N. 444 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 maggio 1999
N. 444 Ordinanza emessa il 13 maggio 1999 dal tribunale di Torino nel procedimento penale a carico di De Vita Marco ed altri Processo penale - Ufficio di testimone - Dedotta incompatibilita' per la persona sottoposta ad indagini preliminari, concluse con l'archiviazione, per un reato collegato a quello per cui si procede - Lamentata applicabilita' di tale disciplina alla "ipotesi in cui il reato collegato sia il reato di calunnia susseguente a denuncia dell'originario denunciato" - Irragionevolezza - Incidenza sul principio del libero convincimento del giudice. (C.P.P. 1988, artt. 197, lett. B, 210, comma 6, 192, comma 4). (Cost., artt. 3 e 101, secondo comma).(GU n.37 del 15-9-1999 )
IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di De Vita Marco ed altri, imputati come in atti. Secondo quanto emerge dall'esposizione introduttiva, nonche' dai documenti di cui si chiede l'acquisizione, il pubblico ministero si propone di provare che: 1) attorno alle ore 12 del 12 agosto 1997 Sergio Landolfi venne contravvenuto per violazione dell'art. 7 del codice della strada, ad opera di una pattuglia di vigili urbani del comune di Collegno, composta da Marco De Vita, Antonino Dolce ed Enri Botturi; 2) su specifica richiesta del Botturi ("fa 80.000"), il Landolfi pago' tale somma in contanti allo stesso Botturi, ritiro' copia del verbale e si allontano'; 3) giunto a casa, si accorse, sulla base della copia del verbale, che l'importo avrebbe dovuto essere di L. 117.500 e che diverse avrebbero dovuto essere le modalita' di pagamento; 4) telefono' quindi al Comando dei vigili, e, dapprima al centralinista, poi ad un ufficiale di turno intervenuto all'apparecchio, espose i propri dubbi, ricevendo dal secondo l'invito a recarsi al Comando; 5) vi si reco', infatti, venendo ricevuto dall'autista della pattuglia che lo aveva contravvenuto, il Botturi, che lo accompagno' in un ufficio posto nel sotterraneo, dove gia' si trovavano il De Vita e il Dolce, unitamente all'ufficiale che aveva parlato con lui al telefono e che si qualifico' come Giorgio Padoin (essendo invece, in ipotesi d'accusa, Giacomo Sturniolo), ai quali s'aggiunse poi un altro vigile, qualificatosi come ispettore Sturniolo (essendo invece, in ipotesi d'accusa, il Padoin); 6) fin dall'inizio dell'incontro, il sedicente Padoin prospetto' al Landolfi le conseguenze cui si esponeva in caso di calunnia, e, a fronte della decisa conferma fatta dal Landolfi su quanto avvenuto in strada, comincio' a compilare, unitamente al sedicente Sturniolo, un duplice verbale: l'uno (ore 15,05), di identificazione; l'altro, (ore 15,15), di raccolta delle dichiarazioni del Landolfi; 7) nulla venne preliminarmente specificato, sempre in ipotesi d'accusa, al Landolfi, il quale non venne neppure informato della facolta' di non rispondere; che anzi, invitato a nominare un difensore, comincio' ad insospettirsi, chiese spiegazioni, ma non ottenne risposta; 8) soltanto a compilazione avvenuta, cioe' all'atto di sottoscrivere i due verbali, il Landolfi s'accorse che, nel primo, la propria firma avrebbe dovuto essere apposta sono la dicitura "l'indagato", e per tale ragione rifiuto' di sottoscriverlo (l'atto si rivelo' poi un "verbale di identificazione di persona nei cui confronti sono svolte le indagini e contestuale dichiarazione di abitazione ovvero di elezione di domicilio e nomina difensore di fiducia"); 9) il Landolfi sottoscrisse invece il secondo verbale, giacche' questo conteneva in sostanza il proprio racconto dell'accaduto; ma tale atto si rivelo' poi essere un "verbale delle dichiarazioni spontaneamente rese da persona nei cui confronti vengono svolte le indagini (art. 350/VII c.p.p.)", nel quale si dava testualmente atto che "il suddetto, in relazione all'ipotesi di reato di calunnia (art. 368 c.p.) contestatogli il 12 agosto 1997 alle ore 15 presso il Comando P.M. di Collegno, senza la presenza del difensore, spontaneamente dichiara quanto segue..."; 10) l'incontro si concluse con la comunicazione