era  precedentemente  intervenuta
 sentenza di patteggiamento.  Entrambi i soggetti si avvalevano  della
 facolta'  di  non rispondere e, non avendo i difensori degli imputati
 acconsentito    alla    lettura    delle    relative    dichiarazioni
 predibattimentali, il Tribunale, su eccezione del pubblico ministero,
 sollevava,  con ordinanza in data 3 novembre 1997 (r.o. n. 908/1997),
 questione di costituzionalita', in riferimento agli artt. 3, 25,  101
 e  112  Cost., dell'art. 6, commi 2 e 5, della legge n. 267 del 1997,
 nonche' dell'art. 513, comma 2, cod. proc. pen.    Nel  merito  della
 questione  relativa  alla disciplina transitoria, rilevante in ordine
 alle dichiarazioni rese dall'imputato in procedimento connesso e gia'
 acquisite prima dell'entrata in vigore della legge n. 267  del  1997,
 il  Tribunale  denuncia, in primo luogo, la violazione degli artt. 3,
 25, 101 e  112  della  Costituzione  in  quanto  la  norma  impugnata
 "attribuisce  rilevanza  al  consenso  espresso  dalla difesa ai fini
 della valutazione della prova, consistente in dichiarazioni  rese  da
 coimputati  e  da  imputati  o  indagati  in  procedimento connesso o
 probatoriamente collegato di cui sia  stata  data  lettura  ai  sensi
 dell'art.  513 c.p.p. previgente".  Al riguardo il rimettente osserva
 che "il principio di eguaglianza  e  il  principio  di  legalita'  in
 materia penale, da cui discende l'indisponibilita' pubblica e privata
 della  pretesa  punitiva dello Stato, il principio di obbligatorieta'
 dell'azione penale e la  regola  dell'obbligo  di  motivazione  delle
 sentenze  (con il corollario della necessaria coerenza intrinseca tra
 premesse  e  conclusioni)  conducono  a  ritenere  incompatibile  con
 l'ordinamento  costituzionale  una  interferenza  tra  volonta' delle
 parti   del   processo   e  valutazione  della  prova,  che  potrebbe
 costringere il giudice a pervenire ad una pronuncia irragionevolmente
 discriminatrice e contraddittoria, che si fondi non sulla valutazione
 razionale degli elementi legittimamente  acquisiti,  ma  anche  sulla
 volonta'  insindacabile  delle  parti processuali".   In particolare,
 risulterebbe evidente la lesione  del  principio  di  eguaglianza  in
 quanto,  in  conseguenza  di  differenti  condotte  processuali della
 difesa (consenso prestato o  meno  dai  vari  difensori  prima  della
 entrata in vigore della legge), il giudice, utilizzando nei confronti
 di   ciascun  imputato  un  materiale  probatorio  diverso,  potrebbe
 pervenire alla condanna dell'uno e alla assoluzione  dell'altro,  pur
 in  presenza di una identica posizione processuale.  In secondo luogo
 il Tribunale, con riferimento agli artt. 3, 101, comma secondo,  111,
 comma primo, Cost., ravvisa la "intrinseca irrazionalita' dell'art. 6
 comma  5  legge  n.  267/1997 nella parte in cui vieta di valutare le
 dichiarazioni acquisite ai sensi del testo previgente  dell'art.  513
 c.p.p.":    infatti    la   norma   transitoria,   "mentre   consente
 l'utilizzazione a fini di prova delle  dichiarazioni  precedentemente
 rese  dalle  persone  indicate  dall'art.  513  se la loro intrinseca
 attendibilita' e' riscontrata anche soltanto  da  altri  elementi  di
 natura   logica,  vieta  al  giudice  di  utilizzare  come  riscontro
 dichiarazioni della stessa  natura  provenienti  da  persone  diverse
 delle   quali   abbia  riconosciuto  l'attendibilita'  e  l'autonomia
 rispetto a quella da riscontrare, cosi' imponendogli  di  contraddire
 la   propria   motivata   convinzione  nel  contesto  della  medesima
 decisione".  In terzo luogo il giudice a quo ritiene violato l'art. 3
 della  Costituzione  per  disparita'  di  trattamento  "tra  chi   e'
 raggiunto  da  piu'  chiamate  in correita' convergenti, acquisite ex
 art. 513 e chi lo e' soltanto, o anche, da dichiarazioni acquisite ex
 art.  503 c.p.p. per avere il  dichiarante  rifiutato  di  rispondere
 soltanto   a   singole   domande,   o,   ancora,   da   dichiarazioni
 predibattimentali acquisite ex art. 512  c.p.p.".    In  ordine  alla
 questione relativa all'art. 513, comma 2, cod. proc.  pen., rilevante
 in  ordine  alle  dichiarazioni  rese  dall'imputato  in procedimento
 connesso citato a comparire  per  rendere  esame  dopo  l'entrata  in
 vigore  della  legge  n.  267  del 1997, il Tribunale deduce, innanzi
 tutto, la violazione dell'art. 3 Cost., "nella parte in  cui  prevede
 un  diverso  regime  di  lettura  e conseguente utilizzabilita' delle
 dichiarazioni del coimputato  a  seconda  che  questi  sia  giudicato
 contestualmente  o  separatamente".    Si  osserva al riguardo che la
 coesistenza di due regimi di utilizzabilita', a seconda che si tratti
 di  imputato  giudicato  contestualmente  (art.    513,  comma  1)  o
 separatamente   (art.  513,  comma  2)  evidenzia  una  irragionevole
 disparita' di trattamento, analoga a quella che aveva dato luogo alla
 declaratoria   di   incostituzionalita'   pronunciata   dalla   Corte
 costituzionale  con la sentenza n. 254 del 1992.  Inoltre, il giudice
 a quo ravvisa la violazione degli artt. 3 e 112 Cost.,  "nella  parte
 in cui (l'art. 513, comma 2, cod. proc. pen.  novellato) non consente
 la  lettura  di  dichiarazioni  rese al P.M., alla P.G. delegata o al
 G.I.P. nella fase delle indagini ovvero  al  G.U.P.  senza  le  forme
 degli  artt.  498  e  499  c.p.p.  da  persone indagate o imputate in
 procedimento  connesso  o  probatoriamente  collegato  che  si  siano
 avvalse   della   facolta'   di   non  rispondere  nel  caso  che  le
 dichiarazioni siano state assunte prima dell'entrata in vigore  della
 novella".   Rileva il Tribunale che tale assetto normativo si risolve
 in  una  pura  e  semplice  sottrazione  al  processo  di   materiale
 probatorio  ritualmente  assunto,  senza  che  fosse possibile, prima
 della entrata in vigore della novella, rimediare a  tale  conseguenza
 con  il ricorso all'incidente probatorio: cio' non solo determina una
 irragionevole disparita' di trattamento tra imputati, a  seconda  che
 il   dichiarante  si  sia  o  meno  avvalso  della  facolta'  di  non
 rispondere, ma anche  un  impedimento  alla  utilizzazione  di  prove
 raccolte  dal  pubblico  ministero,  non  piu'  in grado di chiederne
 l'assunzione con modalita' tali da impedirne la dispersione.  Ancora,
 sarebbe  ravvisabile  la  violazione  degli  artt.  3  e   24   della
 Costituzione  "nella  parte  in cui la norma subordina l'acquisizione
 delle dichiarazioni al consenso di tutte  le  parti".    Ed  infatti,
 attribuire  ad  una qualsiasi delle parti, sia pubbliche che private,
 compresa la parte civile, la facolta' di  paralizzare  l'acquisizione
 della  prova  nel  processo,  anche  favorevole  a  questo o a quello
 imputato, mentre conduce a conseguenze inammissibili con  gli  stessi
 principi  del processo accusatorio, dove la iniziativa della parte e'
 mezzo per ampliare, e non per restringere, la conoscenza del giudice,
 determina conseguenze lesive degli stessi  interessi  difensivi,  che
 potrebbero  essere sacrificati dalle peculiari strategie difensive di
 ciascuna parte.  9.1. - E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio
 dei  Ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
 Stato, che, riportandosi, stante l'analogia delle questioni, all'atto
 di intervento relativo ai giudizi di costituzionalita'  promossi  con
 le  ordinanze iscritte ai nn. 776 e 787 del r.o. del 1997, ha chiesto
 che la questione sia dichiarata infondata.
   10. - Nel corso di un  procedimento  penale  a  carico  di  diversi
 imputati  dei  delitti  di falsita' ideologica e abuso di ufficio, il
 Tribunale di Trani disponeva ex art. 210 cod. proc. pen. la citazione
 per l'udienza del 16  ottobre  1997  di  un  ex  coindagato  nei  cui
 confronti  era  stata disposta l'archiviazione ai sensi dell'art. 408
 cod. proc. pen.   All'udienza  indicata,  successiva  all'entrata  in
 vigore  della  legge n. 267 del 1997, tale soggetto si avvaleva della
 facolta' di non rispondere  e  il  pubblico  ministero  chiedeva  che
 fossero  acquisite  le  dichiarazioni  dallo  stesso  rese in sede di
 interrogatorio. All'acquisizione  si  opponevano  i  difensori  degli
 imputati in base a quanto disposto dall'art. 513, comma 2, cod. proc.
 pen.  come  sostituito  dall'art.   1 della legge n. 267 del 1997, di
 immediata applicabilita' nel processo in corso. Il pubblico ministero
 eccepiva l'illegittimita' costituzionale  della  suddetta  norma  per
 contrasto  con gli artt. 3, 97 e 112 Cost.  Il Tribunale, valutata la
 rilevanza  e  la  non  manifesta  infondatezza  della  questione   di
 legittimita'  prospettata e ritenuto di dover estendere d'ufficio, in
 riferimento  agli  stessi  parametri  costituzionali,   la   censura,
 formulata dal pubblico ministero in relazione all'art. 513 cod. proc.
 pen.,  agli  artt.  238  cod.  proc. pen. e 6 della legge n.  267 del
 1997, con ordinanza del 16  ottobre  1997  (r.o.  n.  913  del  1997)
 rimetteva  il  giudizio dinanzi alla Corte.  A giudizio del Tribunale
 rimettente l'art. 513, comma 2, cod. proc.    pen.,  novellato  dalla
 legge n. 267 del 1997, viola in primo luogo l'art. 3 Cost., in quanto
 determina  una irragionevole disparita' di trattamento fra situazioni
 processuali  equipollenti:  mentre,  infatti,  nel  caso  in  cui  il
 testimone  rifiuti di rispondere e' possibile ai sensi dell'art. 500,
 comma  2-bis,  cod.  proc.  pen. procedere alle contestazioni e cosi'
 "recuperare" le dichiarazioni precedentemente rese, quando a  deporre
 sia   un   imputato   di  reato  connesso  il  "recupero"  delle  sue
 dichiarazioni puo' avvenire solo su accordo delle parti.  Al riguardo
 il rimettente osserva che a venire in discussione  e',  sotto  questo
 profilo,  direttamente  l'art.  210,  comma 4, cod. proc.   pen., che
 attribuisce la facolta' di non rispondere all'indagato o imputato  in
 un procedimento connesso anche con riferimento a fatti riguardanti la
 responsabilita'  di terzi, ipotesi nella quale il dichiarante ex art.
 210 cod. proc. pen. e' in una situazione equiparabile  a  quella  del
 testimone.  Di qui la censura mossa, in riferimento all'art. 3 Cost.,
 anche all'art. 210  cod.  proc.  pen.  per  i  riflessi  sull'attuale
 disciplina  dell'art.  513  cod. proc. pen.   Un ulteriore profilo di
 disparita' di trattamento  viene  ravvisato  dal  giudice  a  quo  in
 relazione  alla  disciplina  transitoria  prevista  dall'art. 6 della
 legge n. 267 del 1997. Infatti la norma impugnata,  pur  introducendo
 ai commi 2 e 5 una disciplina di salvaguardia delle situazioni in cui
 il  dichiarante sia gia' stato esaminato prima dell'entrata in vigore
 della legge, nulla  dispone  in  ordine  alla  situazione  del  tutto
 equipollente  in cui, come nella specie, il dichiarante, esaminato in
 dibattimento dopo l'entrata in vigore della legge, si  avvalga  della
 facolta' di non rispondere e tuttavia il pubblico ministero non abbia
 avuto  alcuna  possibilita',  ai  sensi  del  comma  1,  di ricorrere
 all'incidente probatorio, essendo gia' esaurite le fasi in  cui  tale
 mezzo e' consentito.  L'art. 513, comma 2, cod. proc. pen. violerebbe
 inoltre    il   principio   del   buon   andamento   della   pubblica
 amministrazione "in quanto determina un rilevante spreco di attivita'
 amministrativa,  finalizzata  all'espletamento   delle   indagini   e
 all'introduzione   del   giudizio   dibattimentale,   allorche'  tale
 attivita' venga vanificata in conseguenza  della  impossibilita'  non
 prevedibile  di  poter utilizzare una fonte di prova", nonche' l'art.
 112 della Costituzione in quanto la norma impugnata e' di ostacolo al
 valido esercizio dell'azione penale promossa.  10.1. - E' intervenuto
 il Presidente del Consiglio  dei  Ministri,  rappresentato  e  difeso
 dall'Avvocatura generale dello Stato che, richiamandosi integralmente
 all'atto  di  intervento  relativo  ai  giudizi  di costituzionalita'
 promossi con le ordinanze iscritte ai numeri 776 e 787 del  r.o.  del
 1997, ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
                         Considerato in diritto
   1.  -  Preliminarmente la Corte deve prendere in esame le questioni
 della ammissibilita' della costituzione in giudizio  del  Procuratore
 della Repubblica presso il Tribunale di Torino (r.o. n. 915 del 1997)
 e  della  provincia di Bologna, qualificatasi come persona offesa nel
 procedimento avanti al tribunale per i minorenni di Bologna (r.o.  n.
