N. 17 ORDINANZA (Atto di promovimento) 29 novembre 2012

Ordinanza del 29 novembre 2012 emessa dal Magistrato di  sorveglianza
di Napoli nel procedimento relativo a Z. U.. 
 
Processo penale  -  Procedura  per  l'applicazione  delle  misure  di
  sicurezza - Svolgimento, su istanza degli interessati, nelle  forme
  dell'udienza pubblica - Contrasto con il principio  di  pubblicita'
  dei procedimenti giudiziari, sancito dall'art. 6 della  Convenzione
  europea per la salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  (CEDU),  come
  interpretato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo - Violazione
  del principio del giusto processo - Richiamo  alla  sentenza  della
  Corte costituzionale n. 93 del 2010. 
- Codice di procedura penale, artt. 678, comma 1,  679,  comma  1,  e
  666, comma 3. 
- Costituzione, artt. 111,  primo  comma,  e  117,  primo  comma,  in
  relazione all'art. 6 della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
  diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali. 
(GU n.7 del 13-2-2013 )
 
                    IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA 
 
    Letti gli atti; 
    Nel procedimento di sicurezza per la  decisione  sulla  eventuale
dichiarazione di abitualita' nel reato, aperto ex officio  e  fissato
all'udienza odierna, 21 novembre 2012, nei  confronti  di  Z.  U.  n.
24.12.2970, la difesa chiedeva che la procedura venisse  trattata  in
forma pubblica. 
    L'istanza non puo' trovare accoglimento alla luce della normativa
vigente. 
    Sul punto, ritiene questo  giudice,  eccepire  la  illegittimita'
costituzionale degli articoli che regolamentano  il  procedimento  di
sicurezza. 
    Ed invero, l'art. 679, punto 1, c.p.p. attribuisce al  magistrato
di sorveglianza la competenza ad intervenire in materia di misure  di
sicurezza, «su richiesta del pubblico ministero o di ufficio, accerta
se  l'interessato  e  persona  soxialmente  pericolosa  e  adotta   i
provvediemtni conseguenti, premessa, ove occorra, la dichiarazione di
abitualita' o professionalita' nel reato». 
    Quanto al rito adottato, l'art. 678, punto 1, c.p.p. dispone  che
«Il tribunale di  sorveglianza  nelle  materie  di  competenza  e  il
magistrato di sorveglianza nelle materie attinenti ... alle misure di
sicurezza ... e alla dichiarazione di abitualita' o  professionalita'
nel  reato  ...,  procedono,  a  richiesta  del  pubblico  ministero,
dell'interessato, del difensore o di ufficio, a norma dell'art. 666». 
    A sua volta, l'art. 666,  punto  3,  c.p.p.  sul  punto  sancisce
espressamente che ... «il  giudice  o  il  presidente  del  collegio,
designato il difensore fissa la data della camera di consiglio  e  ne
fa dare avviso alle parti e al difensore». 
    Il  dettato  normativo  risulta,   pertanto,   inequivoco   nello
stabilire che il procedimento  per  l'applicazione  delle  misure  di
sicurezza, detentive quanto non detentive, abbia luogo «in camera  di
consiglio»: formula che - alla luce di  un  consolidato  orientamento
della giurisprudenza di legittimita',  nonche'  di  espresso  dettato
normativo - implica attualmente un rinvio  alla  disciplina  generale
dettata dall'art. 127 c.p.p.,  il  quale  prevede  espressamente,  al
punto 6, che l'udienza in camera di  consiglio  -  e,  dunque,  anche
quella del procedimento che interessa - si svolge «senza la  presenza
del pubblico». 
    La  previsione  per  cui  la  procedura  si  svolge  «in   camera
consiglio» comporta,  infatti,  -  in  conformita'  ad  un  indirizzo
interpretativo avallato anche dalle  sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione (sentenza 28 maggio 2003-18 giugno  2003,  n.  26156)  per
cui, il descritto dall'art. 127 c.p.p., deve  «applicarsi  anche  nei
casi in cui il legislatore, nel prescrivere che  il  procedimento  si
svolga in "camera di  consiglio",  senza  regolamentarne  particolari
diversita' di struttura, ometta di  fare  espresso  riferimento  alle
forme dell'art. 127 del codice di rito»  -  l'operativita',  ove  non
diversamente  disposto,  della  disciplina  generale  in  materia  di
«procedimento in camera di consiglio» dettata dall'art.  127  c.p.p.:
e, dunque - in mancanza di previsioni derogatorie sul punto  -  anche
della disposizione del punto 6 di tale articolo, in forzi della quale
«l'udienza si svolge senza la presenza del pubblico». 
