N. 38 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 novembre 2013

Ordinanza del 22 novembre 2013 emessa dal la Corte di cassazione  nel
procedimento civile promosso da  Passarella  Aniello  contro  Majello
Anna, Majello Gabriella e Condominio via Macedonio Melloni  n.  11  -
Napoli. 
 
Procedimento civile - Impugnazioni - Decorrenza del  termine  "lungo"
  per l'impugnazione previsto dell'art. 327, primo comma, c.p.c. (nel
  testo anteriore alla modifica del 2006) - Identificazione del  dies
  a quo nel caso in cui sulla sentenza oggetto di impugnazione  siano
  state  apposte  due  date,  una  (precedente)  di  deposito,  senza
  espressa indicazione che il documento contiene soltanto  la  minuta
  del  provvedimento,  e  l'altra  (successiva)  di  pubblicazione  -
  Interpretazione delle Sezioni unite della Cassazione, consolidatasi
  come diritto vivente,  secondo  cui  tutti  gli  effetti  giuridici
  derivanti dalla pubblicazione della sentenza  (e  quindi  anche  la
  decorrenza del termine previsto dall'art. 327, primo comma, c.p.c.)
  si producono gia' dalla prima data  del  deposito,  anziche'  dalla
  seconda data attestante l'effettiva pubblicazione della sentenza  -
  Disparita' di trattamento  a  seconda  che  le  attivita'  di  mero
  deposito e di effettiva pubblicazione della  sentenza  avvengano  o
  meno contestualmente - Lesione della pienezza e della certezza  del
  diritto  di  difesa  delle   parti   costituite   in   giudizio   -
  Irragionevole sottrazione ad esse di una frazione  di  tempo  utile
  per l'impugnazione. 
- Codice di procedura civile, combinato  disposto  degli  artt.  133,
  primo comma,  e  327,  primo  comma  (nel  testo  antecedente  alla
  modifica recata dall'art. 46, comma 17, della legge 18 giugno 2009,
  n. 69). 
- Costituzione, artt. 3, comma secondo, e 24, commi primo e secondo. 
(GU n.14 del 26-3-2014 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza interlocutoria  sul  ricorso
(iscritto ai N.R.G. 28514/07) proposto da Passerella  Aniello  (C.F.:
PSS NLL 47A05 H2430), rappresentato e difeso,  in  forza  di  procura
speciale a margine del ricorso, dagli  avv.ti  Giuseppe  Viparelli  e
Carlo Arrotta ed  elettivamente  domiciliato  presso  lo  studio  del
secondo, in Roma, viale Bruno Buozzi, n. 19, ricorrente; 
    Contro Majello Anna, Majello Gabriella e Condominio via Macedonio
Melloni n. 11 - Napoli, in persona dell'amministratore  pro  tempore,
intimati; 
    Avverso la sentenza n. 3137/'06 della Corte di appello di Napoli,
depositata il 7 novembre 2006 (e non notificata); 
    Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 3
ottobre 2013 dal Consigliere relatore dott. Vincenzo Mazzacane; 
    Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale dott. Maurizio Vetardi, che ha concluso per il  rigetto  del
ricorso. 
 
                           Fatto e diritto 
 
    1. Con ricorso depositato il 19 novembre 1989  nella  cancelleria
dell'allora Pretura di Napoli, la sig.ra Vitolo Emilia,  premesso  di
essere proprietaria di un terraneo  sito  in  Napoli,  via  Macedonio
Melloni n. 11, condotto in locazione ad uso rivendita di vini e  cibi
cotti dal sig. Passerella Aniello, nonche' delle due unita'  ad  esso
soprastanti,  pure  locate  a  terzi,  chiedeva  l'emissione  di   un
provvedimento d'urgenza ex art. 700  c.p.c.  al  fine  di  conseguire
l'ordine di sgombero dei locali a causa delle infiltrazioni  in  atto
nei suddetti immobili. 
