N. 17 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 novembre 2012
Ordinanza del 29 novembre 2012 emessa dal Magistrato di sorveglianza di Napoli nel procedimento relativo a Z. U.. Processo penale - Procedura per l'applicazione delle misure di sicurezza - Svolgimento, su istanza degli interessati, nelle forme dell'udienza pubblica - Contrasto con il principio di pubblicita' dei procedimenti giudiziari, sancito dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo - Violazione del principio del giusto processo - Richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 93 del 2010. - Codice di procedura penale, artt. 678, comma 1, 679, comma 1, e 666, comma 3. - Costituzione, artt. 111, primo comma, e 117, primo comma, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali.(GU n.7 del 13-2-2013 )
IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA Letti gli atti; Nel procedimento di sicurezza per la decisione sulla eventuale dichiarazione di abitualita' nel reato, aperto ex officio e fissato all'udienza odierna, 21 novembre 2012, nei confronti di Z. U. n. 24.12.2970, la difesa chiedeva che la procedura venisse trattata in forma pubblica. L'istanza non puo' trovare accoglimento alla luce della normativa vigente. Sul punto, ritiene questo giudice, eccepire la illegittimita' costituzionale degli articoli che regolamentano il procedimento di sicurezza. Ed invero, l'art. 679, punto 1, c.p.p. attribuisce al magistrato di sorveglianza la competenza ad intervenire in materia di misure di sicurezza, «su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta se l'interessato e persona soxialmente pericolosa e adotta i provvediemtni conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel reato». Quanto al rito adottato, l'art. 678, punto 1, c.p.p. dispone che «Il tribunale di sorveglianza nelle materie di competenza e il magistrato di sorveglianza nelle materie attinenti ... alle misure di sicurezza ... e alla dichiarazione di abitualita' o professionalita' nel reato ..., procedono, a richiesta del pubblico ministero, dell'interessato, del difensore o di ufficio, a norma dell'art. 666». A sua volta, l'art. 666, punto 3, c.p.p. sul punto sancisce espressamente che ... «il giudice o il presidente del collegio, designato il difensore fissa la data della camera di consiglio e ne fa dare avviso alle parti e al difensore». Il dettato normativo risulta, pertanto, inequivoco nello stabilire che il procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza, detentive quanto non detentive, abbia luogo «in camera di consiglio»: formula che - alla luce di un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimita', nonche' di espresso dettato normativo - implica attualmente un rinvio alla disciplina generale dettata dall'art. 127 c.p.p., il quale prevede espressamente, al punto 6, che l'udienza in camera di consiglio - e, dunque, anche quella del procedimento che interessa - si svolge «senza la presenza del pubblico». La previsione per cui la procedura si svolge «in camera consiglio» comporta, infatti, - in conformita' ad un indirizzo interpretativo avallato anche dalle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 28 maggio 2003-18 giugno 2003, n. 26156) per cui, il descritto dall'art. 127 c.p.p., deve «applicarsi anche nei casi in cui il legislatore, nel prescrivere che il procedimento si svolga in "camera di consiglio", senza regolamentarne particolari diversita' di struttura, ometta di fare espresso riferimento alle forme dell'art. 127 del codice di rito» - l'operativita', ove non diversamente disposto, della disciplina generale in materia di «procedimento in camera di consiglio» dettata dall'art. 127 c.p.p.: e, dunque - in mancanza di previsioni derogatorie sul punto - anche della disposizione del punto 6 di tale articolo, in forzi della quale «l'udienza si svolge senza la presenza del pubblico». Va doverosamente segnalato, altresi', che la pubblicita' dell'udienza non puo' essere consentita neppure nell'appello innanzi il tribunale di sorveglianza avverso la decisione del magistrato di sorveglianza, ex art. 680, punto 1, c.p.p. o nelle impugnazioni contro sentenze di condanna o di proscioglimento, avverso «le disposizioni che riguardano le misure di sicurezza» di cui all'art. 680, punto 2, c.p.p. Infatti, la competenza a decidere sull'eventuale impugnazione spetta al tribunale di sorveglianza, ai sensi dell'art. 680 c.p.p., tribunale che procede nelle medesime forme processuali riservate al magistrato di sorveglianza, a mente dell'art. 678, punto 1, c.p.p., sopra gia' richiamato: «Il tribunale di sorveglianza nelle materie di sua competenza ... (procede) a norma dell'art. 666». Motivo per il quale va respinta anche la eventualita' del ricorso alla regola della «pubblicita' differita», che evidentemente nel caso di specie e' normativamente espunta. Pertanto, non puo' ragionevolmente escludersi che le norme censurate - prevedendo che le procedure per l'applicazione di misure di sicurezza si svolgano, senza alcuna eccezione, in camera di consiglio e, dunque, senza la partecipazione del pubblico - violino l'art. 117, primo comma, della Costituzione, ponendosi in contrasto con il principio di pubblicita' dei procedimenti giudiziari, sancito dall'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), cosi' come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Secondo la Corte di Strasburgo, invero, alla luce di una ormai consolidata giurisprudenza, - pur a fronte dell'elevato grado di tecnicismo proprio di taluni procedimenti e delle esigenze, in essi sovente presenti, di protezione della vita privata di terzi indirettamente interessati - l'entita' della «posta in gioco» e gli effetti che le procedure stesse possono produrre impongono di ritenere che il controllo del pubblico sull'esercizio della giurisdizione rappresenti una condizione necessaria ai fini del rispetto dei diritti dei soggetti coinvolti, onde dovrebbe essere offerta ai medesimi «almeno la possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d'appello» competenti. Cio' premesso, occorre rilevare che, con recenti pronunce - la sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, sentenza 8 luglio 2008, Pierre ed altri contro Italia, nonche', sentenza 14 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia - la Corte europea dei diritti dell'uomo, decidendo per altre materie, ha affermato che la procedura «in camera di consiglio», ovvero senza pubblicita', si pone in contrasto, sotto il profilo considerato, con l'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, nella parte in cui prescrive che «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, il quale decidera' sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni causa penale che le venga rivolta...». Richiamando la propria giurisprudenza, la Corte di Strasburgo ribadiva, peraltro, in tema di misure di prevenzione, che la pubblicita' delle procedure giudiziarie, garantita dalla citata norma della Convenzione, tutela le persone soggette ad una giurisdizione contro una «giustizia segreta», che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce uno dei mezzi idonei per preservare la fiducia nei giudici. Con particolare riguardo a taluni procedimenti, la Corte non ha negato validita' ai rilievi svolti, per giustificare la deroga alla pubblicita' delle udienze: e, cioe' - nel caso allora in esame - che le procedure per l'applicazione delle misure di prevenzione - in specie patrimoniali - possono assumere un carattere altamente tecnico, in quanto basate essenzialmente su documenti e indagini finanziarie, e possono implicare, al tempo stesso, esigenze di protezione della vita privata di terze persone, anche minori, coinvolte quali intestatari formali dei beni. La Corte europea ha rilevato, tuttavia, che e' necessario tener conto della «posta in gioco» nelle procedure in esame, le quali mirano alla confisca di «beni e capitali», nonche' degli effetti che esse possono produrre sulle persone coinvolte: in questa prospettiva non e' possibile affermare che il controllo del pubblico non rappresenti una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato. Di conseguenza, ha giudicato «essenziale», ai fini del rispetto del citato art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, che i soggetti coinvolti nelle procedure stesse «si vedano almeno offrire la possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d'appello». Se la Corte Europea si esprimeva in tal modo in tema di misure di prevenzione, che mirano alla confisca di beni e di capitali, a maggior ragione dovrebbe convenirsi che, nel caso di specie, dinanzi a procedure che investono direttamente la «liberta' personale del soggetto», trattandosi di applicazione di misure di sicurezza detentiva, quale la casa di lavoro, ma anche non detentiva, quale la liberta' vigilata, conseguenti alla dichiarazione di delinquenza abituale, debba ritenersi ancor piu' «essenziale» il controllo del pubblico, atto a rappresentare una condizione necessaria alla garanzia del diritti dell'interessato. Dalle affermazioni ora ricordate si ritiene debba necessariamente concludersi che le norme censurate violino, in parte qua, l'art. 117, primo comma, Cost., che, nel nuovo testo introdotto dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali: parametro rispetto al quale - secondo quanto chiarito dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007, Corte costituzionale - le disposizioni della CEDU, nell'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo, assumono il