N. 20 ORDINANZA (Atto di promovimento) 15 gennaio 2013
Ordinanza del 15 gennaio 2013 emessa dal Tribunale di Taranto sull'appello proposto da Ferrante Bruno n. q. di Presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante di ILVA S.p.a.. Ambiente - Inquinamento - Disposizioni urgenti a tutela della salute, dell'ambiente e dei livelli di occupazione, in caso di crisi di stabilimenti industriali di interesse strategico nazionale - Previsione che la societa' ILVA S.p.A. di Taranto sia autorizzata, in ogni caso, alla commercializzazione dei prodotti, ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del decreto-legge n. 207 del 2012, sebbene oggetto di sequestro preventivo - Irragionevole disparita' di trattamento tra imprese - Lesione dei principi a tutela delle prerogative della funzione giudiziaria - Contrasto con il dovere dell'Ordinamento di reprimere e prevenire i reati, attraverso l'azione dei pubblici ministeri e l'eventuale sollecitazione del privato leso nei suoi diritti. - Legge 24 dicembre 2012, n. 231 (recte: Decreto-legge 3 dicembre 2012, n. 207, convertito, con modificazioni, nella legge 24 dicembre 2012, n. 231), art. 3, comma 3. - Costituzione, artt. 3, 24, 102, 104 e 112.(GU n.6 del 6-2-2013 )
IL TRIBUNALE Nel giudizio instaurato per l'appello depositato il 18 dicembre 2012 nell'interesse di Ferrante Bruno, nato a Lecce il 26 aprile 1947, in qualita' di Presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante di ILVA S.p.a.; Avverso l'ordinanza emessa dal GIP di Taranto in data 11 dicembre 2012, con la quale veniva rigettata la richiesta di revoca del sequestro preventivo del prodotto finito e/o semilavorato dell'attivita' dello stabilimento siderurgico ILVA di Taranto derivante dai processi produttivi dell'area a caldo; Ricevuti gli atti in data 21 dicembre 2012; Udito il Giudice relatore; Sentiti il PM ed il difensore di fiducia comparsi in camera di consiglio; Sciogliendo la riserva di cui all'udienza camerale dell'8 gennaio 2013; Ha emesso la seguente ordinanza: Va Premesso che in data 29 giugno 2012 i PP.MM. della Procura della Repubblica di Taranto, nell'ambito del procedimento penale indicato in epigrafe, chiedevano al G.I.P. in sede l'applicazione di misure cautelari personali e reali, ipotizzando a carico di Riva Emilio (presidente del consiglio di amministrazione dell'ILVA sino al 19 maggio 2010), Riva Nicola (presidente del consiglio di amministrazione dell'ILVA dal 19 maggio 2010), Capogrosso Luigi (direttore dello stabilimento), Andelmi Marco (capo area parchi dal 27 aprile 2007), Cavallo Angelo (capo area agglomerato dal 27 aprile 2007), Dimaggio Ivan (capo area cokerie dall'8 aprile 2003), De Felice Salvatore (capo area altoforno dal 9 dicembre 2003), D'Alo' Salvatore (capo area acciaieria 1 dall'8 aprile 2003 e capo area acciaieria 2 dal 28 ottobre 2009) i seguenti reati: a) artt. 81, 110 c.p.; 24, 25 D.P.R. n. 203/1988; 256, 279 d.lgs. 152/06, perche', in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in concorso tra loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, realizzavano con continuita' e non impedivano una quantita' imponente di emissioni diffuse e fuggitive nocive in atmosfera in assenza di autorizzazione, emissioni derivanti dall'area parchi, dall'area cokeria, dall'area agglomerato, dall'area acciaieria, nonche' dall'attivita' di smaltimento operata nell'area GRF e dalle diverse «torce» dell'area acciaieria a mezzo delle quali (torce) smaltivano abusivamente una gran quantita' di rifiuti gassosi. Tutte emissioni che si diffondevano sia all'interno del siderurgico, ma anche nell'ambiente urbano circostante con grave pericolo per la salute pubblica (capo cosi' precisato ed integrato, in fatto, dai PP.MM con nota del 12 luglio 2012). In Taranto dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza; b) artt. 110, 434, commi primo e secondo, c.p., perche', in concorso tra loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, nella gestione dell'ILVA di Taranto operavano e non impedivano con continuita' e piena consapevolezza una massiva attivita' di sversamento nell'aria - ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonche' rurali ed urbane circostanti lo stesso. In particolare, IPA, benzo(a)pirene, diossine, metalli ed altre polveri nocive determinando gravissimo pericolo per la salute pubblica e cagionando eventi di malattia e morte nella popolazione residente nei quartieri vicino il siderurgico. In Taranto-Statte dal 1995 e sino alla data odierna; c) artt. 110, 437, commi 1 e 2, c.p., perche', in concorso tra loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, omettevano di collocare e comunque omettevano di gestire in maniera adeguata, impianti ed apparecchiature idonee ad impedire lo sversamento di una quantita' imponente di emissioni diffuse e fuggitive in atmosfera, nocive per la salute dei lavoratori, emissioni derivanti dall'area parchi, dall'area cokeria, dall'area agglomerato, dall'area acciaieria, nonche' dall'attivita' di smaltimento operata nell'area GRF. Tutte emissioni che si diffondevano sia all'interno del siderurgico, ma anche nell'ambiente urbano circostante con grave pericolo per la salute dei lavoratori che subivano altresi' eventi di danno alla salute stessa. In Taranto dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza; d) artt. 110, 439 c.p., perche', in concorso tra loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, attraverso l'attivita' di sversamento delle sostanze nocive di cui ai precedenti capi di imputazione, provocavano e non impedivano la contaminazione dei terreni ove insistevano diverse aziende agricole locali, in tal guisa cagionando l'avvelenamento da diossina di circa 2.271 capi di bestiame destinati all'alimentazione diretta e indiretta con i loro derivati, a seguito dell'attivita' di pascolo esercitata nelle suddette aziende. Capi di bestiame poi abbattuti perche' contaminati da diossina e PCB e pericolosi per la salute umana. In Taranto-Statte dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza; e) artt. 81, comma 1, 110, 674, 639, commi 2 e 3, e 635, commi 1 e 2, n. 3), c.p., perche', in concorso tra loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, provocavano e comunque non impedivano, omettendo di adottare gli opportuni accorgimenti, continui e permanenti sversamenti nell'ambiente circostante di minerali e polveri riconducibili ai materiali depositati presso i Parchi Minerali ILVA e/o aree di produzione ubicate all'interno dello stabilimento, nonche' alle aree cokeria, agglomerato, altoforno, acciaieria e GRF, tali da offendere, imbrattare e molestare persone, in considerazione di una esposizione continua e giornaliera, nonche' da deturpare, imbrattare e danneggiare, sia dal punto di vista strutturale che del ridotto valore patrimoniale-commerciale conseguente all'insalubre ambiente inquinato, decine di edifici pubblici e privati di cui alle denunce in atti (come da elenco allegato), tutti ubicati nel Quartiere Tamburi del Comune di Taranto e nelle immediate vicinanze dello stabilimento siderurgico (cimitero, giardini e parchi pubblici, impianti sportivi, strade, private abitazioni, ecc.). Con l'aggravante di danno arrecato ad edifici pubblici o destinati all'esercizio di un culto. In Taranto dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza. Con recidiva specifica reiterata per Capogrosso Luigi. In data 25 luglio 2012 il G.I.P. in sede, accogliendo entrambe le richieste dei PP.MM.: emetteva ordinanza applicativa della misura degli arresti domiciliari, presso le rispettive, abitazioni, nei confronti di tutti gli indagati; con separato provvedimento, disponeva il sequestro preventivo delle seguenti aree e degli impianti e materiali ivi esistenti, dello stabilimento siderurgico ILVA S.p.A. di Taranto: Area parchi, Area cokerie, Area agglomerato, Area altiforni, Area acciaierie, Area GRF (Gestione rottami ferrosi), nominando quali custodi e amministratori dei predetti impianti, per tutti gli aspetti tecnico-operativi, l'ing. Barbara Valenzano (Dirigente del Servizio tecnologie della sicurezza e Gestione dell'emergenza presso la Direzione scientifica dell'ARPA Puglia) coadiuvata dall'ing. Emanuela Laterza (funzionario presso lo stesso Servizio) e dall'ing. Claudio Lofrumento (funzionario presso il Servizio impiantistico e rischio industriale del Dipartimento provinciale ambientale di Bari) - con il compito di avviare "immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti sopra indicati, sovrintendendo alle operazioni ed assicurandone lo svolgimento nella rigorosa osservanza delle prescrizioni a tutela della sicurezza ed incolumita' pubblica e a tutela della integrita' degli impianti" - e, per tutti gli aspetti amministrativi connessi alla gestione degli impianti sottoposti a sequestro e del personale addetto agli stessi, il dottor Mario Tagarelli, iscritto all'Albo dei Commercialisti di Taranto. Il Tribunale del riesame di Taranto, adito su ricorso di tutti gli indagati e del nuovo legale rappresentante di ILVA S.p.A., dott. Ferrante Bruno, con provvedimento del 7 agosto 2012 (le cui motivazioni venivano depositate il successivo 20 agosto): annullava l'ordinanza di applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti di Andelmi Marco, Cavallo Angelo, Dimaggio Ivan, De Felice Salvatore e D'Alo' Salvatore per difetto di esigenze cautelari, confermandola nei confronti di Riva Emilio, Riva Nicola e Capogrosso Luigi; in parziale modifica del decreto di sequestro preventivo impugnato, ferma restando la nomina degli ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento, nominava custode e amministratore delle aree e degli impianti in sequestro il dott. Bruno Ferrante nella sua qualita' di presidente del C.d.A. e di legale rappresentate di ILVA S.p.A., revocando la nomina del dott. Mario Tagarelli e disponeva che i custodi garantissero la sicurezza degli impianti e li utilizzassero in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti, confermando nel resto il decreto impugnato. La nomina del dott. Ferrante quale custode-amministratore giudiziario veniva revocata dal GIP l'11 agosto 2012, ma tale provvedimento veniva dichiarato "inefficace" dal Tribunale del riesame di Taranto, in funzione di giudice dell'esecuzione con ordinanza del 28 agosto 2012, la cui efficacia - a sua volta - veniva pero' sospesa con provvedimento del 22 ottobre 2012 dal medesimo Tribunale in diversa composizione (con conseguente ripristino delle determinazioni adottate dal GIP con il decreto emesso l'11 agosto 2012). Va comunque rilevato che il provvedimento del Tribunale del riesame inerente il sequestro preventivo delle aree a caldo dello stabilimento non veniva impugnato innanzi alla Corte di cassazione da ILVA S.p.A. In data 27 ottobre 2012 veniva pubblicato il decreto del 26 ottobre 2012 di riesame dell'Autorizzazione integrata ambientale per l'esercizio