N. 353 ORDINANZA 14 - 22 luglio 1999

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Processo  penale  -  Azione  civile  esercitata nel processo penale -
 Decisioni - Pronuncia del giudice sulla domanda civile, quale che sia
 la prova su cui la responsabilita' penale  dell'imputato  e'  fondata
 ovvero   anche  quando  la  prova  sia  costituita  unicamente  dalle
 dichiarazioni  della  persona  offesa  -  Asserita   violazione   del
 principio  di  parita'  delle  parti nel processo, dato il prevalente
 valore probatorio attribuito alle dichiarazioni della  parte  civile,
 con  conseguente lesione del diritto di difesa del convenuto/impugato
 - Difetto di motivazione sulla rilevanza e ambiguita' del  petitum  -
 Manifesta inammissibilita' della questione.
 
 (C.P.P., art. 538).
 
 (Cost., artt. 3 e 24).
 
 Processo  penale  - Giudicato penale - Efficacia nei giudizi civili,
 anche nel caso in cui la sentenza di condanna si fondi  eclusivamente
 sulle   dichiarazioni  della  parte  civile  costituita  -  Questione
 proposta  in  via  subordinata,  nella   motivazione   (e   non   nel
 dispositivo)  dell'ordinanza  del  giudice  rimettente  -  Difetto di
 rilevanza - Manifesta inammissibilita' della questione.
 
 (C.P.P., art. 651).
 
 (Cost., artt. 3 e 24).
 
