N. 177 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 febbraio 1998- 9 marzo 1999

                                N. 177
  Ordinanza  emessa  il  3  febbraio  1998   (pervenuta   alla   Corte
 costituzionale  il 9 marzo 1999) dal T.A.R. della Sicilia sul ricorso
 proposta da Noto Guido contro Ministero dell'Interno ed altro
 Sicurezza  pubblica   -   Guardia   giurata   -   Revoca   automatica
    dell'autorizzazione richiesta per la nomina e del porto d'arma, in
    seguito  a condanna per delitto - Conseguente perdita del posto di
    lavoro  presso  l'Istituto   di   vigilanza   -   Irragionevolezza
    dell'automatismo   della  misura,  senza  alcuna  possibilita'  di
    graduazione - Disparita' di trattamento di situazioni omogenee con
    riferimento ad ipotesi analoghe in base alla giurisprudenza  della
    Corte  costituzionale  - Incidenza dei principi di imparzialita' e
    buon andamento della pubblica amministrazione -  Riferimento  alle
    sentenze  della  Corte  costituzionale  nn.  971/1988,  408/1993 e
    108/1994.
 (R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 138, n. 4).
 (Cost., artt. 3 e 97).
(GU n.13 del 31-3-1999 )
         IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA SICILIA
   Ha pronunciato la seguente  ordinanza  sul  ricorso  n.  reg.  gen.
 4638-95,  proposto  dal  sig.  Guido  Noto,  rappresentato  e  difeso
 dall'avv. Guido Di Stefano,  unitamente  al  quale  elegge  domicilio
 presso   lo  studio  dell'avv.  Tommaso  D'Angelo,  in  Palermo,  via
 Resuttana n. 366;
   Contro il Ministero dell'Interno in persona del Ministro in carica,
 rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato presso la cui sede
 distrettuale, in Palermo, via  A.  De  Gasperi  n.  81,  e'  ex  lege
 domiciliato,  e  nei confronti dell'Istituto di vigilanza privata "La
 Vigilanza di Azzaretto Vincenzo   C. s.n.c." in  persona  del  legale
 rappresentante   pro-tempore,   non  costituitosi  in  giudizio,  per
 l'annullamento previo sospensiva:
     del decreto del prefetto della  provincia  di  Trapani  prot.  n.
 1385/Sett. 2 Sez. I del 13 giugno 1995, notificato il 25 luglio 1995,
 con il quale e' stato revocato il decreto prefettizio dell'11 ottobre
 1994  di  approvazione  a  guardia particolare giurata ed il relativo
 porto di pistola;
     del decreto del prefetto della provincia  di  Trapani,  prot.  n.
 1385/Sett.  2 Sez. I del 7 settembre 1995, notificato il 19 settembre
 1995, con il quale e' stato parzialmente modificato il decreto  sopra
 calendato;
     della nota dell'Istituto di vigilanza privata prot. n. 227/95 del
 28 agosto 1995, con la quale - in ottemperanza al decreto prefettizio
 - il ricorrene e' stato licenziato.
   Visti gli atti depositati dal ricorrente;
   Visti   gli   atti   di  costituzione  in  giudizio  e  la  memoria
 dell'amministrazione resistente;
   Visti gli atti tutti della causa;
   Designato relatore il primo referendario avv. Carlo Modica;
   Uditi, alla pubblica udienza del 3  febbraio  1998,  l'avv.  G.  Di
 Stefano  per  il ricorrente e l'avvocato dello Stato Marcello Pollara
 per l'amministrazione resistente;
   Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
                               F a t t o
   Con ricorso notificato il  7  novembre  1995  e  depositato  il  29
 novembre 1995, il sig. Guido Noto impugna i provvedimenti indicati in
 epigrafe, esponendo quanto segue.
   Nel  corso  di un giudizio civile promosso contro il ricorrente dai
 condomini di un edificio di civile  abitazione  (sito  nella  via  S.
 Anna di Erice), il vice pretore ordinario della Pretura circondariale
 di  Trapani  (Sezione distaccata di Erice), emetteva un'ordinanza con
 la quale ingiungeva al convenuto di non parcheggiare piu' la  propria
 auto  nel  lato  est  del  vicolo Dessie' (in quanto cio' impediva la
 manovra di  ingresso al garage ed al cortile interno delle  auto  dei
 condomini).