    Va  doverosamente  segnalato,  altresi',   che   la   pubblicita'
dell'udienza non puo' essere consentita neppure nell'appello  innanzi
il tribunale di sorveglianza avverso la decisione del  magistrato  di
sorveglianza, ex art. 680,  punto  1,  c.p.p.  o  nelle  impugnazioni
contro  sentenze  di  condanna  o  di  proscioglimento,  avverso  «le
disposizioni che riguardano le misure di sicurezza» di  cui  all'art.
680, punto 2, c.p.p. 
    Infatti, la competenza  a  decidere  sull'eventuale  impugnazione
spetta al tribunale di sorveglianza, ai sensi dell'art.  680  c.p.p.,
tribunale che procede nelle medesime forme processuali  riservate  al
magistrato di sorveglianza, a mente dell'art. 678, punto  1,  c.p.p.,
sopra gia' richiamato: «Il tribunale di sorveglianza nelle materie di
sua competenza ... (procede) a norma dell'art. 666». 
    Motivo per il quale va respinta anche la eventualita' del ricorso
alla regola della «pubblicita' differita», che evidentemente nel caso
di specie e' normativamente espunta. 
    Pertanto,  non  puo'  ragionevolmente  escludersi  che  le  norme
censurate - prevedendo che le procedure per l'applicazione di  misure
di sicurezza si  svolgano,  senza  alcuna  eccezione,  in  camera  di
consiglio e, dunque, senza la partecipazione del pubblico  -  violino
l'art. 117, primo comma, della Costituzione, ponendosi  in  contrasto
con il principio di pubblicita' dei procedimenti giudiziari,  sancito
dall'art.  6,  paragrafo  1,  della  Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), cosi' come  interpretato  dalla  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo. 
    Secondo la Corte di Strasburgo, invero, alla luce  di  una  ormai
consolidata giurisprudenza, - pur  a  fronte  dell'elevato  grado  di
tecnicismo proprio di taluni procedimenti e delle esigenze,  in  essi
sovente  presenti,  di  protezione  della  vita  privata   di   terzi
indirettamente interessati - l'entita' della «posta in gioco»  e  gli
effetti  che  le  procedure  stesse  possono  produrre  impongono  di
ritenere  che  il  controllo  del   pubblico   sull'esercizio   della
giurisdizione rappresenti  una  condizione  necessaria  ai  fini  del
rispetto dei diritti dei soggetti  coinvolti,  onde  dovrebbe  essere
offerta ai  medesimi  «almeno  la  possibilita'  di  sollecitare  una
pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei  tribunali  e
delle corti d'appello» competenti. 
    Cio' premesso, occorre rilevare che, con recenti  pronunce  -  la
sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia,  sentenza
8 luglio 2008, Pierre ed altri contro Italia,  nonche',  sentenza  14
aprile 2012, Lorenzetti contro Italia - la Corte europea dei  diritti
dell'uomo, decidendo per altre materie, ha affermato che la procedura
«in camera di  consiglio»,  ovvero  senza  pubblicita',  si  pone  in
contrasto, sotto il profilo considerato, con l'art. 6,  paragrafo  1,
della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il  4  novembre  1950  e
resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848, nella parte
in cui prescrive che «ogni persona ha diritto a che la sua causa  sia
esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da
un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, il quale
decidera' sia  delle  controversie  sui  suoi  diritti  e  doveri  di
carattere civile, sia della fondatezza di ogni causa  penale  che  le
venga rivolta...». 
