N. 49 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 settembre 1998

                                N.  49
  Ordinanza emessa il 29 settembre 1998 dal tribunale  di  Napoli  nei
 procedimenti penali riuniti a carico di Polese Nello ed altri
 Processo  penale  -  Dibattimento  -  Esame  di  persona  imputata in
    procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere
    - Lettura dei verbali contenuti le dichiarazioni  rese  nel  corso
    delle  indagini  preliminari  -  Preclusione salvo l'accordo delle
    parti  -  Disparita'  di  trattamento  sotto  diversi  profili   -
    Incidenza  sul  diritto  di  difesa  -  Lesione  del  principio di
    indipendenza  del  giudice   -   Violazione   del   principio   di
    obbligatorieta' dell'azione penale.
 (C.P.P. 1988, art. 513, comma 2).
 (Cost.,  artt.  2,  3,  24, primo e secondo comma, 25, secondo comma,
    101, 111 e 112).
(GU n.6 del 10-2-1999 )
                             IL TRIBUNALE
   Decidendo sulla questione di legittimita' costituzionale  dell'art.
 513,  c.p.p.,  come  sostituito dall'art. 1, legge  7 agosto 1997, n.
 267, nel processo penale n. 1610/5/96 r.g. nuovo  rito  a  carico  di
 Polese Nello + 5, sentite le parti;
                             O s s e r v a
   1.  - Nel corso del dibattimento relativo al processo nei confronti
 di Polese Nello + 5 all'udienza  del  25  settembre  1998,  Minichini
 Salvatore,  ammesso dal tribunale come teste su richiesta del p.m.  e
 citato nelle forme di cui all'art. 210 c.p.p., risultando  lo  stesso
 imputato  in  procedimento connesso, si era avvalso della facolta' di
 non rispondere allorquando era stato chiamato a  deporre  davanti  al
 tribunale.
   Il  tribunale,  quindi,  avendo  gia'  sollevato  su  tale problema
 questione di legittimita' costituzionale in data 18 novembre 1997 nel
 processo Bosso +  27,  riservava  la  valutazione  di  una  ulteriore
 rimessione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale  ad  una attenta
 analisi della rilevanza della stessa nel presente processo, rinviando
 il processo
  all'udienza odierna.
   2. - Rilevanza nel processo de quo della questione di  legittimita'
 costituzionale  dell'art.  513  c.p.p.,  come modificato dall'art. 1,
 legge n. 267 del 1997.
   Nell'analizzare  la  rilevanza   della   sollevata   questione   di
 legittimita'  costituzionale  nell'ambito  del  giudizio in corso, va
 innanzitutto  sottolineata  l'importanza  che  le  dichiarazioni  del
 Minichini  Salvatore  rivestono  sul  piano  probatorio atteso che lo
 stesso,  inserito  nella  lista  testimoniale  del  p.m.,  era  stato
 regolarmente ammesso dal tribunale, in quanto chiamato a riferire sui
 rapporti tra "Polese ed il Niespolo e  tra  Polese  e  Di  Guida  con
 riferimento all'autotizzazione inerente al ''Cast Cafe'''".
   Tali  circostanze,  nella  prospettazione  accusatoria, appaiono di
 primaria importanza in  relazione  alle  contestazioni  di  cui  sono
 chiamati a rispondere gli odierni imputati.
   Le  considerazioni  sopra  esposte, inducono il collegio a ritenere
 sicuramente rilevante per il processo che qui  occupa,  la  sollevata
 questione di legittimita' costituzionale.
   Ed  infatti,  se  il  consenso  delle  parti all'acquisizione delle
 dichiarazioni rese in sede di indagine dai  soggetti  sopra  indicati
 che  costituisce,  secondo la nuova formulazione dell'art. 53 c.p.p.,
 l'unica  condizione  per  acquisire  le  stesse  al   fascicolo   del
 dibattimento e considerarle poi utilizzabili ai fini della decisione,
 fosse dichiarato incostituzionale tali dichiarazioni avrebbero libero
 accesso  nel  processo pendente, risultando pienamente valutabili dal
 giudice,  con  un  meccanismo  di  acquisizione  identico  a   quello
 contemplato  dalla  vecchia  formulazione dell'art. 513 c p.p., cosi'
 come integrato dalla sentenza n. 254/1992 della Corte costituzionale.