del Landolfi che si sarebbe recato a denunciare l'accaduto ai Carabinieri, cosa che il Landolfi puntualmente fece. Sulla base degli atti trasmessi dal Comando dei vigili urbani di Collegno, il Landolfi fu iscritto nel registro delle notizie di reato in data 27 agosto 1997 e soltanto il 30 maggio 1998, su richiesta del pubblico ministero in data 16 marzo 1998, la sua posizione fu archiviata dal giudice per le indagini preliminari. In sede di richieste probatorie a norma dell'art. 493 c.p.p., nell'ambito del dibattimento instaurato a carico dei vigili urbani sulla base della denuncia sporta dal Landolfi, il pubblico ministero ha chiesto l'esame di quest'ultimo in qualita' di teste. La difesa non si e' opposta all'esame, ma ha obiettato che tale atto dev'essere espletato qualificando il Landolfi come soggetto ex art. 210 c.p.p. Il collegio si deve dunque pronunciare, a norma dell'art. 495 c.p.p., sulla veste che deve assumere il Landolfi in vista dell'esame, che fra l'altro e' il primo degli atti di istruzione dibattimentale cui, per ovvie ragioni, si dovra' procedere. Proprio in questo si evidenzia la rilevanza dei dubbi di legittimita' costituzionale nutriti dal Tribunale: una rilevanza destinata a riverberarsi anche sul piano del merito, giacche', a seconda della veste processuale che si attribuisce al Landolfi, le sue dichiarazioni, pur nell'eventuale presenza di un identico vaglio di attendibilita', potrebbero essere ritenute sufficienti, ovvero insufficienti per esclusiva mancanza di riscontri esterni, alla ricostruzione di quanto realmente accaduto. Il punto di partenza della questione, sul quale sostanzialmente concorda lo stesso pubblico ministero nella memoria presentata a sostegno della propria tesi, e' che, "tra il procedimento a carico del Landolfi e quello a carico degli attuali imputati", sia "ravvisabile un collegamento probatorio ex art. 371, coma 2, lettera b) c.p.p., in quanto elementi probatori rilevanti per dei reati oggetto del presente procedimento spiegano la loro influenza anche nell'accertamento del reato addebitato al Landolfi". Su tale impostazione concorda la difesa, la quale si discosta sul solo profilo che il Landolfi potrebbe essere anzi qualificato come persona (gia') indagata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 c.p.p., con specifico riferimento all'ipotesi, - lettera c) di tale ultima norma - "se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi ... in occasione" degli altri. Resta il fatto, certo e ammesso da entrambe le parti, che al Landolfi non puo' essere negata la qualifica - quanto meno - di persona (gia') indagata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall'art. 371, comma 2, lettera b). Se questo e' vero, il tribunale ritiene che il Landolfi dovrebbe essere sentito a norma dell'art. 210 c.p.p.; e cio' per svariate ragioni: perche' l'art. 197, lettera b) dispone, appunto, che non possono essere assunte come testimoni "le persone di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall'art. 371, comma 2, lettera b); perche', correlativamente, l'art. 210, comma 6, c.p.p. estende la disciplina prevista dai commi precedenti, relativa alle persone imputate in un procedimento connesso, "alle persone imputate di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall'art. 371, comma 2, lettera b)"; perche', a sua volta, l'art. 492, comma 4, estende la disciplina prevista dal comma 3, relativa alla valutazione probatoria delle dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell'art. 12, "alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall'art. 371, comma 2, lettera b)"; perche' tutto cio' non puo' non essere esteso anche al caso della persona indagata, stante l'esplicito dettato dell'art. 61, comma 1, c.p.p., secondo il quale "i diritti e le garanzie dell'imputato si estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari"; perche', nonostante la diversa dizione letterale dell'art. 197, lettera b), rispetto alla dizione della precedente lettera a), non puo' darsi nella specie rilievo, al fine di escludere