dell'impianto siderurgico della societa' ILVA di Taranto. Con successivo decreto ex art. 321 c.p.p., emesso il 22 novembre 2012 su richiesta dei PP.MM. di Taranto, il GIP presso il medesimo tribunale disponeva il sequestro preventivo del prodotto finito e/o semilavorato dell'attivita' del siderurgico ILVA S.p.A. di Taranto, derivante dai processi produttivi dell'area a caldo esistente nelle relative aree di stoccaggio e destinato alla vendita ovvero al trasferimento in altri stabilimenti del gruppo e disponeva, altresi', l'affidamento dei sequestrandi beni ai custodi-amministratori gia' nominati nell'ambito del presente procedimento, dottor Mario Tagarelli e ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento. Nel predetto provvedimento si dava atto che si stava procedendo a carico di: Riva Emilio, Riva Nicola, Riva Arturo Fabio, Capogrosso Luigi, Archina' Girolamo a) per il delitto di cui all'art. 416, comma 1 e 2, c.p. perche' partecipavano ad un'associazione per delinquere promossa, capeggiata e diretta da Riva Emilio, Riva Nicola, Riva Arturo Fabio e Capogrosso Luigi allo scopo di commettere piu' delitti contro la pubblica incolumita' e segnatamente quelli di cui agli artt. 434, 437 e 439 c.p. nonche' delitti contro la pubblica amministrazione e la fede pubblica, quali fatti di corruzione, falsi e abuso d'ufficio. In particolare: Riva Emilio (quale Presidente del C.d.A ILVA S.p.a. sino al 19 maggio 2010, attualmente Presidente del C.d.A. di RIVA F.I.R.E. S.p.a.), Riva Nicola (quale Presidente del C.d.A. ILVA S.p.a. dal 19 maggio 2010 sino al 9 luglio 2012, in precedenza consigliere e consigliere delegato, attualmente Procuratore speciale di RIVA F.I.R.E. S.p.a.), Riva Arturo Fabio (quale Vice Presidente del C.d.A. dell'ILVA S.p.a., consigliere ed amministratore delegato sino al 22 maggio 2007, attualmente Vice Presidente del C.d.A. di RIVA F.I.R.E. S.p.a.) e Capogrosso Luigi (quale Direttore e gestore dello stabilimento ILVA sino al 3 luglio 2012 e dipendete ILVA S.p.a. sino al 28 settembre 2012) provvedevano, come promotori ed organizzatori, ad intrattenere costanti contatti tra loro stessi ed Archina', al fine di individuare le problematiche che non avrebbero consentito l'emissione di provvedimenti autorizzativi nei confronti dello stabilimento ILVA S.p.a., concordando cosi' le possibili soluzioni, individuando i soggetti di vari livelli (politico/istituzionale, mass media, organizzazioni sindacali, settore scientifico, clero) da contattare, le disposizioni da impartire a funzionari e incaricati di vari uffici, provvedendo anche a concordare in anticipo il contenuto di documenti ufficiali che dovevano essere emanati ed indirizzati allo stesso stabilimento ILVA S.p.a., al fine di ridimensionare problematiche anche gravi in materia ambientale ovvero al fine di consentire al predetto stabilimento la prosecuzione dell'attivita' produttiva senza il rispetto anzi in totale violazione e spregio della normativa vigente, in cio' facendo leva anche sul ruolo specifico ricoperto da taluni dei soggetti contattati, ingenerando talvolta nei medesimi la fondata convinzione di dover sottostare alle indicazioni/pressioni ricevute, per evitare il pericolo di subire un pregiudizio, giungendo persino a compiere fatti di corruzione e falso in relazione ad atti di un procedimento penale nell'ambito del quali gli stessi risultavano essere indagati; Archina Girolamo (quale responsabile/addetto alle relazioni esterne dello stabilimento ILVA S.p.a.) provvedeva, come partecipe, a fornire il suo fondamentale apporto nella realizzazione dei reati scopo del sodalizio, in quanto, in perfetta unita' d'intenti con i vertici della proprieta' e della dirigenza dello stabilimento ILVA S.p.a., intratteneva costantemente contatti con gli esponenti dei vari settori di interesse, recandosi personalmente presso i loro uffici o chiamandoli direttamente sulle loro utenze cellulari, premendo per il buon esito di ogni singola richiesta e per l'ottenimento delle autorizzazioni necessarie all'esercizio delle attivita' produttiva al di fuori dei limiti di legge, provvedendo in un'occasione a consegnare materialmente a Liberti Lorenzo la somma di denaro di euro 10.000,00 (diecimila), attinta dalle disponibilita' di ILVA S.p.a., quale retribuzione non dovuta in quanto corrisposta per l'avvenuta commissione di un atto contrario ai doveri di ufficio ed in particolare per falsificare il contenuto di una consulenza tecnica disposta dal P.M. In Taranto dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza ovvero con riferimento ad ogni singola posizione dalla data di assunzione della carica e/o sino alla cessazione della stessa; Riva Emilio, Riva Nicola, Riva Arturo Fabio, Capogrosso Luigi, Andelmi Marco, Cavallo Angelo, Di Maggio Ivan, De Felice Salvatore, D'Alo' Salvatore, Archina' Girolamo, Ferrante Bruno e Buffo Adolfo b) per i reati di cui agli artt. 81 cpv, 110, 112 n. 1 c.p.; 24, 25 D.P.R. n. 203/88; 256, 279 d.lgs. 152/06 perche', in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, in concorso tra loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, realizzavano con continuita' e non impedivano una quantita' imponente di emissioni diffuse e fuggitive nocive in atmosfera in assenza di autorizzazione, emissioni derivanti dall'area cokeria, dall'area agglomerato, dall'area acciaieria, nonche' dall'attivita' di smaltimento operata nell'area GRF e dalle diverse "torce" dell'area acciaieria a mezzo delle quali (torce) smaltivano abusivamente una gran quantita' di rifiuti gassosi. Tutte emissioni che si diffondevano sia all'interno del siderurgico, ma anche nell'ambiente urbano circostante con grave pericolo per la salute pubblica. Con l'aggravante del numero delle persone concorrenti nel reato. In Taranto dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza ovvero con riferimento ad ogni singola posizione dalla data di assunzione della carica e/o sino alla cessazione della stessa; Riva Emilio, Riva Nicola, Riva Arturo Fabio, Capogrosso Luigi, Andelmi Marco, Cavallo Angelo, Di Maggio Ivan, De Felice Salvatore, D'Alo' Salvatore, Archina' Girolamo, Ferrante Bruno e Buffo Adolfo c) per il delitto di cui agli artt. 110, 112 n. 1, 434, comma primo e secondo, c.p. perche', in concorso tra loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, nella gestione dell'ILVA di Taranto operavano e non impedivano con continuita' e piena consapevolezza una massiva attivita' di sversamento nell'aria - ambiente di sostanze nocive per la salute umana, animale e vegetale, diffondendo tali sostanze nelle aree interne allo stabilimento, nonche' rurali ed urbane circostanti lo stesso. In particolare, IPA, benzo(a)pirene, diossine, metalli ed altre polveri nocive determinando gravissimo pericolo per la salute pubblica e cagionando eventi di malattia e morte nella popolazione residente nei quartieri vicino il siderurgico. Con l'ulteriore aggravante del numero delle persone concorrenti nel reato. In Taranto-Statte dal 1995 e sino alla data odierna ovvero con riferimento ad ogni singola posizione dalla data di assunzione della carica e/o sino alla cessazione della stessa; Riva Emilio, Riva Nicola, Riva Arturo Fabio, Capogrosso Luigi, Andelmi Marco, Cavallo Angelo, Di Maggio Ivan, De Felice Salvatore, D'Alo' Salvatore, Archina' Girolamo, Ferrante Bruno e Buffo Adolfo d) per il delitto di cui agli artt. 110, 112 n. 1, 437, comma 1, 2, c.p. perche', in concorso tra loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, omettevano di collocare e comunque omettevano di gestire in maniera adeguata, impianti ed apparecchiature idonee ad impedire lo sversamento di una quantita' imponente di emissioni diffuse e fuggitive in atmosfera, nocive per la salute dei lavoratori, emissioni derivanti dall'area parchi, dall'area cokeria, dall'area agglomerato, dall'area acciaieria, nonche' dall'attivita' di smaltimento operata nell'area GRF. Tutte emissioni che si diffondevano sia all'interno del siderurgico, ma anche nell'ambiente urbano circostante con grave pericolo per la salute dei lavoratori che subivano altresi' eventi di danno alla salute stessa. Con l'ulteriore aggravante del numero delle persone concorrenti nel reato. In Taranto dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza ovvero con riferimento ad ogni singola posizione dalla data di assunzione della carica e/o sino alla cessazione della stessa; Riva Emilio, Riva Nicola, Riva Arturo Fabio, Capogrosso Luigi, Andelmi Marco, Cavallo Angelo, Di Maggio Ivan, De Felice Salvatore, D'Alo' Salvatore, Archina' Girolamo, Ferrante Bruno e Buffo Adolfo e) per il delitto di cui agli artt. 110, 112 n. 1, 439 c.p. perche', in concorso tra loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, attraverso l'attivita' di sversamento delle sostanze nocive di cui ai precedenti capi di imputazione, provocavano e non impedivano la contaminazione dei terreni ove insistevano diverse aziende agricole locali, in tal guisa cagionando l'avvelenamento da diossina di circa 2.271 capi di bestiame destinati all'alimentazione diretta e indiretta con i loro derivati, a seguito dell'attivita' di pascolo esercitata nelle suddette aziende. Capi di bestiame poi abbattuti perche' contaminati da diossina e PCB e pericolosi per la salute umana. Con l'aggravante del numero delle persone concorrenti nel reato. In Taranto-Statte dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza ovvero con riferimento ad ogni singola posizione dalla data di assunzione della carica e/o sino alla cessazione della stessa; Riva Emilio, Riva Nicola, Riva Arturo Fabio, Capogrosso Luigi, Andelmi Marco, Cavallo Angelo, Di Maggio Ivan, De Felice Salvatore, D'Alo' Salvatore, Archina' Girolamo, Ferrante Bruno e Buffo Adolfo f) per i reati di cui agli artt. 81 e 1, 110, 112 n. 1, 674, 639, c. 2 e 3, e 635 c. 1 e 2 n. 3, c.p. perche', in concorso tra loro, nelle rispettive qualita' di cui sopra, provocavano e comunque non impedivano, omettendo di adottare gli opportuni accorgimenti, continui e permanenti sversamenti nell'ambiente circostante di minerali e polveri riconducibili ai materiali depositati presso i Parchi minerali ILVA e/o aree di produzione ubicate all'interno dello stabilimento, nonche' alle aree cokeria, agglomerato, altoforno, acciaieria e GRF, tali da offendere, imbrattare e molestare persone, in considerazione di una esposizione continua e giornaliera, nonche' da deturpare, imbrattare e danneggiare, sia dal punto di vista strutturale che del ridotto valore patrimoniale-commerciale conseguente all'insalubre ambiente inquinato, decine di edifici pubblici e privati di cui alle denunce in atti (come da elenco allegato), tutti ubicati nel quartiere Tamburi del Comune di Taranto e nelle immediate vicinanze dello stabilimento siderurgico (cimitero, giardini e parchi pubblici, impianti sportivi, strade, private abitazioni, ecc.). Con le aggravanti di danno