N. 658 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 settembre 1999

                                N. 658
  Ordinanza  emessa  il  21  settembre  1999 dal tribunale di Bari sui
 ricorsi riuniti  proposti  da  Ibrahimi  Haziz  ed  altri  contro  il
 prefetto della provincia di Bari
 Sicurezza  pubblica - Espulsione amministrativa di straniero (apolide
    o cittadino extracomunitario) - Ricorso al pretore -  Procedimento
    -  Termini  per  la definizione - Eccessiva brevita' - Lesione del
    diritto di difesa e del diritto di azione - Violazione dei diritti
    fondamentali dell'uomo.
 Sicurezza pubblica - Espulsione amministrativa di straniero  (apolide
    o  cittadino extracomunitario) - Ricorso al pretore - Procedimento
    - Sospensione cautelare del decreto impugnato - Omessa  previsione
    -  Lesione  del  diritto  di  difesa  e  del  diritto  di azione -
    Violazione dei diritti fondamentali dell'uomo.
     Legge 6 marzo 1998, n. 40, art. 11, comma  9;  d.lgs.  25  luglio
    1998,  n.  286,  art. 13, comma 9, sostituito dal d.lgs. 13 aprile
    1999, n.  113, art. 3.
  Costituzione, artt. 3, 10 e 24.
(GU n.50 del 15-12-1999 )
                               IL TRIBUNALE
   Letti i ricorsi depositati in data 11 settembre 1999 nell'interesse
 di  Ibrahimi  Haziz,  Ibrahimi Sabahete, Gasi Nehrut e Gasi Seljvete,
 aventi ad oggetto l'annullamento - previa sospensione del giudizio  e
 rimessione  alla Corte costituzionale delle questioni di legittimita'
 della legge n. 40/1998 e dell'art.  3  del  d.lgs.  n.  113/1999  dei
 quattro  decreti  di espulsione emessi da prefetto della provincia di
 Bari il 6 settembre 1999 nei confronti di  ciascuno  dei  ricorrenti,
 perche'  entrati nel territorio dello Stato sottraendosi ai controlli
 di frontiera, e ad essi notificati in pari  data  dalla  Questura  di
 Bari  ufficio  stranieri,  in  uno  all'intimazione  di  lasciare  il
 territorio italiano entro quindici giorni;
   Fissata la comparizione delle parti con decreto  del  13  settembre
 1999 e costituito il contraddittorio mediante la notifica al prefetto
 della  provincia di Bari, a cura della cancelleria, del ricorso e del
 decreto di comparizione;
   Sentiti all'udienza in camera di consiglio del 17  settembre  1999,
 per  i  ricorrenti  (non  comparsi  personalmente), la dott.ssa M. C.
 Angiuli,  in  sostituzione  del  difensore  costituito,  e,  per   il
 prefetto, l'ispettore di P. S.  G. Mazzini, funzionario delegato;
   Sciolta  la riserva di cui al verbale dell'udienza del 17 settembre
 1999;
                             O s s e r v a
   1. - I ricorsi, separatamente proposti, vanno riuniti d'ufficio  ai
 sensi  dell'art.  274 c.p.c., in ragione dell'identita' di gran parte
 delle questioni con essi sollevate e, quindi della  loro  connessione
 oggettiva.
   2.  -  Le  eccezioni preliminari di incostituzionalita' della legge
 delega n. 40/1998 (per  violazione  dell'art.  76  Cost.,  stante  la
 genericita'  delle  direttive  impartite  al  Governo, evincibile dal
 contenuto dell'art.  47, comma 2) e dell'art. 3, d.lgs.  n.  113/1999
 (per fissazione della competenza territoriale per la proposizione del
 ricorso nel foro del luogo in cui ha sede l'autorita' che ha disposto
 l'espulsione),  sollevate  dai  ricorrenti,  vanno  rigettate perche'
 prive  dei  requisiti  della  non  manifesta  infondatezza  e   della
 rilevanza.
   2.1.  -  La  legge  6  marzo  1998 n. 40, invero, lungi dall'essere
 carente  di  uno  dei   contenuti   tipici   indicati   dalla   norma
 costituzionale  di  riferimento (determinazione di principi e criteri
 direttivi), conferiva al Governo, anzitutto, la delega ad emanare  un
 decreto  legislativo  contenente  il  testo  unico delle disposizioni
 concernenti la condizione giuridica degli  stranieri  immigrati,  nel
 quale  dovevano  essere riunite e coordinate, fra loro e con le norme
 della stessa legge-delega, le previgenti leggi in materia (comma  1);
 in  secondo  luogo,  delegava  il  Governo ad emanare le disposizioni
 correttive necessarie per  realizzare  pienamente  i  principi  della
 legge-delega o per assicurarne la migliore attuazione (comma 2).
