N. 444 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 maggio 1999

                               N. 444
  Ordinanza emessa il 13 maggio  1999  dal  tribunale  di  Torino  nel
 procedimento penale a carico di De Vita Marco ed altri
 Processo penale - Ufficio di testimone - Dedotta incompatibilita' per
    la  persona  sottoposta  ad  indagini  preliminari,  concluse  con
    l'archiviazione, per un  reato  collegato  a  quello  per  cui  si
    procede   -  Lamentata  applicabilita'  di  tale  disciplina  alla
    "ipotesi  in  cui  il  reato  collegato  sia  il reato di calunnia
    susseguente   a    denuncia    dell'originario    denunciato"    -
    Irragionevolezza    -   Incidenza   sul   principio   del   libero
    convincimento del giudice.
 (C.P.P. 1988, artt. 197, lett. B, 210, comma 6, 192, comma 4).
 (Cost., artt. 3 e 101, secondo comma).
(GU n.37 del 15-9-1999 )
                             IL TRIBUNALE
   Ha pronunciato la seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale  a
 carico di De Vita Marco ed altri, imputati come in atti.
   Secondo  quanto  emerge  dall'esposizione introduttiva, nonche' dai
 documenti di cui si chiede l'acquisizione, il pubblico  ministero  si
 propone di provare che:
     1)  attorno  alle ore 12 del 12 agosto 1997 Sergio Landolfi venne
 contravvenuto per violazione dell'art. 7 del codice della strada,  ad
 opera  di  una  pattuglia  di  vigili  urbani del comune di Collegno,
 composta da Marco De Vita, Antonino Dolce ed Enri Botturi;
     2) su specifica richiesta del Botturi ("fa 80.000"), il  Landolfi
 pago'  tale  somma in contanti allo stesso Botturi, ritiro' copia del
 verbale e si allontano';
     3) giunto a casa, si accorse, sulla base della copia del verbale,
 che l'importo avrebbe dovuto essere  di  L.  117.500  e  che  diverse
 avrebbero dovuto essere le modalita' di pagamento;
     4)  telefono'  quindi  al  Comando  dei  vigili,  e,  dapprima al
 centralinista,   poi   ad   un   ufficiale   di   turno   intervenuto
 all'apparecchio,   espose  i  propri  dubbi,  ricevendo  dal  secondo
 l'invito a recarsi al Comando;
     5) vi si reco',  infatti,  venendo  ricevuto  dall'autista  della
 pattuglia  che lo aveva contravvenuto, il Botturi, che lo accompagno'
 in un ufficio posto nel sotterraneo, dove gia'  si  trovavano  il  De
 Vita  e  il Dolce, unitamente all'ufficiale che aveva parlato con lui
 al telefono e che si qualifico' come Giorgio Padoin (essendo  invece,
 in  ipotesi  d'accusa, Giacomo Sturniolo), ai quali s'aggiunse poi un
 altro vigile, qualificatosi come ispettore Sturniolo (essendo invece,
 in ipotesi d'accusa, il Padoin);
     6) fin dall'inizio dell'incontro, il sedicente Padoin  prospetto'
 al  Landolfi le conseguenze cui si esponeva in caso di calunnia, e, a
 fronte della decisa conferma fatta dal Landolfi su quanto avvenuto in
 strada, comincio' a compilare, unitamente al sedicente Sturniolo,  un
 duplice verbale: l'uno (ore 15,05), di identificazione; l'altro, (ore
 15,15), di raccolta delle dichiarazioni del Landolfi;
     7)  nulla  venne  preliminarmente  specificato, sempre in ipotesi
 d'accusa, al Landolfi, il quale non  venne  neppure  informato  della
 facolta'  di  non  rispondere;  che  anzi,  invitato  a  nominare  un
 difensore, comincio' ad insospettirsi,  chiese  spiegazioni,  ma  non
 ottenne risposta;
     8)   soltanto   a   compilazione   avvenuta,  cioe'  all'atto  di
 sottoscrivere i due verbali, il Landolfi s'accorse che, nel primo, la
 propria  firma  avrebbe  dovuto  essere  apposta  sono  la   dicitura
 "l'indagato",  e  per tale ragione rifiuto' di sottoscriverlo (l'atto
 si rivelo' poi un "verbale di  identificazione  di  persona  nei  cui
 confronti  sono  svolte  le  indagini  e contestuale dichiarazione di
 abitazione ovvero di elezione di  domicilio  e  nomina  difensore  di
 fiducia");
     9)  il  Landolfi sottoscrisse invece il secondo verbale, giacche'
 questo conteneva in sostanza il proprio  racconto  dell'accaduto;  ma
 tale  atto  si  rivelo'  poi  essere  un "verbale delle dichiarazioni
 spontaneamente rese da persona nei cui confronti  vengono  svolte  le
 indagini (art.  350/VII c.p.p.)", nel quale si dava testualmente atto
 che "il suddetto, in relazione all'ipotesi di reato di calunnia (art.