   Poiche'  il  ricorrente  non  ottemperava  a tale ordinanza, veniva
 avviato a suo carico un procedimento penale per violazione  dell'art.
 388  del codice penale che si concludeva con una sentenza di condanna
 al pagamento di una multa di L. 200.000.
   Considerata la tenuita' della pena,  il  ricorrente  non  proponeva
 appello.
   In  conseguenza  della  predetta  condanna,  con  il decreto del 13
 giugno 1995 (indicato in epigrafe) il  prefetto  della  provincia  di
 Trapani revocava - pero' - il decreto con cui il ricorrente era stato
 autorizzato a svolgere l'attivita' di guardia giurata, ed il relativo
 porto di pistola.
   Ed  a  cagione  di  detti  decreti, l'Istituto di vigilanza privata
 presso il quale il ricorrente prestava servizio di guardia giurata da
 ben diciassette anni gli intimava il licenziamento.
   Nel chiedere l'annullamento dei provvedimenti prefettizi impugnati,
 il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione  dell'art.  138
 n.  4  del  r.d.  18 giugno 1931 n. 773 in relazione all'art. 9 della
 legge 7 febbraio  1990,  n.  19,  nonche'  violazione  dei  principii
 generali  di diritto enucleati nella sentenza n. 971/1988 della Corte
 costituzionale, ed eccesso di potere per illogicita' manifesta.
   Ritualmente costituitisi in giudizio, con memoria depositata il  23
 gennaio  1998,  l'amministrazione intimata ha eccepito l'infondatezza
 del ricorso, chiedendone il rigetto con vittoria di spese.
   L'Istituto dal quale il ricorrente dipende non si e' costituito  in
 giudizio.
   Con  ordinanza  n.  64 del 23 gennaio 1996 l'istanza di sospensione
 cautelare del provvedimento impugnato e' stata accolta.
   Con memoria  depositata  il  20  gennaio  1998,  il  ricorrente  ha
 insistito nelle richieste e deduzioni di cui al ricorso introduttivo.
   All'udienza  del  3  febbraio 1998, uditi i procuratori delle parti
 costituite, i  quali  hanno  insistito  nelle  rispettive  richieste,
 deduzioni ed eccezioni, la causa e' stata posta in decisione.
                             D i r i t t o
   1.  -  Con unico articolato motivo di gravame il ricorrente lamenta
 violazione di legge ed eccesso di potere per  illogicita'  manifesta,
 deducendo:
     che  l'art.  138  n.  4 cit. dev'essere interpretato ed applicato
 alla  luce  dei  principi  generali  (in  tema  di  divieto  di  c.d.
 "destituzione    automatica   d'ufficio")   enucleati   dalla   Corte
 costituzionale  con  la  sentenza  n.  971/1988,   e   trasfusi   dal
 legislatore nell'art. 9 della legge n. 19/1990;
     che  i  predetti principii generali non possono non operare anche
 nei confronti delle guardie giurate, le quali  svolgono  funzioni  di
 particolare interesse pubblico, assimilabili (o comunque ausiliarie e
 di  supporto)  alle  funzioni  di  polizia  giudiziaria;  e rivestono
 (nell'esercizio delle stesse) la qualita' di pubblici ufficiali;
     e che pertanto la "revoca automatica" della licenza di  porto  di
 pistola  e  dell'autorizzazione  a  svolgere  l'attivita'  di guardia
 giurata   -   acriticamente   disposta   dall'amministrazione   quale
 necessaria  (recte:  doverosa)  conseguenza  di  una condanna penale,
 senza alcuna previa  verifica  in  ordine  alla  entita'  della  pena
 comminata,  alla  gravita'  dei  fatti posti a base della condanna ed
 alla personalita' del soggetto che la subisce - costituisce attivita'
 provvedimentale illegittima siccome contraria ai predetti principii;
     che, infine, l'applicazione restrittiva e rigida dell'art. 138 n.
 4  del  r.d.  n.  773/1931,   determinerebbe   una   ingiustificabile
 disparita'  di  trattamento  - censurabile in quanto contrastante con
 gli articoli 3 e  97  della  Costituzione  -  fra  la  categoria  dei
 soggetti  che  svolgono  funzioni di pubblico ufficiale "connesse" ad
 attivita' di polizia giudiziaria (in quanto volte alla prevenzione  e
 repressione  di  reati) in qualita' di guardia giurata e le categorie
 di soggetti che le svolgono in qualita' di  appartenenti  alle  Forze
 dell'ordine.