   E'  bene  evidente,  dunque, che la seconda parte della delega era,
 per  cosi'  dire,  di  carattere  meramente  tecnico  e  strettamente
 conseguenziale  alla  prima, essendo inevitabile che ogniqualvolta si
 proceda al riordino normativo di una materia mediante l'emanazione di
 un testo unico avente valore di legge (ipotesi classica  del  ricorso
 allo    strumento    della    delegazione    legislativa),    occorra
 contestualmente adottare disposizioni di coordinamento che servano  a
 fondere  tra  loro le discipline succedutesi nel tempo, le quali, per
 diventare un unico corpus  chiaro  e  coerente,  non  possono  essere
 puramente  e  semplicemente giustapposte, ne' ritagliate ed incollate
 l'une alle altre, ma richiedono un'intervento di  elevato  tecnicismo
 giuridico,   volto  ad  armonizzare  le  vari  componenti  normative,
 limandole ed integrandole dove occorre.
   In  tale  quadro,  il  rinvio  ai  "principi"  tout   court   della
 legge-delega  e  delle altre leggi da riunire e trasfondere nel testo
 unico (quale quello operato dal censurato art. 47, legge n.  40/1998)
 non  solo  e'  idoneo  ad  assolvere  formalmente  alla  prescrizione
 contenutistica di cui all'art. 76 Cost., ma appare,  nella  sostanza,
 pure  legittimamente  formulato  in modo ampio e generico, atteso che
 l'opera di raccolta e riordino normativo  di  una  materia  comporta,
 almeno in linea teorica, non la creazione ad libitum di nuove regole,
 bensi'  l'organica  sistemazione  di  norme  di  legge gia' esistenti
 nell'ordinamento   positivo,   integrandole   li'   dove   si   renda
 indispensabile  per superare le oggettive disarmonie ed incongruenze,
 senza esorbitare dai limiti concettuali della  materia  stessa  e  da
 quegli altri specificamente imposti dal legislatore delegante.
   Diversa  questione  e'  se,  nell'attuare  una  delega siffatta, il
 Governo abusi del potere di legiferazione  conferitogli  ad  hoc  dal
 Parlamento,  inserendo  nel  testo  unico  norme  "nuove",  del tutto
 estranee o incoerenti rispetto alla ratio, ai principi ed alle  norme
 di  dettaglio  delle  discipline da unificare, ovvero non collocabili
 nel  genus  delle  disposizioni   correttive   o   di   coordinamento
 "necessarie"  (come  sarebbe  accaduto, ad avviso dei ricorrenti, con
 l'adozione in via delegata della norma sulla competenza  territoriale
 introdotta con il d.lgs. n. 113/1999).
   Ma   tale   questione,   a   ben   vedere,   involge,   semmai,  la
 costituzionalita'  della  legge  delegata,   e   non   quella   della
 legge-delega.
   In   conclusione,   la  questione  di  legittimita'  costituzionale
 dell'art.  47, comma 2, legge n. 40/1998, per violazione dell'art. 76
 Cost., deve ritenersi manifestamente infondata.
   2.2. - Priva della non manifesta  infondatezza  e,  congiuntamente,
 della  rilevanza  appare,  poi,  l'eccezione  di  incostituzionalita'
 dell'art.   3, d.lgs. n. 113/1999, il  quale,  avendo  comportato  lo
 spostamento  della  competenza  territoriale  in  ordine  al  ricorso
 avverso  il  provvedimento  di   espulsione,   avrebbe,   secondo   i
 ricorrenti,  innovato  radicalmente  la  materia per cio' che attiene
 alla fase processuale e, quindi, ecceduto  dai  limiti  della  delega
 legislativa.
   Rileva,  di contro, che il Governo era stato espressamente delegato
 ad emanare, entro due anni dall'entrata in vigore della  legge-delega
 (27   marzo  1998),  "uno  o  piu'  decreti  legislativi  recanti  le
 disposizioni correttive  che si dimostrino necessarie per  realizzare
 pienamente  i  principi  della  presente  legge  o per assicurarne la
 migliore  attuazione".