 776 del 1997).   1.1.  -  Come  questa  Corte  ha  piu'  volte  avuto
 occasione  di affermare (sentenze numeri 1 e 375 del 1996 e ordinanza
 n. 327 del 1995), la costituzione del pubblico ministero nel giudizio
 incidentale  di  costituzionalita'  deve   ritenersi   inammissibile:
 infatti,  nonostante  al  pubblico  ministero  debba  riconoscersi la
 qualita' di parte nel processo a quo,  da  un  lato  la  peculiarita'
 della sua posizione ordinamentale e processuale, dall'altro l'attuale
 disciplina  (articoli  20,  23 e 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
 articoli 3 e 17 delle norme integrative per i  giudizi  davanti  alla
 Corte  costituzionale),  che tiene distinti il "pubblico ministero" e
 le "parti", inducono ad escludere la costituzione in giudizio di tale
 soggetto.    La  peculiarita' del ruolo del pubblico ministero fa poi
 ritenere non irragionevole la scelta discrezionale del legislatore di
 distinguere tale organo rispetto alle parti del procedimento  a  quo,
 non  prevedendone  la legittimazione a costituirsi nel giudizio sulle
 leggi.  Appare  pertanto  priva  di  fondamento    la  questione   di
 legittimita'  costituzionale  degli  articoli  23 e 25 della legge 11
 marzo 1953, n. 87, nella parte in cui  non  contemplano  il  pubblico
 ministero  tra  i  soggetti  che possono costituirsi, prospettata, in
 riferimento all'art. 3  della  Costituzione,  dal  procuratore  della
 Repubblica  presso  il  Tribunale  di  Torino nelle deduzioni scritte
 presentate   sotto   forma   di   atto   di   costituzione,   nonche'
 nell'illustrazione  delle  ragioni  che  e'  stato  ammesso a rendere
 nell'udienza  pubblica.    1.2.  -  E'  del  pari  inammissibile   la
 costituzione  della  persona offesa provincia di Bologna, che non era
 parte nel procedimento a quo.
   2.  -  Le  numerose  questioni   di   legittimita'   costituzionale
 sottoposte all'esame della Corte riguardano l'art. 210, comma 4, cod.
 proc.   pen., nonche' gli articoli 238, commi 2-bis e 4, e 513, commi
 1 e 2, cod. proc.  pen.  -  questi  ultimi  nelle  parti  modificate,
 rispettivamente,  dagli  articoli 3 e 1 della legge 7 agosto 1997, n.
 267 (Modifica delle disposizioni del codice di  procedura  penale  in
 tema  di  valutazione  delle  prove) - e l'art. 6, commi 2 e 5, della
 predetta  legge,  contenente  norme  transitorie   circa   la   nuova
 disciplina  dell'art. 513 cod. proc.  pen.  In estrema sintesi, tutte
 le questioni attengono alle  regole  di  acquisizione  probatoria  di
 dichiarazioni  sul  fatto  altrui rese in precedenza da imputati, sia
 nel medesimo procedimento, sia in procedimento separato, non comparsi
 in dibattimento, ovvero che rifiutino di sottoporsi  all'esame  o  si
 avvalgano   della   facolta'  di  non  rispondere.  Le  questioni  si
 riferiscono dunque, nell'ambito dell'articolato e  complesso  sistema
 normativo  che  disciplina la formazione della prova in dibattimento,
 ad  una  peculiare   categoria   di   dichiarazioni,   caratterizzate
 dall'essere   rese   da  imputati  e  dall'avere  per  oggetto  fatti
 concernenti la responsabilita' di altri imputati.  In particolare, le
 questioni investono:  con riguardo all'art. 513, comma 1, cod.  proc.
 pen.,  la  regola  che  subordina  al  consenso  degli altri imputati
 l'utilizzazione delle dichiarazioni rese in precedenza  dall'imputato
 nel  medesimo  procedimento che in dibattimento rifiuti di sottoporsi
 all'esame; con riguardo all'art. 513, comma 2, cod.  proc.  pen.,  la
 regola  che  condiziona  all'accordo  delle  parti  la  lettura delle
 dichiarazioni  rese  in  precedenza  dall'imputato  in   procedimento
 separato  che  in  dibattimento  si  avvale  della  facolta'  di  non
 rispondere;  con  riguardo  alle  disposizioni  transitorie   dettate
 dall'art.    6  della legge n. 267 del 1997 in relazione all'art. 513
 cod. proc.  pen., la diversita' di disciplina  circa  l'utilizzazione
 delle  dichiarazioni  nei giudizi in corso, a seconda che, al momento
 di entrata in vigore della legge, non fosse ancora ovvero fosse  gia'
 stata disposta la lettura delle dichiarazioni rese in precedenza; con
 riguardo  all'art.  238,  commi  2-bis  e  4,  cod.  proc.  pen.,  la
 disciplina che prevede la utilizzazione delle dichiarazioni  rese  in
 altro  dibattimento  soltanto  nei  confronti  degli  imputati  i cui
 difensori  hanno   partecipato   all'assunzione   della   prova   nel
 procedimento  separato,  ovvero  soltanto nei confronti dell'imputato
 che  vi  consenta;  infine,  con riguardo all'art. 210, comma 4, cod.
 proc. pen., non modificato dalla legge n. 267 del 1997,  la  facolta'
 di  non rispondere riconosciuta all'imputato in procedimento connesso
 o probatoriamente collegato.   Poiche'  le  ordinanze  di  rimessione
 sollevano  questioni  identiche  o  analoghe,  comunque  coinvolgenti
 complessivamente  gli  articoli  del  codice  di   procedura   penale
 sostituiti  o  modificati  dalla legge n.  267 del 1997 e le relative
 norme transitorie, nonche' l'art. 210, comma 4, cod. proc.  pen.,  ad
 essi  strettamente  collegato,  e' opportuno disporre la riunione dei
 relativi  giudizi.    2.1.  -  L'esame  delle  molteplici   questioni
 prospettate   dai   giudici  rimettenti  presuppone  l'individuazione
 preliminare dei valori costituzionali coinvolti dal complesso sistema
 normativo sottoposto al giudizio della Corte.  Viene innanzitutto  in
 gioco l'inviolabilita' del diritto di difesa dell'imputato, nella sua
 dimensione di diritto fondamentale della persona, garantito dall'art.
 24  della  Costituzione,  con particolare riferimento, per quanto qui
 interessa, sia all'imputato  che  ha  reso  dichiarazioni  sul  fatto
 altrui,  sia  all'imputato  nei cui confronti tali dichiarazioni sono
 rivolte.  Quanto al primo, l'intangibilita' del  diritto  di  difesa,
 sotto  forma  del  rispetto del principio nemo tenetur se detegere, e
 conseguentemente del diritto al silenzio, si manifesta nella garanzia
 dell'esclusione, anche quando l'imputato abbia reso dichiarazioni  su
 fatti  concernenti  la  responsabilita'  di  altri,  dell'obbligo  di
 rispondere in  dibattimento  a  domande  che  potrebbero  coinvolgere
 responsabilita'  proprie.    Quanto  al  secondo,  e'  manifestazione
 irrinunciabile del diritto di difesa che all'imputato sia  assicurata
 la  possibilita',  salvo  che  egli  stesso  vi  abbia rinunciato, di
 sottoporre al vaglio del  contraddittorio  le  dichiarazioni  che  lo
 riguardano,  in  conformita' al metodo di formazione dialettica della
 prova  davanti  al  giudice  chiamato  a   decidere.      Sul   piano
 costituzionale,  viene  inoltre  in  gioco  la  funzione del processo
 penale, che e' strumento,  non  disponibile  dalle  parti,  destinato
 all'accertamento  giudiziale  dei  fatti  di  reato  e delle relative
 responsabilita'.   Tale  funzione  non  puo'  essere  utilizzata  per
 attenuare  la  tutela - piena e incoercibile - del diritto di difesa,
 coessenziale allo stesso processo. Sono invece censurabili, sotto  il
 profilo della ragionevolezza, soluzioni normative che, non necessarie
 per  realizzare  le  garanzie della difesa, pregiudichino la funzione
 del processo.
   3. -  La  maggior  parte  delle  ordinanze  sollevano  problemi  di
 costituzionalita' dell'art. 513, comma 2, cod. proc. pen. riguardante
 il  rifiuto  di  rispondere in dibattimento della persona imputata in
 separato procedimento connesso o collegato, che abbia  in  precedenza
 reso dichiarazioni sul fatto altrui.  Il Tribunale per i minorenni di
 Bologna  (r.o.  n.  776/1997),  il  tribunale  di  Bergamo  (r.o.  n.
 81/1998), il tribunale militare di  Torino  (r.o.  n.  898/1997),  il
 tribunale  di  Savona (r.o. n. 908/1997), il tribunale di Trani (r.o.
 n. 913/1997) e il Tribunale di San Remo (r.o. n.  861/1997)  dubitano
 della legittimita' costituzionale dell'art.  513, comma 2, cod. proc.
 pen., nella parte in cui subordina all'accordo delle parti la lettura
 dei  verbali  contenenti  le  dichiarazioni  predibattimentali  delle
 persone indicate nell'art. 210 cod. proc. pen. (imputati del medesimo
 reato, di reati connessi ovvero di  reati  probatoriamente  collegati
 nei  confronti dei quali si procede o si e' proceduto separatamente),
 che  si  avvalgano  in dibattimento della facolta' di non rispondere.
 Il tribunale di San Remo (r.o. n.  861/1997)    formalmente  impugna,
 unitamente  all'art.  513,  comma  2,  cod.  proc.  pen., che detta i
 criteri cui e' subordinata la lettura delle  suddette  dichiarazioni,
 anche  l'art.  514 cod. proc. pen., che, al contrario, quale norma di
 chiusura, disciplina le letture vietate.   Il  tribunale  di  Bergamo
 (r.o. n. 81/1998), il tribunale militare di Torino (r.o. n. 898/1997)
 e  il  tribunale  di  Trani  (r.o.  n. 913/1997) impugnano inoltre il
 regime processuale delle letture dettato dall'art.    513,  comma  2,
 cod.  proc.  pen.  in  relazione al comma 4 dell'art. 210, cod. proc.
 pen., che attribuisce la  facolta'  di  non  rispondere  ai  soggetti
 indicati  nel  comma  1  del medesimo articolo.   3.1. - A parere dei
 rimettenti l'art. 513, comma 2, violerebbe gli articoli 3 e 24  della
 Costituzione:    a)  perche'  l'ingresso  delle dichiarazioni rese in
 precedenza fra il materiale probatorio  sottoposto  alla  valutazione
 del giudice viene fatto dipendere dalla volonta' delle parti (r.o. n.
 776/1997 con esclusivo riferimento alla intrinseca irragionevolezza):
 in  particolare,  attribuendo  ad  una qualsiasi di essa, compresa la
 parte civile, la facolta' di paralizzare l'acquisizione della  prova,
 anche  se  favorevole  ad un imputato (r.o. n. 908/1997), violando la
 parita' tra accusa e difesa  nella  partecipazione  al  processo,  la
 garanzia  del diritto delle parti private e del pubblico ministero ad
 ottenere  l'ammissione  e  l'acquisizione  dei  mezzi  di  prova,  ed
 impedendo  al  giudice  di  assumere  le prove a discarico e a carico
 dell'imputato (r.o. n. 861/1997);  b)  in  quanto  tale  disposizione
 determina   una   irragionevole  disparita'  di  trattamento  tra  la
 disciplina della utilizzazione delle  dichiarazioni  rese  nel  corso
 delle   indagini   dal  testimone  che  rifiuti  in  dibattimento  di
 rispondere e quella delle dichiarazioni rese  dagli  imputati  in  un
 procedimento  connesso, "giacche' mentre nel caso in cui il testimone
 si rifiuti di rispondere possono, ai sensi del comma  2-bis  dell'art
 500  cod. proc. pen., recuperarsi le sue dichiarazioni, viceversa nel
 caso in  cui  il  dichiarante  ex  art.  210  cod.  proc.  pen.  (che
 sostanzialmente  altri  non  e'  che  un testimone seppure fornito di
 particolari garanzie) si rifiuta di rispondere, il recupero delle sue
 dichiarazioni non puo' avvenire che con l'accordo delle parti"  (r.o.
 n.  913/1997);  c) perche', in riferimento anche agli articoli 2, 25,
 101, 102,  111  e  112  della  Costituzione,  la  norma  impugnata  -
 comportando  la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito
 prima del dibattimento e che sia oggettivamente irripetibile in  tale
 sede,  per  via  della  decisione di non rispondere a dibattimento di
 persone che avevano precedentemente scelto di non avvalersi  di  tale
 facolta'  rendendo  dichiarazioni indizianti nei confronti di altri -
 pone il giudice nell'impossibilita' di emettere una giusta  decisione
 e  viola  ad un tempo i principi di uguaglianza, legalita', esercizio
 dell'azione    penale,    funzione    conoscitiva    del    processo,
 indefettibilita'  della  giurisdizione  ed  essenzialmente  lo stesso
 diritto al contraddittorio ("il conflitto reale non e' tra diritto di
 difesa e giurisdizione, ma tra  i  diritti  di  difesa  di  cui  sono
 titolari  i  diversi  soggetti"  - r.o. n. 898/1997).  3.2. - Facendo
 riferimento agli stessi parametri sopra indicati, richiamati  per  lo
 piu'   congiuntamente,   alcune   ordinanze   denunciano  inoltre  la
 violazione:      a)   del   principio   di   indefettibilita'   della
 giurisdizione,  del  libero  convincimento  del  giudice  e della sua
 soggezione  solo  alla  legge,  in  quanto  il  diritto  riconosciuto
 all'imputato di opporsi ad libitum all'utilizzazione di prove  a  suo
 carico  gli  consentirebbe  di disporre del processo e impedirebbe al
 giudice di conoscere i  fatti  del  processo  oggetto  del  giudizio,
 nonche' di valutare complessivamente il materiale probatorio (r.o. n.
 81/1998,  r.o.  n.  776/1997, r.o.   n. 861/1997, in riferimento agli
 articoli 111  e  112  della  Costituzione  e  r.o.  n.  898/1997,  in
 riferimento  all'art. 101, secondo comma, Cost.); b) del principio di
 non dispersione della prova, enucleato dalla Corte costituzionale con
 le sentenze n. 254 e 255 del  1992,  e  tendente  a  contemperare  il
 rispetto  del principio guida dell'oralita' con l'esigenza di evitare
 la perdita di quanto acquisito prima del dibattimento, cosi' che  non
 sia sacrificato lo scopo essenziale del processo penale, che consiste
 nella ricerca della verita' e in una decisione giusta, nonche', sotto
 altro profilo, del diritto di difesa della parte civile la quale, non
 potendo  chiedere ne' partecipare all'incidente probatorio nella fase
 delle  indagini  preliminari,   potrebbe   vedere   irrimediabilmente
 compromesso  il  suo interesse alla acquisizione della prova a carico
 dell'imputato, e  tuttavia  potrebbe  anche,  per  il  suo  singolare
 interesse,  opporsi alla acquisizione di dichiarazione che scagionino
 l'imputato (r.o. n. 81/1998, in riferimento agli articoli 3, 24,  25,
 101,  102,  111  e  112 Cost.); c) del principio dell'obbligatorieta'
 dell'azione penale, in quanto  la  disciplina  impugnata  produrrebbe
 l'effetto  di paralizzare ex post l'iniziativa penale, cosi' di fatto
 violando il principio  dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  che
 comporta   che   l'organo  della  pubblica  accusa  sia  messo  nelle
 condizioni di  esercitare  validamente  l'azione  promossa  (r.o.  n.