    Ottenuto il provvedimento cautelare  pretorile,  la  Vitolo,  con
atto di citazione notificato  il  31  ottobre  1990,  introduceva  il
conseguente giudizio di merito nei confronti del  Passerella  Aniello
dinanzi al Tribunale di Napoli, onde sentir  confermato  il  suddetto
provvedimento e conseguire la  condanna  dello  stesso  convenuto  al
risarcimento dei  danni.  Costituendosi  in  giudizio  il  Passerella
chiedeva il rigetto delle domande attrici e, in via  riconvenzionale,
invocava la condanna della  Vitolo  al  risarcimento  dei  danni  per
mancato uso della cosa  locata,  instando,  simultaneamente,  per  la
chiamata in causa del Condominio di via Melloni, n. 11 di Napoli, nei
cui confronti si rendeva  necessario  estendere  il  contraddittorio.
Intervenivano,  poi,  volontariamente  in  giudizio  Majello  Anna  e
Majello Gabriella, a seguito del decesso  della  dante  causa  Vitolo
Emilia, mentre il predetto Condominio, evocato in giudizio,  rimaneva
contumace. 
    La Sezione stralcio dell'adito Tribunale di Napoli, con  sentenza
n. 8727 del 2003, convalidava il provvedimento d'urgenza e  rigettava
le altre domande. 
    Proposto appello da parte del Passerella,  al  quale  resistevano
Majello Anna e Majello Gabriella  (che  formulavano,  a  loro  volta,
appello incidentale), nella contumacia del  predetto  Condominio,  la
Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 3137 del 2006 (depositata
il  7  novembre  2006),  dichiarava  l'inammissibilita'  del  gravame
principale  e  la  conseguente  inefficacia  di  quello  incidentale,
compensando tra le parti costituite le spese del grado. 
    A sostegno dell'adottata pronuncia la Corte partenopea  ravvisava
l'inammissibilita' dell'appello del Passerella sul presupposto che lo
stesso (depositato il 13 luglio 2004) fosse stato proposto  oltre  il
termine di cui all'art. 327 c.p.c., considerando che esso si  sarebbe
dovuto far decorrere dalla data dell'8 aprile 2003, in cui era  stata
annotato dal  cancelliere  -  in  calce  alla  sentenza  impugnata  -
l'avvenuto deposito della sentenza stessa  (al  quale  ricondurre  la
giuridica esistenza del provvedimento ai sensi dell'art.  133,  comma
1, c.p.c.), e non dalla data  del  28  luglio  2003,  alla  quale  di
riferiva   l'annotazione   successivamente   apposta   dallo   stesso
cancelliere relativa all'attestazione dell'intervenuta  pubblicazione
della sentenza medesima. 
    2. Avverso la suddetta sentenza di appello  ha  proposto  rituale
ricorso per cassazione il Passerella riferito a due motivi, in ordine
al quale nessuna delle parti intimate ha svolto  attivita'  difensiva
in questa sede. All'esito della camera di consiglio e della  relativa
votazione sulla soluzione decisoria da adottare,  il  Presidente  del
collegio ha affidato la  stesura  della  motivazione  della  presente
ordinanza al Cons. Carrato. 
    3. Con il primo motivo il ricorrente, denunciando la violazione e
l'errata applicazione dell'art. 327 c.p.c.  in  riferimento  all'art.
133  c.p.c.,   ha   assunto   che   la   Corte   territoriale   aveva
illegittimamente dichiarato l'appello inammissibile in quanto tardivo
avendo fatto decorrere  il  termine  annuale  (maggiorato  di  quello
imputabile alla sospensione  feriale)  per  l'impugnazione,  anziche'
dalla data di pubblicazione della sentenza  di  primo  grado  del  28
luglio 2003, coincidente con quella annotata nel registro cronologico
ed attestata dalla cancelleria nell'avviso di deposito notificato  ai
procuratori, da quella antecedente dell'8 aprile 2003, in base ad una
generica attestazione di deposito  apposta  in  calce  alla  sentenza
stessa. A sostegno della formulata censura il  Passerella  ha  inteso
affermare  che  alla  prima  attestazione  non  si   sarebbe   potuta
riconoscere  alcuna  valenza  certificativa  ufficiale,  sia  perche'
appariva del tutto incerta l'attribuzione al cancelliere, sia perche'
la relativa stampigliatura non consentiva di determinare con certezza
se l'atto depositato a quella data rispondesse a tutti i requisiti di
esistenza della sentenza. A tal riguardo lo stesso  ha  ulteriormente
evidenziato che, ai sensi dell'art. 133 c.p.c.,  mentre  il  deposito
della sentenza costituisce elemento essenziale per l'esistenza  della
stessa, le altre formalita' previste dal secondo comma  dello  stesso
articolo (ovvero l'annotazione in calce, l'annotazione  nel  registro
cronologico e la comunicazione alle parti  costituite),  pur  essendo
estrinseche all'atto e, quindi, non incidenti sull'esistenza e  sulla
validita' dello stesso, concorrono, tuttavia, al  raggiungimento  del
complessivo obiettivo a cui e' finalizzata la norma, ossia a  rendere
la decisione pubblica ed accessibile alle  parti  ed  a  chiunque  vi
abbia interesse. 