   Ma se e' vero  che,  nella  legge  n.  40/1998,  all'art.  11,  era
 specificamente   previsto  che  il  ricorso  avverso  il  decreto  di
 espulsione fosse presentato al "pretore del luogo di residenza  o  di
 dimora    dello    straniero"    (norma    integralmente   riprodotta
 nell'originaria  formulazione  della  legge  delegata  n.   286/1998,
 all'art.  13,  comma  9)  e  che tale disposizione e stata sostituita
 dall'art. 3, d.lgs. 13 aprile 1999 n. 113, prevedendo  la  competenza
 sul  ricorso de quo del "pretore del luogo in cui ha sede l'autorita'
 che  ha disposto l'espulsione", e' altrettanto vero che la previgente
 disposizione  sulla  competenza,  ora  abrogata   dal   Governo   nel
 tempestivo esercizio della delega conferitagli dall'art.  47, comma 2
 cit.,  per  un  verso  non sembra integrare, atteso il suo contenuto,
 alcun  principio  o  criterio  direttivo  impartito  dal  legislatore
 delegante  ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 76 Cost. e, per
 altro verso, ben puo' atteggiarsi a norma "correttiva" necessaria per
 assicurare la migliore attuazione della delega legislativa e, quindi,
 rientrare nei limiti in  cui  quest'ultima  e'  stata  disegnata  dal
 Parlamento.
   Non  sfugge,  infatti,  che  la  previgente  disposizione,  siccome
 ancorata  al  criterio  della  "residenza"  o  della  "dimora"  dello
 straniero  ricorrente  ossia  ad  elementi astrattamente oggettivi ed
 individuabili, ma concretamente privi di  possibilita'  effettive  di
 individuazione   e   di   verifica,   in   quanto   riferiti,  almeno
 prevalentemente, a  persone  introdottesi  in  modo  clandestino  nel
 territorio  italiano  e  di  solito prive di residenza come di dimora
 fissa, esponeva a notevoli  incertezze  applicative  il  fondamentale
 presupposto  processuale della competenza, la quale avrebbe finito di
 fatto,  per  radicarsi  in  modo  per  lo  piu'  accidentale   ovvero
 arbitrariamente stabilito dall'interessato all'impugnativa.
   Sicche',  la novella disposizione sulla competenza di cui al d.lgs.
 n. 113/1999, avendo l'indiscusso pregio di offrire un criterio  certo
 per fissare il giudice competente a decidere il ricorso, razionalizza
 il  momento della tutela giurisdizionale e, per cio' stesso, consente
 obiettivamente una migliore attuazione della legge sull'immigrazione,
 ponendosi cosi' nel  pieno  rispetto  del  contenuto  espresso  della
 delega legislativa, come innanzi richiamato.
   Sotto questo profilo, dunque, si apprezza la manifesta infondatezza
 della  questione  di  legittimita' costituzionale dell'art. 3, d.lgs.
 n. 113/1999, per violazione dell'art. 76 Cost., cosi' come  sollevata
 dai ricorrenti.
   Invero  la  stessa  questione,  semmai  astrattamente provvista del
 requisito attinente al "merito" costituzionale, non potrebbe comunque
 generare la rimessione al giudice delle leggi, in quanto  palesemente
 priva, in concreto, dell'ulteriore requisito della rilevanza. Risulta
 pacificamente  dagli atti del procedimento che il luogo di dimora dei
 ricorrenti  (il  campo  profughi  di  Bari-Palese,  ove  erano  stati
 provvisoriamente  ricoverati  dopo  lo  sbarco  nel  porto  di  Bari)
 coincideva, al momento della  notifica  del  decreto  di  espulsione,
 esattamente  con  quello  dell'autorita'  che  lo  aveva  emanato (il
 prefetto della provincia di Bari): sicche', pur nell'ipotesi  in  cui
 la  norma  sulla  competenza  non  fosse  stata  modificata,  come e'
 avvenuto con il d.lgs.  n. 113/1999, il giudice competente a decidere
 su ricorso sarebbe stato comunque quello di Bari (luogo della  dimora
 risultante  ex actis) e non quello del diverso luogo (Firenze) in cui
 gli stessi ricorrenti hanno dedotto, senza minimamente  provarlo,  di
 avere  trasferito,  nientemeno,  il prorio "domicilio" nel brevissimo
 lasso  di  tempo  (cinque  giorni)  intercorrente  fra  la   notifica
 dell'espulsione e la proposizione del gravame.
   3.   -   Negativamente   valutate   le  questioni  di  legittimita'
 costituzionale  sollevate  su  eccezione   di   parte,   ritiene   il
 giudicante,  nell'ercizio del potere d'ufficio riconosciuto dall'art.
 23, comma 3, legge n.  87/1953, di rilevare, sotto distinto  profilo,
 l'incostituzionalita'  della  normativa  in  esame  e,  segnatamente,
 dell'art. 13, comma 9, ultima parte, del  d.lgs.  n.  286/1998,  come
 sostituito  dall'art.  3  del  d.lgs.  n.  113/1999, nei sensi qui di
 seguito esposti.