    Richiamando la propria giurisprudenza,  la  Corte  di  Strasburgo
ribadiva,  peraltro,  in  tema  di  misure  di  prevenzione,  che  la
pubblicita' delle procedure giudiziarie, garantita dalla citata norma
della Convenzione, tutela le persone soggette  ad  una  giurisdizione
contro una «giustizia segreta», che sfugge al controllo del pubblico,
e costituisce uno dei mezzi idonei  per  preservare  la  fiducia  nei
giudici. Con particolare riguardo a taluni procedimenti, la Corte non
ha negato validita' ai rilievi svolti,  per  giustificare  la  deroga
alla pubblicita' delle udienze: e, cioe' - nel caso allora in esame -
che le procedure per l'applicazione delle misure di prevenzione -  in
specie  patrimoniali  -  possono  assumere  un  carattere   altamente
tecnico, in quanto basate  essenzialmente  su  documenti  e  indagini
finanziarie, e  possono  implicare,  al  tempo  stesso,  esigenze  di
protezione  della  vita  privata  di  terze  persone,  anche  minori,
coinvolte quali intestatari formali dei beni.  La  Corte  europea  ha
rilevato, tuttavia, che e' necessario tener  conto  della  «posta  in
gioco» nelle procedure in esame, le quali  mirano  alla  confisca  di
«beni e capitali», nonche' degli effetti che  esse  possono  produrre
sulle persone coinvolte:  in  questa  prospettiva  non  e'  possibile
affermare  che  il  controllo  del  pubblico  non   rappresenti   una
condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell'interessato.  Di
conseguenza, ha giudicato «essenziale»,  ai  fini  del  rispetto  del
citato art.  6,  paragrafo  1,  della  Convenzione,  che  i  soggetti
coinvolti  nelle  procedure  stesse  «si  vedano  almeno  offrire  la
possibilita' di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni
specializzate dei tribunali e delle corti d'appello». 
    Se la Corte Europea si esprimeva in tal modo in tema di misure di
prevenzione, che mirano alla  confisca  di  beni  e  di  capitali,  a
maggior ragione dovrebbe convenirsi che, nel caso di specie,  dinanzi
a procedure che investono direttamente  la  «liberta'  personale  del
soggetto»,  trattandosi  di  applicazione  di  misure  di   sicurezza
detentiva, quale la casa di lavoro, ma anche non detentiva, quale  la
liberta' vigilata,  conseguenti  alla  dichiarazione  di  delinquenza
abituale, debba ritenersi ancor piu' «essenziale»  il  controllo  del
pubblico,  atto  a  rappresentare  una  condizione  necessaria   alla
garanzia del diritti dell'interessato. 
    Dalle affermazioni ora ricordate si ritiene debba necessariamente
concludersi che le norme censurate violino, in parte qua, l'art. 117,
primo comma, Cost., che,  nel  nuovo  testo  introdotto  dalla  legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche  al  titolo  V  della
parte seconda della Costituzione), impone al legislatore il  rispetto
dei  vincoli  derivanti  dagli  obblighi  internazionali:   parametro
rispetto al quale - secondo quanto chiarito dalle sentenze n.  348  e
349 del 2007, Corte costituzionale  -  le  disposizioni  della  CEDU,
nell'interpretazione datane dalla Corte di  Strasburgo,  assumono  il
ruolo di «norme intoposte». 
    Peraltro, come ribadito dalla stessa Corte  Costituzionale  nella
sentenza  n.  93  del  2010,  nell'analizzare  il  contrasto  tra  la
normativa interna e i vincoli derivanti dagli obblighi internazionali
di fonte convenzionale e, in particolare, con  gli  obblighi  imposti
dalle disposizioni della CEDU, «il giudice comune, sempre  alla  luce
dei dieta delle citate sentenze  n.  348  e  349  del  2007,  non  e'
abilitato a  disapplicare  la  disciplina  interna  contrastante  con
quella convenzionale»; onde non resta  alta  via,  per  rimuovere  il
rilevato contrasto, che quella di sollevare questione di legittimita'
costituzionale. 
    Ricorda, infatti, la Corte costituzionale, nella sentenza  n.  93
del 2010, che a partire dalle sentenze n. 348 3 e 349  del  2007,  la
giurisprudenza della Corte e' costante  nel  ritenere  che  le  norme
della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per  dare   ad   esse
interpretazione  ed  applicazione  (art.  32,  paragrafo   1,   della
Convenzione) - integrano,  quali  «norme  interposte»,  il  parametro
costituzionale espresso dall'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  nella
parte in cui impone la conformazione della  legislazione  interna  ai
vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317  e
311 del 2009, n. 38 del 2008). 