 913/1997,  in  riferimento  all'art.  112  Cost.).   Per il tribunale
 militare di Torino e per il  tribunale  di  Trani  sarebbero  inoltre
 violati  l'art.  25, secondo comma, Cost., perche' i principi in esso
 affermati implicano la punibilita' dei colpevoli di  reati  (r.o.  n.
 898/1997), e l'art. 97 Cost., in quanto la norma impugnata "determina
 un   rilevante   spreco   di  attivita'  amministrativa,  finalizzata
 all'espletamento  delle  indagini  e  all'introduzione  del  giudizio
 dibattimentale,  (...) vanificata in conseguenza della impossibilita'
 non prevedibile di poter utilizzare una  fonte  di  prova"  (r.o.  n.
 913/1997).   3.3. - Il tribunale di Savona e il tribunale di San Remo
 censurano il medesimo art. 513, comma  2,  cod.  proc.  pen.  per  la
 irragionevole  diversita'  dei  regimi di utilizzabilita' dettati nel
 caso in cui l'imputato - dello stesso reato, di reato connesso  o  di
 reato probatoriamente collegato - sia giudicato contestualmente (art.
 513,  comma  1, cod.  proc. pen.) o separatamente (art. 513, comma 2,
 cod. proc. pen.)  (r.o. n. 861/1997 e n. 908/1997).
   4. - Le censure mosse all'art. 513, comma 2, cod. proc.  pen.  sono
 sostanzialmente  riconducibili a quattro profili, sovente prospettati
 come concorrenti o interdipendenti.  In primo luogo, viene  eccepita,
 in   riferimento   agli  articoli  3  e  24  Cost.,  l'illegittimita'
 costituzionale della norma in esame  per  l'irragionevolezza  di  una
 disciplina che subordina alla volonta' delle parti l'acquisizione del
 materiale  probatorio  suscettibile di essere valutato dal giudice ai
 fini della decisione, attribuendo ad una qualsiasi delle  parti,  ivi
 compresa  la  parte civile, la facolta' di paralizzare l'acquisizione
 della prova. Verrebbe cioe'  introdotto  un  inammissibile  principio
 dispositivo  in  materia  di  prova,  e  si consentirebbe allo stesso
 imputato  di  disporre  del  processo,  attribuendogli  ad libitum il
 diritto  di  opporsi  all'utilizzazione  di  prove  a  suo  carico  e
 impedendo correlativamente al giudice di conoscere i fatti di causa e
 di valutare complessivamente il materiale probatorio.  Consequenziali
 a  questo profilo sarebbero la violazione del principio della parita'
 tra  accusa  e  difesa  e  del  diritto  delle  parti   di   ottenere
 l'ammissione  e l'acquisizione dei mezzi di prova.  La violazione del
 principio di ragionevolezza viene eccepita  anche  sotto  il  diverso
 profilo   della  ingiustificata  disparita'  di  trattamento  tra  la
 disciplina delle dichiarazioni rese  nel  corso  delle  indagini  dal
 testimone, che poi rifiuta o omette in tutto o in parte di rispondere
 durante   l'esame   in   dibattimento,   e   quella   riservata  alle
 dichiarazioni rese in precedenza  dall'imputato  in  un  procedimento
 connesso,  che  poi  si  avvale in dibattimento della facolta' di non
 rispondere: nel primo caso, infatti, le dichiarazioni  del  testimone
 possono    essere   "recuperate"   mediante   il   meccanismo   delle
 contestazioni, operante ex art. 500,  comma  2-bis  cod.  proc.  pen.
 anche nel caso di rifiuto parziale o totale di rispondere, mentre nel
 caso  in cui l'imputato in procedimento connesso, che sostanzialmente
 non sarebbe altro che un testimone, seppure  fornito  di  particolari
 garanzie, si avvale in dibattimento della facolta' di non rispondere,
 le dichiarazioni rese in precedenza possono essere recuperate solo se
 vi  e'  l'accordo  delle parti.   Un ulteriore profilo pone l'accento
 sulla violazione  del  diritto  al  contraddittorio,  in  riferimento
 all'art.   24  Cost.:  a  seguito  della  disciplina  impugnata,  "il
 conflitto reale" non si porrebbe tra diritto di difesa  ed  esercizio
 della  giurisdizione,  ma  tra  i  diritti  di  difesa  di  cui  sono
 rispettivamente  titolari   l'imputato   in   procedimento   connesso
 "dichiarante  contra  alios"  che  si  avvale  della  facolta' di non
 rispondere,  e  l'imputato  destinatario  delle  dichiarazioni,   che
 perderebbe  il  diritto al contraddittorio.  Infine, un quarto gruppo
 di censure chiama in causa anche la violazione  degli  articoli  101,
 secondo  comma,  102,  primo  comma,  111  e  112  Cost.:    la norma
 impugnata, in quanto comporta la perdita, ai fini della decisione, di
 elementi   di   prova   divenuti   oggettivamente   irripetibili   in
 dibattimento a causa della decisione di non rispondere di persone che
 in  precedenza  non si erano avvalse di tale facolta' ed avevano reso
 dichiarazioni   a   carico   di   altri,    porrebbe    il    giudice
 nell'impossibilita'  di  emettere  una giusta decisione e inciderebbe
 sul libero convincimento del giudice e sulla sua soggezione solo alla
 legge, sulla funzione conoscitiva del processo, sull'indefettibilita'
 della giurisdizione, sull'obbligatorieta' dell'esercizio  dell'azione
 penale.    4.1  -  Le  questioni  sono fondate, nei limiti di seguito
 precisati, in riferimento agli articoli 3 e 24  Cost.    L'art.  513,
 comma 2, cod. proc. pen. prevede i casi in cui e' possibile procedere
 alla  lettura  in dibattimento delle dichiarazioni rese in precedenza
 al pubblico ministero  o  alla  polizia  giudiziaria  su  delega  del
 pubblico  ministero o al giudice nel corso delle indagini preliminari
 o nell'udienza preliminare dalle persone indicate nell'art. 210  cod.
 proc.  pen.  (imputati  in un procedimento connesso a norma dell'art.
 12 cod. proc. pen. e imputati di un reato probatoriamente collegato a
 norma dell'art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc.  pen.,  nei  cui
 confronti  si  procede o si e' proceduto separatamente). Si tratta di
 persone che, proprio in quanto esaminate in un  procedimento  diverso
 da  quello  a  loro  carico,  sono  necessariamente  sentite su fatti
 concernenti  la  responsabilita'  di  altri  imputati.      In   base
 all'originaria  disciplina  del codice, ove il dichiarante, presente,
 si fosse avvalso della facolta' di  non  rispondere,  riconosciutagli
 dall'art.  210,  comma  4,  cod.  proc.  pen.,  secondo la prevalente
 interpretazione  giurisprudenziale  non  era  possibile  disporre  la
 lettura  delle  precedenti  dichiarazioni, espressamente ammessa solo
 nel caso in cui lo stesso non fosse presente. Alla  stregua  di  tale
 interpretazione,  si  ritenne  che la disciplina differisse da quella
 stabilita nell'art. 513, comma 1, cod. proc. pen. in caso di  rifiuto
 dell'imputato nel medesimo procedimento di sottoporsi all'esame: tale
 norma  prevedeva  infatti  che,  a  richiesta  di parte, poteva esser
 disposta la lettura-acquisizione delle precedenti  dichiarazioni  sia
 nei   casi  di  contumacia  o  assenza,  sia  in  quello  di  rifiuto
 dell'imputato,  presente,  di  sottoporsi  all'esame.    La  ritenuta
 disparita'  di  trattamento tra il secondo e il primo comma dell'art.
 513 cod. proc. pen. venne giudicata da questa Corte (v.  sentenza  n.
 254 del 1992) "del tutto sfornita di ragionevole giustificazione": da
 un  lato  la  Corte  ha  rilevato  che,  essendo  riconosciuta  anche
 all'imputato in procedimento connesso la facolta' di non  rispondere,
 e  di sottrarsi quindi, in tutto o in parte, all'esame, si versava in
 una  situazione  di  impossibilita'   sopravvenuta   di   ripetizione
 dell'atto  del  tutto  analoga alla indisponibilita' dell'imputato di
 sottoporsi all'esame, che a norma  del  primo  comma  determinava  la
 lettura  delle  precedenti  dichiarazioni;  dall'altro, che la palese
 irragionevolezza della norma impugnata si manifestava con particolare
 evidenza ove si considerasse  che  la  diversita'  di  disciplina  in
 ordine  alla  possibilita'  di  lettura  delle  dichiarazioni rese in
 precedenza,  a  seconda  che  si  procedesse  in  un  unico  processo
 cumulativo  ovvero  separatamente, dipendeva da "scelte o valutazioni
 contingenti di natura strettamente processuale ..., se non da  eventi
 del  tutto  casuali";  con  la conseguenza che "la circostanza che al
 simultaneus processus non si addivenga per qualsiasi causa  non  puo'
 ragionevolmente  mutare  il regime di leggibilita' in dibattimento (e
 quindi  di   utilizzabilita'   ai   fini   della   decisione)   delle
 dichiarazioni  rese durante le indagini preliminari dagli imputati di
 detti procedimenti".  L'art. 513, comma 2, cod. proc. pen.  e'  stato
 pertanto  dichiarato  illegittimo nella parte in cui non prevedeva la
 lettura dei verbali delle dichiarazioni rese dalle  persone  indicate
 nell'art.  210 cod.   proc. pen., che si erano avvalse della facolta'
 di non rispondere.   La  disciplina  risultante  da  tale  intervento
 additivo  e'  stata  radicalmente  modificata  dalla legge n. 267 del
 1997. Dalla nuova formulazione dell'art. 513,  comma  2,  cod.  proc.
 pen.  emerge  in primo luogo che e' stata reintrodotta, ai fini della
 disciplina  della  lettura,  la  distinzione  tra  impossibilita'  di
 ottenere la presenza del dichiarante (ovvero di procedere all'esame a
 domicilio  o  alla rogatoria internazionale o all'esame in altro modo
 previsto dalla legge con le garanzie del contraddittorio) e esercizio
 da parte del dichiarante presente della facolta' di  non  rispondere.
 Ove  ricorra  la  prima situazione, il giudice, a richiesta di parte,
 dispone a norma dell'art.  512  cod.  proc.  pen.  la  lettura  delle
 dichiarazioni   rese  in  precedenza  qualora  la  impossibilita'  di
 ripetizione dipenda da fatti o circostanze imprevedibili  al  momento
 delle  dichiarazioni.  Ove il dichiarante, presente, si avvalga della
 facolta'  di  non rispondere, la lettura dei verbali delle precedenti
 dichiarazioni puo' invece  essere  disposta  soltanto  con  l'accordo
 delle parti.  Si e' quindi ritornati, sia pure con alcune variazioni,
 ad  una  disciplina  analoga a quella vigente prima della sentenza n.
 254 del 1992: in caso di esercizio della facolta' di non  rispondere,
 la  lettura non e' preclusa in modo assoluto, ma risulta condizionata
 all'accordo delle parti; in caso di  impossibilita'  di  ottenere  la
 presenza  del  dichiarante, la lettura non e' ammessa sempre, ma solo
 nelle ipotesi in  cui  la  impossibilita'  di  ripetizione  dell'atto
 dipenda  da  fatti  o  circostanze  imprevedibili  al  momento  delle
 dichiarazioni.  4.2. - La scelta del legislatore del 1997  e'  venuta
 incontro  all'indiscutibile  esigenza  di precludere, in mancanza del
 consenso   dei   soggetti   interessati,   l'acquisizione   meramente
 "cartolare" delle dichiarazioni precedentemente rese sul fatto altrui
 dall'imputato  di  reato  connesso  o  collegato  che in dibattimento
 rifiuti  di  rispondere:  il  metodo  di   acquisizione   di   queste
 dichiarazioni,  raccolte  in  un contesto in cui non e' assicurata la
 garanzia del contraddittorio, impediva  infatti  all'imputato  a  cui
 erano  rivolte  di esercitare in dibattimento il fondamentale diritto
 di confrontarsi con la fonte di accusa.  Lo  stesso  legislatore  del
 1997  ha  poi  allargato  le ipotesi in cui e' possibile disporre con
 incidente probatorio l'esame su fatti concernenti la  responsabilita'
 di  altri  sia  della  persona  sottoposta alle indagini nel medesimo
 procedimento, sia delle persone indicate  nell'art.  210  cod.  proc.
 pen.  (art.  392,  comma  1,  lett.  c) e d), cod. proc. pen.), ed ha
 esteso all'udienza preliminare la possibilita' di esaminarle  con  le
 forme  dell'esame  diretto e del controesame (art. 421, comma 2, cod.
 proc.   pen.), ampliando, mediante  strumenti  attivabili  anche  per
 iniziativa  della difesa dell'imputato, gli spazi del contraddittorio
 (sia pure anticipato) su  atti  destinati  ad  essere  utilizzati  in
 dibattimento.  Cio' che invece nella legge n. 267 del 1997 delinea un
 sistema    privo   di   ragionevole   giustificazione   e'   che   la
 utilizzabilita' delle precedenti dichiarazioni venga fatta  dipendere
 dalla  scelta  meramente  discrezionale dell'imputato in procedimento
 connesso di  rispondere  in  dibattimento  su  fatti  concernenti  la
 responsabilita'  di  altri, dopo che il medesimo imputato, pur avendo
 la facolta' di non rispondere a norma dell'art. 210,  comma  4,  cod.
 proc.  pen.,  si  era in precedenza consapevolmente risolto a rendere
 dichiarazioni erga alios.  Va infatti considerato che,  da  un  lato,
 l'ordinamento   consente   di   assumere  nel  corso  delle  indagini
 preliminari dichiarazioni  dell'indagato  o  dell'imputato  su  fatti
 concernenti  la  responsabilita'  di altri; dall'altro lato, la norma
 impugnata subordina la possibilita' di fare rientrare  le  precedenti
 dichiarazioni tra il materiale suscettibile di valutazione probatoria
 alla   scelta   del   dichiarante,   assolutamente   discrezionale  e
 potestativa, di non avvalersi   della  facolta'  di  non  rispondere.