    A  corredo  di  tale  doglianza  il  ricorrente  ha   ritualmente
prospettato - ai sensi dell'art. 366-bis c.p.c.  ("ratione  temporis"
applicabile nella specie, risultando la sentenza impugnata pubblicata
il 7 novembre 2006) - il seguente quesito di diritto: "dica la  Corte
se e' vero che, quanto meno ai fini della decorrenza del termine  per
l'impugnazione di cui all'art. 327 c.p.c., la data  di  pubblicazione
della sentenza deve coincidere con quella indicata dalla  cancelleria
nell'avviso di deposito comunicato alle parti, ai sensi  del  secondo
comma  dell'art.  133  c.p.c.,  specie  se  corrispondente  a  quella
formalmente annotata come «pubblicazione» in calce alla  sentenza  ed
anche se in presenza di altre e precedenti stampigliature". 
    Con il secondo motivo  il  ricorrente  ha  dedotto  il  vizio  di
motivazione circa il punto decisivo della controversia attinente alla
ritenuta  erronea  applicazione  degli  artt.  133  e   327   c.p.c.,
denunciando - anche in relazione al  citato  art.  366-bis  c.p.c.  -
l'illogicita' e l'inadeguatezza del percorso  argomentativo  adottato
dalla Corte  partenopea  nella  parte  in  cui  aveva  ritenuto  che,
nell'ipotesi di corrispondenza tra la data di pubblicazione contenuta
nella comunicazione ex  ad.  133  c.p.c.  ed  una  (apposta  in  data
antecedente)  delle  due  apparentemente  risultanti  in   calce   al
provvedimento,  aveva  dato  prevalenza  a   quest'ultima,   anziche'
attribuirle una valenza esclusivamente interna all'Ufficio. In  altri
termini, la difesa del Passerella ha inteso porre in risalto che,  di
fronte  alla  sussistenza  di  due  diverse  annotazioni,  la   Corte
territoriale avrebbe dovuto accertare e motivare  "aliunde"  -  sulla
scorta di specifici elementi probatori - la conoscenza  da  parte  di
esso  appellante  della  datazione   portata   dall'annotazione   non
corrispondente  a  quella  contenuta  nell'avviso  comunicato   dalla
cancelleria,   non   essendo,   invece,   sufficiente    l'apodittica
affermazione relativa ai  momento  di  venire  in  essere  dell'atto,
peraltro resa in  assoluto  dispregio  della  formale  certificazione
rilasciata dalla cancelleria del Tribunale di primo grado e  prodotta
in atti, attestante la pubblicazione avvenuta in data 28 luglio 2003. 
    4. Rileva il collegio che le due censure formulate con il ricorso
- esaminabili congiuntamente essendo palesemente connesse e  riferite
alla medesima questione processuale sulla  quale  si  e'  fondata  la
sentenza di appello - ripropongono  la  delicata  problematica  della
corretta e logica interpretazione del combinato  disposto  dei  primi
due commi dell'art. 133 c.p.c. in relazione alla previsione contenuta
nell'art. 327 c.p.c., riguardante la contemplata decorrenza del  c.d.