ruolo di «norme intoposte». Peraltro, come ribadito dalla stessa Corte Costituzionale nella sentenza n. 93 del 2010, nell'analizzare il contrasto tra la normativa interna e i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali di fonte convenzionale e, in particolare, con gli obblighi imposti dalle disposizioni della CEDU, «il giudice comune, sempre alla luce dei dieta delle citate sentenze n. 348 e 349 del 2007, non e' abilitato a disapplicare la disciplina interna contrastante con quella convenzionale»; onde non resta alta via, per rimuovere il rilevato contrasto, che quella di sollevare questione di legittimita' costituzionale. Ricorda, infatti, la Corte costituzionale, nella sentenza n. 93 del 2010, che a partire dalle sentenze n. 348 3 e 349 del 2007, la giurisprudenza della Corte e' costante nel ritenere che le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione ed applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) - integrano, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e 311 del 2009, n. 38 del 2008). Nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice nazionale comune deve, quindi, preventivamente verificare la praticabilita' di una interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica (sent. n. 239 del 2009) e, ove tale soluzione risulti impercorribile (non potendo egli disapplicare la norma interna contrastante), deve denunciare la rilevata incompatibilita' proponendo questione di legittimita' costituzionale in riferimento al parametro dianzi indicato. A sua volta, nel procedere al relativo scrutinio, la Corte costituzionale, pur non potendo sindacare l'interpretazione della CEDU data dalla Corte di Strasburgo, resta legittimata a verificare se la norma della Convenzione, come da quella Corte interpretata - norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale - si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: ipotesi eccezionale nella quale dovra' essere esclusa la idoneita' della norma convenzionale a integrare il parametro considerato (sentenze n. 311 del 2009 e n. 348 e n. 349 del 2007). Nel caso di specie, le norme richiamate non consentono una lettura diversa all'interno del vigente quadro normativo, dal quale emerge con chiarezza che il procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza, detentive e non detentive - procedimento del quale la Corte costituzionale ha piu' volte sottolineato il carattere giurisdizionale, ex multis ord. n. 287/2009 - si svolge in camera di consiglio, senza la partecipazione del pubblico. La trattazione della procedura in carnera di consiglio e', infatti, espressamente prevista - con riguardo, rispettivamente, al primo grado e al giudizio di impugnazione davanti al tribunale di sorveglianza - dagli artt. 679, punto 1, 666, punto 3, 678, punto 1 e 127, punto 6, c.p.p. Tale disciplina, in tema di misure di sicurezza, opera, come gia' detto, sia per le misure detentive che per quelle non detentive, sia in primo grado che in grado di appello. Le enunciate affermazioni della Corte europea dei diritti dell'uomo inducono, inoltre, a dubitare della legittimita' costituzionale delle norme censurate anche con riferimento all'art. 111, primo comma, Cost., in forza del quale la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Le norme sottoposte a scrutinio, infatti, vengono a ledere, altresi', l'art. 111, primo comma, Cost., in quanto - a causa della gravita' delle misure adottabili dall'autorita' giudiziaria a seguito delle procedure considerate - l'attribuzione agli interessati della facolta' di richiederne la trattazione in udienza pubblica risulterebbe indispensabile ai fini dell'attuazione di un «equo processo». Sebbene, infatti, il procedimento disciplinato dagli artt. 666, 678, 680 e 127 c.p.p., sia in primo che in secondo grado, appaia strutturato, nel complesso, in maniera tale da assicurare l'effettivita' del diritto di difesa, la previsione del suo svolgimento nella forma dell'udienza camerale non si presenta idoneo a garantire un controllo sull'esercizio dell'attivita' giurisdizionale adeguato alla gravita' dei provvedimenti adottabili, atti ad incidere in modo definitiva sulla liberta' personale dell'interessato, attraverso l'assegnazione alla casa di lavoro, come minimo, per anni due, ovvero al misura della liberta' vigilata, anch'essa indubbiamente di rilevante incidenza sulla liberta' personale. In tale prospettiva, anche ai fini dell'attuazione di un «equo processo», dovrebbe essere prevista la possibilita' di svolgere il procedimento in forma pubblica almeno su richiesta degli interessati. In particolare, se risponde a verita' che il legislatore puo' dettare diverse e differenti procedure processuali, purche' resti garantito il diritto di difesa, ex art. 24 Cost., non