l'applicabilita' della disciplina sino ad ora esaminata, al dato che la qualifica di indagato non sia piu' attuale, essendo intervenuta l'archiviazione del procedimento a carico del Landolfi. Sotto quest'ultimo profilo occorre infatti sottolineare che, con sentenza 4-18 marzo 1992 n. 109, la Corte costituzionale ha ricordato che "la ratio del divieto di testimoniare previsto per i soggetti indicati nelle lettere a) e b) dell'art. 197 va individuata nella incompatibilita' tra l'ufficio di testimone e la situazione di colui che, per l'esistenza di una interdipendenza tra la posizione dell'imputato e la propria, nello stesso o in altro procedimento collegato, e' portatore di un interesse che puo' contrastare il dovere di rispondere secondo verita', interesse riconosciuto e garantito dall'ordinamento sulla base del principio nemo tenetur se detegere"; ed ha altresi' ricordato che "il criterio posto a base della norma impugnata in ordine al divieto di essere assunto come testimone e' quello dell'esistenza di un vincolo probatorio tra i procedimenti nei quali il medesimo soggetto si troverebbe ad assumere rispettivamente la veste di imputato e di testimone: vincolo che sussiste sempre... nei casi indicati dall'art. 197, lettera a)... e che, in ogni altro caso in cui si verifichi, sara' rilevato dal giudice a norma dell'art. 197, lettera b)". Da qui, la ritenuta operativita' del divieto di essere assunti come testimoni, ai sensi dell'art. 197, lettera b), "anche per coloro che siano imputati di un reato collegato, ove in concreto il giudice rilevi l'esistenza di una vera e propria interferenza sul piano probatorio tra due procedimenti". Con sentenza n. 108 in pari data, la stessa Corte costituzionale ha altresi' ricordato, sia pure con riguardo alla lettera a) dell'art. 197, che "la ratio su cui si fonda l'esclusione dall'ufficio di testimone dell'imputato nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere, quella cioe' del rispetto del principio secondo cui nemo tenetur se detegere... vale anche per la persona sottoposta alle indagini preliminari nei cui confronti sia stato pronunciato decreto di archiviazione, essendo prevista per questa la possibilita' di riapertura delle indagini". Ed allora. Da un lato, tra il procedimento a carico dei vigili urbani ed il procedimento a carico del Landolfi esiste indubbiamente, e concretamente, "una vera e propria interferenza sul piano probatorio", non foss'altro perche' il Landolfi era la' indagato per calunnia ed i vigili sono qui imputati di "calunnia di calunnia". Dall'altro lato, l'archiviazione disposta nel procedimento relativo al Landolfi non lo garantisce affatto dal rischio di riapertura delle indagini. Data la ratio sottesa alle previsioni dell'art. 197 lettere a) e b) c.p.p., come evidenziata dalla stessa Corte costituzionale, non si vede dunque come la non persistenza della qualifica di indagato, in capo al Landolfi, possa annichilire la sua incompatibilita' con l'ufficio di testimone e sottrarlo alla disciplina dell'art. 210 c.p.p. L'applicazione di tale disciplina, che alla luce di quanto precede il tribunale ritiene necessitata sulla base della normativa vigente, stride, tuttavia, quando il "collegamento" tra i reati, ovvero l'insorgere dell'interferenza sul piano probatorio, sia determinata non gia' da fattori casuali, o comunque indipendenti dalla volonta' della persona cui viene attribuito uno dei reati collegati, ma, come in ipotesi d'accusa e' accaduto nel caso di specie, dall'iniziativa degli originali denunciati - per di piu' pubblici ufficiali - di trasformare l'originario denunciante - per di piu' persona offesa - in indagato a titolo di calunnia, e proprio in rapporto ai fatti oggetto della denuncia, anzi al contenuto stesso della denuncia. Astraendo dal caso di specie, la prescrizione dell'art. 197, lettera b), cui consegue la disciplina degli artt. 192, comma 4 e 210, comma 6, appare stridente nella parte in cui, operando il richiamo alla categoria individuata dall'art. 371, comma 2, lettera b), non distingue tra due situazioni profondamente