 368  c.p.)  contestatogli  il  12  agosto  1997 alle ore 15 presso il
 Comando  P.M.  di  Collegno,  senza  la   presenza   del   difensore,
 spontaneamente dichiara quanto segue...";
     10)  l'incontro si concluse con la comunicazione del Landolfi che
 si sarebbe recato a denunciare l'accaduto ai Carabinieri, cosa che il
 Landolfi puntualmente fece.
   Sulla base degli atti trasmessi dal Comando dei  vigili  urbani  di
 Collegno, il Landolfi fu iscritto nel registro delle notizie di reato
 in data 27 agosto 1997 e soltanto il 30 maggio 1998, su richiesta del
 pubblico  ministero  in  data  16  marzo  1998,  la  sua posizione fu
 archiviata dal giudice per le indagini preliminari.
   In sede di richieste  probatorie  a  norma  dell'art.  493  c.p.p.,
 nell'ambito  del  dibattimento  instaurato a carico dei vigili urbani
 sulla base della denuncia sporta dal Landolfi, il pubblico  ministero
 ha chiesto l'esame di quest'ultimo in qualita' di teste.
   La  difesa  non  si  e' opposta all'esame, ma ha obiettato che tale
 atto dev'essere espletato qualificando il Landolfi come  soggetto  ex
 art. 210 c.p.p.
   Il  collegio  si  deve  dunque  pronunciare,  a norma dell'art. 495
 c.p.p.,  sulla  veste  che  deve  assumere  il  Landolfi   in   vista
 dell'esame,  che  fra  l'altro  e'  il primo degli atti di istruzione
 dibattimentale cui, per ovvie ragioni, si dovra'  procedere.  Proprio
 in  questo  si  evidenzia  la  rilevanza  dei  dubbi  di legittimita'
 costituzionale nutriti  dal  Tribunale:  una  rilevanza  destinata  a
 riverberarsi  anche  sul  piano del merito, giacche', a seconda della
 veste  processuale  che  si   attribuisce   al   Landolfi,   le   sue
 dichiarazioni,  pur  nell'eventuale presenza di un identico vaglio di
 attendibilita',  potrebbero  essere  ritenute   sufficienti,   ovvero
 insufficienti  per  esclusiva  mancanza  di  riscontri  esterni, alla
 ricostruzione di quanto realmente accaduto.
   Il punto di partenza della  questione,  sul  quale  sostanzialmente
 concorda  lo  stesso  pubblico  ministero  nella memoria presentata a
 sostegno della propria tesi, e' che, "tra il  procedimento  a  carico
 del   Landolfi  e  quello  a  carico  degli  attuali  imputati",  sia
 "ravvisabile un collegamento probatorio ex art. 371, coma 2,  lettera
 b)  c.p.p.,  in  quanto  elementi  probatori  rilevanti per dei reati
 oggetto del presente procedimento spiegano la  loro  influenza  anche
 nell'accertamento del reato addebitato al Landolfi".
   Su  tale  impostazione concorda la difesa, la quale si discosta sul
 solo profilo che il Landolfi potrebbe essere  anzi  qualificato  come
 persona (gia') indagata in un procedimento connesso a norma dell'art.
 12  c.p.p.,  con  specifico  riferimento all'ipotesi, - lettera c) di
 tale ultima norma - "se dei reati per cui si  procede  gli  uni  sono
 stati commessi ... in occasione" degli altri.