puo' revocarsi in dubbio che la gravita' dei provvedimenti adottabili dalla magistratura di sorveglianza nel procedimento di specie in tema di applicazione di misure di sicureza detentive e non detentive, nonche' declaratoria di delinquenza «qualificata», tale da incidere in modo diretto e immediato sulla liberta' personale, necessiti la pubblicita' dell'udienza, quale garanzia di trasparenza dell'attivita' giurisdizionale e attuazione del giusto processo. Quanto, infine, alla rilevanza della questione, essa risulta indubbia, giacche' il difensore dell'interessato, ha espressamente chiesto che il procedimento potesse svolgersi in pubblica udienza. La Corte costituzionale, nella citata sentenza, n. 93 del 2010, precisava che «Tale assetto (in materia di misure di prevenzione) induce, pertanto, a dubitare della compatibilita' della disciplina italiana del procedimento applicativo delle misure di sicurezza con l'art. 6, paragrafo l, della CEDU, il quale stabilisce - per la parte conferente - che «ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata pubblicamente e in un tempo ragionevole, da parte di un tribunale indipendente e imparziale [...]», soggiungendo, altresi', che «il giudizio deve essere pubblico, ma l'ingresso nella sala di udienza puo' essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una societa' democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicita' puo' pregiudicare gli interessi della giustizia». Su tale specifico tema, peraltro, la Corte di Strasburgo segue ormai una giurisprudenza che possiamo dire consolidata, ribadendo che, in tutti i casi in cui possa ravvisarsi una violazione della citata norma della Convenzione, si ritiene, «essenziale», ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma stessa, «che le persone [...] coinvolte in un procedimento ... (camera di consiglio) si vedano almeno offrire la possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d'appello». «A tale conclusione la Corte europea e' pervenuta richiamando, in via preliminare, la propria giurisprudenza, in forza della quale la pubblicita' delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici (tra le altre, sentenza 14 novembre 2000, nella causa Riepan contro Austria). Con la trasparenza che essa conferisce all'amministrazione della giustizia, contribuisce, quindi, a realizzare lo scopo dell'art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l'equo processo (ex plurimis, sentenza 25 luglio 2000, nella causa Tierce e altri contro San Marino). Come attestano le eccezioni previste dalla seconda parte della norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorita' giudiziarie di derogare al principio di pubblicita' dell'udienza, in rapporto alle particolarita' della vicenda sottoposta al loro esame: ma l'udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata, deve essere comunque «strettamente imposta dalle circostanze della causa». La stessa Corte europea ha ritenuto, in effetti, che alcune circostanze eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare - quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso - possano giustificare che si faccia a meno di un'udienza pubblica. Ma nella maggior parte dei casi in cui la Corte e' pervenuta a tale conclusione in rapporto a procedimenti davanti ad autorita' giudiziarie «civili» chiamate a decidere nel merito, il ricorrente aveva avuto, comunque, la possibilita' di sollecitare che la causa fosse trattata in udienza pubblica. La situazione - ha osservato la Corte di Strasburgo - e', tuttavia, diversa quando, sia in primo grado che in appello, una procedura «sul merito» si svolge a porte chiuse in virtu' di una norma generale ed assoluta, senza che la persona soggetta alla giurisdizione fruisca di quella facolta'. Una procedura siffatta non puo' essere, invero, considerata conforme all'art. 6, paragrafo 1, della CEDU, giacche', salvi casi del tutto eccezionali, l'interessato deve avere almeno la possibilita' di chiedere un dibattimento pubblico; richiesta che potra' essere eventualmente disattesa, qualora lo svolgimento a porte chiuse risulti giustificato «dalle circostanze della causa e per i motivi sopra richiamati» (al riguardo, sentenza 12 aprile 2006, nella causa Martinie contro Francia)." Nella sentenza Lorenzetti c. Italia del 14 aprile 2012, recente pronunzia in materia, la Corte Europea ribadisce il principio in esame, sottolineando che «la pubblicita' dei dibattimenti giudiziali costituisce un principio fondamentale consacrato dall'art. 6 § 1 della Convenzione. Con la trasparenza che da' all'amministrazione della giustizia, aiuta a raggiungere lo scopo dell'art. 6 § 1, a sapere il processo equo di cui la garanzia conta tra i principi fondamentali di ogni societa' democratica (vedere, in