   La disposizione ora menzionata,  che,  componendo  il  testo  unico
 sull'immigrazione,  riproduce pedissequamente in parte qua l'art.  11
 della legge n. 40/1998 (l'art.  3  d.lgs.  n.  113/1999,  pur  avendo
 sostituito  l'intero  comma  9  dell'art.  13  cit., ne ha, di fatto,
 modificato solo la prima parte, relativa  alla  competenza),  prevede
 che "il pretore" - in luogo del quale deve ora leggersi il "tribunale
 in composizione monocratica", per effetto dell'art. 244 del d.lgs. n.
 51/1998,  entrato in vigore il 2 giugno 1999 - "accoglie o rigetta il
 ricorso decidendo con unico provvedimento  adottato,  in  ogni  caso,
 entro  dieci  giorni  dalla  data  di  deposito  del ricorso, sentito
 l'interessato, nei modi di cui agli artt. 737 e seguenti  del  codice
 di procedura civile".
   3.1.  -  Della disposizione citata risaltano, ai fini de quibus non
 tanto la previsione del rito camerale in se' e per se', evidentemente
 rispondente a scelte discrezionali  insindacabili  poiche'  afferenti
 alla  sfera  della  politica  legislativa, quanto l'imposizione di un
 termine particolarmente esiguo  per  l'esaurimento  del  procedimento
 giurisdizionale mediante la decisione definitiva, termine fissato "in
 ogni caso" in dieci giorni dalla data di deposito del ricorso.
   La  norma  si  appalesa,  secondo  il  giudicante,  irrispettosa o,
 comunque, irragionevolmente lesiva del diritto di agire  in  giudizio
 per  la  tutela  dei  diritti e degli interessi legittimi nonche' del
 diritto di difesa, che la Carta fondamentale (art. 24, in  primis,  e
 art.  10, con riferimento alla titolarita' ed all'esercizio, da parte
 dello  straniero,  dei diritti fondamentali generalmente riconosciuti
 dal diritto internazionale), nell'interpretazione datane dalla  Corte
 costituzionale, garantisce a "tutti", senza distinzioni di condizioni
 personali  e  sociali (C. cost. 29 novembre 1960, n. 67; ma ora e' lo
 stesso  t.u.  sull'immigrazione  che,  all'art.  2,  riconosce   allo
 straniero  parita' di trattamento con il cittadino relativamente alla
 tutela giurisdizionale dei  diritti  e  degli  interessi  legittimi),
 anche  nell'ambito  dei  procedimenti  giurisdizionali  civili aventi
 contenuto decisorio (fra le molte, C. cost. 2 luglio 1966 n.  83,  27
 gennaio  1974,  n.  267),  quale  deve  ritenersi, nella sostanza, il
 procedimento conseguente all'impugnazione del decreto prefettizio  di
 espulsione,  delineato  dagli  artt. 13 e 13-bis t.u. n. 286/1998, ad
 onta della sua strutturazione secondo il  rito  camerale  (evincibile
 sia  dal  richiamo  espresso  agli  artt.  737  ss.  c.p.c. sia dalla
 previsione della fissazione dell'udienza  in  camera  di  consiglio),
 tipicamente   riservato   alla   giurisdizione   volontaria   o   non
 contenziosa, normalmente non mirante alla composizione dei  conflitti
 di interessi fra parti contrapposte.
   Elementi  normativi  univoci per la qualificazione del procedimento
 giurisdizionale  ex  art.  13.  cit.  in   termini   contenziosi   si
 rinvengono:    nella  previsione  dell'obbligatoria  costituzione del
 contraddittorio   nei   confronti    dell'autorita'    emanante    il
 provvedimento impugnato; nel contenuto (almeno verosimilmente, stante
 il  silenzio  della  norma  sul  punto)  e, comunque, nell'effetto di
 annullamento   della   sanzione    amministrativa    dell'espulsione,
 scaturente   dalla  decisione  di  accoglimento  del  ricorso;  nella
 ricorribilita'  per  cassazione  del  provvedimento  giudiziale   che
 definisce  l'impugnazione  (la  prima  e  l'ultima delle norme appena
 elencate sono state inserite nel t.u. n. 286/1998, all'art.   13-bis,
 mediante il d.lgs. n. 113/1999).