arrecato ad edifici pubblici o destinati all'esercizio di un culto e delle persone concorrenti nel reato. In Taranto dal 1995, sino alla data odierna e con permanenza ovvero con riferimento ad ogni singola posizione dalla data di assunzione della carica e/o sino alla cessazione della stessa. Con recidiva specifica reiterata per Capogrosso Luigi. Rilevava il GIP che, nonostante l'emanazione del provvedimento di sequestro preventivo del 25 luglio 2012, confermato dal Tribunale del riesame e nonostante le direttive del P.M., non risultava «che l'ILVA abbia deciso di dare pratica esecuzione al suddetto provvedimento al di la' delle numerose "carte" trasmesse al P.M. che nulla di concreto per l'eliminazione immediata delle emissioni nocive statuiscono». Ritenendo, pertanto, che l'attivita' produttiva dell'ILVA successiva al sequestro fosse caratterizzata dalla piena illiceita' penale, l'acciaio, frutto dell'attivita' in tale modo posta in essere dal siderurgico, non poteva che essere considerato il "prodotto" dei reati sopra contestati e, quindi, cosa pertinente agli stessi, confiscabile - in caso di condanna - a mente dell'art. 240 comma l c.p. Il sequestro preventivo del prodotto veniva percio' disposto, tanto ai sensi dell'art. 321, comma 2 c.p.p. (secondo cui il giudice puo' disporre il sequestro delle cose di cui e' consentita la confisca), quanto ai sensi del primo comma del predetto articolo 321 c.p.p., ritenendo che la libera disponibilita' del prodotto finito o semi-lavorato e la conseguente possibilita' della sua remunerata collocazione sul mercato, stesse incentivando gli organi aziendali a perseverare, nell'ottica di ulteriori profitti, immediati e futuri, nella produzione industriale con modalita' contrarie alla legge e comunque pericolose per la salute pubblica, perpetuando di fatto quella "gravissima situazione di emergenza ambientale e sanitaria accertata nel corso delle indagini" diffusamente rappresentata nel richiamato decreto del 25 luglio u.s. Avverso tale provvedimento di sequestro Ferrante Bruno, quale legale rappresentante di ILVA S.p.A., proponeva istanza di riesame, depositata in cancelleria il 28 novembre 2012, rinunciando successivamente alla impugnazione proposta con atto del 4 dicembre 2012 (il tribunale del riesame adito, all'udienza del 6 dicembre 2012, dichiarava pertanto inammissibile il gravame ex art. 591 c.p.p.). Con due distinti atti depositati il 4 dicembre 2012 presso la Procura della Repubblica di Taranto Ferrante Bruno, nella medesima qualita', chiedeva l'immediata esecuzione del disposto degli artt. 2 e 3, comma 3°, del d.lgs. 207/2012, con riferimento tanto ai beni oggetto del sequestro preventivo del 25 luglio 2012, quanto di quelli oggetto del sequestro preventivo del 22 novembre 2012. In particolare l'art. 2 del predetto D.L. stabiliva che "Nei limiti consentiti dal presente decreto, rimane in capo ai titolari dell'autorizzazione integrata ambientale di cui all'articolo 1, comma 1, la gestione e la responsabilita' della conduzione degli impianti di interesse strategico nazionale anche ai fini dell'osservanza di ogni obbligo, di legge o disposto in via amministrativa, e ferma restando l'attivita' di controllo dell'autorita' di cui all'articolo 29-decies, comma 3, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modificazioni" ed ai sensi del successivo art. 3, premesso che l'impianto siderurgico della societa' ILVA S.p.A. di Taranto costituiva "stabilimento di interesse strategico nazionale a norma dell'articolo 1" (comma 1°) e che l'autorizzazione integrata ambientale rilasciata in data 26 ottobre 2012 alla societa' ILVA S.p.A. con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare prot. n. DVA/DEC/2012/0000547, nella versione di cui al comunicato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 252 del 27 ottobre 2012, conteneva "le prescrizioni volte ad assicurare la prosecuzione dell'attivita' produttiva dello stabilimento siderurgico della societa' ILVA S.p.A. di Taranto a norma dell'articolo 1" (comma 2°), si decretava, al terzo comma, che "a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, la societa' ILVA S.p.A. di Taranto e' immessa nel possesso dei beni dell'impresa ed e' in ogni caso autorizzata, nei limiti consentiti dal provvedimento di cui al comma 2, alla prosecuzione dell'attivita' produttiva nello stabilimento ed alla conseguente commercializzazione dei prodotti per un periodo di 36 mesi, ferma restando l'applicazione di tutte le disposizioni contenute nel presente decreto". Decidendo sulle due richieste, la Procura della Repubblica di Taranto emanava un provvedimento con il quale - permanendo il sequestro - reimmetteva l'ILVA nel possesso degli impianti sequestrati il 25 luglio, ma esprimeva parere negativo sulla restituzione all'azienda dei prodotti finiti e semilavorati, trasmettendo gli atti al GIP che, con ordinanza dell'11 dicembre 2012, rigettava la relativa istanza proposta da ILVA S.p.A. Avverso tale ultimo provvedimento di rigetto la societa' proponeva appello con atto depositato il 18 dicembre 2012, eccependo: la insussistenza del fumus dei reati contestati, sulla base della liceita' dell'attivita' di impresa che aveva determinato la realizzazione del prodotto sequestrato; la mancanza ed illogicita' della motivazione in relazione alla pretesa illiceita' della produzione; la mancanza di motivazione ed erronea applicazione della fattispecie di cui agli artt. 321, comma 2° c.p.p. e 240 comma 1° c.p.; l'erronea esegesi ed omessa applicazione del D.L. 207/2012; chiedendo, pertanto, l'annullamento dell'impugnata ordinanza e la restituzione del prodotto in sequestro. In data 3 gennaio 2013 veniva pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge n. 231 del 24.12.2012, di conversione con modificazioni del D.L. 207/2012. In particolare il succitato terzo comma dell'art. 3 veniva cosi' modificato: "A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, per un periodo di trentasei mesi, la societa' ILVA S.p.A. di Taranto e' immessa nel possesso dei beni dell'impresa ed e' in ogni caso autorizzata, nei limiti consentiti dal provvedimento di cui al comma 2, alla prosecuzione dell'attivita' produttiva nello stabilimento e alla commercializzazione dei prodotti, ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto, ferma restando l'applicazione di tutte le disposizioni contenute nel medesimo decreto". Fissata all'8 gennaio 2013 l'udienza di comparazioni delle parti, in quella sede il PM produceva ulteriore documentazione e chiedeva al Tribunale di sollevare eccezione di legittimita' costituzionale "delle norme contenute nel decreto legge n. 207/2012 come convertito nella legge 24 dicembre 2012, n. 231. In particolare degli articoli 1 e 3 del suddetto decreto legge ... perche' in contrasto con gli articoli 3,9,24,25,27,32,101,102,103,104,117 della Costituzione". La difesa insisteva per l'accoglimento dell'appello e deduceva l'irrilevanza e/o la manifesta infondatezza della suddetta questione di legittimita' costituzionale, depositando il successivo 10 gennaio 2013, su autorizzazione del Tribunale che aveva riservato all'esito dell'udienza la decisione, una memoria difensiva per replicare alle deduzioni mosse del PM nell'ambito dell'istanza di rimessione degli atti alla corte costituzionale. La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, legge n. 231 del 24 dicembre 2012 e' rilevante e non manifestamente infondata. E invero solo l'applicazione del predetto articolo di legge determinerebbe, in forza dello ius superveniens, l'accoglimento dell'appello proposto nell'interesse di ILVA S.p.A. Sussistono tuttavia profili di illegittimita' costituzionale, non manifestamente infondati, della norma di legge che questo Tribunale dell'appello dovrebbe applicare per la decisione del proposto gravame, rendendosi pertanto necessaria la sospensione del giudizio e la trasmissione degli atti al Giudice delle leggi, a norma dell'art. 23, legge n. 87/1953. Sulla rilevanza della questione. Va innanzitutto rilevato che la rinuncia al riesame, proposto dalla odierna parte appellante, avverso il citato decreto di sequestro preventivo del GIP emesso il 22 novembre 2012, sul prodotto finito e/o semilavorato dell'attivita' del siderurgico ILVA di Taranto, non rende di per se' inammissibili i motivi di appello riguardanti i presupposti di applicabilita' del vincolo cautelare reale, come eccepito dal PM, dovendosi necessariamente procedere, da parte dell'odierno Collegio, al loro esame nel merito (non essendosi verificato alcun giudicato cautelare). Come, infatti, recentemente chiarito dalla Suprema Corte la mancata tempestiva proposizione, da parte dell'interessato, della richiesta di riesame avverso il provvedimento applicativo di una misura cautelare reale non ne preclude la revoca per la mancanza delle condizioni di applicabilita', neanche in assenza di fatti sopravvenuti (cfr. Cass. sez. U, Sentenza n. 29952 del 24 maggio 2004); alla stessa stregua l'inammissibilita' dell'impugnazione per effetto della relativa rinuncia non determina, al pari della mancata impugnazione, le preclusioni da cosiddetto giudicato cautelare, che non si estende a tutte le questioni deducibili, bensi' esclusivamente a quelle che sono state dedotte ed effettivamente decise (cfr. Cass. sez. 3, Sentenza n. 535 del 1° dicembre 2010; Cass. sez. 4, Sentenza n. 32929 del 4 giugno 2009). Il giudizio di rilevanza della questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla Procura di Taranto passa, dunque, necessariamente per la valutazione sulla sussistenza dei presupposti per il mantenimento del sequestro preventivo disposto dal GIP, atteso che l'eventuale accoglimento dell'appello sotto il profilo del fumus commissi delicti e/o del periculun in mora renderebbe superfluo l'esame della applicabilita', nella presente fattispecie, delle norme contenute nella legge 231/2012, che sostanzialmente autorizzano la commercializzazione del prodotto realizzato da ILVA spa, anche se sottoposto a sequestro preventivo (imponendo, come si dira' infra, l'adozione di un provvedimento di dissequestro della res, a causa della ontologica incompatibilita' tra la sua immissione in commercio e la permanenza della misura cautelare reale). A tale riguardo appare opportuno precisare che, alla stregua della costante giurisprudenza della Corte di cassazione (con le specificazioni indicate dalle Sezioni Unite con la nota sentenza 29 gennaio 1997, n. 23; cfr. anche Cass., sez. V, 20 giugno 2011, n. 24589), nei procedimenti incidentali aventi ad oggetto provvedimenti di sequestro non e' ipotizzabile una cognizione piena. Al Tribunale e' conferita esclusivamente la competenza a conoscere della legittimita' dell'esercizio della funzione processuale attribuita alla misura ed a verificare, quindi, la correttezza del perseguimento degli obiettivi endoprocessuali che sono propri della stessa, con l'assenza