termine lungo (ora, peraltro, ridotto a sei mesi  per  effetto  della
modifica apportata dall'art. 46, comma  17,  della  legge  18  giugno
2009, n. 69, ma applicabile solo ai giudizi instaurati dopo l'entrata
in vigore della legge appena citata) per l'impugnazione (in  caso  di
mancata   notificazione    della    sentenza    impugnabile)    dalla
"pubblicazione  della  sentenza"  (per  il  giudizio  in  discorso  -
introdotto nel 1990 - computabile, "ratione temporis", in un  anno  e
46 giorni, in base alla pregressa disciplina dei  primo  comma  dello
stesso art. 327 c.p.c.,  correlato  all'applicabilita'  dell'art.  1,
comma  1,  della  legge  7  ottobre  1969,  n.  742,  in  materia  di
sospensione dei termini processuali nel periodo feriale dal 1° agosto
al 15 settembre). 
    5. Il collegio e' pienamente consapevole che sulla  questione  in
esame e', recentemente, intervenuta, ai fini  della  risoluzione  del
contrasto insorto precedentemente in seno alle sezioni  semplici,  la
sentenza delle Sezioni unite n. 13794 del  1°  agosto  2012,  con  la
quale e' stato affermato il seguente principio di  diritto  (peraltro
consono a quello fatto proprio nella sentenza della Corte di  appello
di Napoli, qui impugnata): "a norma dell'art. 133 c.p.c., la consegna
dell'originale completo del documento-sentenza al cancelliere,  nella
cancelleria del giudice che l'ha pronunciata, avvia  il  procedimento
di pubblicazione, il quale si compie, senza soluzione di continuita',
con la certificazione del deposito mediante l'apposizione,  in  calce
al documento, della firma e della data del  cancelliere,  che  devono
essere  contemporanee  alla  data  della  consegna  ufficiale   della
sentenza, in tal modo resa pubblica per effetto di legge. E' pertanto
da escludere che il cancelliere, preposto, nell'espletamento di  tale
attivita', alla tutela della fede pubblica (art.  2699  c.c.),  possa
attestare che la sentenza, gia' pubblicata, ai  sensi  dell'art.  133
c.p.c.,  alla  data  del  suo  deposito,  viene  pubblicata  in  data
successiva, con la conseguenza che, ove sulla  sentenza  siano  state
apposte due date, una di deposito, senza espressa specificazione  che
il documento contiene soltanto la minuta del provvedimento, e l'altra
di  pubblicazione,  tutti  gli  effetti  giuridici  derivanti   dalla
pubblicazione della  sentenza  decorrono  gia'  dalla  data  del  suo
deposito". Successivamente si sono conformate a tale principio Cass.,
sez. 1, 29 ottobre 2012, n. 18569, e Cass., sez. III, 4 aprile  2013,
n. 8216. 
    In particolare, va osservato che la segnalazione  di'  contrasto,
negli indirizzi di  legittimita',  concerneva  l'identificazione,  al
fine della decorrenza dei termini per l'impugnazione, della  data  di
pubblicazione della sentenza, rinvenendosi, accanto  all'orientamento
che fissava tale momento alla data  di  deposito  del  provvedimento,
anche la tesi  che,  in  presenza  di  doppia  data,  ascriveva  alla
seconda,  che  menzionasse  esplicitamente  la  pubblicazione   della
sentenza, il  correlativo  effetto  giuridico,  dovendosi,  pertanto,
intendere la prima data riproduttiva di  una  mera  attestazione  del
deposito della minuta del  provvedimento  (quand'anche  il  documento
fosse  risultato  completo  in  ogni  sua  parte)   ovvero   comunque
riferibile ad un adempimento prodromico ed  anteriore,  riservato  al
cancelliere ma ancora non integrante la pubblicazione vera e propria. 
    Con la richiamata sentenza n. 13794 del 2012,  le  Sezioni  unite
hanno condiviso  la  prima  tesi,  per  la  quale  la  prospettazione
decisoria finale  muove  dal  riconoscimento  che  il  termine  (gia'
previsto ed  applicabile  "ratione  temporis")  di  un  anno  per  la
proposizione  dell'impugnazione  stabilito   dall'art.   327   c.p.c.