   La tendenza, non nuova nel nostro ordinamento, ad estendere il rito
 camerale,  per sua natura semplificato, agile e rapido, ad ipotesi di
 vera e propria giurisdizione contenziosa (c.d. cameralizzazione della
 tutela giurisdizionale),  in  cui  si  faccia  questione  di  diritti
 soggettivi  o di status individuali fra parti portatrici di interessi
 in contrasto, vieppiu' connotati da rilevanti profili pubblicistici -
 cio' appare innegabile nel caso  del  ricorso  al  giudice  ordinario
 disciplinato  dal t.u. sull'immigrazione e sulla condizione giuridica
 dello straniero, che potenzialmente  involge,  con  il  diritto  alla
 permanenza  nel  territorio  italiano, la tutela di beni essenziali e
 primari della persona, quali la salute,  la  vita,  l'abitazione,  il
 lavoro,  l'educazione,  tutti  fortemente compromessi o a rischio nei
 paesi di provenienza, interessati, vuoi per endemiche  condizioni  di
 arretratezza   e   poverta'   vuoi  per  contingenti  ed  eccezionali
 situazioni belliche o dittatoriali, da fenomeni  migratori  di  massa
 verso   i   paesi  "ricchi"  in  cui  albergano  le  c.d.  democrazie
 occidentali - se, come innanzi cennato, e' insindacabile in linea  di
 principio,  non  puo' risolversi in un'attenuazione della garanzia di
 tutela giurisdizionale, la  quale,  per  essere  seria,  adeguata  ed
 effettiva,  deve  sempre assicurare a chi agisce ovvero si difende in
 giudizio un minimo irrinunciabile.
   In  generale  -  come  e   stato   piu'   volte   osservato   nella
 giurisprudenza costituzionale (sent. n. 202/1975, ord. n. 748/1988 ed
 altre)   -   la  sommarieta'  delle  forme  processuali  e  l'urgenza
 dell'accertamento  giurisdizionale,  che  tipicamente  ineriscono  ai
 procedimenti   in   camera   di   consiglio,  non  sono  di  per  se'
 incompatibili con l'art. 24 Cost., laddove esse non  precludano  alle
 parti,  soggette  all'autorita'  ed  agli  effetti  del provvedimento
 finale, la preventiva possibilita' di difendersi, sebbene secondo  le
 modalita' ritenute, caso per caso, piu' adatte alla struttura ed alle
 finalita'   dei  singoli  procedimenti,  e  non  si  risolvano  nella
 violazione di specifici precetti  costituzionali,  ne'  del  generale
 canone della ragionevolezza, insito nell'art. 3 Cost.
   Sennonche'  il  presidio minimale del diritto di azione e di difesa
 in giudizio, da garantirsi anche in  sede  di  procedura  camerale  a
 contenuto  contenzioso,  non  puo'  non  comprendere, fra l'altro, il
 diritto alla prova, coessenziale alla tutela  giurisdizionale,  nella
 misura  in  cui  esso  rappresenta  lo  strumento imprescindibile per
 l'accertamento dei fatti, la ricerca  della  verita'  e  l'attuazione
 della giustizia.
   La  valenza del diritto alla prova rispetto alla garanzia dell'art.
 24 Cost. e' attestata da svariati precedenti giurisprudenziali, fra i
 quali Corte cost. n. 53/1966, n. 132/1972,  n.  56/1980,  nonche'  n.
 202/1975,  in cui si dichiarava l'illegittimita' costituzionale della
 normativa  di  un  procedimento   camerale   di   tipo   contenzioso,
 sull'espresso   rilievo   che  esso,  limitando  le  possibilita'  di
 accertamento  istruttorio  all'assunzione  di  mezzi  atipici  e  non
 formali  di  indagine,  non  consentiva  il  normale  esercizio della
 facolta' di prova.
   Da  tale  specifico profilo deve convenientemente trarsi spunto per
 meglio illustrare, nel  dettaglio,  i  motivi  fondanti  il  sospetto
 d'incostituzionalita' che col presente provvedimento s'avanza.
   Il  sistema di tutela giurisdizionale dello straniero nei confronti
 dell'amministrazione  competente   ad   adottare   il   provvedimento
 espulsivo  previsto  dall'art.  13,  comma  2,  t.u.  n.  286/1998 e'
 incentrato sul ricorso al giudice ordinario e si snoda attraverso  un
 procedimento  regolato da poche e scarne norme speciali (quelle poste
 dallo stesso art. 13 e dal successivo art. 13-bis)  nonche',  in  via
 generale,  e nei limiti della compatibilita', dalla disciplina comune
 ai procedimenti in camera di consiglio (artt. 737-742-bis c.p.c.).