   3. - La non manifesta infondatezza delle questioni proposte.
   Va preliminarmente  osservato  che  la  censura  di  illegittimita'
 costituzionale  dell'art.  513  c.p.p.,  nella  valutazione di questo
 collegio, non e' diretta a confutare il  principio  ispiratore  della
 norma  nella  parte  in  cui essa, nella nuova formulazione, tende ad
 assicurare  le  regole  del   contraddittorio.   Al   contrario,   va
 riconosciuto  che  la nuova formulazione dell'art. 513 ha sicuramente
 cercato di dare una risposta, da piu' parti auspicata, alle  numerose
 critiche mosse alla normativa precedente, considerata da molti lesiva
 del dittto di difesa dell'imputato, laddove
  consentiva  la piena utilizzabilita' delle dichiarazioni di soggetti
 estranei al processo raccolte in assenza di  contraddittorio.
   La scelta di subordinare l'acquisizione di  tali  dichiarazioni  al
 consenso   delle  parti,  infatti,  altro  non  costituisce  -  nelle
 intenzioni del legislatore - che la "riparazione" di tale violazione,
 possibile solo con il  consenso  di  colui  il  cui  diritto  risulta
 violato  dal  mancato rispetto delle regole imposte dal principio del
 contraddittorio.
   E pero' la scelta  operata  dal  legislatore  appare  inadeguata  a
 conciliare  i diversi principi costituzionali che regolano la materia
 in questione e mal si armonizza con il sistema  quale  si  e'  andato
 delineando  in  questi  ultimi  anni  anche  attraverso le successive
 pronunce della Corte costituzionale. E' vero -  infatti  -  che  essa
 determina  uno  squilibrio,  ora in pregiudizio dell'accusa, non meno
 censurabile di quello preesistente a sfavore  della  difesa,  che  si
 voleva invece correggere.
   Com'e'  noto  il giudice, nell'esprimere un preliminare giudizio di
 non  manifesta   infondatezza   della   questione   di   legittimita'
 costituzionale   posta   alla   sua   attenzione,  deve  limitarsi  a
 raffrontare le  norme  di  sospetta  legittimita'  non  solo  con  le
 specifiche  disposizioni  costituzionali di riferimento, ma anche con
 l'interpretazione che delle stesse e' stata  fornita  nel  corso  del
 tempo dalla Corte costituzionale.
   Tali  norme, infatti, non possono essere interpretate isolatamente,
 ma devono essere valutate sistematicamente  alla  luce  dei  principi
 informatori  della  Costituzione stessa, che la Corte, massimo organo
 di interpretazione della Costituzione "vivente", ha enucleato con  la
 propria giurisprudenza.
   Ed  invero,  e'  la  stessa Corte che con la sentenza n. 111 del 26
 marzo 1993, ha  affermato  che  "la  considerazione  dell'ordinamento
 processual-penale  italiano  va  condotta  a  prescindere da astratte
 modellistiche, sulla base del  tessuto  normativo  positivo,  la  cui
 interpretazione  e  comprensione  non puo' che derivare da un'attenta
 lettura dei principi e dei criteri direttivi  enunciati  dalla  legge
 delega  e  dei  principi  costituzionali  di  cui questa ... richiede
 attuazione.
   Non va cioe' dimenticato che il sistema processuale delineato nella
 legge delega ed attuato nel codice e'  tutt'affatto  originale,  dato
 che  tende  bensi' ad attuare i caratteri del sistema accusatorio, ma
 secondo i criteri ed i principi direttivi specificati nelle direttive
 che seguono; e  che,  poiche'  la  stessa  norma  detta  ancor  prima
 l'obbligo  di  attuare  i  principi  della Costituzione, una adeguata
 considerazione  dell'ordinamento  effettivamente  vigente  non   puo'
 prescindere  dagli  interventi  correttivi  che  questa  Corte  si e'
 trovata a dover apportare".