"decorre dal giorno della  pubblicazione  della  sentenza  e  non  da
quello della  comunicazione  dell'avvenuto  deposito  effettuata  dal
cancelliere alla parte costituita, giacche' l'attivita' partecipativa
del cancelliere resta estranea al procedimento di pubblicazione e non
integra un elemento costitutivo  ne'  integrativo  dell'efficacia  di
essa" (in tal senso v. Sez. 2, sentenza  n.  10963  del  20  dicembre
1994; Sez. 3, sentenza n. 4220 del 24 aprile 1998; Sez.  3,  sentenza
n. 14698 del 13 novembre 2000 e, cosi'  via  fino  ad  arrivare  alle
pronunce non massimate, della Sez. L, ordinanza n. 13488 del 3 giugno
2010, della Sez. L, sentenza n. 5096 del 2 marzo 2011 e della Sez.  6
- L, ordinanza n. 13433 del 17 giugno 2011). Il corollario logico che
ne veniva fatto derivare, in punto  di  decadenza  dall'impugnazione,
consisteva nel rilevare che il termine  decorre  dalla  pubblicazione
della sentenza, coincidente con il  "deposito  in  cancelleria  della
stessa",  a  nulla  rilevando  l'omissione  della  comunicazione   di
cancelleria di avvenuto deposito, la quale puo' dare solamente  luogo
a conseguenze disciplinari a carico del responsabile" (sul  punto  v.
Sez. L, sentenza n. 15778 del 16 luglio 2007 e Sez. 2,  ordinanza  n.
14297 del 15 giugno 2010). 
    Nella giurisprudenza  di  legittimita'  risulta  esaminata  anche
l'ipotesi (peraltro non infrequente presso le Cancellerie dei giudici
di merito) in cui "la sentenza presenti, oltre la firma del  giudice,
due timbri di deposito entrambi sottoscritti dal cancelliere: al fine
di individuare il giorno del deposito, dal quale decorre  il  termine
di decadenza dall'impugnazione", in ordine a tale eventualita' si era
ritenuto  che  "occorreva  far  riferimento  alla  prima   data,   in
riferimento  alla  quale  risultava  accertata  la  formazione  della
sentenza per la ricorrenza dei  requisiti  indispensabili  prescritti
dall'art. 133, primo comma, c.p.c. (ovvero la consegna della sentenza
da parte del giudice al cancelliere e il suo contestuale deposito  da
parte di quest'ultimo), atteso che il successivo timbro di  deposito,
non potendo attestare un evento gia' verificatosi  (la  pubblicazione
della sentenza), era riconducibile  agli  adempimenti  a  carico  del
cancelliere medesimo, di cui al secondo comma dell'art. 133  cc.p.c."
(cfr. Sez. 2, sentenza n. 20858 del 29 settembre 2009).  La  sentenza
(ed  ovviamente,  ogni  altra  pronuncia),  intesa   come   documento
riproduttivo   del   provvedimento   da   considerarsi   finale    ed
irretrattabile, oltre che  conforme  al  deciso,  e'  consegnata  dal
magistrato al cancelliere, mentre questi, assumendosene la  (doverosa
prestazione di) ricezione, da' conto del contestuale  deposito  della
stessa agli atti della cancelleria. Verrebbe a concludersi, con  tale
adempimento da parte del magistrato (denominato consegna nella stessa
sentenza  delle  S.U.  n.  13794/12),  l'attivita'  di  redazione  ed
ultimazione del contenuto della sentenza, anche per  la  verifica  di
corrispondenza del documento finale alla  decisione  ed  inizierebbe,
per  converso,  una  fase  esterna,  di  tipo   amministrativo   che,
culminando in attivita' di comunicazione (e  talora  notifica)  oltre
che di annotazione e  trasmissione  ad  altri  pubblici  registri  (o
uffici, come quello fiscale), completa l'efficacia  della  decisione,
presupponendone giocoforza la sua avvenuta pubblicazione. 