   Dalla  combinazione  fra  disposizioni  speciali   e   disposizioni
 generali si ricava che:
     a) l'impugnativa proposta dallo straniero deve decisa dal giudice
 con  un  provvedimento  definitorio  (di  accoglimento  o di rigetto,
 secondo l'espresso dettato normativo; ma, ovviamente, anche di  rito,
 come nell'ipotesi, pure espressamente prevista, dell'inammissibilita'
 per  tardivita')  da adottarsi "in ogni caso entro dieci giorni dalla
 data del deposito del ricorso";
     b)   l'unica   attivita'   istruttoria    contemplata    consiste
 nell'audizione  dell'interessato (art. 13, comma 9) o nell'assunzione
 di informazioni (art. 738, comma 3, c.p.c.).
   In altre parole, nel disegno emergente dal dettato legislativo,  il
 procedimento,   nel   passaggio   attraverso   le   fasi   necessarie
 dell'introduzione   (deposito   del   ricorso),   della    fissazione
 dell'udienza   in   camera   di  consiglio,  della  costituzione  del
 contraddittorio (notifica del ricorso e del decreto di fissazione  al
 prefetto),   della   celebrazione   dell'udienza   di   comparizione,
 dell'assunzione   delle   dichiarazioni   del    ricorrente,    della
 deliberazione  del  giudice  e  del  deposito  della  decisione, deve
 compiersi in appena dieci giorni.
   Premesso che, in  assoluto,  la  previsione  legislativa  circa  la
 durata massima di un procedimento giurisdizionale rappresenta un caso
 eccezionale  nel  nostro ordinamento e che esso, laddove si verifichi
 (come nella disciplina del riesame delle  misure  cautelari  adottate
 nel   procedimento   penale),   costituisce  una  forma  di  garanzia
 nell'interesse  esclusivo  della  parte  negativamente   incisa   dal
 provvedimento  impugnato  (mediante  la sanzione di inefficacia della
 misura soggetta al riesame tardivamente definito), nella  fattispecie
 del  procedimento di opposizione al decreto di espulsione prefettizio
 accade, di contro, che l'eventuale inutile  decorso  del  termine  di
 dieci  giorni  per la decisione del ricorso si risolve esclusivamente
 in danno dello straniero, il quale, allo scadere  dell'intimazione  a
 lasciare il territorio italiano, notificata in uno con l'espulsione e
 commisurata  in  un tempo di quindici giorni, esattamente coincidente
 con   l'estensione   temporale   massima   della   fase   processuale
 eventualmente attivata (cinque giorni per la proposizione del ricorso
 piu'  dieci giorni per la pronuncia del provvedimento che lo decide),
 resta     esposto     all'esecuzione     dell'espulsione     mediante
 l'accompagnamento coatto alla frontiera, affidato alla forza pubblica
 (art. 13, comma 4, t.u. n. 286/1998), essendo, da un lato, il ricorso
 giurisdizionale  di per se' privo di efficacia sospensiva del decreto
 del prefetto e mancando, dall'altro, una  norma  che  attribuisca  al
 giudice  adito il potere di disporre, anche d'ufficio, la sospensione
 dell'esecuzione   del  provvedimento  amministrativo  impugnato  (non
 diversamente, per esempio, da quanto previsto dall'art. 22, legge  n.
 689/1981,  che,  del  tutto analogamente all'art. 13 cit., disciplina
 un'ipotesi  di  giurisdizione  di   annullamento   di   provvedimenti
 sanzionatori della p.a. affidata al giudice ordinario).
   Siffatto  rilievo  toglie  pregio  a qualunque discussione circa la
 natura del termine per la definizione del  procedimento  ex  art.  13
 t.u.  n. 286/1998, poiche', in disparte l'effettivo valore precettivo
 dell'inciso  "in  ogni  caso",  con  il  quale  il   legislatore   ha
 accompagnato  la previsione del tempo massimo in cui deve intervenire
 la decisione del ricorso, e' certo che,  al  di  fuori  della  durata
 legale  del  procedimento  giurisdizionale,  la sanzione prefettizia,
 ineseguibile legittimamente prima del compiersi di quel tempo,  possa
 spiegare per intero i suoi effetti.
   Ne  deriva  che la ristrettezza del citato termine di dieci giorni,
 esaltata nell'importanza dalla non neutralita' dello stesso  per  gli
 interessi del sanzionato e della impossibilita' di paralizzare in via
 cautelare  il provvedimento espulsivo, comporta un'evidente incidenza
 negativa  sulla  pienezza  e  sull'effettivita'  della  garanzia  del
 diritto  di azione, quante volte esso risulti annullato o sacrificato
 in una delle sue componeti essenziali, quali, ad esempio  il  diritto
 alla prova.