    Nel caso in cui si profili un eventuale contrasto tra  una  norma
interna e una norma della CEDU, il  giudice  nazionale  comune  deve,
quindi,  preventivamente  verificare   la   praticabilita'   di   una
interpretazione  della  prima  conforme  alla  norma   convenzionale,
ricorrendo a tutti  i  normali  strumenti  di  ermeneutica  giuridica
(sent. n. 239 del 2009) e, ove tale soluzione risulti  impercorribile
(non potendo egli disapplicare la norma interna  contrastante),  deve
denunciare  la  rilevata  incompatibilita'  proponendo  questione  di
legittimita'  costituzionale  in  riferimento  al  parametro   dianzi
indicato. 
    A sua volta,  nel  procedere  al  relativo  scrutinio,  la  Corte
costituzionale, pur non  potendo  sindacare  l'interpretazione  della
CEDU data dalla Corte di Strasburgo, resta legittimata  a  verificare
se la norma della Convenzione, come da quella  Corte  interpretata  -
norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale - si
ponga eventualmente in conflitto con altre norme della  Costituzione:
ipotesi eccezionale nella quale dovra' essere  esclusa  la  idoneita'
della  norma  convenzionale  a  integrare  il  parametro  considerato
(sentenze n. 311 del 2009 e n. 348 e n. 349 del 2007). 
    Nel caso di  specie,  le  norme  richiamate  non  consentono  una
lettura diversa all'interno del vigente quadro normativo,  dal  quale
emerge con chiarezza che il  procedimento  per  l'applicazione  delle
misure di sicurezza, detentive e non  detentive  -  procedimento  del
quale la Corte costituzionale ha piu' volte sottolineato il carattere
giurisdizionale, ex multis ord. n. 287/2009 - si svolge in camera  di
consiglio, senza la partecipazione del pubblico. 
    La trattazione  della  procedura  in  carnera  di  consiglio  e',
infatti, espressamente prevista - con riguardo,  rispettivamente,  al
primo grado e al giudizio di impugnazione  davanti  al  tribunale  di
sorveglianza - dagli artt. 679, punto 1, 666, punto 3, 678, punto 1 e
127, punto 6, c.p.p. Tale disciplina, in tema di misure di sicurezza,
opera, come gia' detto, sia per le misure detentive  che  per  quelle
non detentive, sia in primo grado che in grado di appello. 
    Le  enunciate  affermazioni  della  Corte  europea  dei   diritti
dell'uomo  inducono,   inoltre,   a   dubitare   della   legittimita'
costituzionale delle norme censurate anche con  riferimento  all'art.
111, primo comma, Cost., in forza del quale la giurisdizione si attua
mediante il giusto processo regolato dalla legge. 
    Le norme sottoposte  a  scrutinio,  infatti,  vengono  a  ledere,
altresi', l'art. 111, primo comma, Cost., in quanto - a  causa  della
gravita' delle misure adottabili dall'autorita' giudiziaria a seguito
delle procedure considerate - l'attribuzione agli  interessati  della
facolta'  di  richiederne  la   trattazione   in   udienza   pubblica
risulterebbe indispensabile  ai  fini  dell'attuazione  di  un  «equo
processo». 
    Sebbene, infatti, il procedimento disciplinato dagli  artt.  666,
678, 680 e 127 c.p.p., sia in primo  che  in  secondo  grado,  appaia
strutturato,  nel  complesso,   in   maniera   tale   da   assicurare
l'effettivita'  del  diritto  di  difesa,  la  previsione   del   suo
svolgimento nella forma dell'udienza camerale non si presenta  idoneo
a    garantire    un    controllo    sull'esercizio    dell'attivita'
giurisdizionale adeguato alla gravita' dei provvedimenti  adottabili,
atti  ad  incidere  in  modo  definitiva  sulla  liberta'   personale
dell'interessato, attraverso l'assegnazione alla casa di lavoro, come
minimo, per anni due,  ovvero  al  misura  della  liberta'  vigilata,
anch'essa  indubbiamente  di  rilevante  incidenza   sulla   liberta'
personale. 
    In tale prospettiva, anche ai fini dell'attuazione  di  un  «equo
processo», dovrebbe essere prevista la possibilita'  di  svolgere  il
procedimento in forma pubblica almeno su richiesta degli interessati. 