   Ed e' sicuramente alla luce di quanto or ora  espresso  che  questo
 collegio  non  puo'  non  ritenere  non  manifestamente  infondata la
 sollevata  questione  di  legittimita'   costituzionale,   anche   in
 considerazione  del  fatto  che la nuova disciplina prevista dall'art
 513 c.p.p., sostanzialmente ripropone, con la mera previsione di  una
 condizione   puramente   "di   scuola"   e   sicuramente   quasi  mai
 verificabile,  la  disciplina  originariamente   prevista   da   tale
 articolo,  poi  ritenuto  illegittimo  dal giudice delle leggi con la
 sentenza  n.  254  del  3  giugno  1992,  che  ne  aveva   dichiarato
 l'incostituzionalita   per   contrasto   con  l'art.  3  e  76  della
 Costituzione, nella parte  in  cui  non  prevedeva  che  il  giudice,
 sentite  le parti, disponesse la lettura dei verbali di dichiarazioni
 rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora  queste  si
 fossero avvalse in dibattimento della facolta' di non rispondere.
   4.  -  Principi  costituzionali  ed  elaborazioni giurisprudenziali
 della Corte costituzionale.
   La Corte costituzionale,  prendendo  le  mosse  dall'esistenza  nel
 nostro  ordinamento  del  principio  di  obbligatorieta'  dell'azione
 penale e di legalita', regolati dagli artt. 112 e 101 della Cost., ha
 piu' volte affermato che il processo penale ha come fine primario  ed
 ineludibile quello della ricerca della verita' (cfr. sent. n. 111 del
 1993,  n.   255 del 1992, n. 258 del 1991), intesa in senso storico e
 non meramente processuale.
   Ed invero il modello processuale prescelto con l'entrata in  vigore
 del  nuovo  codice  di  procedura  penale,  non e' certo quello di un
 processo di parti nel senso puro del termine, nel  quale  il  giudice
 deve "accontentarsi" della prospettazione delle stesse, ma un sistema
 che  consente  a quest'ultimo di addivenire ad una giusta decisione e
 che fa salvo il  principio  del  libero  convincimento,  inteso  come
 liberta' del giudice di valutare la prova secondo il proprio prudente
 apprezzamento, con l'obbligo di dare conto in motivazione dei criteri
 adottati e dei risultati
  conseguiti.
   In  maniera  del  tutto conseguenziale la Corte, enucleando il c.d.
 principio della non dispersione o di conservazione  della  prova,  ha
 poi  affermato  che  -  proprio  in  virtu' del fatto che il fine del
 processo penale deve  individuarsi  nella  ricerca  della  verita'  -
 "l'oralita'  assunta  a  principio  ispiratore  del nuovo sistema non
 rappresenta, nella disciplina del codice,  il  veicolo  esclusivo  di
 formazione  della  prova  nel dibattimento ... di guisa che in taluni
 casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente e'  dato
 rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad
 atti  formatisi  prima ed al di fuori del dibattimento" (sent. n. 255
 del 1992).
   E cio' tanto piu' in un sistema procedimentale nel  quale  il  p.m.
 e'  una  parte  processuale  pubblica,  "un  magistrato indipendente,
 appartenente all'ordine  giudiziario  che  non  fa  valere  interessi
 particolari ma agisce esclusivamente a tutela dell'interesse generale
 all'osservanza  della  legge"  (sent.  n.  88  del 1991); al quale e'
 percio' demandato anche il compito di svolgere  gli  accertamenti  su
 fatti  e  circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini
 ed  i   cui   poteri   discrezionali,   in   virtu'   del   principio
 dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  sono  stati rigorosamente
 contenuti (cfr. sentenza   92 del 1992  con  la  quale  la  Corte  ha
 dichiarato  l'incompatibilita'  "con  un  ordinamento  costituzionale
 fondato sui principi di eguaglianza e di legalita'  della  pena"  nel
 giudizio  abbreviato  "che  affida(va) a scelte - immotivate e quindi
 insindacabili - del p.m. l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale
 scaturiscono automaticamente rilevanti effetti  sulla  determinazione
 della  pena;  sentenza  n.  26  giugno  1990  n.  313 che ha ritenuto
 illegittimo, nella parte in cui prevedeva per il giudice il potere di
 rigettare la  richiesta  di  applicazione  della  pena  ritenuta  non
 congrua).  Dall'elaborazione dei principi fin qui citati, la Corte ha
 anche   individuato   l'inesistenza  nel  nostro  ordinamento  di  un
 principio dispositivo in materia di tutela  giurisdizionale,  che  si
 estende  anche  in tema di prova, nel senso che il potere del giudice
 di addivenire ad una giusta decisione non puo' mai essere subordinato
 al potere delle parti o a loro scelte processuali.  Ed infatti  nella
 sentenza   del   26  marzo  1993  n.  111  si  e'  affermato  che  la
 configurazione del potere istruttorio conferito al giudice  dall'art.