(GU n.30 del 28-7-1999 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
  Presidente: dott. Renato GRANATA;
  Giudici: prof. Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
 Cesare  MIRABELLI,  avv.  Massimo  VARI,  dott. Cesare RUPERTO, dott.
 Riccardo CHIEPPA, prof. Gustavo  ZAGREBELSKY,  prof.  Valerio  ONIDA,
 prof.  Carlo  MEZZANOTTE,  avv.  Fernanda  CONTRI,  prof. Guido NEPPI
 MODONA, prof. Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI
 ha pronunciato la seguente
                               Ordinanza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 538  del  codice
 di  procedura  penale, promossi con ordinanze emesse il 3 agosto 1998
 (n. 4 ordinanze), il 26 gennaio 1998, l'11 dicembre  1997  ed  il  15
 dicembre 1998 dal pretore di Brescia, rispettivamente iscritte ai nn.
 750,  751,  764,  765, 776 e 777 del registro ordinanze 1998 ed al n.
 218 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica nn. 42 e 43, prima serie speciale, dell'anno 1998  e
 n. 16, prima serie speciale, dell'anno 1999.;
   Visti  gli  atti  di  intervento  del  Presidente del Consiglio dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio del 23 giugno il  giudice  relatore
 Giuliano Vassalli;
   Ritenuto  che il pretore di Brescia, dopo aver dichiarato chiuso il
 dibattimento, rilevato che la prova, ai fini dell'accoglimento "della
 domanda civile", e' rappresentata esclusivamente dalle  dichiarazioni
 della  persona danneggiata dal reato costituita parte civile, ha, con
 ordinanza dell'11 dicembre 1997 (r.o. n. 777 del 1998 pervenuta  alla
 Corte  costituzionale  il 7 ottobre 1998), denunciato, in riferimento
 agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, l'art. 538  del
 codice  di  procedura  penale,  il  quale prescrive che, accertata la
 responsabilita' penale dell'imputato, il giudice penale, in  presenza
 dell'azione  civile  esercitata  nel  processo  penale, deve statuire
 positivamente sulle domande civili, quali che siano i mezzi di  prova
 su  cui  la responsabilita' penale e' fondata e che "automaticamente"
 consentono l'accoglimento della pretesa civile, censurando, altresi',
 con  riferimento  ai  medesimi  parametri  costituzionali  ma   senza
 riprodurre  la  denuncia  nel  dispositivo  - l'art. 651 dello stesso
 codice, che attribuisce efficacia di  cosa  giudicata  alla  sentenza
 penale  di condanna nei giudizi civili relativamente all'accertamento
 della  sussistenza  del  fatto,   alla   sua   illiceita'   ed   alla
 riferibilita'  al  condannato  anche quando tale sentenza sia fondata
 sull'unica prova costituita dalle dichiarazioni della persona  offesa
 costituita parte civile;
     che,  secondo  il  rimettente,  quando  "la  giurisdizione  venga
 esercitata su richiesta di parte e al fine  di  tutelare  un  diritto
 soggettivo",  le  parti  devono  trovarsi  in  posizione  di assoluta
 parita' soprattutto con riferimento al diritto  alla  prova;  con  la
 conseguenza,  da  un  lato,  che  alle  parti  stesse  devono  essere
 attribuiti  gli  stessi  poteri  e,  dall'altro  lato,  che alle loro
 dichiarazioni deve essere attribuito il medesimo  valore  probatorio,
 una regola vulnerata, appunto, dall'art.  538 del codice di proceduta
 penale, con conseguente lesione del diritto di difesa di una di esse,
 perche'  viene a porre "l'attore-parte civile in posizione prevalente
 rispetto  al  convenuto  attribuendo  alle  sue  dichiarazioni,   con
 riferimento  all'accertamento  della  responsabilita'  civile, valore
 probatorio maggiore (essendo la sua  una  testimonianza)  rispetto  a
 quelle  del convenuto-imputato (le cui dichiarazioni sono acquisibili
 solo mediante l'esame della parte)";
     che, ancora, la testimonianza della parte civile sarebbe, ai fini
 del giudizio sulla domanda civile, "inammissibile e  inutilizzabile",
 derivandone   in  caso  contrario  la  compromissione  dei  parametri
 invocati, e senza che rilevino, in proposito, le decisioni di  questa
 Corte  che  hanno  ritenuto  legittimo  il regime della testimonianza
 della parte civile, venendo qui in  considerazione  non  gli  effetti
 penali ma gli effetti civili della sentenza penale;
     che,  d'altro  canto,  che  il  regime,  cosi'  come strutturato,
 produca  conseguenze  lesive  del  principio  di  eguaglianza  emerge
 univocamente  solo dal rilievo che la diversita' di disciplina quanto
 alla valenza da attribuire alle dichiarazioni della parte  civile  si
 fonda  esclusivamente  sulla  forma  processuale  (processo  civile o
 processo penale) demandata alla  libera  scelta  della  stessa  parte
 civile,  in  grado  cosi'  di produrre, quanto agli interessi civili,
 conseguenze in peius nei confronti dell'imputato;
     che il raffronto allo scopo di verificare la  compromissione,  da
 parte  delle norme denunciate, dei parametri costituzionali invocati,