 Specularmente, la scelta del dichiarante di rifiutare in dibattimento
 di  sottoporsi  al  contraddittorio  con  il  destinatario  delle sue
 precedenti  dichiarazioni  viene  a  combinarsi  con  la  prevedibile
 mancanza dell'accordo di tutte le parti -  portatrici di contrastanti
 interessi   processuali,   -  alla  lettura.    L'irragionevolezza  e
 l'incoerenza  di  tale  meccanismo  sono   di   immediata   evidenza:
 l'esclusione delle dichiarazioni rese in precedenza dal patrimonio di
 conoscenze  del  giudice  risulta  infatti  rimessa  alla concorrente
 volonta'   dell'imputato  in  procedimento  connesso  e  della  parte
 processualmente   interessata    a    impedire    l'acquisizione    e
 l'utilizzazione  delle dichiarazioni stesse.  Ne risulta pregiudicata
 la stessa funzione essenziale del processo, che e' appunto quella  di
 verificare  la  sussistenza  dei  reati  oggetto  del  giudizio  e di
 accertare le relative responsabilita'.  Da un lato, non  e'  conforme
 al  principio  costituzionale  di  ragionevolezza  una disciplina che
 precluda a priori l'acquisizione in dibattimento di elementi di prova
 raccolti  legittimamente  nel  corso  delle  indagini  preliminari  o
 nell'udienza preliminare; dall'altro, la tutela del diritto di difesa
 impone  che  l'ingresso di tali elementi nel patrimonio di conoscenze
 del giudice  sia  subordinato  alla  possibilita'  di  instaurare  il
 contraddittorio   tra   il   dichiarante   e  il  destinatario  delle
 dichiarazioni.  La mancata previsione di  contestazioni  in  caso  di
 esercizio  della  facolta'  di non rispondere preclude invece in modo
 assoluto la possibilita' di esaminare il dichiarante.  L'effetto  che
 ne  consegue  -  perdita  definitiva delle precedenti dichiarazioni -
 impedisce, proprio in virtu'  della  disciplina  contenuta  nell'art.
 513,  comma 2, cod. proc.  pen., la formazione dialettica della prova
 davanti al giudice.    Diversamente,  nel  disciplinare  l'esame  dei
 testimoni,  i  commi  2-bis  e  4  dell'art.  500,  cod. proc. pen. -
 introdotti  dal d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito nella legge  7
 agosto  1992,  n. 356, dopo che questa Corte, con sentenza n. 255 del
 1992, aveva dichiarato illegittima  la  precedente  disciplina  nella
 parte  in  cui  non  prevedeva  l'acquisizione  nel  fascicolo per il
 dibattimento, se erano state utilizzate per le  contestazioni,  delle
 dichiarazioni  precedentemente  rese dal testimone - stabiliscono che
 le parti possono procedere alle contestazioni anche quando  il  teste
 rifiuta  o  comunque omette, in tutto o in parte, di rispondere sulle
 circostanze  riferite  nelle  precedenti  dichiarazioni,  e  che   le
 dichiarazioni  utilizzate  per  le  contestazioni  sono acquisite nel
 fascicolo per il dibattimento e valutate come prova dei fatti in esse
 affermati se sussistono altri elementi di  prova  che  ne  confermano
 l'attendibilita'.    Ebbene,  il  meccanismo disegnato dall'art. 500,
 comma 2-bis cod.   proc. pen.  indica  la  soluzione,  offerta  dallo
 stesso  ordinamento,  per  porre  rimedio  ai  vizi  di  legittimita'
 costituzionale dell'art.  513, comma 2, cod. proc. pen.    Va  tenuto
 infatti   presente   che   sul   terreno  processuale  l'imputato  in
 procedimento  connesso  e'  in  gran  parte  gia'   sottoposto   alla
 disciplina  propria  dei  testimoni:  l'art. 210, comma 2, cod. proc.
 pen.  prevede  la  citazione  mediante  le  norme  per  i  testimoni,
 l'obbligo  di  presentazione al giudice e l'accompagnamento coattivo.
 Tali simmetrie trovano appunto spiegazione  e  giustificazione  nella
 analogia   tra   le   posizioni   processuali   di  soggetti  le  cui
 dichiarazioni sono contraddistinte dall'essere rivolte, e dall'essere
 destinate a valere, nei confronti di altri.  E' dunque  coerente  con
 il rispetto dei principi costituzionali di cui e' stata denunciata la
 violazione  che  alle  persone indicate nell'art. 210 cod. proc. pen.
 vengano applicate le regole relative alle contestazioni previste  per
 i  testimoni  anche  in  caso  di  rifiuto di rispondere: mediante il
 sistema delle contestazioni di cui all'art.   500, comma  2-bis  cod.
 proc.  pen.,  alla  parte  che  ha chiesto l'esame e' infatti data la
 possibilita' di portare direttamente davanti al giudice il  contenuto
 delle   dichiarazioni  rese  in  precedenza  e  alle  controparti  di
 sottoporle  al  vaglio  critico,  sollecitando  e favorendo eventuali
 ritrattazioni, correzioni e chiarimenti.   Risulta  cosi'  possibile:
 superare la manifesta irragionevolezza di disposizioni che consentono
 all'autorita' giudiziaria di raccogliere legittimamente dichiarazioni
  nel  corso  delle  indagini  preliminari  e che, poi, ne affidano la
 possibilita'   di   acquisizione   in   dibattimento   alla    scelta
 discrezionale  di  chi  in  precedenza  ha  liberamente  reso  quelle
 dichiarazioni;  salvaguardare  il  diritto  di  difesa  dell'imputato
 dichiarante e insieme dell'imputato destinatario delle dichiarazioni:
 il  diritto  al  silenzio non viene scalfito ove il dichiarante venga
 sottoposto  alle  contestazioni  sulle  circostanze  riferite   nelle
 precedenti dichiarazioni; il diritto al contraddittorio dell'accusato
 non  puo'  identificarsi  con  il potere di veto, ma va correttamente
 inteso   come   diritto   a   contestare   tali   dichiarazioni    in
 contraddittorio con le altre parti e davanti al giudice, adottando il
 meccanismo  gia' previsto dal legislatore in caso di rifiuto totale o
 parziale di rispondere del testimone.    Al  riguardo,  e'  opportuno
 precisare  che,  ove  le  dichiarazioni  sul  fatto  altrui risultino
 inscindibilmente connesse con i profili di responsabilita' sul  fatto
 proprio,  la  contestazione  ad  iniziativa  delle  parti  di singoli
 contenuti narrativi appare  un  meccanismo  idoneo  a  consentire  al
 soggetto chiamato all'esame di identificarne concretamente la portata
 probatoria  e, quindi, l'eventuale pregiudizio che potrebbe derivarne
 alla sua difesa.   In particolare,  poiche'  l'acquisizione  mediante
 contestazione  di  singoli  contenuti  narrativi  potrebbe in ipotesi
 esporre l'imputato in procedimento connesso  a  nuovi  o  piu'  gravi
 profili  di  responsabilita',  diversi  e ulteriori rispetto a quelli
 risultanti dalle sue precedenti  dichiarazioni,  la  garanzia  di  un
 consapevole  esercizio  del  diritto  di  difesa del dichiarante, nel
 rispetto del principio nemo tenetur  se  detegere,  e,  nello  stesso
 tempo,  quella del diritto al contraddittorio di tutte le parti, sono
 assicurate    dalla    piu'    ampia    esplicazione    del    metodo
 dialettico-contestativo  proprio  del dibattimento, cui e' funzionale
 l'onere, per la parte che chiede l'esame ex art. 210 cod. proc. pen.,
 di presentare la lista dei soggetti da esaminare  "con  l'indicazione
 delle  circostanze  su cui deve vertere l'esame", secondo il disposto
 dell'art. 468, comma 1, cod. proc.  pen.,  implicitamente  richiamato
 dal  rinvio, contenuto nell'art. 210, comma 2, cod. proc.  pen., alle
 norme per la citazione dei testimoni.  4.3. - In  accoglimento  delle
 questioni  elencate sub 3.1.a), 3.1.b) e 3.1.c),  in riferimento agli
 articoli 3 e 24 Cost., l'art. 513,  comma  2,  ultimo  periodo,  cod.
 proc.  pen. va pertanto dichiarato illegittimo nella parte in cui non
 prevede che, qualora il dichiarante  rifiuti  o  comunque  ometta  in
 tutto   o   in   parte   di   rispondere   su  fatti  concernenti  la
 responsabilita'  di  altri  gia'   oggetto   delle   sue   precedenti
 dichiarazioni,  in  mancanza dell'accordo delle parti alla lettura si
 applica l'art.  500, commi 2-bis e 4 cod. proc. pen.  Risultano cosi'
 assorbite le questioni - indicate sub 3.1.c) e 3.2.  -  sollevate  in
 riferimento  agli  articoli  2, 25, 97, 101, 102, 111 e 112 Cost.  E'
 opportuno precisare che nell'intervento additivo sull'art. 513, comma
 2, cod. proc. pen. il richiamo  anche al comma 4 dell'art.  500  cod.
 proc.  pen.  e'  funzionale  a  rendere  applicabile il meccanismo di
 acquisizione nel fascicolo per il  dibattimento  delle  dichiarazioni
 utilizzate   per  le  contestazioni:  il  criterio  di  giudizio  che
 subordina  il  valore  probatorio delle precedenti dichiarazioni alla
 sussistenza  di  altri  elementi   di   prova   che   ne   confermino
 l'attendibilita',  stabilito per i testimoni nello stesso comma 4, e'
 infatti  dettato  dall'analoga  regola  prevista  in   via   generale
 dall'art.  192,  comma  3, cod. proc.  pen. anche per il coimputato e
 per l'imputato in procedimento connesso.   Non e'  invece  necessario
 alcun  richiamo  all'art. 500, comma 5, cod. proc. pen., in quanto la
 situazione ivi contemplata rimane  attratta  nella  disciplina  delle
 contestazioni  prevista  in  via  generale  in  caso  di rifiuto o di
 omissione totale o parziale  di  rispondere;  ne'  vi  e'  motivo  di
 applicare la regola di valutazione probatoria dettata dal comma 5, in
 quanto  le  dichiarazioni  sul  fatto  altrui  rese  dall'imputato in
 procedimento  connesso  continuano  ad  essere  sottoposte,   proprio
 perche'  provenienti  da un imputato, alla regola di giudizio dettata
 dall'art.  192,  comma  3,  cod.   proc.   pen.      La   valutazione
 dell'efficacia   probatoria   di   tali   dichiarazioni   -  raccolte
 dall'autorita' giudiziaria fuori  del  contraddittorio,  rese  da  un
 imputato  che si e' poi avvalso in dibattimento della facolta' di non
 rispondere, acquisite mediante il meccanismo  delle  contestazioni  -
 dovra'  avvenire  con  la  cautela  e  il  rigore  richiesti  da tali
 caratteristiche,  ferma  restando  la  facolta'  del  legislatore  di
 tradurre  queste ovvie esigenze in una appropriata formula normativa.
 4.4. - Le questioni  sollevate  dal  tribunale  di  San  Remo  e  dal
 tribunale  di  Savona esposte sub 3.3., relative al comma 2 dell'art.
 513 cod.  proc. pen., in riferimento all'art.  3  della  Costituzione
 per  disparita'  di trattamento rispetto al regime di utilizzabilita'
 dettato dal comma 1 del medesimo articolo,  difettano  di  rilevanza.
 Tenendo  presenti  le  differenze  di  disciplina  tra  il primo e il
 secondo comma dell'art. 513 cod. proc. pen., risulta  che entrambe le
 ordinanze di rimessione si riferiscono  all'ipotesi  del  rifiuto  di
 rispondere   del  soggetto  citato  ex  art.  210  cod.  proc.  pen.,
 accompagnato dal dissenso sulla utilizzazione da parte  dell'imputato
 a  cui si riferiscono le dichiarazioni rese in precedenza: situazione
 nella quale la disciplina dei commi 1 e 2 dell'art.  513  cod.  proc.
 pen.    conduce  alle  medesime  conseguenze in punto di lettura e di
 utilizzabilita' erga alios delle dichiarazioni predibattimentali.  Le
 questioni vanno pertanto  dichiarate  inammissibili  per  difetto  di
 rilevanza.    4.5.  -  Il  Tribunale  di  San Remo (r.o. n. 861/1997)
 impugna, unitamente all'art. 513, comma 2,  cod.  proc.  pen.,  anche
 l'art.  514  dello  stesso codice.   In realta', la disciplina cui si
 riferiscono i dubbi di  legittimita'  costituzionale  e'  interamente
 contenuta  nell'art.  513, comma 2, mentre l'art. 514 non ha autonomo
 contenuto normativo rispetto alle regole di utilizzazione  probatoria
 delle  dichiarazioni  rese  in precedenza.   Ne consegue che, essendo
 l'art. 514 cod. proc. pen. erroneamente evocato  dal  rimettente,  la
 relativa questione deve essere dichiarata inammissibile.
   5.  -  Il  Tribunale  di  Cagliari  (r.o. n. 153/1998) dubita della
 legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 1, cod. proc.  pen.,
 nella  parte  in  cui,  in  assenza di consenso degli altri imputati,
 esclude l'utilizzabilita' nei confronti di  ciascuno  di  essi  delle
 dichiarazioni   rese   da   un  imputato  nel  corso  delle  indagini
 preliminari qualora in  dibattimento  questi  si  sia  avvalso  della
 facolta'  di  non  rispondere.    5.1.  -  A  giudizio del rimettente
 sarebbero violati:  a) l'art. 3 Cost., in quanto irragionevolmente la
 norma  impugnata  "fa  dipendere  il  dispiegarsi del contraddittorio
 dibattimentale  dall'esercizio  della  facolta'  di  non   sottoporsi
 all'esame  da  parte di imputati che in sede di indagini abbiano reso
 dichiarazioni accusatorie nei confronti di altri" e alla mancanza del
 contraddittorio fa conseguire  l'impossibilita'  per  il  giudice  di
 conoscere  le  dichiarazioni sul fatto altrui da essi precedentemente
 rese, sacrificando il principio di non dispersione degli elementi  di
 prova;  b)  l'art.  3  Cost.,  per  la  irragionevole  disparita'  di
 trattamento che la norma impugnata determina fra la disciplina  delle
 dichiarazioni  in  precedenza  rese  dal coimputato che si avvalga in
 dibattimento della facolta' di non  rispondere,  dichiarazioni  delle
 quali  e'  vietata  l'utilizzabilita' nei confronti di altri senza il
 loro consenso, e quella riservata agli atti  irripetibili  per  cause
 originarie o sopravvenute, delle quali e' invece sempre consentita la
 lettura;  c)  ancora  l'art. 3 Cost., in quanto sarebbe irragionevole
 non  attribuire  alcun   rilievo   alle   ragioni   sopravvenute   di
 irripetibilita' dell'atto, mentre tali ragioni comportano che, previo
 ricorso  al  meccanismo  delle contestazioni di cui all'art. 500 cod.
 proc.  pen.,  venga  attribuito  valore  di  prova  alle   precedenti
 dichiarazioni  del  testimone che sia stato indotto a non deporre o a
 deporre il falso in dibattimento; d) gli artt.  3  e  101  Cost.,  in
 quanto  la  norma  impugnata determinerebbe "l'aberrante conseguenza"
 che il dichiarante potrebbe in un determinato procedimento  sottrarsi
 all'esame  dibattimentale  e  in  un  diverso procedimento sottoporsi
 all'esame nei confronti di altri imputati, consentendo  o  negando  a
 suo  arbitrio  l'ingresso  in  dibattimento  delle  stesse precedenti
 dichiarazioni.  5.2. - Ad avviso del rimettente la norma impugnata si
 pone inoltre in contrasto con:   a) gli artt.  25  e  112  Cost.,  in
 quanto  produrrebbe  l'effetto  di  paralizzare  ex post l'iniziativa
 penale, cosi' di fatto  violando  il  principio  dell'obbligatorieta'
 dell'azione  penale  il  quale  comporta  che l'organo della pubblica
 accusa sia messo nelle condizioni di esercitare validamente  l'azione
 promossa;  b)  l'art.  101  Cost.,  in  quanto  la  norma  censurata,
 subordinando ad "insondabili scelte del  dichiarante"  la  conoscenza
 delle  prove  da  parte  del  giudice,  si  pone  in contrasto con il
 principio della sottoposizione del giudice soltanto alla legge.