    In particolare, se risponde a verita'  che  il  legislatore  puo'
dettare diverse e differenti  procedure  processuali,  purche'  resti
garantito il diritto di difesa, ex art. 24 Cost., non puo'  revocarsi
in  dubbio  che  la  gravita'  dei  provvedimenti  adottabili   dalla
magistratura di sorveglianza nel procedimento di specie  in  tema  di
applicazione di misure di sicureza detentive e non detentive, nonche'
declaratoria di delinquenza «qualificata», tale da incidere  in  modo
diretto  e  immediato  sulla   liberta'   personale,   necessiti   la
pubblicita'   dell'udienza,    quale    garanzia    di    trasparenza
dell'attivita' giurisdizionale e attuazione del giusto processo. 
    Quanto, infine, alla  rilevanza  della  questione,  essa  risulta
indubbia, giacche' il difensore  dell'interessato,  ha  espressamente
chiesto che il procedimento potesse svolgersi in pubblica udienza. 
    La Corte costituzionale, nella citata sentenza, n. 93  del  2010,
precisava che «Tale assetto (in materia  di  misure  di  prevenzione)
induce, pertanto, a dubitare della  compatibilita'  della  disciplina
italiana del procedimento applicativo delle misure di  sicurezza  con
l'art. 6, paragrafo l, della CEDU, il quale stabilisce - per la parte
conferente - che «ogni persona  ha  diritto  che  la  sua  causa  sia
esaminata pubblicamente e in un tempo ragionevole,  da  parte  di  un
tribunale indipendente e imparziale [...]»,  soggiungendo,  altresi',
che «il giudizio deve essere pubblico, ma l'ingresso  nella  sala  di
udienza puo' essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o
parte del processo nell'interesse della morale, dell'ordine  pubblico
o della sicurezza nazionale in una societa'  democratica,  quando  lo
esigono gli interessi dei minori o la protezione della  vita  privata
delle  parti  in  causa,  o  nella  misura   giudicata   strettamente
necessaria  dal  tribunale,  quando  in   circostanze   speciali   la
pubblicita' puo' pregiudicare gli interessi della giustizia». 
    Su tale specifico tema, peraltro, la Corte  di  Strasburgo  segue
ormai una giurisprudenza che  possiamo  dire  consolidata,  ribadendo
che, in tutti i casi in cui possa  ravvisarsi  una  violazione  della
citata norma della Convenzione, si  ritiene,  «essenziale»,  ai  fini
della realizzazione della garanzia prefigurata  dalla  norma  stessa,
«che le persone [...] coinvolte in un  procedimento  ...  (camera  di
consiglio) si vedano almeno offrire la  possibilita'  di  sollecitare
una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali
e delle corti d'appello». 
    «A tale conclusione la Corte europea e' pervenuta richiamando, in
via preliminare, la propria giurisprudenza, in forza della  quale  la
pubblicita' delle procedure giudiziarie tutela  le  persone  soggette
alla giurisdizione  contro  una  giustizia  segreta,  che  sfugge  al
controllo  del  pubblico  e  costituisce  anche  uno  strumento   per
preservare la fiducia nei giudici (tra le altre, sentenza 14 novembre
2000, nella causa Riepan contro Austria). Con la trasparenza che essa
conferisce all'amministrazione della giustizia, contribuisce, quindi,
a realizzare lo scopo dell'art. 6, paragrafo  1,  della  CEDU:  ossia
l'equo processo (ex plurimis, sentenza 25 luglio  2000,  nella  causa
Tierce e altri contro San Marino). 
    Come attestano le eccezioni previste dalla  seconda  parte  della
norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorita'  giudiziarie
di derogare al principio di  pubblicita'  dell'udienza,  in  rapporto
alle particolarita'  della  vicenda  sottoposta  al  loro  esame:  ma
l'udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata, deve essere
comunque «strettamente imposta dalle  circostanze  della  causa».  La
stessa Corte europea ha ritenuto, in effetti, che alcune  circostanze
eccezionali, attinenti alla natura  delle  questioni  da  trattare  -
quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso -
possano giustificare che si faccia a meno di un'udienza pubblica.  Ma
nella maggior parte dei casi in cui la  Corte  e'  pervenuta  a  tale
conclusione  in  rapporto  a  procedimenti   davanti   ad   autorita'
giudiziarie «civili» chiamate a decidere nel  merito,  il  ricorrente
aveva avuto, comunque, la possibilita' di sollecitare  che  la  causa
fosse trattata in udienza pubblica. 