particolare, Diennet c. Francia, sentenza del 26 settembre 1995, serie Ha n 325-ha, § 33, Gautrin ed altri c. Francia, sentenza del 20 maggio 1998, Raccolta 1998-III, e Hurter c. Svizzera, n. 53146/99, § 26, 15 dicembre 2005. L'art. 6 § 1 non esclude che le giurisdizioni decidono, alla luce della particolarita' della causa sottoposta al loro esame, di derogare a questo principio,: ai termini stessi di questa disposizione, «(...) l'accesso della sala di udienza puo' essere vietato alla stampa ed al pubblico durante la totalita' o una parte del processo nell'interesse della moralita', dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una societa' democratica, quando gli interessi dei minore o la protezione della vita privata delle parti al processo l'esigono, o nella misura giudicata rigorosamente necessario col tribunale, quando nelle circostanze speciali la pubblicita' sarebbe di natura tale da recare offesa agli interessi della giustizia»; l'uscio chiuso, che sia totale o parziale, deve essere comandato allora rigorosamente dalle circostanze della causa, mutatis mutandis, Diennet, precitata». Nello specifico, il trattamento delle cause con la corte di appello e la Corte di cassazione secondo il procedimento in camera di consiglio, a porte chiuse, e' previsto espressamente dalla legge interna e le parti non hanno la possibilita' di chiedere e di ottenere un'udienza pubblica. La Corte ricorda, inoltre, che un'udienza pubblica non puo' essere necessaria tenuto conto delle circostanze eccezionali della causa, in particolare quando questa non solleva di questioni di fatto o di diritto che non possono essere decise sull'unica base della pratica disponibile e le osservazioni delle parti, Schlumpf c. Svizzera, n. 29002/06, § 64, 8 gennaio 2009; Döry, c. Svezia, n. 28394/95, § 37, 12 novembre 2002, Lundevall c. Svezia, n. 38629/97, § 34, 12 novembre 2002, Salomonsson c. Svezia, n. 38978/97, § 34, 12 novembre 2002; vedere anche, mutatis mutandis, Fredin c. Svezia (n. 2), sentenza del 23 febbraio 1994, serie Ha no 283-ha, pp. 10-11, §§ 21-22, e Fischer c. Austria, sentenza del 26 aprile 1995, serie Ha no 312, pp. 20-21, § 44. Tale e' in particolare il caso che si tratta di situazioni che portano su delle questioni altamente tecniche, per esempio il contenzioso della sicurezza sociale, Schuler-Zgraggen c. Svizzera, 24 giugno 1993, § 58, serie Ha, e Döry, precitata. La Corte osserva che questa giurisprudenza riguarda essenzialmente la tenuta di un'udienza in quanto tale e prevede soprattutto il diritto ad esprimersi dinnanzi al tribunale contemplato 6 § 1 all'articolo. Stima tuttavia che le considerazioni analoghe possono applicarsi trattandosi dell'esigenza di pubblicita'. Quando come nel caso di specifico, un'udienza si e' tenuta in virtu' del diritto nazionale, sebbene il diritto ad esprimersi non sia esatto oralmente dalla Convenzione, questa udienza deve in principio essere pubblico. Tuttavia, in un tale caso di figura, delle circostanze eccezionali - ed in particolare il carattere altamente tecnico delle questioni a decidere - possono giustificare la mancanza di pubblicita', purche' la specificita' della materia non esige il controllo del pubblico». Con particolare riguardo alla fattispecie sottoposta al suo esame, la Corte Europea, anche di recente, non ha contestato che in alcuni tipi di procedimento - nel nostro caso in materia di misure di sicurezza - possa presentare «un elevato grado di tecnicita'», in quanto tendente (nel caso di misure patrimoniali) al controllo «delle finanze e dei movimenti di capitali»; ovvero possa coinvolgere «interessi superiori, quali la protezione della vita privata di minori o di terze persone indirettamente interessate dal controllo finanziario». Non e', tuttavia, possibile - secondo la Corte europea - non considerare l'entita' della «posta in gioco» nelle procedure di prevenzione, le quali mirano alla confisca di «beni e capitali», coinvolgendo cosi' direttamente la situazione patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione, nonche' gli effetti che esse possono produrre sulle persone: situazione, questa, a fronte della quale «non si puo' affermare che il controllo del pubblico» - almeno su sollecitazione del soggetto coinvolto - «non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato». Se questo vale per le misure di prevenzione, quando la «posta in gioco» e' la confisca di «beni e capitali», ancor piu' doverosamente dovrebbe valere quando la «posta in gioco» attiene alla liberta' personale del soggetto a giudizio. Vale appella il caso di ricordare, del resto, che la pronunzia del magistrato di sorveglianza non segue immediatamente la commissione di fatti-reato, ma puo' intervenire anche dopo notevole lasso di tempo dai fatti