   6. - L'art. 513, comma 1, cod. proc. pen., sia  nella  formulazione
 originaria,  sia  a seguito delle modifiche introdotte dalla legge n.
 267 del 1997, si riferisce alle dichiarazioni rese in precedenza  (al
 pubblico  ministero o alla polizia giudiziaria su delega del pubblico
 ministero o  al  giudice  nel  corso  delle  indagini  preliminari  o
 nell'udienza  preliminare)  dall'imputato  nel medesimo procedimento,
 sia sul fatto proprio, sia su fatti concernenti la responsabilita' di
 altri.  Al riguardo, va precisato che le  eccezioni  di  legittimita'
 costituzionale,  si  riferiscono  esclusivamente  alle  dichiarazioni
 aventi per oggetto la responsabilita' di altri, la cui  utilizzazione
 e'   subordinata,   in   caso   di   contumacia,  assenza  o  rifiuto
 dell'imputato  di  sottoporsi  all'esame,  al  consenso  degli  altri
 imputati.  Rimane  ferma  la  disciplina  relativa alla utilizzazione
 delle dichiarazioni sul fatto proprio, per la quale  non  sono  stati
 sollevati  dubbi  di  costituzionalita'.    6.1.  -  Le  questioni di
 legittimita'   costituzionale   ricalcano   sostanzialmente    quelle
 prospettate  in  ordine all'art. 513, comma 2, cod. proc. pen.  Viene
 in  primo  luogo  eccepita  l'intrinseca  irragionevolezza   di   una
 disciplina  che  fa  dipendere  il  dispiegarsi  del  contraddittorio
 dibattimentale dall'insindacabile scelta di non sottoporsi  all'esame
 dell'imputato   che   in  precedenza  aveva  reso  dichiarazioni  nei
 confronti di altri, e poi, in caso di dissenso  degli  imputati  alla
 loro  utilizzazione,  comporta l'esclusione di tali dichiarazioni dal
 patrimonio di conoscenze del giudice.    Sotto  un  diverso  profilo,
 viene  denunciata  l'irragionevole  disparita'  di trattamento tra la
 disciplina riservata a tali dichiarazioni, utilizzabili solo se vi e'
 il  consenso  degli  altri  imputati,  e  la  disciplina  degli  atti
 irripetibili per cause originarie o sopravvenute, dei quali e' invece
 sempre  consentita  la  lettura,  con  particolare  riferimento  alla
 sentenza  n.  179  del  1994,  con  la  quale  sono  state   ritenute
 utilizzabili  le  dichiarazioni  testimoniali  rese  nel  corso delle
 indagini preliminari dal prossimo congiunto che in dibattimento abbia
 poi esercitato la facolta' di astenersi.    La  disciplina  impugnata
 viene  denunciata  sotto  il profilo dell'irragionevole disparita' di
 trattamento anche perche' non attribuisce alcun rilievo alle  ragioni
 della  sopravvenuta irripetibilita' dell'atto, mentre di tali ragioni
 il  legislatore  tiene  conto  in  tema  di  esame   dei   testimoni,
 attribuendo valore di prova piena, previo ricorso al meccanismo delle
 contestazioni  di  cui  all'art. 500 cod. proc. pen., alle precedenti
 dichiarazioni del teste che sia stato  indotto  a  non  deporre  o  a
 deporre  il falso in dibattimento.  In riferimento anche all'art. 101
 Cost., viene infine denunciata  l'irragionevolezza  della  disciplina
 impugnata  in  quanto  consentirebbe  al dichiarante di rifiutarsi di
 sottoporsi all'esame dibattimentale in un  determinato  procedimento,
 cosi'  rendendo  non  conoscibili  al giudice di quel procedimento le
 precedenti dichiarazioni, e di sottoporsi  all'esame  in  un  diverso
 procedimento  a  carico  di altri imputati, cosi' facendo entrare nel
 patrimonio di conoscenze di quel giudice le medesime dichiarazioni  e
 attribuendovi  valore  di prova.  6.2. - I dubbi di costituzionalita'
 sono fondati in riferimento all'art. 3 Cost., nei termini di  seguito
 precisati,  ma vanno piu' propriamente risolti intervenendo sull'art.
 210, cod. proc. pen.  Occorre in via preliminare tenere presente che,
 mediante la modifica dell'art. 513, comma  1,  cod.  proc.  pen.,  la
 legge n. 267 del 1997 ha introdotto una particolare disciplina per il
 caso  in  cui  si  intenda  utilizzare  nei  confronti  di  altri  le
 dichiarazioni rese in precedenza dall'imputato:  ove  l'imputato  sia
 contumace,  assente  o  rifiuti  di  sottoporsi  all'esame,  la norma
 impugnata prevede appunto che le precedenti  dichiarazioni  su  fatti
 concernenti  la responsabilita' di altri non siano utilizzabili senza
 il  loro  consenso,  mentre  continuano  ad  essere  utilizzabili   a
 richiesta  di  parte  le  dichiarazioni riguardanti il fatto proprio.
 Tale  differenza  di  regole  in  tema  di  utilizzabilita'   implica
 un'autonomia   concettuale   e   sistematica   dell'esame   su  fatti
 concernenti  la  responsabilita'  di  altri,  era  del   resto   gia'
 desumibile  dalla  specifica  disciplina ad esso riservata nella fase
 delle indagini preliminari e in tema di valutazione della  prova.  Il
 codice  del  1988  ha  infatti preso atto dell'indiscutibile fenomeno
 processuale, sempre piu' frequente  non  solo  nei  procedimenti  per
 fatti  di  criminalita'  organizzata,  rappresentato  da soggetti che
 abbinano alla qualita' di  imputati  quella  di  "dichiaranti"  sulla
 posizione  di  altri  imputati, dettando appunto regole peculiari per
 l'esame su fatti concernenti la responsabilita' di altri, comuni  sia
 per  l'imputato  nel  medesimo  procedimento,  sia  per l'imputato in
 procedimento connesso.   Tra i casi in  cui  e'  possibile  ricorrere
 all'incidente  probatorio - non ammesso per l'esame dell'imputato sul
 fatto proprio - l'art.  392, comma 1, lettera  c),  cod.  proc.  pen.
 contempla  l'esame  della  persona  sottoposta alle indagini su fatti
 concernenti la responsabilita' di altri e la lettera d) l'esame delle
 persone indicate nell'art.  210 cod. proc. pen., cioe'  dei  soggetti
 nei  cui  confronti  si e' proceduto o si procede separatamente e che
 vengono quindi esaminati su fatti concernenti la  responsabilita'  di
 altri.  Ove  si  presenti  la  necessita'  di  anticipare rispetto al
 dibattimento la  formazione  della  prova  relativa  a  dichiarazioni
 concernenti la responsabilita' di altri, le due categorie di imputati
 risultano  cosi' accomunate dalla possibilita' di sottoporli ad esame
 mediante incidente  probatorio.    Al  fine  di  procedere  all'esame
 mediante    incidente    probatorio    sui   fatti   concernenti   la
 responsabilita'   di   altri,   e'   inoltre    possibile    ordinare
 l'accompagnamento    coattivo    sia   dell'imputato   nel   medesimo
 procedimento, sia dell'imputato in  procedimento  connesso.  Previsto
 dall'art.  399  cod.  proc.  pen.  quando  la persona sottoposta alle
 indagini non compaia senza addurre alcun legittimo impedimento  e  la
 sua presenza sia necessaria per compiere un atto da assumere mediante
 incidente  probatorio,  l'accompagnamento  coattivo  e' espressamente
 richiamato in via generale dall'art. 210, comma 2,  cod.  proc.  pen.
 per  l'esame  dell'imputato in procedimento connesso e, quindi, anche
 per l'esame di cui all'art. 392, comma 1, lettera d), cod. proc. pen.
 Infine, in tema di valutazione della prova l'art. 192, comma 3,  cod.
 proc.   pen.   detta   una   specifica  regola  di  giudizio  per  le
 dichiarazioni su fatti concernenti la responsabilita' di altri,  rese
 sia  dal  coimputato,  sia dall'imputato in un procedimento connesso.
 Ma  tali  simmetrie   di   disciplina   vengono   meno   nella   fase
 dibattimentale.    Mentre  per  l'esame dell'imputato in procedimento
 connesso o collegato sono sempre previsti l'obbligo di presentarsi al
 giudice e l'accompagnamento coattivo (art. 210, comma 2,  cod.  proc.
 pen.),   in   dibattimento   l'esame   dell'imputato   nel   medesimo
 procedimento su fatti concernenti la responsabilita' di altri  e'  in
 tutto e per tutto assimilato all'esame sul fatto proprio.  L'art. 503
 cod.  proc. pen. prevede, infatti, che l'esame venga disposto solo se
 l'imputato ne abbia fatto richiesta o vi abbia  consentito,  a  norma
 dell'art. 208 cod. proc. pen.; non e' previsto l'obbligo di comparire
 e  non  e'  consentito l'accompagnamento coattivo dell'imputato (art.
 490 cod. proc. pen.).  Tali regole sono  conformi  all'intangibilita'
 del  diritto  di difesa dell'imputato esaminato sul fatto proprio: la
 decisione di chiedere l'esame ovvero  di  consentirvi,  alla  stregua
 della  valutazione  dei rischi che puo' rispettivamente comportare il
 contro-esame ovvero l'esame diretto ad iniziativa della parte che  lo
 ha  chiesto,  rientra  tra  le  insindacabili  scelte  relative  alla
 strategia  difensiva  adottata;  conseguentemente,  e'  perfettamente
 congeniale   all'esercizio   del   diritto  di  difesa  che  non  sia
 contemplato l'obbligo di comparire e che non  possa  essere  ordinato
 l'accompagnamento  coattivo.  Ma  quando  l'esame  verte su fatti non
 propri, bensi' concernenti  la  responsabilita'  di  altri,  assumono
 prevalenza  la  specificita'  di tale istituto rispetto all'esame sul
 fatto proprio, la sostanziale coincidenza tra questa forma di esame e
 l'esame dell'imputato in procedimento  connesso,  che  dal  primo  si
 distingue   solo   perche'  disposto  in  un  separato  procedimento,
 l'esigenza  di  non  escludere  a  priori  il  diritto  dell'imputato
 destinatario  delle  dichiarazioni di confrontarsi con il dichiarante
 in  contraddittorio.     La  disciplina   dell'esame   dibattimentale
 dell'imputato  nel  medesimo  procedimento  sul  fatto altrui risulta
 pertanto priva  di  ragionevole  giustificazione  sotto  una  duplice
 prospettiva. Ove la si confronti, da un lato, con quanto previsto per
 l'esame  mediante  incidente  probatorio,  che  altro  non e' che una
 anticipazione della prova assunta in dibattimento, dall'altro con  la
 disciplina  dell'esame dell'imputato in procedimento connesso, che si
 svolge  separatamente  solo  per  circostanze  processuali  meramente
 occasionali   e   contingenti,   e'   incoerente   che   per  l'esame
 dell'imputato nel medesimo procedimento sul fatto  altrui  non  siano
 contemplati  anche nella fase dibattimentale l'obbligo di presentarsi
 e  l'eventuale  accompagnamento  coattivo,  analogamente   a   quanto
 disposto, rispettivamente, dagli artt. 399 e 210, comma 2, cod. proc.
 pen.    Questa  duplice  asimmetria  si  e' ovviamente riflessa sulle
 regole dettate dall'art. 513, comma 1, cod. proc.  pen.  in  tema  di
 lettura e di utilizzazione delle dichiarazioni rese in precedenza sul
 fatto  altrui;  il  suo  superamento costituisce pertanto la premessa
 logica e sistematica per ricondurre a legittimita' costituzionale  la
 disciplina    riservata    all'esame   dell'imputato   nel   medesimo
 procedimento su fatti concernenti la responsabilita' di altri.   6.3.
 -  Al riguardo, occorre tenere presente che, come sopra precisato, le
 censure del rimettente,  significativamente  coincidenti  con  quelle
 sollevate  nei  confronti  del comma 2 dell'art. 513 cod. proc. pen.,
 attengono  esclusivamente  all'esame   dell'imputato   nel   medesimo
 procedimento  su  fatti  concernenti  la  responsabilita'  di  altri.
 L'esame di tali censure deve pertanto muovere dalla constatazione che
 la figura del dichiarante erga alios sia esso imputato  nel  medesimo
 procedimento  o in separato procedimento connesso, e' sostanzialmente
 identica, in quanto l'esame sul fatto altrui  viene  condotto  su  un
 imputato  che  assume  l'una  piuttosto che l'altra veste per ragioni
 meramente processuali e occasionali (v. sentenza n.  254  del  1992).
 Ne  deriva che le censure, benche' formalmente rivolte all'art.  513,
 comma 1,  cod.  proc.  pen.,  debbono  piu'  propriamente  intendersi
 riferite  all'art.  210  cod.  proc.  pen.,  del  quale  va  pertanto
 dichiarata l'illegittimita' costituzionale, per contrasto con  l'art.
 3  Cost.,  nella parte in cui non ne e' prevista l'applicazione anche
 all'esame  dell'imputato   nel   medesimo   procedimento   su   fatti
 concernenti  la  responsabilita'  di  altri,  gia'  oggetto delle sue
 precedenti  dichiarazioni  rese  all'autorita'  giudiziaria  o   alla
 polizia    giudiziaria    su    delega    del   pubblico   ministero.