di ogni ulteriore potere conoscitivo relativo al fondamento dell'accusa (riservato, invece, al giudice del procedimento principale), a meno che la stessa si prospetti, allo stato degli atti e sulla base fattuale del singolo caso concreto, giuridicamente infondata (Cass., sez. V, 12 maggio 2010, n. 18078). Tale interpretazione restrittiva della cognizione incidentale risponde all'esigenza di far fronte al pericolo di un utilizzo surrettizio della relativa procedura per un preventivo accertamento sul merito della causa, cosi' da determinare una non consentita pre-verifica della fondatezza dell'accusa il cui oggetto finirebbe per compromettere inevitabilmente la rigida attribuzione di competenze nell'ambito di un medesimo procedimento sancita dal codice di procedura penale. L'accertamento della sussistenza del cd. fumus delicti va compiuto, dunque, sotto il profilo della congruita' degli elementi rappresentati, che non possono essere censurati da un punto di vista meramente fattuale per valutarne la coincidenza con le reali risultanze processuali. Tali elementi vanno, invece, valutati cosi' come esposti al fine di verificare se consentano, in una prospettiva di ragionevole probabilita', di sussumere l'ipotesi formulata nella contestazione in quella tipica. Il Tribunale, nella valutazione delle misure cautelaci reali, non deve dunque instaurare un cd. "processo nel processo", bensi' deve esclusivamente svolgere una indispensabile funzione di garanzia, tenendo nel debito conto le contestazioni difensive sull'esistenza della fattispecie dedotta ed esaminando sotto ogni aspetto l'integralita' dei presupposti che legittimano il sequestro; cosi' che solo la manifesta, assoluta ed evidente inconfigurabilita' dell'ipotesi di reato, per come rappresentata dall'organo procedente (e pur tenendo conto per l'appunto delle osservazioni difensive), consente di addivenire alla revoca del sequestro. Piu' recentemente la Suprema Corte ha chiarito che il Tribunale del riesame (e di conseguenza il Tribunale di appello ex art, 310 c.p.p.) non deve tuttavia limitarsi a verificare la sola astratta configurabilita' del reato ma deve tener conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e dell'effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti, indicando, sia pure sommariamente, le ragioni che rendono allo stato sostenibile l'impostazione accusatoria (cfr. Cass., sez. III, 9 luglio 2010, n. 26197; Cass., sez. III, 16 luglio 2010, n. 27715), essendo comunque pacificamente preclusi al Tribunale poteri istruttori. Facendo applicazione dei summenzionati principi giurisprudenziali nella presente fattispecie, appaiono in toto condivisibili le argomentazioni addotte dal GIP per la emanazione del decreto di sequestro del prodotto finito e/o semilavorato derivante dai processi produttivi delle aree a caldo dello stabilimento siderurgico ILVA di Taranto, a loro volta sottoposte a sequestro penale e realizzato successivamente all'esecuzione del predetto provvedimento di sequestro emesso il 25 luglio 2012. In riferimento al fumus commissi delicti il GIP scrive: «Con provvedimento del 25 luglio 2012 questo g.i.p., su richiesta della Procura della Repubblica di Taranto, sottoponeva a sequestro preventivo diverse aree e impianti dell'ILVA di Taranto in ragione della chiara attivita' inquinante, dannosa per la salute umana ed animale e per l'ambiente circostante, derivante dalle suddette aree ed impianti. In particolare, erano sottoposte a sequestro l'area parchi, l'area cokerie, l'area agglomerato, l'area altiforni, I'area acciaierie e l'area GRF. Concordemente a quanto accertato dal P.M. e sostenuto nella relativa richiesta, nel decreto di sequestro si evidenziava come, nel corso degli anni, ed attualmente, dallo stabilimento siderurgico di Taranto si riversava (e si riversa) nell'ambiente circostante, urbano e non, una quantita' rilevante di sostanze altamente nocive per la salute umana tra le quali diossina e benzo(a)pirene, sostanze cha avevano determinato un vero e proprio disastro ambientale di proporzioni impressionanti con conseguente avvelenamento di sostanze alimentari destinate al consumo umano, pericolo per la pubblica incolumita' e degli stessi lavoratori del siderurgico. Veniva quindi riconosciuta la sussistenza dei fatti che avevano portato alla configurazione dei reati sopra indicati. Con un'articolata istanza, la difesa proponeva riesame avverso il suddetto sequestro. Il 7 agosto 2012 il Tribunale del riesame confermava il provvedimento di sequestro (parzialmente modificando le - sole - disposizioni relative ai profili della esecuzione ed amministrazione-custodia dei beni), rigettando l'istanza della difesa. Nessun ricorso per cassazione era avanzato avverso la decisione del Tribunale. Il giudice del riesame, concordando con le tesi sostenute dal P.M. ed accolte da questo g.i.p., chiariva definitivamente come obiettivo primario del sequestro e dell'attivita' dei custodi doveva essere l'eliminazione delle emissioni nocive e l'utilizzazione degli impianti solo a tali fini e non a fini produttivi, escludendo qualsiasi facolta' d'uso. Invero, si legge a pag. 117 dell'ordinanza: "La gravita' e l'attualita' dell'emergenza sanitaria ed ambientale rendono effettivamente necessario un tempestivo intervento in ordine alla messa a norma dello stabilimento, funzionale alla neutralizzazione delle fonti inquinanti e, conseguentemente, alla eliminazione delle emissioni illecite. Va dunque condiviso pienamente quanto osservato dal G.I.P., nella parte motiva del provvedimento di sequestro (cfr. pagg. 293-294), allorquando viene specificato come la situazione di grave e attualissima emergenza ambientale e sanitaria imponga l'immediata adozione del sequestro preventivo - senza facolta' d'uso - delle aree e degli impianti sopra indicati, funzionale alla interruzione delle attivita' inquinanti, e che «solo la compiuta realizzazione di tutte "le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo" individuate dai periti chimici (v. pagg. 545/554 del relativo elaborato peritale, nonche' sopra, sub paragrafo 5.5), in uno alla attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni maggiormente inquinanti (quali quelle contenenti diossine e PCB), potrebbe legittimare l'autorizzazione - previa attenta ed approfondita valutazione, da parte di tecnici nominati dall'A.G., dell'efficacia, sotto il profilo della prevenzione ambientale, delle misure eventualmente adottate - ad una ripresa della operativita' dei predetti impianti». E a pag. 122: "Deve, in definitiva, confermarsi il sequestro, senza facolta' d'uso, delle aree e degli impianti sopra indicati; il provvedimento del G.I.P. va invece modificato quanto alla nomina dei custodi ... ..., nonche' nella parte in cui prevede che i custodi ingg. Valenzano, Laterza e Lofrumento "avvieranno immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti", nei termini seguenti: "Dispone che i custodi garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti". Si chiariva, in particolare, come la ripresa della operativita' degli impianti fosse subordinata alla improcrastinabile eliminazione delle emissioni illecite: "... i tecnici nominati ... possano compiutamente valutare e - nel caso - adottare, tra tutte le possibili scelte operative, quelle concretamente idonee a salvaguardare l'integrita' e la sicurezza degli impianti e a consentire, in ipotesi, la ripresa della operativita' dei predetti in condizione di piena compatibilita' ambientale una volta eliminate del tutto quelle emissioni illecite, nocive e dannose per la salute dei lavoratori e della popolazione e, in ogni caso, per l'ambiente circostante gli interventi volti alla eliminazione delle emissioni illecite si rendono necessari ed improcrastinablli oltre che per arrestare gli effetti e le conseguenze illecite dei reati posti in essere anche in vista della eventuale ripresa della produzione dello stabilimento, la cui attivita', ove il gestore non provveda ai dovuti adeguamenti sarebbe irrimediabilmente compromessa" (pag. 120). Consequenziale era il chiaro dispositivo del Tribunale ove era scritto: "Dispone che i custodi garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti". Sulla base di tale inequivoco dettato del Tribunale del riesame, il P.M. impartiva precise direttive ai custodi con provvedimento dell'1° settembre 2012 che, peraltro, ribadiva altro e precedente provvedimento. In esso i custodi erano invitati a: "l) a procedere immediatamente alla adozione delle misure necessarie alla pronta eliminazione delle emissioni nocive ancora in atto; 2) a procedere alla individuazione delle misure necessarie agli adeguamenti tecnico-ambientali idonei a consentire la ripresa dell'operativita' degli impianti in totale sicurezza per i lavoratori e la popolazione esposti alle criticita' sanitarie riscontrate, nonche' ad attuare tutte le ulteriori misure indicate nel provvedimento del Tribunale del riesame del 7/20 agosto 2012 da intendersi qui integralmente richiamate; 3) a procedere ad elencare analiticamente tutti gli interventi necessari di cui al punto 2) con specificazione dei relativi costi e tempi di esecuzione. Altro provvedimento di analogo contenuto era impartito ai custodi il 5 ottobre 2012 ove era anche disposto un temine di giorni 5 entro il quale l'ILVA, a mezzo del custode - amministratore doti. Bruno Ferrante, doveva adibire le maestranze occorrenti destinandole alle operazioni tecniche necessarie a far cessare ulteriori emissioni inquinanti derivanti dagli impianti, reparti ed aree sotto sequestro. Tutto cio' premesso, occorre precisare che i due provvedimenti sopra indicati erano emessi sia tenendo conto di quanto statuito dal Tribunale del riesame che escludeva qualsiasi facolta' d'uso e quindi di produzione finalizzata alla commercializzazione dell'acciaio, sia delle relazioni dei custodi che indicavano in maniera dettagliate tutti gli interventi immediati da effettuare sugli impianti in sequestro per bloccare le emissioni nocive. ... allo stato, dopo quasi quattro mesi dall'emissione del provvedimento di sequestro preventivo del GIP e dopo i provvedimenti del Tribunale di Taranto di cui sopra e le direttive del P.M. di cui si e' detto, non risulta che l'ILVA abbia deciso di dare pratica esecuzione al suddetto provvedimento al di la' delle numerose "carte" trasmesse al P.M. che nulla di concreto per l'eliminazione immediata delle emissioni nocive statuiscono. La relazione dei custodi del 24 ottobre 2012, in atti, appare illuminante. In essa e' scritto chiaramente come "in relazione allo stato di attuazione degli interventi disposti dai custodi ad ILVA spa si conferma che gli stessi: non sono stati tempestivamente recepiti da parte dell'Azienda, malgrado la necessita' di cessazione dell'attivita' criminosa in corso e delle emissioni inquinanti derivanti dalla conduzione degli impianti oggetto di sequestro preventivo; non