   Resta  il  fatto,  certo  e  ammesso  da  entrambe le parti, che al
 Landolfi non puo' essere negata la  qualifica  -  quanto  meno  -  di
 persona  (gia')  indagata  di  un reato collegato a quello per cui si
 procede, nel caso previsto dall'art. 371, comma 2, lettera b).
   Se  questo  e'  vero, il tribunale ritiene che il Landolfi dovrebbe
 essere sentito a norma dell'art. 210  c.p.p.;  e  cio'  per  svariate
 ragioni:
     perche'  l'art. 197, lettera b) dispone, appunto, che non possono
 essere assunte come testimoni "le persone di  un  reato  collegato  a
 quello  per cui si procede, nel caso previsto dall'art. 371, comma 2,
 lettera b);
     perche', correlativamente, l'art. 210, comma 6, c.p.p. estende la
 disciplina prevista  dai  commi  precedenti,  relativa  alle  persone
 imputate  in  un  procedimento connesso, "alle persone imputate di un
 reato collegato a quello  per  cui  si  procede,  nel  caso  previsto
 dall'art.  371, comma 2, lettera b)";
     perche',  a sua volta, l'art. 492, comma 4, estende la disciplina
 prevista dal comma 3,  relativa  alla  valutazione  probatoria  delle
 dichiarazioni  rese  dal  coimputato  del medesimo reato o da persona
 imputata in un procedimento connesso  a  norma  dell'art.  12,  "alle
 dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello
 per cui si procede, nel caso previsto dall'art. 371, comma 2, lettera
 b)";
     perche' tutto cio' non puo' non essere esteso anche al caso della
 persona  indagata,  stante l'esplicito dettato dell'art. 61, comma 1,
 c.p.p., secondo il quale "i diritti e le  garanzie  dell'imputato  si
 estendono alla persona sottoposta alle indagini preliminari";
     perche',  nonostante  la diversa dizione letterale dell'art. 197,
 lettera b), rispetto alla dizione della precedente  lettera  a),  non
 puo'   darsi   nella   specie   rilievo,   al   fine   di   escludere
 l'applicabilita' della disciplina sino ad ora esaminata, al dato  che
 la  qualifica  di  indagato non sia piu' attuale, essendo intervenuta
 l'archiviazione del procedimento a carico del Landolfi.
   Sotto quest'ultimo profilo occorre infatti  sottolineare  che,  con
 sentenza 4-18 marzo 1992 n. 109, la Corte costituzionale ha ricordato
 che  "la  ratio  del  divieto di testimoniare previsto per i soggetti
 indicati nelle lettere a) e b) dell'art.  197  va  individuata  nella
 incompatibilita'  tra l'ufficio di testimone e la situazione di colui
 che,  per  l'esistenza  di  una  interdipendenza  tra  la   posizione
 dell'imputato  e  la  propria,  nello  stesso o in altro procedimento
 collegato, e' portatore di  un  interesse  che  puo'  contrastare  il
 dovere  di  rispondere  secondo  verita',  interesse  riconosciuto  e
 garantito dall'ordinamento sulla base del principio nemo  tenetur  se
 detegere";  ed  ha  altresi'  ricordato che "il criterio posto a base
 della norma impugnata in ordine al divieto  di  essere  assunto  come
 testimone  e'  quello  dell'esistenza  di un vincolo probatorio tra i
 procedimenti nei quali il medesimo soggetto si troverebbe ad assumere
 rispettivamente la veste di imputato  e  di  testimone:  vincolo  che
 sussiste  sempre...  nei casi indicati dall'art. 197, lettera a)... e
 che, in ogni altro caso in  cui  si  verifichi,  sara'  rilevato  dal
 giudice  a  norma  dell'art.  197,  lettera  b)". Da qui, la ritenuta
 operativita' del divieto di essere assunti come testimoni,  ai  sensi
 dell'art. 197, lettera b), "anche per coloro che siano imputati di un
 reato collegato, ove in concreto il giudice rilevi l'esistenza di una
 vera   e   propria   interferenza   sul   piano  probatorio  tra  due
 procedimenti".
   Con sentenza n. 108 in pari data, la stessa Corte costituzionale ha
 altresi'  ricordato,  sia pure con riguardo alla lettera a) dell'art.