   E'   infatti   impensabile  o,  quanto  meno,  assai  difficilmente
 realizzabile che, qualora insorga la necessita' di un approfondimento
 istruttorio circa un fatto rilevante al  fine  della  verifica  della
 legittimita'  dell'azione amministrativa censurata, il giudice riesca
 a  provvedervi  adeguatamente  nel  nullo  o   risicatissimo   spazio
 temporale  che  residua,  rispetto al tetto massimo dei dieci giorni,
 dal compimento di tutte le attivita' procedurali e  decisorie  minime
 ed  indispensabili,  susseguenti  al  deposito  del  ricorso,  e  dal
 trascorrere dei tempi tecnici ad esse  inevitabilmente  connessi  (da
 quelli  per  l'assegnazione  del  ricorso  e  per  la  sua  materiale
 trasmissione al giudice assegnatario, a quelli per gli adempimenti di
 cancelleria inerenti la  notifica  del  decreto  di  comparizione,  a
 quelli, infine, per lo studio e la decisione della controversia).
   Non    e'    neppure    necessario,    al    fine    di    cogliere
 l'incostituzionalita' della  disposizione  in  esame,  echeggiare  la
 dibattuta   questione   teorica   relativa   all'ammissibilita',  nei
 procedimenti camerali a struttura plurilaterale imperniata su  almeno
 due parti sostaziali in conflitto, di mezzi di istruttori tipici, che
 si   sostituiscano   o   integrino   quelli  atipici  (assunzione  di
 informazioni) propri della giurisdizione non contenziosa.
   Essenziale e sufficiente appare invece evidenziare che,  formale  o
 informale,   tipica   o  atipica  che  sia,  l'attivita'  istruttoria
 nell'ambito di un procedimento giurisdizionale, per di piu'  a  forte
 connotazione  inquisitoria,  quale  il procedimento con rito camerale
 (su tale linea sembra schierarsi, oltre ad una  nutrita  parte  della
 dottrina,  la  giurisprudenza  di  legittimita',  allorquando  spinge
 l'iniziativa ufficiosa del giudice  oltre  i  limiti  dell'assunzione
 delle informazioni: Cass., 25 maggio 1982 n. 3180 e 16 giugno 1983 n.
 4128),   risulta   grandemente   menomata  dall'autonomo  operare  e,
 comunque, dall'effetto combinato  di  due  dati  normativi  emergenti
 dalla  disciplina  in  oggetto:  l'uno  positivo,  consistente  nella
 fissazione, persino in termini assoluti (l'inciso "in ogni caso"), di
 un   termine   brevissimo   per   la   definizione   complessiva  del
 procedimento; l'altro negativo, consistente nell'omessa previsione di
 un poter sospensivo dell'esecuzione del provvedimento  di  espulsione
 impugnato,  che  consenta  al  giudice, quanto meno per gravi motivi,
 apprezzabili o ab initio (il fumus boni juris del ricorso) o in corso
 di  procedimento  (l'effettiva  necessita'  di   svolgere   attivita'
 istruttoria ulteriore rispetto alla mera audizione dell'interessato),
 di  rendere  sostanzialmente  neutro per il ricorrente lo spirare del
 termine per emettere la decisione finale, impedendo il dispiegarsi di
 un'attivita'  amministrativa  probabilmente  illegittima,  oltre  che
 immancabilmente  foriera, per il sanzionato, di intuibili conseguenze
 pregiudizievoli non (o non integralmente) riparabili.
   E  tanto  basta   ad   integrare   la   violazione   dei   precetti
 costituzionali sopra richiamati.
   3.2.  -  Alla  non manifesta infondatezza della questione nei sensi
 sin qui illustrati si coniuga  la  concreta  rilevanza  della  stessa
 nell'ambito del procedimento dal quale essa scaturisce.
   In  proposito ci si puo' limitare a rimarcare che, fra i profili di
 illegittimita' dei provvedimenti prefettizi denunciati con i  ricorsi
 introduttivi,  quelli  che si presentano, prima facie, giuridicamente
 piu' convincenti attengono alla violazione dei  divieti  espressi  di
 espulsione  stabiliti  dall'art. 19 t.u. n. 286/1998: in particolare,
 il divieto di espulsione verso uno Stato in cui  lo  straniero  possa
 esere  oggetto  di  persecuzione  per  motivi di razza, di lingua, di
 cittadinanza, di religione,  di  opinioni  politiche,  di  condizioni
 personali o sociali (comma 1); il divieto di espulsione nei confronti
 delle  donne  in  stato  di gravidanza o nei sei mesi successivi alla
 nascita del figlio cui provvedono (comma 2).