risultano avviati conformemente, nei modi e nei tempi, alle disposizioni dei custodi e preventivamente condivise con gli stessi; non risultano consegnate a ditte specializzate in relazione alle diverse attivita' (si e' ancora in fase di studi preliminari di fattibilita'); non risultano dotati di adeguata copertura finanziaria da parte del C.d.A di ILVA S.p.a.". Nello stesso senso la articolata e corposa relazione depositata dai custodi ed amministratori delle aree ed impianti in sequestro, depositata con i relativi allegati in data 19 novembre 2012, alla quale si rinvia integralmente. Va fatta menzione, inoltre, della nota depositata in data 9 novembre 2012 con la quale il custode-amministratore dott. Mario Tagarelli ha informato la Procura della Repubblica presso questo Tribunale del fatto che alla sua richiesta, avanzata il 6 novembre 2012, di poter ricevere dall'ILVA informazioni in ordine: a) ai contratti di vendita a terzi dei prodotti e dei semilavorati, riferiti agli ultimi due esercizi nonche' all'esercizio in corso; b) ai report riferiti: ai prodotti finiti e semilavorati venduti/spediti nel corso degli ultimi due esercizi; ai prodotti finiti e semilavorati venduti/spediti nell'esercizio in corso, sino ad oggi; ai prodotti finiti e semilavorati inclusi nel budget previsionale; c) alle capacita' di stoccaggio di prodotti finiti e di semilavorati all'interno dello stabilimento di Taranto, con opportuna specificazione dei siti ove sono materialmente allocati; d) all'attuale portafoglio degli ordinativi pervenuti dalla clientela, nonche' al dato storico degli stessi ordinativi con riferimento agli ultimi due esercizi; e) all'eventuale destinazione interna di merce, prodotti e/o semilavorati, avendo riguardo alla composizione del gruppo ed alla sua dislocazione territoriale. In data 9 novembre 2012 il Responsabile Area logistica ing. Antonio Colucci ed il Responsabile dell'Ufficio legale dell'ILVA avvocato Francesco Brescia precisavano "di non essere in grado di esibire quanto loro richiesto per espressa volonta' della societa' che, con separato atto, avrebbe comunicato le motivazioni di tale rifiuto". Atteggiamento, questo, che tradisce la pervicace volonta' dell'ILVA di continuare imperterrita nell'attivita' produttiva, nonostante i provvedimenti dell'A.G. Orbene, la situazione attuale appare davvero paradossale. Da un lato abbiamo un decreto di sequestro preventivo (su cui e' intervenuto il giudicato cautelare) volto a bloccare l'attivita' inquinante dell'ILVA che esclude radicalmente qualsiasi facolta' d'uso mirata all'attivita' produttiva, imponendo l'uso degli impianti solo a finalita' di risanamento, il tutto in presenza di relazioni tecniche dei custodi che dicono chiaramente come occorra procedere allo spegnimento e rifacimento di diverse parti del siderurgico altamente inquinanti quale unica modalita' possibile di blocco immediato delle emissioni nocive e di risanamento (vedi relazioni in atti); dall'altro abbiamo un'azienda (ILVA) che appare assolutamente riottosa ad osservare il provvedimento di sequestro e quindi a bloccare le emissioni inquinanti, continuando imperterrita nella criminosa produzione dell'acciaio, nella vendita del frutto dell'attivita' criminosa, ed assicurandosi lauti profitti non curante delle disposizioni dell'autorita' giudiziaria e in violazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali sopra indicati». Tali considerazioni sono pienamente condivise anche dall'odierno Collegio. Erra, infatti, la difesa nel dedurre che "ne' il dispositivo, ne' le motivazioni" dell'ordinanza del Tribunale del riesame del 7/20 agosto 2012 "vietavano o vietano la produzione", ritenendo in ogni caso non illecito l'esercizio dell'attivita' produttiva nelle aree a caldo dello stabilimento ionico, perche' non espressamente vietata dall'A.G. o dai custodi, essendosi l'ILVA limitata a mantenere gli impianti "in marcia ridotta, entro i limiti dell'obiettivo di quella preservazione degli stessi, disposta dal Tribunale del riesame". L'ordinanza del Tribunale del riesame sopra richiamata, aveva, in realta', modificato il provvedimento di sequestro del Giudice per le indagini preliminari, oltre che in riferimento alla individuazione del dott. Ferrante quale custode-amministratore, in sostituzione del dott. Tagarelli, esclusivamente nella parte in cui lo stesso GIP disponeva che i custodi-amministratori dovessero avviare "immediatamente le procedure tecniche e di sicurezza per il blocco delle specifiche lavorazioni e lo spegnimento degli impianti" (indicando, cioe', il blocco e lo spegnimento come uniche soluzioni per evitare l'aggravamento e la protrazione dell'attivita' illecita, da adottarsi senza indugio), avendo ritenuto, invece, che le modalita' esecutive del sequestro, in concreto, dovessero essere individuate "dagli stessi custodi-amministratori, sulla base delle migliori tecnologie disponibili, ed attuate sotto la supervisione del P.M. procedente, quale organo dell'esecuzione, all'esclusivo fine della eliminazione della situazione di pericolo; cio' in vista del raggiungimento del precipuo obiettivo, normativamente previsto, del sequestro preventivo, ovvero quello di evitare che la libera disponibilita' del bene sottoposto a sequestro possa aggravare e protrarre le conseguenze dei reati il cui fumus nel caso concreto venga ravvisato". Attesa la particolare natura degli immobili sequestrati (aree a caldo di uno stabilimento siderurgico a ciclo integrale, ove cioe' il prodotto finito, l'acciaio, si realizza partendo dalle materie prime e generando un prodotto intermedio, la ghisa) e preso atto che gli impianti, anche per ragioni di sicurezza ed incolumita' dei lavoratori, non potevano essere fermati immediatamente (cfr. verbale di sequestro del 30 luglio 2012 contenuto nel faldone n. 17), il medesimo Tribunale aveva precisato, a riguardo, che non fosse suo compito "stabilire se e come occorra intervenire nel ciclo produttivo (con i consequenziali costi d'investimento) o, semplicemente, se occorra fermare gli impianti, trattandosi di decisione che dovra' necessariamente essere assunta sulla base delle risoluzioni tecniche dei custodi-amministratori, vagliate dall'A.G.: per questo lo spegnimento degli impianti rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili"; tale determinazione era stata assunta tenuto conto che i periti nominati dall'autorita' giudiziaria, in sede di incidente probatorio, non avevano escluso la possibilita' che l'impianto siderurgico potesse lecitamente funzionare, attuando determinate misure tecniche finalizzate alla eliminazione di ogni situazione di pericolo per i lavoratori e per la cittadinanza - ritenendo dunque possibile individuare soluzioni che, nel giungere alla cessazione delle emissioni inquinanti, consentissero di non pregiudicare oltremodo gli ulteriori interessi in gioco (quali quello della tutela dell'impresa produttiva e quello della tutela dell'occupazione di mano d'opera) - essendo comunque emerso che l'immediato spegnimento degli impianti non solo avrebbe potuto irrimediabilmente ledere la loro integrita', ma avrebbe avuto immediate ripercussioni anche sull'intero contesto aziendale. Come e' noto, pero', il sequestro preventivo trova la sua giustificazione nel "finalismo" cautelare di impedire che una cosa pertinente al reato possa essere utilizzata per estendere nel tempo od in intensita' le conseguenze del crimine o per agevolare il compimento di altri reati. Il provvedimento inibitorio e' inteso a stabilire un vincolo di indisponibilita' in riferimento ad una cosa mobile od immobile il cui uso e' ricompreso necessariamente nell'agire vietato dalla legge penale. Ne discende che la misura cautelare in questione va disposta nelle situazioni in cui il non assoggettamento a vincolo della cosa pertinente al reato puo' condurre, in pendenza dell'accertamento del reato, non solo al protrarsi del comportamento illecito ovvero alla reiterazione della condotta criminosa ma anche alla realizzazione di ulteriori pregiudizi quali nuovi effetti offensivi del bene protetto (cfr. Cass. sez. U, Sentenza n. 12878 del 2003). Appare allora evidente che qualunque utilizzazione a scopo produttivo degli impianti in sequestro - come sostenuto dalla difesa in base a un'interpretazione non condivisibile dell'ordinanza del 7/20 agosto 2012 - avrebbe neutralizzato le finalita' della misura cautelare in concreto ravvisate (inibire le conseguenze antigiuridiche, ulteriori rispetto ai reati gia' consumati, discendenti da un uso degli impianti foriero di emissioni inquinanti e dannose per la salute dei lavoratori e della cittadinanza), contraddicendole e vanificandole; avrebbe, cioe', completamente sacrificato gli interessi alla cui tutela il sequestro era finalizzato, consentendo l'ulteriore lesione degli stessi mediante l'autorizzazione a proseguire nella medesima attivita' ritenuta illecita. Viceversa affidare l'"uso" degli impianti non all'azienda ma ai custodi era funzionale alla necessita' di "valutare e - nel caso - adottare, tra tutte le possibili scelte operative, quelle concretamente idonee a salvaguardare l'integrita' e la sicurezza degli impianti ed a consentire, in ipotesi, la ripresa della operativita' dei predetti, in condizioni di piena compatibilita' ambientale", atteso che in assenza di tale specificazione - e cioe' che i custodi potessero avere una limitata disponibilita' degli immobili in sequestro, un potere di prospettazione e di intervento non limitato alla mera conservazione ma finalizzato, se possibile, all'eventuale risanamento - la sorte delle aree dello stabilimento sottoposte a misura cautelare non poteva che essere quello della loro immediata chiusura (una volta superate le iniziali difficolta' tecniche): il Tribunale del riesame, in sintesi, avendo la possibilita' di regolare le modalita' concrete di attuazione del sequestro, si era limitato a porre condizioni a garanzia non solo della cessazione delle attivita' inquinanti e del disastro ambientale, ma anche della eventuale restituzione del bene. Ebbene, nonostante dovesse essere questa l'utilizzazione degli impianti consentita dal Tribunale del riesame, disponibilita' cioe' dei medesimi da parte dei custodi (qualificati proprio per questo anche "amministratori", conformemente al dettato di cui all'art. 104-bis disp. att. c.p.p.), sotto la supervisione del PM procedente, prodromica e strumentale alla ripresa (futura) dell'attivita' produttiva, ILVA S.p.A., pur esautorata dall'utilizzo degli impianti sequestrati, alla luce di quanto appena illustrato, ha continuato a produrre, come rilevato dal GIP nel provvedimento di sequestro del 22 novembre 2012 e come ammesso dalla stessa parte appellante, evidentemente nelle medesime modalita' (illecite) che avevano provocato emissioni inquinanti pericolose per la salute pubblica, essendo dato certo, e non contestato, che fino al momento attuale