    La situazione -  ha  osservato  la  Corte  di  Strasburgo  -  e',
tuttavia, diversa quando, sia in primo  grado  che  in  appello,  una
procedura «sul merito» si svolge a porte  chiuse  in  virtu'  di  una
norma generale ed  assoluta,  senza  che  la  persona  soggetta  alla
giurisdizione fruisca di quella facolta'. Una procedura siffatta  non
puo' essere, invero, considerata conforme all'art.  6,  paragrafo  1,
della CEDU, giacche', salvi casi del tutto eccezionali, l'interessato
deve  avere  almeno  la  possibilita'  di  chiedere  un  dibattimento
pubblico;  richiesta  che  potra'  essere  eventualmente   disattesa,
qualora lo svolgimento a porte  chiuse  risulti  giustificato  «dalle
circostanze  della  causa  e  per  i  motivi  sopra  richiamati»  (al
riguardo, sentenza  12  aprile  2006,  nella  causa  Martinie  contro
Francia)." 
    Nella sentenza Lorenzetti c. Italia del 14 aprile  2012,  recente
pronunzia in materia, la Corte  Europea  ribadisce  il  principio  in
esame, sottolineando che «la pubblicita' dei dibattimenti  giudiziali
costituisce un principio fondamentale  consacrato  dall'art.  6  §  1
della Convenzione. Con la  trasparenza  che  da'  all'amministrazione
della giustizia, aiuta a raggiungere lo scopo  dell'art.  6  §  1,  a
sapere il processo equo di cui  la  garanzia  conta  tra  i  principi
fondamentali di ogni societa' democratica  (vedere,  in  particolare,
Diennet c. Francia, sentenza  del  26  settembre  1995,  serie  Ha  n
325-ha, § 33, Gautrin ed altri c. Francia,  sentenza  del  20  maggio
1998, Raccolta 1998-III, e Hurter c. Svizzera, n. 53146/99, § 26,  15
dicembre 2005. 
    L'art. 6 § 1 non esclude che le giurisdizioni decidono, alla luce
della  particolarita'  della  causa  sottoposta  al  loro  esame,  di
derogare  a  questo  principio,:  ai   termini   stessi   di   questa
disposizione, «(...) l'accesso della  sala  di  udienza  puo'  essere
vietato alla stampa ed al pubblico durante la totalita' o  una  parte
del processo nell'interesse della moralita', dell'ordine  pubblico  o
della sicurezza nazionale in una  societa'  democratica,  quando  gli
interessi dei minore o la protezione della vita privata  delle  parti
al  processo  l'esigono,  o  nella  misura  giudicata   rigorosamente
necessario  col  tribunale,  quando  nelle  circostanze  speciali  la
pubblicita' sarebbe di natura tale da recare  offesa  agli  interessi
della giustizia»; l'uscio chiuso, che sia  totale  o  parziale,  deve
essere comandato allora rigorosamente dalle circostanze della  causa,
mutatis mutandis, Diennet, precitata». 
    Nello specifico, il trattamento  delle  cause  con  la  corte  di
appello e la Corte di cassazione secondo il procedimento in camera di
consiglio, a porte chiuse,  e'  previsto  espressamente  dalla  legge
interna e le parti  non  hanno  la  possibilita'  di  chiedere  e  di
ottenere un'udienza pubblica. 
    La Corte ricorda,  inoltre,  che  un'udienza  pubblica  non  puo'
essere necessaria tenuto conto delle  circostanze  eccezionali  della
causa, in particolare quando questa non solleva di questioni di fatto
o di diritto che non possono  essere  decise  sull'unica  base  della
pratica disponibile  e  le  osservazioni  delle  parti,  Schlumpf  c.
Svizzera, n. 29002/06, § 64, 8 gennaio  2009;  Döry,  c.  Svezia,  n.
28394/95, § 37, 12 novembre 2002, Lundevall c. Svezia, n. 38629/97, §
34, 12 novembre 2002, Salomonsson c. Svezia, n. 38978/97,  §  34,  12
novembre 2002; vedere anche, mutatis mutandis, Fredin c.  Svezia  (n.
2), sentenza del 23 febbraio 1994, serie Ha no 283-ha, pp. 10-11,  §§
21-22, e Fischer c. Austria, sentenza del 26 aprile 1995, serie Ha no
312, pp. 20-21, § 44. Tale e' in particolare il caso che si tratta di
situazioni che portano su delle  questioni  altamente  tecniche,  per
esempio il contenzioso della sicurezza sociale,  Schuler-Zgraggen  c.