    Le Sezioni unite,  con  la  predetta  pronuncia  (risolutiva  del
precedente contrasto), hanno inteso precisare  che  la  consegna  del
documento  da  parte  del  magistrato   al   cancelliere   avvia   il
procedimento di pubblicazione che, pero', e' destinato  a  compiersi,
con la certificazione di deposito, senza "soluzione  di  continuita'"
ed anzi in  termini  di  contemporaneita'.  La  pubblicazione  assume
dunque il significato di effetto giuridico del deposito da parte  del
cancelliere, senza che nessun atto diverso di tale pubblico ufficiale
sia concepibile, nella descritta vicenda  finale  della  preparazione
all'esistenza della sentenza: questa  deve  intendersi  esistente  in
quanto e da quando resa pubblica mediante il suo  deposito  da  parte
del cancelliere, che ne riceve l'originale firmato e controllato  dal
magistrato decidente. 
    L'orientamento a cui hanno aderito le Sezioni  unite  ha  inteso,
quindi, recepire l'indirizzo per  cui  "l'attivita'  di  attestazione
supposta dall'art. 133 e' prevista dal comma 2 della norma  non  come
da compiersi una volta avvenuto il  deposito,  cioe'  come  attivita'
eventualmente successiva e, quindi, non necessariamente  contestuale,
bensi'  come  attivita'  di  attestazione  contestuale  del  deposito
(rilevandosi, infatti, come la norma reciti che "il  cancelliere  da'
atto del deposito", onde il dare atto si dovrebbe intendere  riferito
al deposito). 
    Con la indicata sentenza le Sezioni unite hanno,  quindi,  voluto
superare l'indirizzo che, per le fattispecie di sentenza  con  doppia
data - variamente attestativa o  asseverativa  di  eventi,  quali  la
consegna o il deposito ovvero  la  qualita'  di  pubblicazione  della
pronuncia - attribuiva  autonomia  all'atto  di  deposito  ovvero  di
pubblicazione  da  parte  dell'organo  amministrativo  rispetto  alla
consegna del documento proveniente dal magistrato a cio' legittimato,
finendo  esso  con  il  conferire  al  cancelliere  una   inesistente
competenza  determinativa  ultima  circa  la  stessa  nascita   della
sentenza, comportante  un  apparente  sacrificio  di  autosufficienza
giurisdizionale a fronte della citata maggior tutela  delle  parti  e
delle  opportunita'  di  impugnazione,   considerate   obiettivamente
dilatate e che, tuttavia, le Sezioni  unite  non  hanno  mostrato  di
condividere. Esse, anzi, hanno rilevato il  carattere  arbitrario  di
"qualsiasi 'ultronea' pubblicazione in data successiva  a  quella  di
deposito", sostenendosi, al riguardo, che "il  cancelliere  non  puo'
aggiungere un'attivita' di pubblicazione che  la  legge  non  prevede
separatamente dall'attestazione di deposito, ne' rendere pubblica  la
sentenza quando si determina a farlo", al punto che "ogni altra  data
apposta sulla sentenza successivamente a quella di deposito  di  essa
e' priva di qualsiasi rilevanza per  gli  effetti  giuridici  che  la
legge fa derivare dalla sua pubblicazione". 
    6. Il  collegio  prende  atto  del  menzionato  intervento  delle
Sezioni unite  che  e'  venuto  a  costituire  il  "diritto  vivente"
attualmente applicabile (anche per la nuova valenza e - tendenziale -
vincolativita' che alle pronunce delle Sezioni unite assegna il nuovo
art. 374, comma 3, c.p.c.), ma osserva che la soluzione adottata  dal
massimo consesso nomofilattico, nell'esaminare il combinato  disposto
degli artt. 133 e 327, comma 1, c.p.c., e' suscettibile di comportare
la possibile violazione degli artt. 3, comma  secondo,  e  24,  commi
primo e secondo, della Costituzione, con conseguente rilevazione  dei
relativi  presupposti   per   sollevare   la   conferente   questione
incidentale di costituzionalita', che si  prospetta  -  nel  caso  di
specie - rilevante e non manifestamente infondata. 