 andrebbe effettuato con quei precetti del codice di procedura  civile
 che  (come l'art. 246, il quale sancisce l'incapacita' a testimoniare
 delle  persone  aventi  nella  causa  un   interesse   che   potrebbe
 legittimare  la  loro  partecipazione  al  giudizio)  assumono valore
 costituzionale "per la loro intrinseca connessione con la  situazione
 tutelata  e  soprattutto  in quanto trovano i loro referenti proprio"
 nell'art.    24  della  Costituzione,  tanto   da   profilarsi   come
 espressione  del  "diritto  processuale  ''comune''  delle  posizioni
 soggettive tutelabili in sede civile";
     che, in conclusione, i principi processuali dettati dal codice di
 procedura civile,  principi  che  non  introducono  "limitazioni  ma,
 stante  la loro connotazione e i loro referenti costituzionali", sono
 necessari al fine di "garantire parita' di trattamento  a  situazioni
 identiche  (trattasi pur sempre di connotare le forme di tutela di un
 diritto soggettivo sia esso azionato in  sede  civilistica  sia  esso
 azionato  in  sede  penale),  nonche',  identita'  delle possibilita'
 difensive   dell'imputato-convenuto.    Situazioni    lese    proprio
 dall'attuale disciplina";
     che tutto cio' comporterebbe pure l'illegittimita' costituzionale
 dell'art.  651  del  codice  di procedura penale "allorche' (peraltro
 reiterando  il  meccanismo  delineato   gia'   dall'art.   538   CPP)
 attribuisca  efficacia  di  cosa  giudicata  alla  sentenza penale di
 condanna   nei   giudizi   civili   almeno   per   quanto   afferisce
 all'accertamento  della  sussistenza del fatto, alla sua illiceita' e
 alla sua riferibilita' all'imputato", restando  preclusa  al  giudice
 civile  la  possibilita'  di  escludere l'efficacia della sentenza di
 condanna anche se essa si fondi  esclusivamente  sulle  dichiarazioni
 della   parte   civile   costituita,   "chiaramente  inammissibili  e
 inutilizzabili nel giudizio civile";
     che le  medesime  questioni  lo  stesso  pretore  di  Brescia  ha
 sollevato,  con  altre sei ordinanze, tutte riproduttive della prima,
 pronunciate il 26 gennaio 1998 (r.o. n. 776 del 1998),  il  3  agosto
 1998  (quattro  ordinanze,  precisamente r.o. nn. 750, 751, 764 e 765
 del 1998) ed il 15 dicembre 1998 (r.o. n. 218 del 1999);
     che in quattro dei sei giudizi e' intervenuto il  Presidente  del
 Consiglio   dei  Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
 generale dello Stato, chiedendo che  le  questioni  siano  dichiarate
 inammissibili o, comunque, non fondate;
     che, secondo l'atto di intervento, l'inammissibilita' deriverebbe
 dalla  utilizzazione,  ad  opera  del  giudice    a quo, di un modulo
 prestampato, senza  motivare  specificamente  sul  punto  riguardante
 l'esistenza,   quale   unica  prova  a  carico  dell'imputato,  delle
 dichiarazioni  della  parte  civile,   mentre   la   non   fondatezza
 deriverebbe  dall'erroneo  presupposto  interpretativo  a  base delle
 ordinanze  di  rimessione:  il  ritenere,  cioe',   inscindibile   la
 decisione  sulla  domanda  per  le restituzioni e il risarcimento del
 danno  rispetto  a  quella  per  la  liquidazione  del  danno,  senza
 considerare  che se, alla stregua dell'art. 185 del codice penale, il
 giudice penale  deve  decidere  sulla  domanda  civile,  tale  dovere
 riguarda  soltanto  l'an,  mentre  sul  quantum  il giudice penale e'
 tenuto a provvedervi solo quando ritiene che siano state acquisite le
 prove necessarie, altrimenti essendo tenuto  a  pronunciare  soltanto
 una condanna  generica.
   Considerato  che  il  giudice a quo solleva questioni assolutamente
 identiche e che i giudizi vanno, percio',  riuniti;
     che le ordinanze di rimessione, redatte, oltre tutto,  su  moduli
 prestampati,  senza  differenziare le singole posizioni sottoposte al
 vaglio del rimettente, non consentono di individuare l'esistenza  del
 necessario  requisito  della  rilevanza,  mancando  ogni precisazione
 circa l'effettiva forza probatoria delle  dichiarazioni  della  parte
 civile   ai  fini  del  riconoscimento  della  responsabilita'  degli
 imputati per il  fatto  o  i  fatti  di  reato  a  ciascuno  di  essi
 addebitati,  fatti,  peraltro, neppure di volta in volta specificati,
 per di piu' omettendosi di fare applicazione, sia pure ai  soli  fini
 di  esprimere  un  giudizio  in  punto  di  rilevanza, dei criteri di
 valutazione della prova di cui all'art. 192, comma 1, del  codice  di
 procedura  penale,  e di indicare se - relativamente alla statuizione
 sulla domanda civile esercitata nel processo penale  -  la  "funzione
 decisoria"  di tali dichiarazioni concerna il solo an debeatur ovvero
 anche  il  quantum  debeatur,  relativamente  al   quale   potrebbero
 risultare  applicabili,  gli  artt.  116  e  seguenti  del  codice di