 197, che "la ratio su  cui  si  fonda  l'esclusione  dall'ufficio  di
 testimone  dell'imputato  nei  cui  confronti  sia  stata pronunciata
 sentenza di non luogo a procedere,  quella  cioe'  del  rispetto  del
 principio  secondo  cui nemo tenetur se detegere... vale anche per la
 persona sottoposta alle indagini preliminari nei  cui  confronti  sia
 stato  pronunciato  decreto  di  archiviazione,  essendo prevista per
 questa la possibilita' di riapertura delle indagini".
   Ed allora. Da un lato, tra il  procedimento  a  carico  dei  vigili
 urbani ed il procedimento a carico del Landolfi esiste indubbiamente,
 e   concretamente,   "una  vera  e  propria  interferenza  sul  piano
 probatorio", non foss'altro perche' il Landolfi era la' indagato  per
 calunnia  ed  i  vigili  sono qui imputati di "calunnia di calunnia".
 Dall'altro lato, l'archiviazione disposta nel  procedimento  relativo
 al Landolfi non lo garantisce affatto dal rischio di riapertura delle
 indagini.    Data  la  ratio  sottesa  alle  previsioni dell'art. 197
 lettere  a)  e  b)  c.p.p.,  come  evidenziata  dalla  stessa   Corte
 costituzionale,  non  si  vede  dunque  come la non persistenza della
 qualifica di indagato, in capo al Landolfi, possa annichilire la  sua
 incompatibilita'   con   l'ufficio  di  testimone  e  sottrarlo  alla
 disciplina dell'art. 210 c.p.p.
   L'applicazione di tale disciplina, che alla luce di quanto  precede
 il  tribunale ritiene necessitata sulla base della normativa vigente,
 stride, tuttavia,  quando  il  "collegamento"  tra  i  reati,  ovvero
 l'insorgere  dell'interferenza  sul piano probatorio, sia determinata
 non gia' da fattori casuali, o comunque indipendenti  dalla  volonta'
 della  persona cui viene attribuito uno dei reati collegati, ma, come
 in ipotesi d'accusa e' accaduto nel caso di  specie,  dall'iniziativa
 degli  originali  denunciati  -  per  di piu' pubblici ufficiali - di
 trasformare l'originario denunciante - per di piu' persona  offesa  -
 in  indagato  a  titolo  di  calunnia, e proprio in rapporto ai fatti
 oggetto della denuncia, anzi al contenuto stesso della denuncia.
   Astraendo dal  caso  di  specie,  la  prescrizione  dell'art.  197,
 lettera  b),  cui  consegue  la disciplina degli artt. 192, comma 4 e
 210, comma 6, appare  stridente  nella  parte  in  cui,  operando  il
 richiamo  alla  categoria individuata dall'art. 371, comma 2, lettera
 b), non distingue tra due situazioni profondamente diverse: quella in
 cui  il  collegamento  probatorio  nasca  dall'apertura  in  capo  al
 dichiarante  di  un  procedimento sorto a seguito di "controdenuncia"
 per calunnia nei suoi confronti  e  quella  in  cui  il  collegamento
 probatorio  nasca dalla sottoposizione del dichiarante a procedimento
 per qualsiasi altro reato. Col risultato, del tutto irragionevole, di
 far discendere i medesimi  effetti  dall'attrazione  di  entrambe  le
 situazioni nella medesima disciplina processuale.
   Un'applicazione   indiscriminata  e  meccanica  delle  norme  sopra
 indicate   alla    prima    delle    due    ipotesi,    quella    del
 denunciante/denunciato per calunnia, porterebbe infatti a stravolgere
 il  significato  e  la  ratio,  di  un  istituto - l'incompatibilita'
 all'ufficio   di   testimone    dell'indagato/imputato    di    reato
 connesso/collegato  ex art. 371, comma 2, lettera b) - che per logica
 e per collocazione sistematica e' volto  non  solo  alla  tutela  del
 dichiarante  secondo  il  principio  del nemo tenetur se detegere, ma
 anche alla tutela della genuinita' della formazione della prova.