non sono stati eseguiti ne' avviati interventi strutturali finalizzati e idonei a incidere sul pericolo per l'incolumita' pubblica derivante dall'attivita' produttiva degli impianti sequestrati. A nulla rileva che non sia mai stato adottato un provvedimento di spegnimento, in ragione del fatto che, come si e' detto, non era questo lo scopo immediato e (inevitabile) del sequestro. E' invece erroneo affermare che i custodi non hanno rivolto ad ILVA "precisazioni concrete e dirette ... circa le modalita' di conduzione degli impianti", atteso che sin dalle disposizioni di servizio impartite dopo l'incontro tecnico tenutosi il 1° settembre 2012 (cfr. doc. n. 1 della produzione effettuato dal PM all'udienza dell'8 gennaio 2013), i custodi avevano indicato gli interventi immediati per accertare e ridurre gli effetti inquinanti derivanti dalla conduzione degli impianti; e nelle successive relazioni del 17 e del 24 ottobre 2012 i medesimi custodi informavano i PP.MM. che detti interventi non erano stati recepiti ne' avviati dall'azienda o comunque dotati di copertura finanziaria (come sottolineato dal Gip procedente). Appare infine meramente assertivo l'assunto secondo cui l'ILVA non ha condotto gli impianti "secondo regimi di marcia superiori a quello sufficiente al mantenimento in vita degli stessi", circostanza che, oltre a non essere supportata da alcun elemento probatorio, appare contraddetta dall'ingente quantitativo della merce posta sotto sequestro, pari a 1.581.211 tonnellate (cfr. annotazione di PG esplicativa del verbale di sequestro preventivo redatto il 26 novembre 2012 dalla Guardia di finanza di Taranto, presente in atti nel faldone n. 22). Ribadito, dunque, che l'acciaio, illecitamente realizzato da ILVA S.p.A., costituisce il "prodotto" dei reati sopra contestati e quindi cosa pertinente agli stessi e che lo stesso, a mente dell'art. 240 comma 1 c.p., potra' essere confiscato in caso di condanna, appare pienamente legittimo il sequestro preventivo disposto dal Gip, ai sensi dell'art. 321, comma 2 c.p.p. (che prevede la possibilita' di disporre tale misura cautelare reale sulle cose di cui e' consentita la confisca). La difesa ha contestato, sul punto, un difetto di motivazione da parte del primo Giudice, il quale avrebbe dovuto adeguatamente motivare sulle ragioni per le quali ha esercitato il potere cautelare (proprio in virtu' del fatto che, anche in caso di condanna, non va ordinata automaticamente la confisca del prodotto del reato). Sennonche', secondo condivisibile orientamento giurisprudenziale, per l'applicabilita' del sequestro preventivo previsto dall'art. 321, comma secondo c.p.p. non occorre necessariamente la sussistenza delle condizioni previste dal primo comma per il sequestro preventivo tipico, ma e' sufficiente il presupposto della confiscabilita'. Cio' che si richiede, ma solo nel caso della confisca facoltativa, e' che il giudice dia ragione del potere discrezionale di cui si e' avvalso, il che puo' avvenire anche mediante semplice riferimento alla finalita' di evitare la protrazione degli effetti del reato: finalita' nella quale deve ritenersi ricompresa l'esigenza di non consentire che la cosa confiscabile sia modificata, dispersa, deteriorata, utilizzata o alienata (cfr. Cass. sez. 6, Sentenza n. 1022 del 17 marzo 1995). Nel caso di specie tale riferimento vi e' stato, avendo il Gip esaurientemente spiegato che «... il prodotto finito o semi-lavorato ottenuto a seguito delle attivita' di lavorazione e trasformazione delle materie prime svolte presso lo stabilimento ILVA S.p.a. di Taranto ed attualmente staccato nei magazzini (da intendersi in senso ampio come aree e/o locali deputati alla collocazione del prodotto finito, anche in attesa di spedizione e/o consegna al committente) possa ed anzi, debba, essere considerato prodotto del reato proprio perche' cosa costituente "... il filato che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attivita' illecita" ovvero "cosa creata, trasformata o acquisita con la condotta criminosa."», imponendosi la necessita' del sequestro in ragione del fatto che «l'idea e l'attrattiva del reato stanno invero spiegando i loro effetti anche nell'attuale momento, ispirando - con la prospettiva di considerevoli profitti rivenienti dalla vendita del prodotto finito - le attuali condotte dei vertici aziendali, manifestatisi fino ad oggi recalcitranti nell'attuazione delle pratiche necessarie per dare concreta esecuzione al decreto di sequestro sopra richiamato ed ai successivi provvedimenti adottati in sede di riesame e di esecuzione» e, finanche, aggiungendo che «tale ultima considerazione evoca, a ben guardare, anche le finalita' del sequestro preventivo previsto dal primo comma dell'art. 321 c.p.p. essendo indubbio che la libera disponibilita' del prodotto finito o semi-lavorato (da considerarsi per le ragioni innanzi espresse quale cosa pertinente al reato) e la conseguente possibilita' della sua remunerata collocazione sul mercato, stia incentivando gli organi aziendali a perseverare, nell'allettante ottica di ulteriori profitti, immediati e futuri, nella produzione industriale con modalita' contrarie alla legge (come sinora avvenuto) e comunque pericolose per la salute pubblica, perpetuando di fatto quella "gravissima situazione di emergenza ambientale e sanitaria accertata nel corso delle indagini" diffusamente rappresentata nel richiamato decreto del 25 luglio u.s.» (ipotizzando, quindi, che la libera disponibilita' dell'acciaio prodotto possa far determinare il pericolo di reiterazione dell'attivita' criminosa). Le sopraesposte considerazioni conducono a confermare la sussistenza dei presupposti applicativi del sequestro preventivo disposto il 22 novembre 2012 sul prodotto finito e/o semilavorato. L'accoglimento dell'appello, dunque, puo' derivare esclusivamente dall'applicazione dell'art. 3, decreto-legge 207/2012, come modificato dalla legge di conversione n. 231/2012, in forza del quale, come si e' detto in premessa, a decorrere dalla data di entrata in vigore del predetto decreto-legge, la societa' ILVA S.p.A. di Taranto e' immessa nel possesso dei beni dell'impresa ed e' "in ogni caso autorizzata alla prosecuzione dell'attivita' produttiva nello stabilimento e alla commercializzazione dei prodotti ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore" del decreto-legge 207 cit. Una lettura costituzionalmente orientata della precedente versione dell'art. 3 contenuta nel decreto-legge 207/2012 - che non conteneva alcun riferimento al prodotto realizzato prima della sua entrata in vigore e consentiva, dopo la immissione di ILVA S.p.A. nel possesso dei beni aziendali la "conseguente" commercializzazione dei prodotti - ed una interpretazione coerente con i principi generali dell'ordinamento, non espressamente derogati dalla normativa sopra citata, con particolare riferimento al divieto di retroattivita' della legge, avevano infatti indotto il GIP a rigettare l'istanza di rimozione dei sigilli dei beni oggetto del sequestro preventivo del 22 novembre 2012. Le modifiche al comma terzo dell'art. 3 introdotte nella legge di conversione autorizzano, invece, la commercializzazione del prodotto finito, realizzato anche anteriormente alla vigenza del decreto-legge 207/2012, ossia quello in giudiziale sequestro, imponendo di fatto la revoca della vincolo cautelare reale, per la ovvia incompatibilita' tra il mantenimento del sequestro e la immissione in commercio di beni mobili (cfr. Cass. Civ., sez. 2, Sentenza n. 2548 del 24 aprile 1982). Il provvedimento di sequestro preventivo e', infatti, un atto di coercizione reale, destinato ad assoggettare determinate cose ad un vincolo di indisponibilita', mediante Io spossessamento di chi e' legittimato a farle circolare con effetti giuridici. Si tratta, quindi, di una misura di coercizione per esigenze di prevenzione, peraltro connessa e strumentale allo svolgimento del procedimento penale ed all'accertamento del reato per cui si procede, nel senso che e' suo scopo quello di evitare che il trascorrere del tempo possa pregiudicare irrimediabilmente l'effettivita' della giurisdizione espressa con la sentenza irrevocabile di condanna (cfr. Cass., sez. U, Sentenza n. 12878 del 2003). La sottrazione, la soppressione, la distruzione, la dispersione e/o il deterioramento della cosa sottoposta a sequestro penale sono anche condotte penalmente rilevanti (cfr. art. 334 c.p.): pertanto la vendita della cosa in sequestro, cui segua la consegna all'acquirente, integra un reato (cfr. Cass. sez. 6, Sentenza n. 9732 del 19 maggio 1982). Se persino il semplice utilizzo del bene oggetto di' sequestro preventivo implica di per se' a prescindere dalla impossibilita' del possessore di alienare il bene stesso - il protrarsi ed anche l'eventuale aggravamento delle conseguenze del reato, ponendosi in insanabile contraddizione con le finalita' della misura cautelare in questione (per cui sebbene tale facolta' sia stata talvolta concessa dai giudici di merito - allo scopo di tutelare interessi, pure costituzionalmente rilevanti, eventualmente lesi dalla applicazione della misura, si pensi ad esempio alla concessione dell'utilizzo a scopo abitativo di immobili abusivi posti sotto sequestro - la suprema Corte ha, con indirizzo costante, annullato il provvedimento: efr. Cass. sez. 3, Sentenza n. 825 del 4 dicembre 2008), la previsione ex lege della commercializzazione di beni mobili in giudiziale sequestro svuota di qualunque contenuto il provvedimento cautelare, imponendo di fatto all'autorita' giudiziaria - e, pertanto, a questo Tribunale dell'appello, all'esito del presente giudizio - la revoca del sequestro. Pur mantenendo formalmente il vincolo e', infatti, indubitabile che, all'esito del processo, alcun diritto potra' essere esercitato dallo Stato sul bene sequestrato e commercializzato, sia per l'inevitabile contrasto tra provvedimento ablatorio di confisca e diritti legittimamente acquisiti dal terzo acquirente (ove, in via del tutto ipotetica, sia possibile rintracciare la destinazione finale della res), sia perche' la natura stessa del bene in questione (acciaio destinato alla ulteriore produzione di beni diversi) rende effettivamente impossibile la successiva individuazione della cosa originariamente sequestrata, per la mancanza di pubblicita' degli atti di trasferimento dei beni mobili non registrati e per il processo di trasformazione a cui essa e' destinata. Tuttavia, ad avviso del Collegio, l'applicazione della norma prevista dall'art. 3, comma 3, legge 231/2012 - che impone, come si e' detto, il dissequestro del prodotto finito e/o semilavorato attualmente sottoposta a sequestro preventivo in forza di (legittimo) provvedimento del Gip emesso il 22 novembre 2012 - merita un preventivo vaglio da parte della Corte costituzionale, essendo non manifestamente infondate alcune questioni di costituzionalita' sollevate