 L'equiparazione tra imputato nel medesimo procedimento e imputato  in
 procedimento connesso consente di concentrare nell'art. 513, comma 2,
 cod.  proc.  pen. la disciplina, unitaria, di tutti i casi di rifiuto
 del dichiarante di rispondere sul fatto altrui, rendendo omogenea  la
 disciplina   dell'esame   avente  ad  oggetto  fatti  concernenti  la
 responsabilita' di  altri,  e  cosi'  superando  anche  le  ulteriori
 disparita'  di  trattamento tra il comma 1 e il comma 2 dell'art. 513
 cod. proc. pen; conseguentemente, il comma 1  risulta  ora  riservato
 esclusivamente  all'esame  dell'imputato  sul fatto proprio (art. 208
 cod. proc. pen.), per il quale e' pienamente  conforme  all'esercizio
 del  diritto  di  difesa  che l'imputato scelga di rimanere assente o
 contumace,  ovvero  rifiuti  di  sottoporsi all'esame.   Le questioni
 formalmente sollevate nei confronti  dell'art.  513,  comma  1,  cod.
 proc.   pen.   rimangono  pertanto  risolte  attraverso  l'intervento
 additivo  sull'art.  210  cod.  proc.  pen.    6.4.  -  La  sfera  di
 applicazione  rispettivamente  riservata  al primo e al secondo comma
 dell'art. 513 cod. proc. pen. implica che, ove le dichiarazioni  rese
 in  precedenza  dall'imputato  nel  medesimo  procedimento riguardino
 fatti concernenti la responsabilita' di altri, spettera' al  pubblico
 ministero,  o  alle parti private interessate, fare richiesta perche'
 l'imputato venga sottoposto ad esame su tali  dichiarazioni  a  norma
 dell'art.  210  cod.  proc.  pen..    Anche  nei confronti dell'esame
 dell'imputato nel  medesimo  procedimento  su  fatti  concernenti  la
 responsabilita'  di  altri  giova precisare che, ove le dichiarazioni
 sul fatto altrui risultino inscindibilmente connesse con i profili di
 responsabilita'   sul   fatto   proprio   e   il   meccanismo   della
 contestazione-acquisizione  di  singoli  contenuti narrativi possa in
 concreto recare pregiudizio alla posizione dell'imputato dichiarante,
 valgono le considerazioni svolte  in  precedenza  (par.    4.2.)  per
 rendere  effettivo il rispetto del principio nemo tenetur se detegere
 e garantire il diritto al contraddittorio di tutte le  parti.    Ove,
 invece,  nessuna  delle parti abbia presentato specifica richiesta di
 esame sui fatti concernenti la responsabilita' di altri,    ne'  tale
 esame  non  sia stato disposto dal giudice a norma dell'art. 507 cod.
 proc. pen., e' coerente con la  piena  esplicazione  del  diritto  di
 difesa  che  l'imputato  nel medesimo procedimento rimanga contumace,
 assente o rifiuti di sottoporsi all'esame, anche se le sue precedenti
 dichiarazioni si riferiscono a fatti concernenti  la  responsabilita'
 di  altri;  specularmente, e' coerente con l'esercizio del diritto di
 difesa degli altri imputati che  tali  dichiarazioni  possano  essere
 utilizzate  solo  con  il  loro  consenso,  secondo  quanto  previsto
 dall'art.  513, comma 1, cod. proc. pen.
   7. - Il Tribunale per i minorenni di Bologna (r.o. n.  776/1997)  e
 il   Tribunale   di   Perugia   (r.o.  n.  787/1997)  dubitano  della
 legittimita' costituzionale dei commi 2-bis e 4  dell'art.  238  cod.
 proc.  pen.,  nella  parte  in  cui  limitano l'utilizzabilita' delle
 dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art.  210  cod.  proc.
 pen.  agli  imputati  i  cui  difensori abbiano partecipato alla loro
 assunzione, o che consentano a tale utilizzazione.  7.1. - Ad  avviso
 del  Tribunale  per i minorenni di Bologna le norme censurate violano
 l'art. 3 Cost.,  perche'  discriminano  irragionevolmente,  quanto  a
 utilizzabilita',  le  dichiarazioni  testimoniali,  che  sono  sempre
 utilizzabili, e quelle rese ex art. 210 cod.  proc.  pen.,  che  sono
 utilizzabili  solo  se  il  difensore  dell'imputato era presente nel
 momento in  cui  le  dichiarazioni  venivano  rese  nel  procedimento
 connesso.    7.2.  -  Sarebbero  inoltre violati: a) l'art. 24 Cost.,
 perche' mentre non sono utilizzabili le dichiarazioni  rese  a  norma
 dell'art.  210 cod. proc. pen., possono essere utilizzate le sentenze
 irrevocabili, in forza dell'art. 238-bis dello stesso codice; b)  gli
 artt.  3,  111  e  112  Cost.,  perche'  la  normativa  impugnata  fa
 irragionevolmente dipendere la  utilizzabilita'  delle  dichiarazioni
 dal  consenso dell'imputato, determinando una disparita' tra accusa e
 difesa.  7.3. - Per il Tribunale di  Perugia  le  medesime  norme  si
 pongono  in  contrasto con l'art. 3 Cost.: a) perche', in riferimento
 alle dichiarazioni rese dalle persone  indicate  nell'art.  210  cod.
 proc.    pen., assunte senza la presenza del difensore dell'imputato,
 derogano irragionevolmente al principio di non dispersione dei  mezzi
 di  prova  e  determinano una ingiustificata diversita' di disciplina
 rispetto  al  regime  previsto  per   altre   dichiarazioni   (quelle
 testimoniali  o  quelle divenute irripetibili), delle quali e' invece
 consentito  il  recupero  in  sede  dibattimentale;  b)  perche'   e'
 irragionevole far dipendere il regime di utilizzazione da contingenti
 valutazioni opportunistiche dell'imputato sul contenuto degli atti da
 utilizzare;  c)  perche'  la  disposizione del comma 2-bis postula un
 contraddittorio che a volte non  avrebbe  potuto  essere  realizzato,
 come  nel  caso  del  procedimento a quo nel quale non si procedeva a
 carico del dichiarante divenuto imputato   solo  successivamente;  d)
 perche',  ove  il dichiarante nel precedente dibattimento abbia avuto
 la veste di testimone,  e  solo  successivamente  sia  divenuto,  per
 indizi   sopraggiunti,   imputato  di  reato  connesso,  il  pubblico
 ministero avrebbe potuto confidare nella  utilizzabilita'  delle  sue
 dichiarazioni;  e)  perche' e' irragionevole che si imponga una serie
 indeterminata di ripetizioni delle dichiarazioni nei vari processi  a
 scapito  dell'economia  processuale, della chiarezza e della verita',
 quando e' utilizzabile la sentenza irrevocabile pronunciata a  carico
 di  terzi,  ex art. 238-bis cod. proc. pen.; f) perche' si discrimina
 tra soggetti che hanno la qualita' di imputato di reato connesso,  ex
 art.  210  cod.  proc.  pen., e di imputato nello stesso procedimento
 qualora  quest'ultimo  abbia  reso  dichiarazioni  in   un   separato
 procedimento.  Secondo lo stesso rimettente sarebbero inoltre violati
 gli   artt.     101,  comma  secondo,  e  111  Cost.,  in  quanto  la
 giurisdizione non  viene  esercitata  dal  giudice  in  base  al  suo
 convincimento, espresso sulla base del materiale probatorio raccolto,
 ma  e'  condizionata  da  elementi  spuri,  quali  la  selezione  del
 materiale utilizzabile ad opera dell'imputato, e cioe'  del  soggetto
 la  cui  condotta  forma  oggetto  dell'accertamento penale.   7.4. -
 Ancora, per il Tribunale di Perugia  l'art.  238  cod.  proc.    pen.
 violerebbe   l'art.  3  della  Costituzione  perche'  mentre  per  le
 dichiarazioni acquisite ai sensi dell'art. 513 cod. proc. pen. l'art.
 6 della legge n. 267 del 1997 introduce  una  disciplina  transitoria
 che  consente,  in  caso  di nuovo rifiuto di rispondere del soggetto
 chiamato all'esame ex art. 210 cod.  proc.  pen.,  una  utilizzazione
 attenuata (correlata alla sussistenza di altri elementi di conferma),
 irragionevolmente  nulla  di  simile  e'  previsto  per  le  analoghe
 dichiarazioni acquisite (prima dell'entrata in vigore della legge) da
 altro procedimento a norma dell'art. 238, le quali,  in  mancanza  di
 consenso dell'imputato, restano radicalmente inutilizzabili.
   8.  -  L'art.  238 cod. proc. pen., inserito nel Libro III (Prove),
 Titolo  II  (Mezzi  di  prova),  Capo  VII  (Documenti),   disciplina
 l'acquisizione   dei   verbali   di   prove   provenienti   da  altri
 procedimenti; prove che, appunto perche'  non  formate  nello  stesso
 procedimento  in  cui  sono  destinate  ad  essere  utilizzate,  sono
 considerate documenti, aventi natura giuridica  di  mezzi  di  prova.
 Nella  formulazione  precedente alle modifiche introdotte dalla legge
 n. 267 del 1997, l'art. 238 cod. proc. pen. prevedeva che  i  verbali
 delle  prove  assunte  nell'incidente  probatorio  o  in dibattimento
 fossero in ogni caso utilizzabili  come  prove  nel  procedimento  ad
 quem.  Mediante  l'inserimento  nell'art.  238  cod. proc. pen. di un
 apposito comma 2-bis questa regola generale, contenuta nel  comma  1,
 rimasto   formalmente   immutato,   ha   subito  una  deroga  per  le
 dichiarazioni rese dalle persone indicate nell'art.  210  cod.  proc.
 pen.:   l'utilizzabilita'   di  tali  dichiarazioni  come  prova  nel
 procedimento ad quem e'  stata  infatti  subordinata  al  presupposto
 della  partecipazione alla loro assunzione nel procedimento a quo dei
 difensori  degli  imputati  nei  cui  confronti   dovrebbero   essere
 utilizzate.      In   mancanza   di  tale  partecipazione,  la  nuova
 formulazione dell'art.  238, comma 4, cod. proc. pen. prevede che  le
 dichiarazioni  rese  dalle  persone indicate nell'art. 210 cod. proc.
 pen. siano utilizzabili come prova nel dibattimento ad quem solo  nei
 confronti  dell'imputato  che vi consenta. L'ultima parte del comma 4
 stabilisce poi che, in mancanza di consenso, le dichiarazioni possono
 essere utilizzate solo per le contestazioni, a norma, per quanto  qui
 interessa,  dell'art.    503  cod. proc. pen., che disciplina l'esame
 delle parti, tra  cui  rientra,  appunto,  l'esame  dell'imputato  in
 procedimento connesso.  Al riguardo, si deve precisare che l'art. 503
 cod.  proc.  pen.  non  consente, a differenza di quanto previsto per
 l'esame dei  testimoni  dall'art.  500  cod.  proc.  pen.,  anch'esso
 richiamato  per  la  prova  testimoniale dall'art. 238, comma 4, cod.
 proc. pen., di impiegare per le contestazioni le  dichiarazioni  rese
 in  precedenza  nel  caso  in  cui il dichiarante rifiuti o ometta in
 tutto o in parte di rispondere:    ne  deriva  che,  in  mancanza  di
 consenso  dell'imputato, il silenzio del dichiarante determina la non
 utilizzabilita' delle dichiarazioni da lui rese in precedenza in sede
 di incidente probatorio o nel dibattimento del  procedimento  a  quo.
 Si  deve  inoltre  tenere  presente  che  l'art.  238 cod. proc. pen.
 costituisce il veicolo di trasmigrazione da  altri  procedimenti  non
 solo  di  atti  costituenti  "mezzi  di  prova", assunti in incidente
 probatorio  o  in  dibattimento,  ma  anche   di   atti   di   natura
 investigativa  (o,  comunque,  predibattimentali),  assunti nel corso
 delle indagini preliminari  o  nell'udienza  preliminare.    Come  si
 ricava  dall'esordio dell'art. 238, comma 4, cod. proc.  pen., ove si
 fa  riferimento  a  "verbali  di  dichiarazioni"  diversi  da  quelli
 relativi   agli   atti   menzionati   nel   comma  1  (prove  assunte
 nell'incidente  probatorio  o  in  dibattimento),  le  "dichiarazioni
 diverse"  non  possono  che  riferirsi agli atti assunti dal pubblico
 ministero o dalla polizia giudiziaria o dal giudice nel  corso  delle
 indagini preliminari o nell'udienza preliminare. Si tratta, cioe', di
 atti  formati  in  un  contesto  predibattimentale,  utilizzabili  in
 giudizio per le contestazioni nel  corso  dell'esame  a  norma  degli
 artt.  500  e  503  cod.  proc.  pen., a seconda della loro natura di
 deposizioni testimoniali o di dichiarazioni delle parti, e  presi  in
 considerazione  anche  da varie altre disposizioni che ne ammettono a
 determinate condizioni la lettura, tra  cui  l'art.  513  cod.  proc.
 pen.,  che  fa appunto riferimento a dichiarazioni rese in precedenza
 dall'imputato all'autorita' giudiziaria o alla polizia giudiziaria su
 delega  del  pubblico  ministero.    Anche  tale  categoria  di  atti
 dichiarativi  risulta  pertanto  compresa  nella  disciplina prevista
 dell'art. 238, comma 4, cod. proc. pen., cosi' come modificato  dalla
 legge  n.  267 del 1997.   8.1. - Le questioni relative all'art. 238,
 commi 2-bis e 4,  cod.    proc.  pen.  ricalcano  sostanzialmente  le
 argomentazioni poste a sostegno delle censure sollevate nei confronti
 dell'art.  513,  comma  2,  cod.    proc.  pen.    In  sintesi, viene
 denunciata l'irragionevole disparita'  tra  la  disciplina  riservata
 alle  dichiarazioni  testimoniali, recuperabili, in caso di rifiuto o
 di omissione parziale o totale o parziale di rispondere, mediante  il
 meccanismo delle contestazioni di cui all'art.  500, comma 2-bis cod.
 proc.  pen.,  e quella prevista dalle norme impugnate, che in caso di
 rifiuto di rispondere da parte dell'imputato in procedimento connesso
 subordinano la utilizzazione delle precedenti dichiarazioni  al  dato
 estrinseco  ed  eventuale  della  partecipazione  dei  difensori  nel
 momento della loro assunzione  nel  procedimento  a  quo  ovvero,  in
 mancanza   della  partecipazione,  al  consenso  degli  imputati  nel
 procedimento ad quem.  8.2. - Le censure rivolte all'art. 238,  comma
 4,  cod.  proc.  pen.   muovono dal rilievo che, ove le dichiarazioni
 delle persone indicate nell'art. 210  cod.  proc.  pen.  siano  state
 acquisite a norma dell'art.  238 cod. proc. pen. in quanto assunte in
 un  diverso procedimento, non vi e' ragione di non assoggettarle alle
 regole  previste  per  le   dichiarazioni   raccolte   nel   medesimo
 procedimento.    In effetti, la disciplina di cui all'art. 238, comma
 4, cod. proc.   pen.  appare  priva  di  ragionevole  giustificazione
 proprio  in  quanto  non prevede che trovi applicazione una normativa
 analoga a quella stabilita dall'art. 513, comma 2, cod.  proc.  pen.,
 cosi'    come    modificato   dalla   contestuale   declaratoria   di
 illegittimita' della Corte. L'analogia tra le due  situazioni  (tanto
 piu'   stretta   ove   si   consideri   che   le  dichiarazioni  rese
 nell'incidente probatorio o in dibattimento hanno natura  di  veri  e
 propri  mezzi  di  prova),  comporta  di  conseguenza che, in caso di
 rifiuto del dichiarante di  rispondere  e  di  mancanza  di  consenso
 dell'imputato  alla  utilizzazione  di  tali  dichiarazioni, ne venga
 prevista la possibilita' di recupero stabilita in tema di deposizioni
 testimoniali dall'art. 500, commi 2-bis e 4, cod. proc.    pen.    In
 accoglimento  delle  questioni  indicate sub 7.1. e 7.2., va pertanto
 dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art.  238,  comma  4,
 cod.  proc.  pen.,  per  contrasto  con gli artt. 3 e 24 Cost., nella
 parte in cui non prevede che,  qualora  in  dibattimento  la  persona
 esaminata  a  norma  dell'art. 210 cod. proc. pen. rifiuti o comunque
 ometta in tutto o in parte di  rispondere  su  fatti  concernenti  la
 responsabilita'   di   altri   gia'   oggetto  delle  sue  precedenti
 dichiarazioni,   in   mancanza   di   consenso   dell'imputato   alla
 utilizzazione  si applica l'art. 500, commi 2-bis e 4 cod. proc. pen.