   L'irragionevolezza  dell'equiparazione  si  palesa  sono un duplice
 aspetto:
     1) in caso di "controdenuncia" per calunnia e'  evidente  che  si
 versi  in  situazione del tutto peculiare: perche', ferme restando le
 articolate caratteristiche della fattispecie delineata dall'art.  368
 c.p., che richiede un'analisi piu'  complessa  in  specie  sul  piano
 dell'accertamento del dolo, e' indubbio che viene a crearsi un nucleo
 comune    nel    vaglio    probatorio   (che   per   l'insussistenza,
 nell'ordinamento, della pregiudiziale penale a sentenza  penale  puo'
 addirittura  compiersi in modo rovesciato quanto ad ordine logico tra
 i due accertamenti, quello diretto e  quello  incidentale)  circa  la
 sussistenza   del   reato   c.d.   presupposto:  quello,  cioe',  che
 nell'ipotesi oggetto di indagine collegata sarebbe  stato  falsamente
 attribuito dall'originario denunciante all'originario denunciato.
   Ebbene,  l'applicazione  dell'art.  197,  lettera b) all'ipotesi in
 questione  comporterebbe  che,  paradossalmente,  l'accertamento  del
 reato  presupposto  (o  meglio: del fatto di reato che il denunciante
 originario ha prospettato  come  compiuto  ai  suoi  danni)  verrebbe
 fatalmente  a  dipendere, in larga se non unica misura, da un'opzione
 dello stesso denunciato, che avrebbe lo strumento  per  svalutare  ab
 origine  un  mezzo  di prova, la testimonianza della presunta persona
 offesa, le cui dichiarazioni cessano di avere valenza probatoria piu'
 ampia, pur riguardando, nel loro nucleo di ricostruzione storica,  le
 medesime  circostanze  fattuali.  Si pensi alle conseguenze aberranti
 che si verificherebbero quando, ad esempio, la scelta dell'originario
 denunciato venga compiuta una volta incardinatosi il  dibattimento  a
 suo   carico,  con  conseguente  inutilizzabilita'  delle  precedenti
 dichiarazioni rese dal denunciante/denunciato per calunnia  in  veste
 di teste o di persona informata dei fatti.
   Ne'  vale  obiettare  che  la  denuncia  per calunnia espone chi la
 propone a conseguenze penali gravi sul piano edittale. Si  tratta  di
 un'osservazione corretta, che puo' comportare conseguenze sotto altri
 profili,  ma  che  non puo' certo valere a controbilanciare un bene -
 quello della corretta individuazione dei mezzi di prova  utilizzabili
 nel   processo   -   del   tutto  eterogeneo,  perche'  squisitamente
 processuale.
     2)   L'incompatibilita'   all'ufficio   di   testimone    dipende
 pacificamente  -  ed  e' questa la ratio dell'espressa estensione del
 regime ex art.  210 c.p.p. dai casi  di  connessione  all'ipotesi  di
 collegamento  c.d.    probatorio  - dalla comune appartenenza dei due
 soggetti ad un contesto fattuale collegato, tale da esporre  entrambi
 ad   un  rischio  di  ridotta  attendibilita'  in  conseguenza  della
 necessita' di difendersi. E' evidente, in tal caso, che  il  soggetto
 e'  in situazione di potenziale autodifesa, e, proprio per questo, le
 sue dichiarazioni devono essere  vagliate  e  integrate  da  elementi
 estrinseci  secondo i criteri dettati dall'art. 192 c.p.p., in quanto
 dichiarazioni provenienti da soggetto del  quale  il  legislatore  in
 qualche  modo  diffida.  Per  contro,  e  solo  per questo motivo, si
 giustifica la rete di  protezione  dell'esame  ex  art.  210  c.p.p.,
 tipicamente  improntata alla tutela del dichiarante, nel rispetto del
 principio   nemo   tenetur   se    detegere,    che    lo    accomuna
 all'indagato/imputato   e   che   solo  per  tale  motivo  giustifica
 l'assunzione, da parte sua,  di  una  veste  processuale  diversa  da
 quella del testimone.
   Nel caso della "controdenuncia" per calunnia, tuttavia, il contesto
 di  collegamento  - e, dunque, il presupposto dell'incompatibilita' -
 non nasce, a monte, da  un  collegamento  naturalistico,  o  comunque
 intrinseco  ai  fatti,  ma  viene  successivamente creato, nella fase
 dell'accertamento dei fatti medesimi, proprio e  solo  quale  effetto
 artificiale (se non anche talora artificioso) della "controdenuncia".