diverse: quella in cui il collegamento probatorio nasca dall'apertura in capo al dichiarante di un procedimento sorto a seguito di "controdenuncia" per calunnia nei suoi confronti e quella in cui il collegamento probatorio nasca dalla sottoposizione del dichiarante a procedimento per qualsiasi altro reato. Col risultato, del tutto irragionevole, di far discendere i medesimi effetti dall'attrazione di entrambe le situazioni nella medesima disciplina processuale. Un'applicazione indiscriminata e meccanica delle norme sopra indicate alla prima delle due ipotesi, quella del denunciante/denunciato per calunnia, porterebbe infatti a stravolgere il significato e la ratio, di un istituto - l'incompatibilita' all'ufficio di testimone dell'indagato/imputato di reato connesso/collegato ex art. 371, comma 2, lettera b) - che per logica e per collocazione sistematica e' volto non solo alla tutela del dichiarante secondo il principio del nemo tenetur se detegere, ma anche alla tutela della genuinita' della formazione della prova. L'irragionevolezza dell'equiparazione si palesa sono un duplice aspetto: 1) in caso di "controdenuncia" per calunnia e' evidente che si versi in situazione del tutto peculiare: perche', ferme restando le articolate caratteristiche della fattispecie delineata dall'art. 368 c.p., che richiede un'analisi piu' complessa in specie sul piano dell'accertamento del dolo, e' indubbio che viene a crearsi un nucleo comune nel vaglio probatorio (che per l'insussistenza, nell'ordinamento, della pregiudiziale penale a sentenza penale puo' addirittura compiersi in modo rovesciato quanto ad ordine logico tra i due accertamenti, quello diretto e quello incidentale) circa la sussistenza del reato c.d. presupposto: quello, cioe', che nell'ipotesi oggetto di indagine collegata sarebbe stato falsamente attribuito dall'originario denunciante all'originario denunciato. Ebbene, l'applicazione dell'art. 197, lettera b) all'ipotesi in questione comporterebbe che, paradossalmente, l'accertamento del reato presupposto (o meglio: del fatto di reato che il denunciante originario ha prospettato come compiuto ai suoi danni) verrebbe fatalmente a dipendere, in larga se non unica misura, da un'opzione dello stesso denunciato, che avrebbe lo strumento per svalutare ab origine un mezzo di prova, la testimonianza della presunta persona offesa, le cui dichiarazioni cessano di avere valenza probatoria piu' ampia, pur riguardando, nel loro nucleo di ricostruzione storica, le medesime circostanze fattuali. Si pensi alle conseguenze aberranti che si verificherebbero quando, ad esempio, la scelta dell'originario denunciato venga compiuta una volta incardinatosi il dibattimento a suo carico, con conseguente inutilizzabilita' delle precedenti dichiarazioni rese dal denunciante/denunciato per calunnia in veste di teste o di persona informata dei fatti. Ne' vale obiettare che la denuncia per calunnia espone chi la propone a conseguenze penali gravi sul piano edittale. Si tratta di un'osservazione corretta, che puo' comportare conseguenze sotto altri profili, ma che non puo' certo valere a controbilanciare un bene - quello della corretta individuazione dei mezzi di prova utilizzabili nel processo - del tutto eterogeneo, perche' squisitamente processuale. 2) L'incompatibilita' all'ufficio di testimone dipende pacificamente - ed e' questa la ratio dell'espressa estensione del regime ex art. 210 c.p.p. dai casi di connessione all'ipotesi di collegamento c.d. probatorio - dalla comune appartenenza dei due soggetti ad un contesto fattuale collegato, tale da esporre entrambi ad un rischio di ridotta attendibilita' in conseguenza della necessita' di difendersi. E' evidente, in tal caso, che il soggetto e' in situazione di potenziale autodifesa, e, proprio per questo, le sue dichiarazioni devono essere vagliate e integrate da elementi estrinseci secondo i criteri dettati dall'art. 192 c.p.p., in quanto dichiarazioni provenienti da soggetto del quale il legislatore in qualche modo diffida. Per contro, e solo per questo motivo, si giustifica la