    Osserva, peraltro, il collegio, in via  pregiudiziale,  che,  pur
non condividendo il principio  di  diritto  enunciato  dalle  Sezioni
unite nella piu'  volte  citata  sentenza  n.  13794  del  2012,  non
considera opportuno, ai sensi  del  richiamato  art.  374,  comma  3,
c.p.c., investire nuovamente  della  questione  le  medesime  Sezioni
unite,   alla   stregua   del   percorso   argomentativo    espresso,
recentemente, dalle stesse Sezioni unite, con la  sentenza  n.  13620
del 31 luglio 2012, sulle peculiari forza e valenza attribuibili allo
"stare decisis" riconducibile agli stessi principi di diritto assenti
dalle Sezioni unite, soprattutto con riferimento alla risoluzione  di
contrasti su questioni processuali. In particolare, con la  ricordata
sentenza n. 13620 del 2012,  e'  stato  affermato  che  "benche'  non
esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola
dello «stare  decisis»  essa  costituisce,  tuttavia,  un  valore  o,
comunque,  una  direttiva  di  tendenza  immanente  nell'ordinamento,
stando alla quale non e' consentito discostarsi da un'interpretazione
del  giudice  di  legittimita',  investito  istituzionalmente   della
funzione della nomifilachia,  senza  forti  ed  apprezzabili  ragioni
giustificative; in particolare, in tema di norme processuali, per  le
quali l'esigenza di un adeguato grado di certezza  si  manifesta  con
maggiore evidenza, anche alla luce dell'art. 360-bis, primo comma, n.
1,  c.p.c.  (nella  specie,  peraltro,   non   applicabile   "ratione
temporis"), ove siano compatibili con  la  lettera  della  legge  due
diverse interpretazioni, deve preferirsi quella sulla cui base si sia
formata   una   sufficiente   stabilita'   di   applicazione    nella
giurisprudenza della Corte di cassazione". 
    Pertanto, alla luce  di  questa  impostazione  ermeneutica  sulla
necessaria effettivita' del "valore del  precedente"  costituito  dal
principio  di  diritto  enunciato  dalla  Sezioni  unite  in  materia
processuale  orientato  a   garantire   stabilita'   agli   indirizzi
giurisprudenziali di legittimita' (soprattutto se affermato  da  poco
per  risolvere  un  contrasto  perpetuatosi  per  lungo  tempo,  come
verificatosi  nell'ipotesi  in   questione,   senza   trascurare   la
circostanza  ulteriore  che  gia'  singole   sezioni   hanno   inteso
successivamente recepire detto principio di diritto: Cass.,  sez.  I,
29 ottobre 2012, n. 18569 rv. 624046, e Cass.,  sez.  III,  4  aprile
2013, n. 8216 - rv.  625830),  si  ritiene  inconferente  reinvestire
nuovamente le Sezioni unite -  a  cosi  breve  distanza  temporale  -
dell'esame della questione processuale in discorso, per risollecitare
una pronuncia conducente all'affermazione di- un principio di diritto
di contenuto opposto rispetto a quello enunciato  a  risoluzione  del
pregresso contrasto. 
    Solo incidentalmente si evidenzia, peraltro, che la piu'  recente
dottrina,  la  quale  ha  avuto  modo  di  occuparsi  della   portata
innovativa della suddetta sentenza n. 13620 del 2012, ha rilevato, in
senso critico, che il principio affermato consente che  il  "vincolo"
solo processuale delle Sezioni semplici al precedente  delle  Sezioni
unite si estenda alla soluzione nel merito  delle  singole  questioni
prospettate (assumendo, percio', connotati sostanziali), in modo tale
da vincolare (o, comunque,  condizionare  in  modo  determinante)  la
giurisprudenza di legittimita'  con  riferimento  a  qualsiasi  fonte
normativa. Si e', inoltre, incisivamente osservato che il  precedente
delle Sezioni  unite  -  il  quale  costituisce  il  presupposto  per
l'applicazione dell'art.  374,  comma  3,  c.p.c.  -  si  verrebbe  a
rivelare, secondo la lettura proposta  con  la  sentenza  delle  S.U.
appena ricordata, come il limite di applicazione della norma  stessa,
comportando la sua inoperativita' (ovvero impedendosi,  in  concreto,
alla Sezione semplice di rimettere la questione alle  Sezioni  unite)
ogni qualvolta sia intervenuta (soprattutto in tempi  recenti  ovvero
prossimi rispetto alla riproposizione della questione) una precedente
pronuncia risolutiva della questione oggetto di  pregresso  contrasto
da parte delle medesime Sezioni unite. 