   Omologare, dunque, l'ipotesi in esame a tutti gli altri casi in cui
 vi  sia  influenza probatoria reciproca, senza tenere conto della sua
 peculiarita', comporta un'applicazione del regime  ex  artt.  192/210
 c.p.p.  che,  lungi  dal  soddisfarne  la ratio di doppia tutela (del
 dichiarante e della  genuinita'  delle  sue  dichiarazioni),  produce
 effetti distorti e del tutto irragionevoli:
     anzitutto,  l'inutile  applicazione  di  una  serie  di  garanzie
 (difesa tecnica, facolta' di non rispondere, inserimento nel circuito
 dell'art.  53 c.p.p...) ad un soggetto che non ne ha  alcun  bisogno;
 salva  l'eventualita' in cui venga smentita la sua versione dei fatti
 ed emerga il dolo di  calunnia,  per  cui  subira'  a  sua  volta  un
 procedimento   penale:      ma   solo   allora,   ed   in   veste  di
 indagato/imputato di tale reato, l'ordinamento ha motivo di garantire
 il  suo  diritto  a  non  autoledersi  nel  momento  in   cui   rende
 dichiarazioni.  In  caso  contrario,  si  avrebbe una sorta di tutela
 anticipata, per cosi' dire in prevenzione,  chiaramente  confliggente
 con  la  situazione  soggettiva  fisiologica  del dichiarante, che e'
 quella  di  assumersi  la  responsabilita',   anche   attraverso   la
 dichiarazione  di  impegno prevista dall'art. 497, comma 2 c.p.p., di
 quanto va affermando davanti all'autorita' giudiziaria;
     in secondo luogo,  una  immotivata  svalutazione  ex  lege  delle
 dichiarazioni  della  persona offesa denunciante. Al giudicante viene
 infatti ad imporsi, sul piano della valutazione probatoria, la regola
 di giudizio contenuta nell'art.  192,  comma  3  c.p.p.,  estesa  dal
 quarto  comma  all'ipotesi  di  reato collegato ex art. 371, comma 2,
 lettera b).  Tale regola, pero', trova la sua ragion  d'essere  nella
 storia  travagliata dell'istituto della chiamata in correita' e della
 connessione probatoria  del  codice  abrogato,  oggi  "collegamento":
 istituti   che   mantengono   intatta  quella  carica  di  potenziale
 inquinamento della genuinita' delle dichiarazioni che ha  addirittura
 indotto  il  legislatore  ad intervenire per costruire una disciplina
 autonoma.
   Appare allora evidente che l'applicazione di una regola di giudizio
 ad una situazione del tutto diversa, in quanto priva di legame con la
 peculiare ratio che ha indotto alla previsione della  regola  stessa,
 comporta   unitamente   agli  altri  profili  che  si  sono  via  via
 evidenziati, effetti che si pongono in contrasto con l'art.  3  della
 costituzione,  ove  interpretato,  come  costantemente  insegnato  da
 codesta   Corte,   secondo   ragionevolezza.   Per    altro    verso,
 l'incongruita'  della  situazione normativa pare rilevare altresi' ex
 art. 101, comma 2 della costituzione, nella misura in cui  il  libero
 convincimento del giudice viene influenzato da un fattore processuale
 in  grado di inficiare la pienezza della prova ed interamente rimesso
 alla   disponibilita'   delle   parti:   nel    caso    di    specie,
 dell'indagato/imputato del reato presupposto.
                                P. Q. M.
   Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Dichiara  rilevante  e non manifestamente infondata la questione di
 legittimita' costituzionale degli artt. 197, lett. b), 210, comma 6 e
 192, comma 4 del codice di procedura  penale,  per  violazione  degli
 artt.  3  e  101,  comma  2  della  Costituzione,  nella parte in cui
 estendono la disciplina ivi prevista anche alle  ipotesi  in  cui  il
 reato  collegato a quello per cui si procede sia il reato di calunnia
 susseguente a denuncia dell'originario denunciato;
   Dispone la sospensione del  presente  giudizio  e  la  trasmissione
 degli atti alla Corte costituzionale;
   Dispone  che,  a  cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
 notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e  comunicata  ai
 Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati.
     Torino, addi' 13 maggio 1999.
                         Il presidente: Bettone
 99C0873