 procedura  civile,  oltre  che  l'art.  246  dello   stesso   codice,
 direttamente  chiamato  in causa dal giudice a quo - insieme ad altre
 disposizioni del codice di rito civile - ma in  una  prospettiva  per
 molti   aspetti   contraddittoria  perche'  funzionale  a  regole  di
 valutazione - come l'inutilizzabilita' - proprie del processo penale;
     che,   inoltre,   risulta   mancante   il   minimo   cenno   alle
 caratteristiche  del  danno  (patrimoniale o non patrimoniale, ovvero
 l'uno  e  l'altro  congiuntamente)  oggetto  della   pretesa   civile
 concretamente  esercitata  nel  processo  penale,  tanto da indurre a
 dubitare che  il  rimettente  abbia  tenuto  adeguatamente  presenti,
 nonostante la precisa conformazione prescrittiva di entrambe le norme
 denunciate, le rispettive tipologie;
     che  non  appare  certo assolvere il dovere imposto dall'art. 23,
 secondo comma, prima  parte,  della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,
 l'affermazione  che  in  ordine  alla  "rilevanza  della questione e'
 sufficiente rilevare che, nella specie, non solo  la  responsabilita'
 penale  si  fonda sulle dichiarazioni della parte civile, ma anche la
 correlata responsabilita'  civile  e'  fondata  esclusivamente  sulle
 suddette    dichiarazioni",   considerando   che   in   ordine   alla
 attendibilita'  di  simili  dichiarazioni  nessun  giudizio   risulta
 formulato;
     che, agli stessi fini, va rilevato che le ordinanze di rimessione
 si  sottraggono  ad ogni richiamo all'impossibilita' di far ricorso -
 in una situazione in  cui  all'assenza  di  qualsivoglia  riferimento
 all'imputazione   fa  da  riscontro  l'assoluto  silenzio  sul  fatto
 concretamente sottoposto al giudizio del rimettente  -  all'esercizio
 dei  poteri  di  acquisizione  di ufficio dei mezzi di prova, a norma
 dell'art.  507 del codice di procedura penale;
     che una  tale  carenza  motivazionale,  mentre  non  consente  di
 ritenere  che  i  giudizi  a  quibus  possano essere definiti facendo
 necessariamente applicazione del disposto dell'art. 538 del codice di
 procedura penale, rende ambigua anche la richiesta rivolta  a  questa
 Corte,   attestata,   nel   dispositivo,   alla   mera   denuncia  di
 illegittimita'  "dell'art.     538  c.p.p.  ai  sensi   di   cui   in
 motivazione", cosi' da eludere, pure sotto tale profilo, le regole in
 tema  di  rilevanza:  sia per eccesso, coinvolgendosi la disposizione
 ora ricordata nel suo integrale contesto e senza  alcuna  indicazione
 circa  il  tipo  di  richiesta  avanzata dalla parte civile e circa i
 soggetti nei cui confronti l'azione civile risulta esercitata in sede
 penale, sia per difetto - cosi' confermando  l'insanabile  ambiguita'
 del  petitum  - nessuna denuncia essendo stata proposta relativamente
 alla legittimita' costituzionale dell'art.  539, comma 1, del  codice
 di  procedura  penale,  norma  cruciale  al  fine  di  dissolvere  le
 perplessita' del rimettente in ordine alla legittimita' dell'art. 538
 dello stesso codice, per essere la liquidazione del danno, in caso di
 condanna generica, rimessa  al  giudice  civile,  secondo  le  regole
 proprie di tale processo;
     che,  infine,  la  denuncia dell'art. 651 del codice di procedura
 penale, che ha valenza comunque conseguenziale  a  quella  avente  ad
 oggetto la pronuncia del giudice penale sugli interessi civili (oltre
 a   concernere   una   norma   che   potrebbe   trovare  applicazione
 esclusivamente nel giudizio civile; v., ex plurimis, sentenza n.  443
 del  1990),  non  risulta  neppure  riprodotta  nel dispositivo delle
 ordinanze di rimessione,  tanto  da  rivelare  come  essa  sia  stata
 proposta subordinatamente all'accoglimento della prima questione; pur
 dovendosi rimarcare, a proposito di tale censura che, stando a talune
 argomentazioni  delle ordinanze di rimessione, sembrerebbe contestato
 nel suo insieme il regime dei rapporti tra giudicato penale ed azione
 civile di danno da reato, il che accentua ulteriormente  l'ambiguita'
 del contenuto delle ordinanze;
     che  le  questioni  devono,  conseguentemente,  essere dichiarate
 manifestamente inammissibili.
   Visti  gli  artt.  26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti i giudizi, dichiara  la  manifesta  inammissibilita'  delle
 questioni  di  legittimita'  costituzionale degli artt. 538 e 651 del
 codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt.  3 e
 24 della Costituzione, dal pretore di Brescia, con  le  ordinanze  in
 epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1999.
                        Il Presidente: Granata
                        Il redattore: Vassalli
                       Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 22 luglio 1999.
               Il direttore della cancelleria: Di Paola
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