   La  pretesa  del  ricorrente appare fondata su argomentazioni nella
 sostanza condivisibili.
   Non essendo tuttavia possibile -  in  sede  di  interpretazione  ed
 applicazione  del dato normativo - superare il tenore letterale ed il
 significato testuale dell'art. 138 n. 4  del  r.d.  n.  773/1931,  il
 Collegio  ritiene necessario sollevare in ordine ad esso la questione
 di legittimita' costituzionale, considerandola "rilevante"  nel  caso
 di specie e "non manifestamente infondata", per i seguenti motivi.
   1.1.  -  Con  sentenza  n.  971  del  12/14  ottobre  1988 la Corte
 costituzionale ha affermato il principio che il  pubblico  dipendente
 non  puo' essere destituito, in conseguenza di sentenza penale, senza
 che la p.a.   abbia  preventivamente  verificato  la  sussistenza  di
 concrete  cause di incompatibilita' (o ragioni che rendano nociva per
 l'immagine dell'amministrazione, o comunque pericolosa per la stessa,
 la permanenza in servizio del condannato).
   Con la medesima sentenza, in conseguente e coerente applicazione di
 tale principio  -  altrimenti  noto  come  divieto  di  "destinazione
 d'ufficio  automatica"  -  sono  stati  dichiarati costituzionalmente
 illegittime le seguenti disposizioni di legge: l'art. 247 del r.d.  3
 marzo 1934, n. 383 (t.u. com. e prov. nel testo sostituito con  legge
 27  giugno  1942,  n.  851); l'art. 66 lett. d del d.P.R. 15 dicembre
 1959 n. 1229 (ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti
 ufficiali giudiziari); l'art. 2, co I, della legge 13 maggio 1975, n.
 157  (estensione  delle  norme  dello  statuto degli impiegati civili
 dello Stato agli operai dello Stato); l'art. 57 lett. "a" d.P.R.   20
 dicembre  1979,  n.  761  (stato giuridico del personale delle unita'
 sanitarie locali); e - cio' che qui piu' interessa - l'art.  8  lett.
 "a"  del  d.P.R.  25  ottobre  1981,  n.  737  (in  tema  di sanzioni
 disciplinari  per  il  personale  dell'amministrazione  di   pubblica
 sicurezza).
   Successivamente, e sulla medesima linea motivazionale, con sentenza
 n.  408  del 5-23 novembre 1993 la Corte costituzionale ha dichiarato
 illegittimo l'art. 12  del  d.P.R.  n.  340/82  nella  parte  in  cui
 stabiliva  la  "esclusione  automatica" dai concorsi per l'accesso al
 pubblico impiego  dei  soggetti  che  fossero  stati  precedentemente
 destituiti o dispensati da altro impiego presso la p.a.
   Mediante   la   predetta   pronunzia  la  Corte  costituzionale  ha
 definitivamente evidenziato la sussistenza di un  principio  generale
 dell'ordinamento,  desumibile  dalla  Costituzione,  secondo  cui  il
 provvedimento di esclusione dall'impiego pubblico (che venga adottato
 in  sede  amministrativa)  non  puo'  essere  "automatico"  (salvo  -
 beninteso  - che non costituisca l'effetto accessorio di una condanna
 penale)  dovendo  l'amministrazione  valutare,  caso  per  caso,   la
 gravita'  degli atti imputati al dipendente e verificare, in concreto
 e per quanto possibile, se sussistano ragioni  per  ritenere  che  lo
 stesso non si sia ravveduto e che possa porre in essere comportamenti
 recidivi o che destino allarme sociale e/o che mettano in pericolo il
 patrimonio o l'immagine dell'amministrazione stessa.
   Con  le  sentenze  richiamate  la  Corte  costituzionale  ha dunque
 sostanzialmente confermato e sviluppato l'ormai  consolidato  proprio
 orientamento giurisprudenziale (si vedano le sentenze nn. 15 e 33 del
 1960;  nn.    61  e  45  del  1965;  e  n.  207 del 1976) secondo cui
 l'esclusione dalla partecipazione ad un  concorso  per  l'accesso  al
 pubblico  impiego - anche se nelle Forze di polizia - non puo' essere
 determinata esclusivamente dalla sussistenza, a carico del  candidato
 (aspirante  all'impiego),  di  una  condanna  per  un qualsiasi reato
 volontario anche se di lieve portata e non destante allarme  sociale;
 dovendosi  di  volta in volta verificare in concreto la sussistenza o
 l'insussistenza, anche in considerazione della funzione  di  "emenda"
 che   la   pena  riveste  nell'ordinamento,  dei  "requisiti  morali"
 prescritti.