commessi - infatti la dichiarazione di delinquenza abituale non consegue al singolo fatto reato - stante la possibilita' di azione in base ad una valutazione operata sulla scorta delle sentenze di condanna, come emergenti dal certificato penale e attualizzata dall'accertamento della pericolosita' sociale dell'interessato. Accade, pertanto, che l'aggressione alla liberta' personale avvenga anche a distanza di anni dai fatti commessi con evidente traumatica incidenza sulla liberta' personale, della quale non puo' non tenersi conto ai fini della tutela della garanzia dei diritti della persona, alla luce dei consolidati orientamenti giurisprudenziali, sia nazionali che sovranazionali. D'altro canto, vanno colte le specifiche peculiarita' del procedimento di sicurezza, che valgono a differenziarlo da un complesso di altre procedure camerali. Si tratta, infatti, di un procedimento all'esito del quale il giudice e' chiamato ad esprimere un giudizio di merito, inerente la sussistenza e l'attualita' della pericolosita' sociale del prevenuto, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale sulla liberta' personale, bene primario e diritto fondamentale dell'individuo, costituzionalmente tutelato. Il che conferisce specifico risalto alle esigenze alla cui soddisfazione principio di pubblicita' delle udienze e' preordinato. Al riguardo, peraltro, va senz'altro escluso che la norma internazionale, cosi' come interpretata dalla Corte europea, contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione. L'assenza di un esplicito richiamo in Costituzione non scalfisce, in effetti, il valore costituzionale del principio di pubblicita' delle udienze giudiziarie: principio che - consacrato anche in altri strumenti internazionali, quale, in particolare, il Patto internazionale di New York relativo ai diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881 (art. 14) - trova oggi ulteriore conferma nell'art. 47, paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall'art. 6, paragrafo 1, del Trattato sull'Unione europea, nella versione consolidata derivante dalle modifiche ad esso apportate dal Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009. La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 93/2010, puntualizza che ha avuto modo, in effetti, di affermare in piu' occasioni che la pubblicita' del giudizio, specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranita' popolare, cui deve conformarsi l'amministrazione della giustizia, la quale - in forza dell'art. 101, primo comma, Cost. - trova in quella sovranita' la sua legittimazione (sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991; n. 50 del 1989; n. 212 del 1986.). Il principio non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative, purche', tuttavia, obiettive e razionali, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale. Sotto diverso profilo, deve altrettanto correttamente escludersi che sia possibile allineare la disciplina censurata alle pronunce della Corte europea per via d'interpretazione in particolare, va escluso che a tale risultato si possa pervenire per il tramite dell'applicazione analogica - al procedimento di sicurezza - dell'art. 441, comma 3, cod. proc. pen., il quale prevede che il giudizio abbreviato - normalmente trattato in camera di consiglio - si svolga in udienza pubblica, quando ne facciano richiesta tutti gli imputati. Va rilevato, infatti, che difettano le condizioni legittimanti tale operazione ermeneutica, sia perche' il ricorso all'analogia presuppone il riconoscimento di un vuoto normativo, qui non ravvisabile in presenza di una specifica disposizione contraria (il citato art. 127, punto 6, c.p.p.); sia a fronte delle marcate differenze strutturali e funzionali dei procedimenti in questione (giudizio abbreviato e procedimento di sicurezza). Rebus sic stantibus si deve trarre la necessaria conseguenza che le norme censurate violano, in parte qua, l'art. 117, primo comma, Cost. e 111, primo comma Cost. Sentito il conforme parere del PM;
P. Q. M. Visti gli artt. 134 Cost., 23 e ss. l. 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per violazione degli artt. 117, primo comma, Cost, e 111, primo comma, Cost., la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 678, punto 1, 679, punto 1, e 666, punto 3, c.p.p., nella parte in cui non consentono che la procedura di applicazione delle misure di sicurezza si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme della pubblica udienza. Sospende la procedura e ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che a cura della Cancelleria la presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati. Manda alla Cancelleria per adempimenti di rito. Napoli, 21 novembre 2012 Il Magistrato di sorveglianza: Di Giovanni