Svizzera, 24 giugno 1993, § 58, serie Ha, e Döry, precitata. 
    La   Corte   osserva   che   questa    giurisprudenza    riguarda
essenzialmente la tenuta di  un'udienza  in  quanto  tale  e  prevede
soprattutto  il  diritto  ad   esprimersi   dinnanzi   al   tribunale
contemplato 6 § 1 all'articolo. Stima tuttavia che le  considerazioni
analoghe possono applicarsi trattandosi dell'esigenza di pubblicita'.
Quando come nel caso di specifico, un'udienza si e' tenuta in  virtu'
del diritto nazionale, sebbene  il  diritto  ad  esprimersi  non  sia
esatto oralmente dalla Convenzione, questa udienza deve in  principio
essere  pubblico.  Tuttavia,  in  un  tale  caso  di  figura,   delle
circostanze eccezionali - ed in particolare  il  carattere  altamente
tecnico delle questioni a decidere - possono giustificare la mancanza
di pubblicita', purche' la specificita' della materia  non  esige  il
controllo del pubblico». 
    Con particolare  riguardo  alla  fattispecie  sottoposta  al  suo
esame, la Corte Europea, anche di recente, non ha contestato  che  in
alcuni tipi di procedimento - nel nostro caso in materia di misure di
sicurezza - possa presentare «un elevato  grado  di  tecnicita'»,  in
quanto tendente (nel caso di misure patrimoniali) al controllo «delle
finanze e  dei  movimenti  di  capitali»;  ovvero  possa  coinvolgere
«interessi superiori, quali  la  protezione  della  vita  privata  di
minori o di terze persone indirettamente  interessate  dal  controllo
finanziario». 
    Non e', tuttavia, possibile - secondo  la  Corte  europea  -  non
considerare l'entita' della  «posta  in  gioco»  nelle  procedure  di
prevenzione, le quali mirano alla  confisca  di  «beni  e  capitali»,
coinvolgendo cosi'  direttamente  la  situazione  patrimoniale  della
persona soggetta  a  giurisdizione,  nonche'  gli  effetti  che  esse
possono produrre sulle persone: situazione, questa,  a  fronte  della
quale «non si puo' affermare che il controllo del pubblico» -  almeno
su sollecitazione del soggetto coinvolto - «non  sia  una  condizione
necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato». 
    Se questo vale per le misure di prevenzione, quando la «posta  in
gioco» e' la confisca di «beni e capitali», ancor piu'  doverosamente
dovrebbe valere quando la «posta  in  gioco»  attiene  alla  liberta'
personale del soggetto a giudizio. 
    Vale appella il caso di ricordare, del resto,  che  la  pronunzia
del  magistrato  di  sorveglianza   non   segue   immediatamente   la
commissione di fatti-reato, ma puo' intervenire anche  dopo  notevole
lasso di tempo dai fatti  commessi  -  infatti  la  dichiarazione  di
delinquenza abituale non consegue al singolo fatto reato - stante  la
possibilita' di azione in  base  ad  una  valutazione  operata  sulla
scorta delle sentenze di condanna,  come  emergenti  dal  certificato
penale e attualizzata dall'accertamento della  pericolosita'  sociale
dell'interessato. Accade, pertanto, che l'aggressione  alla  liberta'
personale avvenga anche a distanza di anni  dai  fatti  commessi  con
evidente traumatica incidenza sulla liberta' personale,  della  quale
non puo' non tenersi conto ai fini della tutela  della  garanzia  dei
diritti  della  persona,  alla  luce  dei  consolidati   orientamenti
giurisprudenziali, sia nazionali che sovranazionali. 
    D'altro  canto,  vanno  colte  le  specifiche  peculiarita'   del
procedimento  di  sicurezza,  che  valgono  a  differenziarlo  da  un
complesso di altre procedure camerali.  Si  tratta,  infatti,  di  un
procedimento all'esito del quale il giudice e' chiamato ad  esprimere
un giudizio di merito, inerente la sussistenza e  l'attualita'  della
pericolosita' sociale del  prevenuto,  idoneo  ad  incidere  in  modo
diretto, definitivo e  sostanziale  sulla  liberta'  personale,  bene
primario e diritto  fondamentale  dell'individuo,  costituzionalmente
tutelato. 