   Tutti i ricorrenti,  costituenti  due  distinti  nuclei  familiari,
 hanno  allegato  l'appartenenza all'etnia Rom, notoriamente soggetta,
 almeno sino a tempi recentissimi, a vendette e persecuzioni in alcuni
 dei territori della ex Jugoslavia: sennonche' l'identita' etnica, che
 non risulta da alcun documento acquisito al giudizio,  ne'  e'  stata
 confermata  dall'autorita'  amministrativa resistente, costituisce un
 dato fattuale sicuramente determinante  ai  fini  dell'applicabilita'
 del  divieto  in  questione, ma attualmente indimostrato in giudizio,
 ancorche'  concretamente  dimostrabile   mediante   l'assunzione   di
 informazione  da  terzi  (per esempio, profughi sbarcati a Bari con i
 ricorrenti il 19 agosto 1999) circa le origini, le abitudini di vita,
 la cultura o la religione degli Ibrahimi e dei Gasi.
   Parimenti un adeguato approfondimento istruttorio,  conseguibile  o
 con   la   produzione  di  certificati  medici  in  originale  o  con
 l'espletamento di una  c.t.u.,  merita  la  crcostanza  dell'avanzato
 stato  di  gravidanza  in  cui verserebbero sia Ibrahimi Sabahete sia
 Gasi Seljvete, stante la contraddittorieta' delle attuali  risultanze
 del procedimento, concentrate, da un lato, nella produzione, da parte
 della  difesa  delle  ricorrenti,  di due certificati medici in copia
 fotostatica  e  non  perfettamente  leggibili  quanto  all'autore  e,
 dall'altro, la dichiarazione resa dal funzionario di p.s. comparso in
 rappresentanza del prefetto, secondo cui le gravidanze non furono ne'
 notate  dal  personale  della questura, ne' dichiarate all'infermeria
 del campo di Bari-Palese, ove le ricorrenti avevano  soggiornato  per
 oltre due settimane.
   Le     suevidenziate     esigenze    istruttorie,    obiettivamente
 indispensabili per l'accertamento, anche per iniziativa d'ufficio, di
 fatti dalla  cui  sussistenza  dipende  la  fondatezza  dei  ricorsi,
 risultano  pero'  frustrate  dalla disposizione che impone l'adozione
 del  provvedimento  definitorio  del  merito   entro   dieci   giorni
 dall'introduzione  del  giudizio,  in quanto richiedono provvedimenti
 interlocutori ed  attivita'  procedurali  sicuramente  conducenti  al
 superamento   del   limite   temporale   di   legge   e,   con  esso,
 all'eseguibilita'  coatta  dei  provvedimenti  di   espulsione,   non
 evitabile,  neppure  in  via  cautelare  e  provvisoria, da un ordine
 giudiziale  di  sospensione,  sconosciuto  al   sistema   di   tutela
 giurisdizionale dello straniero secondo l'art. 13, t.u. n. 286/1998.
   4. - La questione di legittimita' costituzionale della disposizione
 da ultimo menzionata va espressamente estesa, per le medesime ragioni
 di  non  manifesta infondatezza e di rilevanza, all'art. 11, comma 9,
 ultima parte, della legge 6 marzo 1998, n. 40, costituente  la  fonte
 originaria  della  disciplina  censurata,  trasfusa integralmente nel
 testo unico emanato per delega legislativa.
                               P. Q. M.
   Applicato l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Rigetta le eccezioni di illegittimita' costituzionale sollevate dai
 ricorrenti;
   Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la  questione  di
 legittimita'  costituzionale  dell'art.  11,  comma  9, della legge 6
 marzo 1998, n. 40 e dell'art. 13, comma 9, del d.lgs. 25 luglio  1998
 n. 286, come sostituito dall'art. 3 del d.lgs. 13 aprile 1999 n. 113,
 in  riferimento  agli  artt.  3,  24  e  10 Cost., nella parte in cui
 prevedono  che  il  pretore  (ora  il   tribunale   in   composizione
 monocratica)  decide sul ricorso dello straniero contro il decreto di
 espulsione del prefetto con unico provvedimento, di accoglimento o di
 rigetto, adottato, in ogni caso, entro dieci  giorni  dalla  data  di
 deposito  del  ricorso,  nonche'  nella parte in cui non prevedono il
 potere cautelare del giudice adito di  sospendere  per  gravi  motivi
 l'esecuzione del provvedimento impugnato;
   Sospende il procedimento in corso;
   Ordina   la   trasmissione   immediata   degli   atti   alla  Corte
 costituzionale;
   Ordina che il presente provvedimento sia notificato  al  Presidente
 del  Consiglio dei Ministri e alle parti (ricorrenti e prefetto della
 provincia di Bari), nonche' comunicato ai Presidenti delle due Camere
 del Parlamento, a cura della cancelleria.
     Bari, addi' 21 settembre 1999.
                          Il giudice: Ruffino
 99C1181