a riguardo dal PM procedente o, comunque, rilevabili d'ufficio. Solo la questione di legittimita' costituzionale della predetta norma, infatti, per le considerazioni sopra esposte, appare rilevante nel presente giudizio (nel senso che l'appello non puo' essere definito indipendentemente dalla risoluzione di essa), atteso che le altre norme su cui si sono appuntati i rilievi della Procura, in particolare quelle contenute negli articoli 1 e 2 del decreto-legge 207/2012 e nella parte iniziale del medesimo articolo 3, hanno esclusiva rilevanza con riferimento alla vicenda inerente il sequestro degli impianti dello stabilimento ILVA di Taranto, avendo imposto la immissione in possesso della societa' nei beni dell'impresa (anche se sottoposti a misura cautelare reale) e la prosecuzione della attivita' produttiva, ma non riguardano il dissequestro del prodotto finito, oggetto della presente impugnazione. (1) Sulla non manifesta infondatezza della questione. Orbene l'art. 3, comma 3, legge 231/2012 presenta evidenti profili di contrasto innanzitutto con l'art. 3 della Costituzione, ossia con il principio di uguaglianza, dal momento che identici fatti-reato (quali, in ipotesi, quelli contestati nel decreto di sequestro del 22 novembre 2012), se commessi da alcune imprese, possono determinare il sequestro del prodotto del reato medesimo e la conseguente incommerciabilita' dei beni, se commessi, invece, da ILVA S.p.A. non comportano analogo effetto, determinandosi in questo modo, ad avviso dell'odierno Collegio, una inammissibile disparita' di trattamento. La legge si presenta pertanto come "legge del caso singolo". A riguardo la Corte costituzionale ha, da tempo, statuito che il principio di eguaglianza e' violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini che si trovino in situazione eguale (cfr. Corte cost. sent. n. 15 del 1960). Nella sentenza n. 1009 del 1988, quasi si trattasse di enunciare una regola generale, la Corte costituzionale esprime chiaramente questo concetto: "il principio di cui all'art. 3 Cost. e' violato non solo quando i trattamenti messi a confronto sono formalmente contraddittori in ragione dell'identita' delle fattispecie, ma anche quando la differenza di trattamento e' irrazionale secondo le regole del discorso pratico, in quanto le rispettive fattispecie, pur diverse, sono ragionevolmente analoghe". Ebbene, nel caso di specie l'impugnata norma contrasterebbe con il principio di eguaglianza, in quanto sottrae alla situazione di illegale commerciabilita' del prodotto, sequestrato, di un reato, di norma punito ai sensi dell'art. 334 c.p., esclusivamente ILVA S.p.A., mentre lascia assoggettata al divieto (ed alle relative sanzioni penali) tutte le altre imprese che, nelle stesse condizioni, esercitino un'attivita' economica e verso le quali sia stato disposto il sequestro preventivo della merce. Ove, come si e' detto, l'art. 3, comma 3, legge 231/2012 introduca una ipotesi di revoca del sequestro preventivo, ulteriore e diversa da quella comunemente prevista dall'art. 321, comma 3, c.p.p., secondo cui il sequestro va revocato "quando risultano mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilita'" del vincolo, vi sarebbe ulteriore disparita' di trattamento tra tale evenienza, verificabile solo per ILVA S.p.A. e non tutte le altre imprese per le quali il dissequestro puo' essere disposto solo alle condizioni previste dall'art. 321, comma 3, c.p.p. La previsione di un trattamento penale piu' favorevole per i presunti responsabili di illeciti che contribuiscono a creare o mantenere una situazione di emergenza ambientale (incidendo gravemente su beni di rilevanza costituzionale, quali l'ambiente e la salute dei cittadini, esposti a grave pericolo proprio per effetto di quei comportamenti) appare manifestamente irragionevole e si pone, altresi', in contrasto con il criterio di scelta comunemente adottato dal legislatore, nella regolamentazione penale della materia ambientale, allorquando ha predisposto una tutela rafforzata al fine di garantire le popolazioni coinvolte [si pensi all'art. 6, lett. a) e d), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 30 dicembre 2008, n. 210, nella parte in cui, limitatamente alle aree geografiche in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti, configura come delitto condotte che, nel restante territorio nazionale, non sono penalmente rilevanti (lett. a) o sono punite a titolo di contravvenzione (lett. d)]. Il principio di uguaglianza appare, altresi', violato sotto il profilo della "ragionevolezza-razionalita'" della disparita' di trattamento (aderendo a quell'orientamento dottrinario secondo cui la ragionevolezza, in questa differente prospettiva, sembra esigere, piu' nettamente, "razionalita'" nelle scelte legislative, confondendosi, piu' propriamente, con la piu' generale esigenza di coerenza dell'ordinamento giuridico: cfr. Corte cost. sent. n. 204/1982, ove si dice che il valore essenziale dell'ordinamento giuridico di un paese civile sta nella coerenza tra le parti di cui si compone, "valore nel dispregio del quale le norme degradano al livello di gregge senza pastore"). Se l'art. 321 c.p.p. prevede la sequestrabilita' delle cose che costituiscono il prodotto del reato e che sono confiscabili, ai sensi del primo comma dell'art. 240 c.p., all'esito del processo (ovvero di quelle, pertinenti al reato, che possono aggravare o protrarre le conseguenze di esso reato ovvero agevolare la commissione di altri) e se l'effetto "naturale" del sequestro e' la indisponibilita' giuridica della res, appare davvero difficile comprendere perche' sia stato consentito ex lege a ILVA S.p.A. di commercializzare i prodotti in sequestro, non apparendo tale facolta' funzionale neanche a quella "assoluta necessita' di salvaguardia dell'occupazione e della produzione" che, a norma dell'art. 1, legge 231/2012, puo' determinare il Ministero dell'Ambiente "in sede di riesame della autorizzazione integrata ambientale" (nell'ambito, cioe', di un procedimento amministrativo istituzionalmente deputato al bilanciamento di opposti interessi, ravvisabili nel caso de quo nella tutela dell'ambiente e della salute) ad autorizzare la prosecuzione dell'attivita' produttiva degli stabilimenti "di interesse strategico nazionale", anche in caso di sequestro sui beni dell'impresa titolare dello stabilimento (autorizzazione che e' stata legislativamente disposta nei confronti di ILVA S.p.A., a mente del successivo articolo 3). In realta' l'applicazione dell'art. 3, legge 231/2012 sembra violare, anche sotto altro aspetto, il principio costituzionale di uguaglianza, nei termini sopra indicati (per la ingiustificata disparita' di trattamento tra situazioni analoghe e per la irrazionalita-incoerenza della diversita' di disciplina). E invero la suddetta legge, all'art. 1, introduce una fattispecie, quella di "stabilimento di interesse strategico nazionale" - prescrivendo che deve trattarsi di stabilimento individuato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri e che presso di esso devono essere occupati non meno di 200 lavoratori dipendenti, compresi quelli ammessi al trattamento di integrazione dei guadagni - in relazione alla quale prevede, per le imprese che abbiano le suddette caratteristiche, una particolare disciplina, in particolare la possibilita' di ottenere l'autorizzazione, da parte del Ministero dell'Ambiente, alla prosecuzione dell'attivita' produttiva (per un periodo non superiore a 36 mesi), anche se l'autorita' giudiziaria abbia adottato provvedimenti di sequestro che, a norma del comma 4 del predetto articolo 1, "non impediscono, nel periodo di tempo indicato nell'autorizzazione, l'esercizio dell'attivita' di impresa". A parte qualunque rilievo sulla generalita' potenziale della suddetta norma, trattandosi di legge solo formalmente generale e astratta, ma il cui fine precipuo immediatamente evidente - per la tempistica e le modalita' di approvazione del provvedimento - e' stato quello di regolamentare un caso singolo (ma si tratta di un profilo non rilevante nel presente giudizio), emerge chiaramente che la "prosecuzione dell'attivita' produttiva" e/o "l'esercizio dell'attivita' di impresa" degli stabilimenti di "interesse strategico nazionale" (ove ne fossero individuati altri, diversi da quello di ILVA S.p.A.) sono realta' concettuali, casi della vita, differenti rispetto a quello della prevista commercializzazione dei prodotti, realizzati antecedentemente al provvedimento ministeriale autorizzativo emesso ex art. 1, legge 231/2012, eventualmente posti sotto sequestro dall'autorita' giudiziaria che, dunque, non possono essere immessi in commercio dagli ulteriori stabilimenti di interesse strategico nazionale, nonostante l'autorizzazione alla prosecuzione dell'attivita' imprenditoriale, in assenza di specifica deroga all'art. 321 c.p.p. introdotta da altra norma di rango primario. Ebbene la norma inserita nel successivo art. 3, comma 3, della legge 231/2012 introduce solo per ILVA S.p.A., tra gli stabilimenti di interesse strategico nazionale, una disciplina di ulteriore favore (diversamente da quanto dedotto dalla difesa nella memoria difensiva depositata il 10 gennaio c.a.), prevedendo espressamente ed ex lege la prosecuzione dell'attivita' produttiva nel siderurgico (mentre per gli altri tale facolta' puo' essere concessa solo con decreto ministeriale, previa valutazione della necessita' di salvaguardare l'occupazione e la produzione, da bilanciare con altri interessi eventualmente contrapposti); e decretando, soprattutto, la commercializzazione dei prodotti realizzati anche antecedentemente alla entrata in vigore del decreto-legge 207/2012 (nonostante essi fossero, al momento di entrata in vigore del decreto-legge e della successiva legge di conversione, sottoposti a sequestro preventivo), laddove tale analoga possibilita' non e' concessa ad altri stabilimenti, per i quali possa essere autorizzato l'esercizio dell'attivita' di impresa, pur in presenza di un provvedimento di sequestro. L'incoerenza interna della legge appare palese, anche ove si voglia prescindere dal fatto che mentre gli stabilimenti di interesse strategico nazionale dovranno, in futuro, essere individuati da un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, quello condotto da ILVA S.p.A. nel capoluogo jonico e' tale per legge. In virtu' di tali considerazioni emerge, dunque, chiaramente una ingiustificata disparita' di trattamento anche tra singole situazioni aziendali "particolari", che sono state ritenute dal legislatore meritevoli di disciplina derogatoria, rispetto alle comuni attivita' imprenditoriali - cioe' gli stabilimenti di interesse strategico nazionale regolamentati dalla legge 231/2012 - in quanto, in connessione alla previsione legislativa in forza della quale solamente ILVA S.p.A. e' autorizzata alla prosecuzione dell'attivita' di impresa, ad essa