 La  dizione  "precedenti  dichiarazioni"  consente,  formalmente,  di
 comprendere   nella   disciplina  delle  contestazioni  non  solo  le
 dichiarazioni  assunte  in  sede  di  incidente   probatorio   o   in
 dibattimento,   ma   anche   quelle   altrimenti  rese  all'autorita'
 giudiziaria  o  alla  polizia  giudiziaria  su  delega  del  pubblico
 ministero.  Tale conseguenza, peraltro, discende gia' dall'intervento
 additivo  sull'art.  513,  comma  2,  cod. proc. pen.: come si ricava
 implicitamente  dalla  sentenza  della  Corte  n.  254  del  1992   -
 riguardante  appunto  un  caso  di  rifiuto  di  un imputato di reato
 connesso di rispondere  su  fatti  gia'  oggetto  di  sue  precedenti
 dichiarazioni  rese  nel  corso  delle  indagini preliminari di altro
 procedimento - deve infatti ritenersi che, una  volta  confluite  nel
 fascicolo   del   pubblico   ministero,   tali   dichiarazioni  siano
 assoggettate, al pari di quelle rese nel medesimo procedimento,  alla
 disciplina  dell'art.  513,  comma 2, cod. proc.  pen.  E' opportuno,
 infine, rilevare che l'intervento sull'art. 238, comma 4, cod.  proc.
 pen.,  collegato  con quello sull'art. 210 cod.  proc. pen., consente
 di  eliminare  una  irragionevole disparita' di trattamento provocata
 dalla disciplina impugnata. Tenendo  presente  che  le  dichiarazioni
 concernenti  il  fatto altrui acquisite da altro procedimento possono
 essere state rese da un soggetto che nel procedimento ad quem riveste
 la qualita' di imputato, alla  stregua  della  disciplina  dichiarata
 costituzionalmente     illegittima     tali    dichiarazioni    erano
 incondizionatamente    e    direttamente     utilizzabili,     mentre
 l'utilizzazione  delle  analoghe  dichiarazioni rese dall'imputato in
 procedimento  connesso  o  collegato  era  subordinata  al   consenso
 dell'imputato  nei  cui confronti dovevano essere utilizzate.  Questo
 profilo  di  irragionevolezza  viene  appunto  a  cadere  a   seguito
 dell'unificazione   sub   art.   210   cod.   proc.  pen.  dell'esame
 dell'imputato nel medesimo procedimento  all'esame  dell'imputato  in
 procedimento  connesso  o  collegato  quando  sia  l'uno  che l'altro
 abbiano comunque reso dichiarazioni concernenti la responsabilita' di
 altri: risulta infatti applicabile ad entrambi  la  disciplina  delle
 contestazioni  conseguente  all'intervento  additivo  sull'art.  238,
 comma 4, cod.  proc. pen.   8.3. - Sono infondate  tutte  le  censure
 indicate   sub   7.3.,  prospettate  dal  Tribunale  di  Perugia.  Il
 rimettente  chiede,  infatti,  esclusivamente   il   recupero   delle
 precedenti  dichiarazioni  mediante la lettura dei verbali assunti in
 altro procedimento  (senza  che  si  sia  proceduto,  in  quanto  non
 richiesto  da  alcuna delle parti, all'esame del dichiarante, e senza
 che il giudice, abbia provveduto a disporlo  d'ufficio  ex  art.  507
 cod.  proc.  pen.), mentre il meccanismo che consente la salvaguardia
 di  tutti  i  beni   costituzionali   coinvolti   e'   quello   delle
 contestazioni,  secondo  le  modalita' indicate nel par. 8.2.  8.4. -
 Infine, circa la questione indicata sub  7.4.,  la  censura,  benche'
 formalmente  rivolta  all'art.  238,  comma  4,  cod.  proc. pen., e'
 riferita in realta' alla disciplina transitoria  contenuta  nell'art.
 6  della  legge  n.  267  del 1967, nella parte in cui non prevede un
 meccanismo di recupero delle dichiarazioni  gia'  acquisite  ex  art.
 238  cod.  proc.  pen.  nel momento di entrata in vigore della legge,
 analogo a quello stabilito per  le  dichiarazioni  gia'  acquisite  a
 norma  dell'art.  513,  comma  2, cod. proc. pen. La questione verra'
 pertanto trattata unitamente  alle  altre  relative  alla  disciplina
 transitoria (par. 11 e 12).
   9.  -  Il  Tribunale  di  Bergamo  (r.o.  n. 81/1998), il Tribunale
 militare di Torino (r.o. n. 898/1997) e il Tribunale di  Trani  (r.o.
 n.  913/1997)  dubitano  della  legittimita' costituzionale dell'art.
 210, comma 4,  cod.  proc.  pen.  nella  parte  in  cui  prevede  che
 l'imputato  in procedimento connesso, per il quale si procede o si e'
 proceduto separatamente, che abbia in precedenza  reso  dichiarazioni
 su  fatti  concernenti  la responsabilita' di terzi, possa avvalersi,
 nel dibattimento a carico di quei soggetti,  della  facolta'  di  non
 rispondere.  L'art.  210,  comma  4,  cod. proc. pen. viene impugnato
 unitamente all'art. 513, comma 2, cod. proc. pen., per i riflessi che
 l'eliminazione del diritto al silenzio produrrebbe  sulla  disciplina
 delle  letture  nel  caso  in  cui i soggetti indicati dall'art. 210,
 comma 1, rifiutino di rispondere in dibattimento,.  9.1. -  A  parere
 dei  rimettenti risulterebbero violati:  a) l'art. 3 Cost., in quanto
 si determina una  irragionevole  disparita'  di  trattamento  tra  la
 disciplina  delle  dichiarazioni  rese  nel  corso delle indagini dal
 testimone che rifiuti in dibattimento di rispondere (dichiarazioni di
 cui  e'  consentita,  ex  art.  500,  comma 2-bis, cod.   proc. pen.,
 l'utilizzazione attraverso le contestazioni) e  la  disciplina  delle
 dichiarazioni rese dagli imputati in un procedimento connesso (la cui
 utilizzazione  in  caso di esercizio della facolta' di non rispondere
 e' possibile solo su accordo delle  parti)  (r.o.  n.  913/1997);  b)
 l'art.   24   Cost.,  perche'  la  salvaguardia  del  contraddittorio
 dibattimentale puo' essere realizzata solo  se  il  soggetto  che  e'
 sottoposto   all'esame   incrociato,   e  che  abbia  consapevolmente
 rilasciato dichiarazioni nella fase delle indagini  preliminari,  sia
 gravato  dell'obbligo  di  rispondere  alle  domande  che gli vengono
 rivolte, mentre l'attuale disciplina consente al  soggetto  esaminato
 di   essere  arbitro  di  vanificare  l'altrui  diritto  all'esame  e
 controesame (r.o.  n. 898/1997); c) gli artt. 3 e 24  Cost.  perche',
 escludendo  l'obbligo di rispondere del soggetto sottoposto ad esame,
 viene irragionevolmente sacrificato l'equilibrio  tra  i  diritti  di
 difesa  di  cui  sono  titolari  i soggetti del procedimento (r.o. n.
 81/1998); d) gli artt. 2, 3, 25, comma secondo, 101,  comma  secondo,
 102  e 111 Cost. perche', tutelandosi sino all'estremo limite, con la
 norma impugnata, il diritto degli imputati a non sottoporsi all'esame
 dibattimentale, e mediante l'art. 513, comma 2, cod.  proc.  pen.  il
 diritto  all'assunzione  delle  prove  in  contraddittorio,  viene ad
 essere  sacrificato  l'esercizio  della  giurisdizione  penale  e  la
 possibilita' di una decisione giusta (r.o. n. 81/1998).
   10.  -  L'art.  210  cod. proc. pen., non modificato dalla legge n.
 267 del 1997, detta  specifiche  regole  per  l'esame  delle  persone
 imputate  in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 cod. proc.
 pen.   ovvero imputate di un  reato  probatoriamente  collegato,  nei
 confronti  delle quali si e' proceduto o si procede separatamente. La
 peculiarita' della disciplina  -  sostanzialmente  analoga  a  quella
 dettata  dall'art.  9 della legge 8 agosto 1977, n. 534, con il quale
 venne introdotto nel codice  di  procedura  penale  del  1930  l'art.
 348-bis  sotto  la rubrica "Interrogatorio libero di persona imputata
 di  reati  connessi"   -   rispecchia   la   particolare   condizione
 dell'imputato in procedimento connesso esaminato su fatti concernenti
 la  responsabilita'  di  altri.  Mentre  sono  previsti  l'obbligo di
 presentarsi   al   giudice,   con   la   possibilita'   di   ordinare
 l'accompagnamento  coattivo,  nonche'  la citazione mediante le norme
 sui testimoni (art. 210, comma 2, cod. proc. pen.), ed e' contemplata
 l'applicazione dell'art. 194 cod. proc. pen., relativo all'oggetto  e
 ai  limiti della testimonianza (art. 210, comma 5, cod.  proc. pen.),
 il permanere della qualita' di imputato emerge dal diritto di  essere
 assistito  da un difensore (art. 210, comma 3, cod. proc.  pen.), dal
 richiamo all'art. 503 cod. proc. pen., relativo all'esame delle parti
 private  (comma  5)  e  dal  riconoscimento  della  facolta'  di  non
 rispondere  (comma  4),  nei  cui  confronti  sono appunto dirette le
 censure di legittimita' costituzionale.   10.1. -  Le  doglianze  dei
 giudici  rimettenti sono sostanzialmente riconducibili a due profili,
 entrambi connessi  alle  ricadute  della  disciplina  denunciata  sul
 regime  di  utilizzazione  probatoria dettato dall'art. 513, comma 2,
 cod. proc. pen., cosi' come modificato dalla legge n. 267  del  1997:
 in  riferimento  all'art.  3  Cost., viene denunciata l'irragionevole
 disparita' di trattamento tra il regime previsto per le dichiarazioni
 rese in precedenza dall'imputato in procedimento connesso che si  sia
 avvalso  in  dibattimento  della  facolta'  di non rispondere, la cui
 utilizzazione e' subordinata all'accordo delle parti, e la disciplina
 riservata  alle  dichiarazioni  testimoniali  rese  nel  corso  delle
 indagini preliminari, delle quali, in caso  di  rifiuto  o  omissione
 totale   o  parziale  del  testimone  di  rispondere,  e'  consentita
 l'utilizzazione, previa contestazione a norma dell'art.   500,  comma
 2-bis,  cod. proc. pen; in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., viene
 censurato lo squilibrio tra i diritti di  difesa  degli  imputati,  a
 causa  dell'irragionevole  sacrificio  del diritto al contraddittorio
 dell'imputato nei cui confronti sono rivolte le dichiarazioni e della
 prevalenza della tutela del diritto al silenzio del dichiarante,  che
 diviene  cosi' arbitro del diritto degli altri imputati di sottoporre
 al contraddittorio dibattimentale la fonte delle accuse a loro mosse.
 10.2. - Nei termini in cui sono poste, e in  riferimento  all'attuale
 formulazione  dell'art.  210,  comma 4, cod. proc. pen., le questioni
 sono infondate.   Cosi'  come  regolato  dalla  norma  impugnata,  il
 diritto   al   silenzio   non   e'   suscettibile   di   censure   di
 costituzionalita'. Il carattere  ibrido  della  disciplina  contenuta
 nell'art.  210  cod.  proc.  pen., ove sono appunto richiamate alcune
 delle regole operanti nei confronti dei testimoni, e' una conseguenza
 della peculiarita'  della  posizione  dell'imputato  in  procedimento
 connesso,  chiamato  a  rendere dichiarazioni su fatti concernenti la
 responsabilita' di altri, ma comunque non identificabile, sul terreno
 sostanziale, con la figura del testimone, sicche' appare coerente  la
 scelta del legislatore di attribuirgli la facolta' di non rispondere,
 irrinunciabile  manifestazione  del  diritto di difesa dell'imputato.
 Altri sono gli strumenti offerti dall'ordinamento processuale  penale
 per  porre rimedio alle censure dei giudici rimettenti, gia' indicati
 da questa Corte mediante il contestuale intervento additivo sull'art.
 513, comma 2, cod. proc. pen. (par. 4.2. e 4.3.). L'estensione  della
 disciplina  delle  contestazioni prevista dall'art. 500, comma 2-bis,
 cod. proc. pen. all'esame dell'imputato in procedimento  connesso  su
 fatti  concernenti  la  responsabilita'  di altri consente infatti di
 garantire sia il diritto dell'imputato dichiarante di avvalersi della
 facolta'  di  non  rispondere,  sia  il  diritto  al  contraddittorio
 dell'imputato  destinatario  delle  dichiarazioni,  nel  rispetto del
 principio della formazione dialettica della  prova  in  dibattimento.
 Le  questioni  sollevate  vanno  pertanto  dichiarate  infondate, non
 essendo  riscontrabili  i  denunciati   vizi   di   costituzionalita'
 nell'attuale   disciplina   del   diritto  al  silenzio  riconosciuto
 dall'art. 210, comma 4,  cod.  proc.  pen.  anche  agli  imputati  in
 procedimento  connesso  chiamati  a  rendere  dichiarazioni  su fatti
 concernenti la responsabilita' di altri.