 507  c.p.p.  non  ha  natura eccezionale.   Nella motivazione di tale
 sentenza la Corte, nel ribadire che la  disponibilita'  della  tutela
 giurisdizionale  assicurata  dal  processo  penale  e'  indubbiamente
 contraria   ai   principi   costituzionali   di   legalita'   e    di
 obbligatorieta'   dell'azione  penale,  evidenzia  che  un  principio
 dispositivo non puo' dirsi esistente  neanche  sul  piano  probatorio
 "perche'  cio' significherebbe rendere disponibile, indirettamente la
 res iudicanda". E cio' soprattutto in relazione all'art.  507  c.p.p.
 la  cui  portata  normativa  inserita "in un sistema imperniato su un
 ampio  riconoscimento  del   diritto   alla   prova   e   nel   quale
 l'acquisizione  del  materiale  probatorio  e' rimessa in primo luogo
 all'iniziativa delle parti, conferisce al  giudice  il  potere-dovere
 d'integrazione  anche  d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui la
 carenza o  l'insufficienza,  per  qualsiasi  ragione  dell'iniziativa
 delle  parti,  impedisca  al dibattimento di assolvere la funzione di
 assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto
 del processo onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione".
 Anche  del diritto di difesa, garantito dall'art. 24, primo e secondo
 comma della Costituzione,  la  Corte  costituzionale  ha  fornito  la
 propria  interpretazione,  sottolineando  come l'inviolabilita' dello
 stesso  imponga  sul  piano  processuale  che   l'ordinamento   debba
 adoperarsi  con ogni mezzo per consentire a chiunque di dimostrare la
 propria innocenza in ogni stato e grado  di  giudizio,  e  sul  piano
 tecnico  che non possano esservi spazi del thema decidendum sui quali
 l'imputato  non  possa  intervenire  criticamente,  come  del   resto
 espressamente sancito anche dall'art. 6 della Convenzione europea dei
 Diritti  dell'uomo,  sempre  piu' spesso richiamata anche dal giudice
 delle  leggi  per  individuare  i  principi  supremi  cui  il  nostro
 ordinamento    deve    uniformarsi.        Talche'   deve   ritenersi
 incostituzionale - salvi casi eccezionali ed espressamente previsti -
 qualsiasi soluzione legislativa che sottragga alla parte, anche  solo
 parzialmente   e   per  singole  fasi  processuali,  tale  potere  di
 intervento, ovvero che sottragga al vaglio critico  del  dibattimento
 qualsiasi  elemento  di  prova  prodotto  dalle parti.   Va da ultimo
 sottolineato che al piu' generale principio di solidarieta'  previsto
 dall'art. 2 della Cost., e' collegata l'esistenza dei cc.dd.  "doveri
 pubblici", tra i quali deve ricomprendersi, per costante orientamento
 della Corte costituzionale, anche l'obbligo di rendere testimonianza.
 A   tale   dovere,   che   deve  essere  esercitato  nel  piu'  ampio
 perseguimento  dei  fini  del  processo  penale,   per   come   sopra
 evidenziati,  possono  essere  imposte  delle limitazioni solo per la
 tutela di altri valori costituzionalmente  garantiti  da  considerare
 prevalenti,  in  base  ad  un bilanciamento di interessi.  Proprio in
 considerazione  della  coesistenza  di  piu'  interessi  diversamente
 tutelati   dall'ordinamento,   puo'  cosi'  spiegarsi  la  previsione
 normativa della  facolta'  di  astensione  prevista  per  i  prossimi
 congiunti nonche' quella del diritto dell'imputato di non rispondere,
 che  proprio  perche'  espressioni  di  diritti "prevalenti", possono
 costituire deroghe eccezionali al dovere di testimoniare.