viene riconosciuta dalla legge la esclusiva facolta' di commercializzare prodotti posti sotto sequestro. Tale prerogativa impone, come si e' detto, all'autorita' giudiziaria il dissequestro dell'acciaio, essendo incompatibile la permanenza del vincolo reale con la sua commercializzazione, mentre nella disciplina generale delle attivita' di impresa condotte dagli stabilimenti di interesse strategico nazionale, contenuta negli artt. 1 e 2 della legge 231/2012, ci si limita a prevedere solo una facolta' d'uso ex lege dei beni aziendali, non ontologicamente incompatibile con il sequestro (al piu' ne frustra la funzione, come sovente ricordato dalla Corte di Cassazione), essendo possibile, invece, la revoca del sequestro del prodotto realizzato anteriormente al provvedimento con cui e' stata autorizzata la prosecuzione dell'attivita' imprenditoriale, a mente dell'art. 321, comma 3, c.p.p, solo quando sono venute meno le esigenze preventive (secondo la disciplina generale). La Corte costituzionale nella sentenza n. 80 del 1969, nel delineare i profili di legittimita' delle "leggi singolari" ha rilevato che esse devono corrispondere a una obiettiva diversita' della situazione considerata, rispetto a realta' omogenee, la quale giustifichi razionalmente la disciplina differenziata per questa adottata: "occorre percio' che la ratio della legge si esaurisca nella fattispecie da essa disciplinata, e non si estenda a situazioni, concrete o ipotizzabili, le quali, pur presentando elementi comuni con essa, se ne diversifichino in modo da non rendere giustificabile l'applicazione ad esse della normativa disposta per il caso singolo. Ove queste condizioni non esistano, vale a dire ove la ratio della legge sia tale da coprire situazioni omogenee rispetto a quella singolarmente considerata, si avra' violazione del principio di eguaglianza, perche' si determineranno ingiustificate condizioni di vantaggio o di svantaggio per i soggetti della situazione e del rapporto regolato dalla legge, in relazione ai soggetti della serie delle situazioni o dei rapporti che ne sono stati esclusi". Nel caso di specie, se la ratio ispiratrice della legge e' la salvaguardia dei livelli produttivi ed occupazionali di una industria di interesse strategico nazionale (ma, si ripete, appare davvero arduo ipotizzare il collegamento tra tale finalita' - gia' assicurata dalle norme che prevedono la facolta' d'uso degli impianti, in costanza di sequestro - e l'autorizzazione a commerciare l'acciaio precedentemente realizzato, oggetto di sequestro perche' ritenuto prodotto di reati), si deve pertanto riconoscere che nella legge impugnata si e' provveduto in merito a una situazione singola, che risulta non obiettivamente diversa da altre situazioni per cui varrebbe la medesima ratio ispiratrice della legge stessa (ossia, gli altri stabilimenti di interesse strategico nazionale), con conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione. Se poi l'art. 3, comma 3, legge 231/2012, autorizzando la commercializzazione dei prodotti realizzati antecedentemente all'entrata in vigore del decreto-legge 207/2012, abbia voluto non solo rimuovere il limite legale al compimento di atti di disposizione sui beni in sequestro, ma anche introdurre una sorta di legittimita' ex post del prodotto realizzato, oltre che verificarsi una indebita violazione delle prerogative dell'autorita' giudiziaria (su cui ci diffondera' infra), verrebbe irragionevolmente violato anche il principio di irretroattivita' della legge, principio generale del nostro ordinamento e fondamentale valore di civilta' giuridica - come ricordato dal GIP nel provvedimento impugnato - che il legislatore puo' derogare, emanando norme retroattive, purche' trovino adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si pongano in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti, cosi da non incidere arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti (cfr. sentenze della Corte costituzionale n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, nn. 6 e 153 del 1994, n. 283 del 1993). A prescindere dal profilo poc'anzi illustrato, la previsione, in favore di ILVA S.p.A., della possibilita' di commercializzare il prodotto sotto sequestro, contenuta nel citato art. 3, comma 3, legge 231/2012, presenta profili di illegittimita' costituzionale non manifestamente infondati anche in riferimento agli artt. 102 e 104 della Costituzione, che tutelano le prerogative della funzione giudiziaria, perche' di fatto la legge incide su una attivita' giurisdizionale in corso (il procedimento penale avviato nei confronti dei soggetti sopra indicati in relazione a reati anche particolarmente gravi, quali il disastro doloso e l'avvelenamento di sostanze alimentari), ed in particolare sulla possibilita', all'esito del procedimento, di disporre la confisca del prodotto di un reato (poiche', quanto meno sino alla emanazione del decreto-legge 207/2012, per i motivi innanzi esposti, la prosecuzione dell'attivita' di impresa condotta presso le aree a caldo dello stabilimento ILVA di Taranto appare contraddistinta da illiceita' penale). Come e' noto gli artt. 101 e ss. della Costituzione delineano un sistema giurisdizionale di chiara autonomia ed indipendenza della magistratura ordinaria da ogni altro potere dello Stato, essendo il giudice soggetto "solo alla legge". La Corte costituzionale ha da tempo chiarito che la funzione giurisdizionale non puo' dirsi violata quando il legislatore agisca sul piano astratto delle fonti normative, senza ingerirsi nella specifica risoluzione delle concrete fattispecie in giudizio, per il solo fatto di un intervento legislativo con efficacia retroattiva o che interagisce con controversie in corso (in tal senso, cfr. le sentenze n. 229 del 1999, n. 432 del 1997, n. 397 del 1994, n. 402 del 1993). In quest'ottica la Consulta ha dichiarato che anche le cosiddette leggi-provvedimento (quelle, cioe', aventi la forma della legge ma un contenuto provvedimentale, in quanto provvedono concretamente su casi e rapporti specifici) sono legittime, a certe condizioni ed entro limiti specifici, tra cui la ragionevolezza ed il rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione sulle cause in corso (cfr. Corte cost. Sentenze n. 267/2007, n. 137/09, n. 241/08). Appare utile rimarcare, a tale riguardo, che uno dei principi fondamentali dello Stato di diritto e del nostro diritto pubblico e' che il Parlamento non eserciti funzione giurisdizionale, se non negli isolati casi previsti dalla Carta costituzionale (si pensi alla messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica): esiste, dunque, una riserva di giurisdizione specie nei giudizi pendenti (cfr. Corte Cost., sent. n. 321/1998 e n. 123/1987). Nel caso di specie annullare gli effetti di un provvedimento cautelare ex lege (si ribadisce, infatti, che consentire la commercializzazione del prodotto finito e/o semilavorato posto sotto sequestro equivale alla revoca, rectius alla eliminazione degli effetti propri della misura cautelare reale) e' una invasione della sfera di competenza del potere giudiziario e si manifesta come uso abnorme della funzione normativa, perche' attraverso lo strumento legislativo e' stato direttamente modificato un provvedimento del Giudice per le indagini preliminari di Taranto (il sequestro preventivo del 22 novembre 2012), senza peraltro modificare il quadro normativo sulla base del quale era stato emanato il decreto del Giudice. Trattasi, inoltre, di atto normativo privo di qualunque carattere di generalita' ed astrattezza (la facolta' di commercializzazione del prodotto in sequestro e' stata prevista solo in favore di ILVA S.p.A.) che non ha altra funzione, allora, che quella di sostituire la decisione parlamentare alla valutazione dell'autorita' giudiziaria circa la disponibilita' dei beni da parte dell'impresa. La suddetta norma di legge (art. 3, comma 3, legge 231/2012) violerebbe altresi' gli artt. 24 e 112 della Costituzione, perche' si pone in netto contrasto con il dovere dell'ordinamento di reprimere e prevenire reati, attraverso l'azione dei pubblici ministeri e l'eventuale sollecitazione del privato leso nei suoi diritti. Se, infatti, il provvedimento inibitorio emesso dal GIP ha lo scopo di apporre un vincolo di indisponibilita' su una cosa il cui uso e' ricompreso nell'agire vietato dalla legge, una norma ad hoc, che di fatto annulla gli effetti del provvedimento cautelare gia' disposto dall'Autorita' Giudiziaria, lede l'inderogabile dovere di prevenzione e repressione dei reati, che pure il Giudice delle leggi ha riconosciuto come bene oggetto di protezione costituzionale (cfr. Corte cost. sentenza n. 34/1973). Nel caso di specie l'intervento legislativo censurato non opera sul piano sostanziale ma incide su diritti processuali e, dunque, vulnera il diritto alla tutela giurisdizionale, a presidio del quale la norma costituzionale invocata e' posta. Si impone conseguentemente, a mente dell'art. 23, comma 2, legge 87/1953, la sospensione del presente giudizio di appello in attesa della decisione della Consulta, atteso che il termine previsto per la decisione ai sensi dell'art. 322 c.p.p., che rinvia all'art. 310 c.p.p. - venti giorni dalla ricezione degli atti - non e' previsto a pena di decadenza (cfr. Cass. sez. 3, Sentenza n. 2137 del 7 luglio 1998), differentemente da quello stabilito dall'art. 309, comma 10, c.p.p. per la decisione sul riesame. (1) Tale giudizio e' confermato dal fatto che analoghe questioni di incostituzionalita' sono state sollevate dalla Procura innanzi al Gip, contestualmente alla richiesta di "modifica del provvedimento di sequestro preventivo - revoca dei custodi" depositato presso la cancelleria dei Giudice per le indagini preliminari il 4 gennaio 2013 e riguardante la differente vicenda della immissione in possesso di ILVA S.p.A. negli impianti sequestrati il 25 luglio 2012 (in forza degli artt. 1 e 3 del decreto-legge 207/2012).
P.Q.M. Letti gli artt. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, ritenutane la non manifesta infondatezza e la rilevanza, dispone trasmettersi gli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 3, legge n. 231 del 24 dicembre 2012, per contrasto con gli artt. 3, 24, 102, 104 e 112 della Costituzione, nella parte in cui autorizza "in ogni caso" la societa' ILVA S.p.A. di Taranto "alla commercializzazione dei prodotti ivi compresi quelli realizzati antecedentemente alla data di entrata in vigore" del decreto-legge 207/2012, sebbene oggetto di sequestro preventivo; Sospende il presente giudizio; Manda alla cancelleria per la notifica della presente ordinanza all'appellante, al suo difensore, al pubblico ministero nonche' al Presidente del Consiglio dei Ministri ed ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Taranto, Camera di consiglio dell'8 gennaio 2013 Il Giudice estensore: Ruberto Il Presidente: de Tomasi