   11. - Il Tribunale di Torino (r.o. n. 915/1997) e il  Tribunale  di
 Bologna  (r.o.  n.  143/1998)  impugnano  la  disciplina  transitoria
 introdotta dall'art. 6  della  legge  n.  267  del  1997;  la  stessa
 disciplina   e'  censurata,  unitamente  alle  norme  a  regime,  dal
 Tribunale per i minorenni di Bologna (r.o. n. 776/1997), nonche'  dal
 Tribunale  di  Cagliari (r.o. n. 153/1998), dal Tribunale di San Remo
 (r.o. n. 861/1997), dal Tribunale di Savona (r.o. n.  908/1997),  dal
 Tribunale  di Trani (r.o. n. 913/1997). Il Tribunale di Perugia (r.o.
 n. 787/1997) denuncia poi, in riferimento all'art. 238, commi 2-bis e
 4,  cod.  proc.  pen.,  la  mancata  previsione  di  una   disciplina
 transitoria  analoga a quella prevista per le dichiarazioni acquisite
 ai sensi dell'art. 513 cod.   proc.  pen.,  mentre  il  Tribunale  di
 Savona,  che  pure impugna autonomamente la disciplina transitoria, e
 specificamente i commi 2 e 5 dell'art.   6 della  legge  n.  267  del
 1997,  solleva  nei  confronti  della  disciplina a regime (art. 513,
 comma 2, cod. proc. pen.) censure che  in  realta'  afferiscono  alla
 regola di valutazione di cui all'art. 6, comma 5.  Tutti i rimettenti
 denunciano  la  disciplina  transitoria  nella parte in cui esclude o
 limita l'utilizzabilita' delle dichiarazioni rese in altra  fase  del
 procedimento  o  in  altro  dibattimento  da coimputati o imputati in
 procedimento connesso, gia' acquisite ai sensi dei  previgenti  artt.
 513,  comma  2    (Tribunale  di  Torino, di Bologna, di San Remo, di
 Savona e di Trani) e comma 1 (Tribunale di Cagliari), nonche' art.  e
 238 cod. proc. pen. (Tribunale per i minorenni di Bologna e Tribunale
 di  Perugia).  Le  censure  appaiono  quindi  rivolte  ai commi 2 e 5
 dell'art. 6 della legge n. 267 del  1997,  anche  quando  non  vi  e'
 formale  impugnativa  di  tali  commi  (r.o.  nn. 776/1997, 153/1998,
 913/1997), ovvero quando il vulnus viene riferito alla  disciplina  a
 regime  in  quanto  immediatamente  applicabile  (r.o.  n. 787/1997 e
 908/1997, per quanto  sopra  specificato).    11.1.  -  I  rimettenti
 dubitano   della   legittimita'   costituzionale   della   disciplina
 transitoria perche', in relazione ad atti gia' acquisiti prima  della
 entrata  in  vigore  della  legge  n. 267 del 1997, irragionevolmente
 contraddice  il  principio  tempus   regit   actum,   limitandone   o
 escludendone   la   utilizzabilita'   in   ragione  dello  stato  del
 procedimento   nonostante   la   prova   concerna   reati    commessi
 anteriormente  all'entrata  in  vigore  della  legge,  senza  offrire
 rimedio diretto alla conservazione  delle  dichiarazioni  erga  alios
 rese,  da  coimputati  o imputati in procedimento connesso, quando la
 normativa in  vigore  non    consentiva  di  ricorrere  all'incidente
 probatorio  a  norma  dell'art.  392,  comma 1, lettere c) e d), cod.
 proc. pen. ovvero all'assunzione ai sensi degli artt.  498 e 499 cod.
 proc. pen. in udienza preliminare a norma dell'art.   421 cod.  proc.
 pen.,  come  novellati dalla legge n. 267 del 1997.  La censura viene
 formulata in  riferimento  all'art.  3  Cost.  dal  Tribunale  per  i
 minorenni  di  Bologna,  nonche'  dai Tribunali di Torino, San Remo e
 Trani; in riferimento anche all'art. 24 dal Tribunale di  Torino;  in
 riferimento  agli  artt.  3  e  112 Cost. dal Tribunale di Savona; in
 riferimento all'art. 112 dal Tribunale di Cagliari.  Il Tribunale  di
 Savona  e il Tribunale di Trani prospettano la violazione dell'art. 3
 Cost. anche  sotto  il  profilo  della  irragionevole  disparita'  di
 trattamento,  in quanto il giudice puo' pervenire alla condanna di un
 imputato e alla assoluzione di un altro imputato pur in  presenza  di
 una  identica  posizione  processuale,  utilizzando  nei confronti di
 ciascun imputato un materiale probatorio diverso,  a  causa:  a)  del
 consenso  prestato  o  meno  dagli  imputati alla utilizzazione delle
 dichiarazioni acquisite prima  dell'entrata  in  vigore  della  legge
 (r.o.  n.  908/1997);  b) della circostanza che alcuni imputati siano
 stati raggiunti da dichiarazioni acquisite ex  art.  503  cod.  proc.
 pen.  per  avere  il  dichiarante  rifiutato  di rispondere a singole
 domande,  altri  solo  da  dichiarazioni  acquisite  in  virtu'   del
 previgente art.  513, altri infine da dichiarazioni acquisite ex art.
 512  cod. proc.   pen. (r.o. n. 908/1997); c) ovvero della scelta del
 chiamante in correita' di avvalersi della facolta' di non rispondere,
 occasionalmente esercitata prima invece che dopo l'entrata in  vigore
 della  legge (r.o. n. 913/1997).  Il Tribunale di Bologna ritiene che
 la  normativa  transitoria violi anche gli artt. 24, 101 e 112 Cost.,
 perche' impone al  giudice,  soprattutto  in  processi  con  numerosi
 imputati,  alcuni  dei quali soltanto esaminati prima dell'entrata in
 vigore della legge, "metodiche decisionali" contrarie ai principi  di
 legalita',   di   soggezione   del  giudice  soltanto  alla  legge  e
 dell'obbligatorieta' dell'azione penale, costringendolo  ad  ignorare
 nei  confronti  di alcuni (per effetto della immediata applicabilita'
 ad essi della nuova disciplina a regime) quanto e'  tenuto  invece  a
 valutare  in  relazione  alla  posizione  di  altri  (in virtu' della
 disciplina transitoria contenuta nei commi 2  e  5  impugnati).    Il
 Tribunale di Savona prospetta inoltre la lesione degli artt.  3, 101,
 secondo  comma,  111, primo comma, Cost., ritenendo che la disciplina
 in  questione  sia   irrazionale   nella   parte   in   cui   prevede
 l'utilizzabilita'   ai   fini  della  decisione  delle  dichiarazioni
 precedentemente rese dalle persone indicate dall'art. 513 cod.  proc.
 pen.  se  la  loro  intrinseca  attendibilita'  e'  confermata  anche
 soltanto da altri elementi di natura logica, ma vieta l'utilizzazione
 come riscontro di dichiarazioni della stessa natura, cosi'  imponendo
 al  giudice  una  motivazione  contrastante  con  la  propria  intima
 convinzione.  Infine, il Tribunale di Torino rivolge alla  disciplina
 transitoria  censure  analoghe  a  quelle  espresse in relazione alla
 disciplina a regime da altri rimettenti, in particolare censurando il
 comma 5 dell'art. 6 in riferimento: a) all'art. 3 Cost.,  perche'  e'
 irragionevole  il  diverso trattamento processuale riservato a chi si
 rende irreperibile per non rispondere, rispetto a chi "a viso  aperto
 dichiari  di  non  volere  rendere  la  dichiarazione",  in quanto il
 rifiuto dei soggetti di cui al comma 1 o al  comma  2  dell'art.  513
 cod.  proc.  pen.  di  rispondere in dibattimento rende le precedenti
 dichiarazioni da costoro rese "irripetibili",  al  pari  delle  altre
 situazioni  "imprevedibili"  di  cui  all'art. 512 cod. proc. pen; b)
 all'art. 101, secondo comma, Cost., perche' risulterebbe vulnerato il
 principio per il quale il giudice e' soggetto soltanto alla legge, in
 quanto   consente   che   la   utilizzazione   delle    dichiarazioni
 precedentemente  rese  dal  coimputato  in  procedimento connesso sia
 impedita dal "veto" delle parti; c) all'art.  112  Cost.,  in  quanto
 l'esercizio   dell'azione  penale  verrebbe  ostacolato  da  facolta'
 attribuite  ad   una   delle   parti,   con   conseguente   "completo
 stravolgimento"  del  processo;  d)  al  principio di non dispersione
 della prova piu' volte riconosciuto dalla Corte costituzionale.
   12. - Pur nella loro articolazione assai analitica, le  censure  di
 illegittimita'  delle norme transitorie sono tutte riconducibili alla
 denuncia di irragionevolezza, e delle relative ricadute in termini di
 ingiustificata disparita'  di  trattamento,  di  una  disciplina  che
 subordina  la  valutazione probatoria delle dichiarazioni acquisite a
 norma dell'art. 513, commi 1  e  2,  cod.  proc.  pen.  ad  un  nuovo
 criterio  di giudizio, ovvero ne sottopone l'utilizzazione alle nuove
 regole introdotte dalla legge n.  267  del  1997,  in  base  al  dato
 meramente occasionale che al momento di entrata in vigore della legge
 le  dichiarazioni  fossero  gia'  state  acquisite  mediante lettura,
 ovvero, pur essendo gia' stato disposto il rinvio a giudizio, non  si
 fosse  ancora  proceduto  all'esame  del  dichiarante. In sostanza, i
 rimettenti vorrebbero ripristinare integralmente nei procedimenti  in
 corso   la   disciplina   antecedente   alla   riforma  del  1997,  e
 conseguentemente mantenere ferma  la  gia'  intervenuta  acquisizione
 delle  precedenti  dichiarazioni,  ovvero,  se  il dichiarante non e'
 ancora stato sottoposto all'esame, procedere, in caso di  rifiuto  di
 rispondere,  all'acquisizione  mediante lettura.  Occorre al riguardo
 considerare che la disciplina risultante dal  contestuale  intervento
 della Corte sugli artt. 513, comma 2, e 210 cod. proc. pen. incide su
 entrambi  i  termini  di riferimento delle censure rivolte alle norme
 transitorie: il meccanismo di acquisizione, previa contestazione,  di
 singoli  contenuti  narrativi delle precedenti dichiarazioni delinea,
 infatti, una disciplina diversa sia da quella  antecedente  al  1997,
 che  prevedeva l'acquisizione delle precedenti dichiarazioni mediante
 la loro lettura integrale, sia da quella introdotta  dalla  legge  n.
 267 del 1997, che subordinava l'acquisizione al consenso delle parti.
 Si  impone pertanto la restituzione degli atti ai giudici rimettenti,
 perche' valutino se le questioni sollevate  sulle  norme  transitorie
 conservano  la  loro  rilevanza,  ovvero oppure se risultano superate
 alla luce della nuova  disciplina  che  ora  permette  di  recuperare
 mediante  il  sistema delle contestazioni singoli contenuti narrativi
 delle dichiarazioni rese in precedenza.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi,
     1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 513,  comma
 2,  ultimo  periodo del codice di procedura penale nella parte in cui
 non prevede che, qualora il dichiarante rifiuti o comunque ometta  in
 tutto   o   in   parte   di   rispondere   su  fatti  concernenti  la
 responsabilita'  di  altri  gia'   oggetto   delle   sue   precedenti
 dichiarazioni,  in  mancanza dell'accordo delle parti alla lettura si
 applica l'art. 500, commi 2-bis e 4, del codice di procedura penale;
     2) dichiara l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  210  del
 codice  di  procedura  penale  nella  parte in cui non ne e' prevista
 l'applicazione   anche   all'esame   dell'imputato    nel    medesimo
 procedimento  su  fatti concernenti la responsabilita' di altri, gia'
 oggetto  delle  sue  precedenti  dichiarazioni   rese   all'autorita'
 giudiziaria  o  alla  polizia  giudiziaria  su  delega  del  pubblico
 ministero;
     3) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 238,  comma
 4, del codice di procedura penale nella parte in cui non prevede che,
 qualora  in  dibattimento la persona esaminata a norma dell'art.  210
 del codice di procedura penale rifiuti o comunque ometta in  tutto  o
 in  parte  di  rispondere  su fatti concernenti la responsabilita' di
 altri gia' oggetto delle sue precedenti dichiarazioni, in mancanza di
 consenso dell'imputato alla  utilizzazione  si  applica  l'art.  500,
 commi 2-bis e 4, del codice di procedura penale;
     4)   dichiara   inammissibili   le   questioni   di  legittimita'
 costituzionale dell'art.  513,  comma  2,  del  codice  di  procedura
 penale,  sollevate,  in  riferimento  all'art.  3 della Costituzione,
 sotto il profilo della disparita'  di  trattamento  in  relazione  al
 comma  1  dello  stesso  articolo,  dal  Tribunale  di San Remo e dal
 Tribunale di Savona con le ordinanze in epigrafe;.
     5)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
 costituzionale   dell'art.   514  del  codice  di  procedura  penale,
 sollevata,  in  riferimento  agli  artt.  3,  24,  101  e  112  della
 Costituzione, dal Tribunale di San Remo;
     6)   dichiara   non   fondata   la   questione   di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  238,  commi  2-bis  e  4,  del  codice  di
 procedura  penale,  sollevata,  in  riferimento  agli  artt.  3, 101,
 secondo comma, e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Perugia con
 l'ordinanza in epigrafe;
     7)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  210,  comma  4,  del  codice  di procedura
 penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3,  24,  25,  secondo
 comma,  101,  secondo  comma,  102,  primo  comma,  111  e  112 della
 Costituzione, dal Tribunale di Bergamo,  dal  Tribunale  militare  di
 Torino, e dal Tribunale di Trani, con le ordinanze in epigrafe;
     8)  ordina  la restituzione degli atti al Tribunale di Torino, al
 Tribunale per i minorenni di Bologna, al Tribunale  di  Cagliari,  al
 Tribunale di San Remo, al Tribunale di Savona e al Tribunale di Trani
 in  relazione alle questioni di legittimita' costituzionale dell'art.
 6, commi 2 e 5, della legge 7 agosto 1967,  n.  267  (Modifica  delle
 disposizioni  del  codice  di procedura penale in tema di valutazione
 delle prove), sollevate,  in  riferimento  agli  artt.  3,  24,  101,
 secondo  comma,  111,  primo  comma, e 112 della Costituzione, con le
 ordinanze in epigrafe.
   Cosi' deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 26 ottobre 1998.
                         Il Presidente: Granata
                       Il redattore: Neppi Modona
                        Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 2 novembre 1998.
                Il direttore della cancelleria: Di Paola
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