   5. -  Incostituzionalita'  dell'art.  513,  comma  2,  c.p.p.,  per
 contrasto  con  gli  artt.  2, 3, 25, secondo comma,   111, Cost.  In
 relazione a tali disposizioni costituzionali, la cui  interpretazione
 e' stata chiarita alla luce di quanto sopra espresso, va rilevato che
 la   norma   in   questione   presenta   profili  di  illeggittimita'
 costituzionale nella parte in cui consente al soggetto citato ex art.
 210  c.p.p.,  che  durante  le  indagini  preliminari  aveva   inteso
 rispondere,  di avvalersi della facolta' di non rendere dichiarazioni
 in dibattimento.  Il carattere irragionevole di tale  disposizione  e
 di  contrasto  con  i principi di responsabilita' e collaborazione in
 vista dell'accertamento della verita' che questa disciplina presenta,
 appare ancora piu' evidente se si sottolinea che la  possibilita'  di
 "recedere"  da  una  scelta  precedentemente operata - il non essersi
 avvalso di tale facolta' nella fase delle  indagini  -  non  puo'  in
 realta'  giustificarsi con il principio del nemo tenetur se detegere,
 ossia con l'interesse del soggetto di non rendere  dichiarazioni  che
 possano  poi pregiudicarlo nel diverso procedimento nel quale riveste
 la qualita' di imputato.  Ed invero, in tale ultimo processo, qualora
 egli dovesse avvalersi della facolta' di non rispondere,  subira'  il
 ben  diverso  e  piu'  "dannoso" trattamento previsto dal primo comma
 dell'art. 513 c.p.p., con la conseguente  utilizzabilita'  contra  se
 delle  dichiarazioni  precedentemente rese al p.m.  Proprio in virtu'
 di tale considerazione, non puo' non ritenersi  che  la  possibilita'
 riconosciuta  a tale soggetto di sottrarsi alla prova dibattimentale,
 appellandosi alla possibilita' che gli riconosce  il  legislatore  di
 avvalersi  della facolta' di non rispondere, non trova fondamento nel
 diritto di difesa della parte, risolvendosi in una ingiustificata  ed
 irragionevole  violazione  del  generale  dovere  di collaborare alla
 ricerca della verita' come innanzi configurato.  Vanno in  tal  senso
 condivise   ed   integralmente   richiamate   in   questa   sede   le
 argomentazioni del p.m. circa  il  contrasto  con  il  principio  del
 libero  convincimento del giudice ex art. 111 Cost., di una normativa
 che "... improvvisamente, in dipendenza della scelta di (un) soggetto
 estraneo  al  processo  sottrae  al  giudice  una  parte  del   thema
 decidendum  e del materiale probatorio portatogli, senza per converso
 fornirgli alcuno strumento per sopperire, in vista  dell'accertamento
 dei fatti, a tale lacuna che si viene a creare.
   6.   -   Incostituzionalita'   dell'art.   513,  comma  1  e  2,  e
 conseguentemente dell'art. 514 c.p.p., per contrasto con gli artt. 3,
 24, secondo comma, 111 e 112, Cost.  Appare di sospetta  legittimita'
 costituzionale   anche   la   disparita'   di  trattamento  che  puo'
 verificarsi nel modo in cui viene assicurato, secondo  la  disciplina
 vigente,  il  diritto  di  difesa degli imputati ed in particolare il
 diritto al  controesame  che  costituisce  momento  essenziale  nello
 svolgimento  del  processo.   Ed invero, nel caso in cui due processi
 relativi allo stesso  fatto  vengano  trattati  in  momenti  diversi,
 potra' verificarsi l'ipotesi che il dichiarante, in uno dei processi,
 risponda  alle  domande  delle  parti,  mentre nell'altro, si avvalga
 della facolta' di non rispondere.    In  tale  seconda  ipotesi,  gli
 imputati  si  vedranno  privati  del  diritto  di  controesaminare il
 dichiarante, vedendo cosi' leso il loro diritto di difesa che -  come
 si  e'  visto  in  precedenza  -,  deve  essere individuato non nella
 possibilita' di sfuggire comunque  alla  condanna,  ma  nella  tutela
 riservata  all'imputato  di vedersi sempre assicurata la possibilita'
 di fare tutto quanto necessario per dimostrare la propria  innocenza.