   Dalle sentenze in esame deve inoltre desumersi che nell'ordinamento
 sussiste un principio costituzionale di portata ancor  piu'  generale
 (del  quale  quello  sopraricordato  costituisce  specificazione)  in
 virtu' del quale alla condanna  penale  non  puo'  essere  attribuito
 alcun  automatico  valore  rescindente  o  risolutivo  del "rapporto"
 eventualmente  intrattenuto  fra  il   condannato   e   la   pubblica
 amministrazione,  dovendo quest'ultima vagliare - caso per caso ed in
 concreto - se la  condanna  comporti  una  alterazione  del  rapporto
 fiduciario  ed una perturbazione - in senso ad essa pregiudizievole -
 di quello obbligatorio.
   Infine, con la sentenza n.  108  del  23-31  marzo  1994  la  Corte
 costituzionale  ha sancito la illegittimita' dell'art. 26 della legge
 1 febbraio 1989, n. 53, nella  parte  in  cui  lasciava  al  giudizio
 insindacabile    ed   assolutamente   discrezionale   del   Ministero
 dell'Interno la valutazione sulle "qualita' morali" del  candidato  e
 della sua famiglia.
   Con  tale  pronunzia la Corte ha vieppiu' confermato l'orientamento
 secondo cui la esclusione dal pubblico impiego - anche  nel  caso  di
 aspiranti    a    funzioni   di   polizia   -   non   puo'   avvenire
 incondizionatamente, ed in assenza di un giudizio che  sia  volto  ad
 accertare   in   concreto,  sulla  scorta  dell'analisi  di  elementi
 soggettivi ed oggettivi, la sussistenza o meno dei "requisiti morali"
 per l'accesso alla carriera nella pubblica amministrazione.
   Anche con riferimento al caso per ultimo considerato deve desumersi
 che nell'ordinamento sussiste un principio  costituzionale,  di  piu'
 vasta e generale portata, in virtu' del quale la revoca - in funzione
 sanzionatoria  -  di  pubbliche funzioni o di pubbliche potesta' o di
 "funzioni di interesse pubblico" inerenti a qualifiche o  a  qualita'
 conferite   alla   pubblica   amministrazione,   non   puo'  avvenire
 incondizionatamente  ed  in  assenza  di  una  valutazione  volta  ad
 accertare   in   concreto   se   i  "requisiti  morali"  che  avevano
 giustificato il conferimento delle stesse  (funzioni  e  potesta',  e
 relative qualita' e qualifiche) sussistano o siano venuti meno.
   Ora e' evidente che i principii sopra richiamati sono trasponibili,
 sul   piano  logico-giuridico,  anche  alla  fattispecie  dedotta  in
 giudizio.
   Non v'e' alcun ragionevole motivo - infatti - per ritenere che cio'
 che vale per le funzioni di polizia (o per  le  funzioni  di  polizia
 giudiziaria)  svolte  da  "pubblici  ufficiali"  (o da "incaricati di
 pubblico servizio") che siano al tempo  stesso  pubblici  dipendenti,
 non  debba  valere  anche  per "pubblici ufficiali" (o "incaricati di
 pubblico servizio") che, pur  essendo  pubblici  impiegati,  svolgano
 analoghe  funzioni  di polizia giudiziaria (o ad esse assimilabili in
 quanto ausiliarie o di supporto alle stesse) in forza  di  un  titolo
 concessorio   o   autorizzatorio   -   e   dunque   di  un  "rapporto
 pubblicistico" - che li  lega  comunque  (pur  se  al  di  fuori  del
 rapporto di pubblico impiego) con la pubblica amministrazione.