    Il che  conferisce  specifico  risalto  alle  esigenze  alla  cui
soddisfazione principio di pubblicita' delle udienze e' preordinato. 
    Al  riguardo,  peraltro,  va  senz'altro  escluso  che  la  norma
internazionale,  cosi'  come  interpretata   dalla   Corte   europea,
contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione. 
    L'assenza di un esplicito richiamo in Costituzione non scalfisce,
in effetti, il valore costituzionale  del  principio  di  pubblicita'
delle udienze giudiziarie: principio che - consacrato anche in  altri
strumenti   internazionali,   quale,   in   particolare,   il   Patto
internazionale di New York relativo ai  diritti  civili  e  politici,
adottato il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo con  legge  25  ottobre
1977, n. 881 (art. 14) - trova oggi ulteriore conferma nell'art.  47,
paragrafo 2, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea
(cosiddetta Carta di Nizza), recepita dall'art. 6, paragrafo  1,  del
Trattato sull'Unione europea, nella  versione  consolidata  derivante
dalle modifiche ad esso apportate dal  Trattato  di  Lisbona  del  13
dicembre 2007 ed entrata in vigore il 1° dicembre 2009. 
    La  stessa  Corte  costituzionale,  nella  sentenza  n.  93/2010,
puntualizza che ha avuto modo,  in  effetti,  di  affermare  in  piu'
occasioni che la pubblicita' del giudizio, specie di  quello  penale,
costituisce  principio  connaturato  ad  un  ordinamento  democratico
fondato   sulla   sovranita'   popolare,   cui    deve    conformarsi
l'amministrazione della giustizia, la quale - in forza dell'art. 101,
primo comma, Cost. - trova in quella sovranita' la sua legittimazione
(sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991; n. 50 del 1989; n. 212 del
1986.). 
    Il principio non ha valore assoluto, potendo cedere  in  presenza
di particolari ragioni giustificative, purche', tuttavia, obiettive e
razionali, collegate ad  esigenze  di  tutela  di  beni  a  rilevanza
costituzionale. 
    Sotto diverso profilo, deve altrettanto correttamente  escludersi
che sia possibile allineare la  disciplina  censurata  alle  pronunce
della Corte europea per  via  d'interpretazione  in  particolare,  va
escluso che a tale  risultato  si  possa  pervenire  per  il  tramite
dell'applicazione  analogica  -  al  procedimento  di   sicurezza   -
dell'art. 441, comma 3, cod. proc. pen.,  il  quale  prevede  che  il
giudizio abbreviato - normalmente trattato in camera di  consiglio  -
si svolga in udienza pubblica, quando ne facciano richiesta tutti gli
imputati. 
    Va rilevato, infatti, che difettano  le  condizioni  legittimanti
tale operazione ermeneutica,  sia  perche'  il  ricorso  all'analogia
presuppone  il  riconoscimento  di  un  vuoto  normativo,   qui   non
ravvisabile in presenza di una specifica disposizione  contraria  (il
citato art. 127,  punto  6,  c.p.p.);  sia  a  fronte  delle  marcate
differenze strutturali e funzionali  dei  procedimenti  in  questione
(giudizio abbreviato e procedimento di sicurezza). 
    Rebus sic stantibus si deve trarre la necessaria conseguenza  che
le norme censurate violano, in parte qua, l'art.  117,  primo  comma,
Cost. e 111, primo comma Cost. 
    Sentito il conforme parere del PM; 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visti gli artt. 134 Cost., 23 e ss. l. 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata, per violazione
degli artt. 117, primo comma, Cost, e 111,  primo  comma,  Cost.,  la
questione di legittimita' costituzionale degli artt.  678,  punto  1,
679, punto 1, e  666,  punto  3,  c.p.p.,  nella  parte  in  cui  non
consentono che la procedura di applicazione delle misure di sicurezza
si svolga, su istanza degli interessati, nelle forme  della  pubblica
udienza. 
    Sospende la procedura e ordina la trasmissione  degli  atti  alla
Corte costituzionale; 
    Ordina che a cura della Cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
notificata al Presidente del Consiglio dei ministri e sia  comunicata
ai  Presidenti  del  Senato  della  Repubblica  e  della  Camera  dei
Deputati. 
    Manda alla Cancelleria per adempimenti di rito. 
        Napoli, 21 novembre 2012 
 
             Il Magistrato di sorveglianza: Di Giovanni