 Tale  disparita'  di  trattamento  appare  ancor  piu' evidente se si
 considera che il giudice in un  caso  potra'  tenere  conto  di  tali
 dichiarazioni,  mentre  nell'altro caso si vedra' privato di elementi
 essenziali per il giudizio, per la sola decisione (rectius  arbitrio)
 di  un soggetto estraneo al processo, al quale viene riconosciuta una
 facolta' di astenersi dal rispondere, assolutamente non  collegata  -
 per  quanto  sopra  evidenziato  -  alla  tutela  del suo inviolabile
 diritto di difesa.  Per comprendere piu' a fondo tale  aspetto  della
 problematica  sollevata  dal  p.m.,  il  collegio  ritiene necessario
 evidenziare  che,  se  costituisce  sicura  espressione  di  avanzata
 civilta'  giuridica, il consentire l'utilizzabilita' in dibattimento,
 solo subordinatamente al consenso della parte che non ha  partecipato
 al momento della loro assunzione, delle dichiarazioni rese nella fase
 delle  indagini  preliminari, potendo solo tale soggetto ripristinare
 l'avvenuta  violazione  del  principio  del  contraddittorio,  e'  da
 ritenersi,  invece, del tutto inconcepibile che tale possibilita' sia
 collegata alla scelta di un soggetto  estraneo  al  processo.    Tale
 scelta,  infatti,  insindacabile  e non soggetta ad alcun controllo e
 sanzione, costituisce -  come  innanzi  ricordato  -  violazione  del
 principio  del giusto processo e del libero convincimento del giudice
 riconducibili    all'art.    111    Cost.,   ed   anche   di   quello
 dell'obbligatorieta' dell'azione penale regolato dal successivo  art.
 112.
   7.  -  Incostituzionalita'  dell'art. 513 c.p.p., per contrasto con
 gli artt. 3 e 111 della Cost.
 La disciplina introdotta dal novellato  testo  dell'art.  513  c.p.p.
 presenta  una  irragionevole disparita' di trattamento anche rispetto
 al regime previsto per l'analoga ipotesi di rifiuto di rispondere  da
 parte  del  teste. In tale secondo caso, infatti, ai sensi dell' art.
 511 c.p.p., le dichiarazioni rese dai testi che si sono rifiutati  di
 rispondere,   verranno   lette   ed   acquisite   al   fascicolo  del
 dibattimento, senza alcuna possibilita' che la parte, il cui  diritto
 al  contraddittorio  risulta  comunque  violato,  possa impedire tale
 evenienza negando il proprio consenso alla loro  utilizzazione.   Per
 meglio   comprendere   tale  profilo  di  incostituzionalita',  basta
 sottolineare come le persone imputate  in  un  procedimento  connesso
 siano  da  sempre state individuate come una categoria intermedia tra
 quella dell'imputato e quella del teste.  Ed invero, se l'esame dello
 stesso e' inserito tra le fonti di prova, come quello  dell'imputato,
 gli  sono  estese  le  modalita'  di citazione del teste e gli e' poi
 riconosciuta, in applicazione del gia' richiamato principio del  nemo
 tenetur se detegere, la necessita' di farsi assistere da un difensore
 e  la  consegunte  possibilita'  di  avvalersi  della facolta' di non
 rispondere.   Tali considerazioni, rapportate a  quanto  si  e'  gia'
 esposto in tema di eccezionalita' delle ipotesi di deroga al generale
 obbligo  di  collaborazione  con  la  giustizia  alla  ricerca  della
 verita', e collegate alla esclusione di  ogni  pregiudizio  che  allo
 stesso  possa  derivare nel procedimento a suo carico, comportano una
 oggettiva assimilazione della sua posizione a quella del  teste,  per
 quanto  attiene  alle  dichiarazioni  rese  non  contro se stesso, ma
 contro terzi.   Del resto la "peculiarita'"  di  tali  dichiarazioni,
 rese  da  soggetto  "interessato" al processo, che proprio per questo
 possono essere inficiate dall'esistenza di interessi personali, trova
 una confortante tutela nella speciale  disciplina  dettata  dall'art.