   Non si vede - cioe' - la ragione per la quale:
     mentre  nei  confronti del pubblico ufficiale svolgente attivita'
 di polizia giudiziaria al servizio diretto della p.a. non puo' essere
 adottato  alcun  provvedimento  di  "destituzione   automatica"   dal
 servizio  a  causa  di  una  condanna  a  suo  carico (anche di lieve
 entita');
     nei confronti di  un  soggetto  svolgente  attivita'  analoga  (o
 assimilabile), ma in forza di una concessione o di una autorizzazione
 promanante  dalla  p.a.,  sia  riservato un trattamento diverso (e di
 valenza ideologica si'  macroscopicamente  opposta  e  penalizzante);
 continuando ad essere ammessa (recte: prescritta) nei suoi confronti,
 in  caso di sentenza di condanna a suo carico, la "revoca automatica"
 del titolo concessorio o autorizzatorio che lo legittimava a svolgere
 il suo servizio.
   Laddove e' evidente che la funzione di  prevenzione  e  repressione
 dei  reati  (che costituisce parte cospicua della funzione di polizia
 giudiziaria) risponde comunque - sotto il profilo sostanziale (e  dal
 punto  di  vista  obiettivo)  -  ad un medesimo particolare interesse
 pubblico, tanto se sia svolta da un pubblico dipendente in forza  del
 suo  rapporto di impiego, quanto se sia svolta da un privato in forza
 di  un  rapporto  concessorio  (o   autorizzatorio)   che   lo   lega
 all'amministrazione;  e  cio'  -  beninteso - indipendentemente dalla
 formale attribuzione della qualifica di pubblico ufficiale.
   In  relazione alle superiori osservazioni l'art. 138 cit. appare in
 contrasto sia con l'art. 3 che con l'art. 97 co I della Costituzione.
   La predetta disposizione di legge appare infatti idonea ad avallare
 una disparita' di trattamento che non trova giustificazione in  alcun
 plausibile  ragione,  posto  che non v'e' motivo di creare disparita'
 discriminanti fra  soggetti  che,  sebbene  inquadrati  diversamente,
 sotto  il  profilo  organizzatorio, sono chiamati tuttavia a svolgere
 funzioni  simili,  o  comunque  assimilabili,  a  quelle  di  polizia
 giudiziaria, in forza di poteri che comunque promanano - seppur sulla
 base  di  titoli  formalmente  differenti  - dalla medesima autorita'
 amministrativa.
   Ragioni - queste  -  per  le  quali  il  collegio  ritiene  che  la
 questione  di  legittimita'  costituzionale appaia - ictu oculi - non
 manifestamente infondata.
   1.2. - Quanto alla "rilevanza" della stessa,  il  collegio  ritiene
 che  il  chiaro  tenore  letterale  dell'art.  138  n.  4 del r.d. n.
 773/1931  non  consenta  di  ricorrere  ad   alcuna   interpretazione
 estensiva in chiave teleologico-sistematica.
   Ne  deriva  che  l'accoglimento  (o il rigetto) del ricorso dipende
 esclusivamente  dalla  soluzione  della  questione  di   legittimita'
 costituzionale in ordine al predetto articolo di legge; soluzione che
 pertanto  si appalesa pregiudiziale - e perciostesso "rilevante" - ai
 fini del giudizio.
   2.   -   In   considerazione   delle   suesposte   osservazioni   -
 impregiudicata  ogni  pronunzia in merito e sulle spese - deve essere
 disposta la sospensione del giudizio introdotto  con  il  ricorso  in
 esame   e   la   immediata   trasmissione   degli   atti  alla  Corte
 costituzionale perche' si pronunzi sulla questione di legittimita' in
 ordine all'art. 138 n. 4 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773.
                               P. Q. M.
   Visti  gli  articoli  134  della  Costituzione,  1,   della   legge
 costituzionale  9  gennaio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953,
 n. 87, e ritenuto che la  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  138,  n.   4 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 per contrasto
 con gli articoli 3 e 97 della Costituzione sia rilevante ai fini  del
 decidere e non manifestamente infondata;
   Sospende  il  giudizio in corso e dispone la immediata trasmissione
 degli atti  alla  Corte  costituzionale  perche'  si  pronunzi  sulla
 questione   di  legittimita'  costituzionale  della  norma  di  legge
 sopraindicata;
   Dispone che, a cura della segreteria  della  sezione,  la  presente
 ordinanza  sia  notificata  alle  parti in causa ed al Presidente del
 Consiglio dei Ministri, e comunicata ai Presidenti della  Camera  dei
 deputati e del Senato della Repubblica.
   Cosi'  deciso  in Palermo, nella camera di consiglio del 3 febbraio
 1998.
                      Il presidente: Giallombardo
                                                   L'estensore: Modica
 99C0265