rete di protezione dell'esame ex art. 210 c.p.p., tipicamente improntata alla tutela del dichiarante, nel rispetto del principio nemo tenetur se detegere, che lo accomuna all'indagato/imputato e che solo per tale motivo giustifica l'assunzione, da parte sua, di una veste processuale diversa da quella del testimone. Nel caso della "controdenuncia" per calunnia, tuttavia, il contesto di collegamento - e, dunque, il presupposto dell'incompatibilita' - non nasce, a monte, da un collegamento naturalistico, o comunque intrinseco ai fatti, ma viene successivamente creato, nella fase dell'accertamento dei fatti medesimi, proprio e solo quale effetto artificiale (se non anche talora artificioso) della "controdenuncia". Omologare, dunque, l'ipotesi in esame a tutti gli altri casi in cui vi sia influenza probatoria reciproca, senza tenere conto della sua peculiarita', comporta un'applicazione del regime ex artt. 192/210 c.p.p. che, lungi dal soddisfarne la ratio di doppia tutela (del dichiarante e della genuinita' delle sue dichiarazioni), produce effetti distorti e del tutto irragionevoli: anzitutto, l'inutile applicazione di una serie di garanzie (difesa tecnica, facolta' di non rispondere, inserimento nel circuito dell'art. 53 c.p.p...) ad un soggetto che non ne ha alcun bisogno; salva l'eventualita' in cui venga smentita la sua versione dei fatti ed emerga il dolo di calunnia, per cui subira' a sua volta un procedimento penale: ma solo allora, ed in veste di indagato/imputato di tale reato, l'ordinamento ha motivo di garantire il suo diritto a non autoledersi nel momento in cui rende dichiarazioni. In caso contrario, si avrebbe una sorta di tutela anticipata, per cosi' dire in prevenzione, chiaramente confliggente con la situazione soggettiva fisiologica del dichiarante, che e' quella di assumersi la responsabilita', anche attraverso la dichiarazione di impegno prevista dall'art. 497, comma 2 c.p.p., di quanto va affermando davanti all'autorita' giudiziaria; in secondo luogo, una immotivata svalutazione ex lege delle dichiarazioni della persona offesa denunciante. Al giudicante viene infatti ad imporsi, sul piano della valutazione probatoria, la regola di giudizio contenuta nell'art. 192, comma 3 c.p.p., estesa dal quarto comma all'ipotesi di reato collegato ex art. 371, comma 2, lettera b). Tale regola, pero', trova la sua ragion d'essere nella storia travagliata dell'istituto della chiamata in correita' e della connessione probatoria del codice abrogato, oggi "collegamento": istituti che mantengono intatta quella carica di potenziale inquinamento della genuinita' delle dichiarazioni che ha addirittura indotto il legislatore ad intervenire per costruire una disciplina autonoma. Appare allora evidente che l'applicazione di una regola di giudizio ad una situazione del tutto diversa, in quanto priva di legame con la peculiare ratio che ha indotto alla previsione della regola stessa, comporta unitamente agli altri profili che si sono via via evidenziati, effetti che si pongono in contrasto con l'art. 3 della costituzione, ove interpretato, come costantemente insegnato da codesta Corte, secondo ragionevolezza. Per altro verso, l'incongruita' della situazione normativa pare rilevare altresi' ex art. 101, comma 2 della costituzione, nella misura in cui il libero convincimento del giudice viene influenzato da un fattore processuale in grado di inficiare la pienezza della prova ed interamente rimesso alla disponibilita' delle parti: nel caso di specie, dell'indagato/imputato del reato presupposto.
P. Q. M. Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 197, lett. b), 210, comma 6 e 192, comma 4 del codice di procedura penale, per violazione degli artt. 3 e 101, comma 2 della Costituzione, nella parte in cui estendono la disciplina ivi prevista anche alle ipotesi in cui il reato collegato a quello per cui si procede sia il reato di calunnia susseguente a denuncia dell'originario denunciato; Dispone la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Torino, addi' 13 maggio 1999. Il presidente: Bettone 99C0873