 192  comma  3  e  4  c.p.p.,  in  tema  di  valutazione  della prova.
 Ulteriore profilo di incostituzionalita' della disposizione  prevista
 dall'art.  513 c.p.p., non rilevato dal p.m., ma ritenuto sussistente
 dal collegio sempre in relazione alla disparita' di  trattamento  tra
 la  posizione  dell'imputato  di  reato  connesso ed il testimone, va
 ravvisato nella non previsione,  nel  testo  novellato  della  citata
 norma,   di   una  diversa  disciplina  alla  quale  assoggettare  le
 dichiarazioni precedentemente rese dai  soggetti  indicati  nell'art.
 210 c.p
 ,  nel  caso  in  cui  risulti  provato  che gli stessi siano rimasti
 vittima di pressioni o minacce, come invece testualmente previsto  in
 caso  di  esame testimoniale.   Tale mancata previsione, inizialmente
 prevista ma poi non trasfusa nel testo definitivo, appare sicuramente
 illogica ed irrazionale ed acquista una rilevanza particolare se solo
 si tiene conto della maggiore permeabilita' a condizionamenti esterni
 di  tali  soggetti,  derivante  proprio  dalla   "ibrida"   posizione
 processuale    dagli    stessi    rivestita.        Sempre   partendo
 dall'elaborazione   dei    principi    fin    qui    esposti    circa
 l'irragionevolezza  di una disparita' di trattamento tra la posizione
 del  teste  e  quella  di  imputato  di reato connesso per quanto non
 attiene  alle   dichiarazioni   autoaccusanti,   appare   di   dubbia
 costituzionalita'  anche  la  differenziazione tra la disciplina alla
 quale sono soggette le disposizioni in tema di prossimi  congiunti  e
 quelle regolate dall'art.  513 c.p.p.
   Ed  infatti, nel caso dei prossimi congiunti che si avvalgono della
 facolta' di non rispondere, la Corte costituzionale ha sostenuto  che
 tale  facolta'  rappresenta  una  oggettiva ed imprevedibile causa di
 impossibilita' di ripetizione dell'atto (sent. n. 179 del 1994),  con
 conseguente   possibilita'   di   utilizzazione  delle  dichiarazioni
 precedentemente rese dai prossimi congiunti che  in  dibattimento  si
 erano   poi   avvalsi  della  facolta'  di  non  rispondere,  laddove
 nell'ipotesi analoga che qui ne occupa, la legge ha  predisposto  una
 disciplina  basata  sulla  utilizzabilita'  delle  stesse solo previo
 consenso delle parti.
                                P. Q. M
   Letti gli artt. 134 Cost., 1, legge costituzionale 9 febbraio 1948,
 n. 1, e 23, legge 11 marzo 1953, n.  87,  ritenuta  la  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  513,  comma  2,  c.p.p.,  in
 relazione agli artt. 2, 3, 24, primo e  secondo  comma,  25,  secondo
 comma,  101,  111, 112 Cost. non manifestamente infondata e rilevante
 ai fini della decisione;
   Sospende il giudizio in corso;
   Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
   Ordina alla cancelleria di notificare la  presente  ordinanza  agli
 imputati,  al  p.m., alle parti civili ed al Presidente del Consiglio
 dei Ministri;
   Ordina alla cancelleria di  comunicare  la  presente  ordinanza  ai
 Presidenti delle due Camere del Parlamento.
   Cosi' deciso in Napoli, il 29 settembre 1998.
                      Il presidente: Frallicciardi
                                        Il giudice estensore: Paolelli
 99C0068