    Tutto cio', naturalmente, non impedisce  al  collegio  -  proprio
valorizzando la peculiare forza del "diritto  vivente"  riconducibile
alle pronunce delle Sezioni unite - di verificare  la  compatibilita'
dell'approccio ermeneutico sotteso a dette pronunce  con  i  principi
costituzionali in concreto involti dalla questione  risolta  (con  la
definizione del relativo contrasto presente all'interno delle sezioni
semplici). A tal proposito si rileva che - nell'ambito  della  stessa
giurisprudenza costituzionale - e' stato reiteratamente chiarito  che
una questione sollevata dinanzi  alla  Corte  costituzionale  in  via
incidentale non puo' ritenersi "di mera interpretazione" - come  tale
inammissibile  -  ma  "di  legittimita'  costituzionale",  quando  il
giudice "a quo", pur non condividendo l'interpretazione di una  norma
consolidatasi nella giurisprudenza della Corte di cassazione, non  ne
chiede una revisione sul  piano  ermeneutico,  ma,  assumendo  quella
interpretazione come "diritto vivente", ne invoca  una  verifica  sul
piano della costituzionalita' (v., ad es., Corte cost., sent. n.  110
del 1995; Corte cost., sent. n. 188 del 1995; Corte cost.,  sent.  n.
480 del 2005). In altri termini, la giurisprudenza del Giudice  delle
leggi ha univocamente ritenuto ammissibili questioni di  legittimita'
costituzionale aventi ad oggetto una  o  piu'  norme  nella  relativa
interpretazione consolidatasi quale diritto vivente, poiche',  avendo
il giudice remittente la facolta' di uniformarsi o meno  allo  stesso
diritto vivente, nella suddetta ipotesi non puo' essergli  addebitato
di  aver  richiesto  un  non  consentito  avallo   ad   una   propria
interpretazione in contrasto con  l'esegesi  delle  norme  denunciate
consolidatasi in termini di diritto  vivente,  poiche'  proprio  tale
diritto  vivente  rappresenta  l'oggetto  dei  possibili   dubbi   di
costituzionalita' (cfr., da ultimo, Corte  cost.,  ord.  n.  253  del
2012, nonche', sulla facolta' del giudice remittente di uniformarsi o
meno al diritto vivente, Corte cost., sentenze nn. 338 del 2011 e 117
del 2012). 
    7. Cio' posto, ritiene il collegio che sussistono  le  condizioni
per sollevare la questione incidentale di legittimita' costituzionale
in relazione al richiamato principio di diritto, costituente "diritto
vivente", affermato dalle Sezioni Unite con la piu'  volte  ricordata
sentenza  n.  13794  del  2012,   poiche'   la   interpretazione   da
quest'ultima  privilegiata  appare  contrastante  con   i   parametri
normativi di cui agli artt. 3, comma 2, e 24, commi primo e  secondo,
della Costituzione. 
    La questione - in tal senso inquadrata -  non  e'  manifestamente
infondata perche' l'interpretazione fornita dalle  Sezioni  unite  di
questa Corte, con la  richiamata  sentenza,  per  un  verso  tende  a
determinare  una  disparita'  di  trattamento   tra   la   situazione
processuale in cui le attivita' di mero  deposito  della  sentenza  e
quella  di  effettiva  pubblicazione  della  stessa  risultano  (come
dovrebbe accadere di regola) contestuali con quella  in  cui  le  due
attivita' si  scindono  ed  hanno  luogo  in  due  momenti  temporali
diversi, spesso anche  distanti  apprezzabilmente  (tenendosi  conto,
peraltro; che il novellato art. 327, comma 1°, c.p.c. - ancorche' non
applicabile nella specie "ratione temporis" - ha addirittura  ridotto
il  termine  c.d.  "lungo"  per  la  proposizione   dell'impugnazione
ordinaria  a  sei  mesi  a  decorrere  "dalla   pubblicazione   della
sentenza"). 
    Invero, optandosi per l'applicazione  del  principio  di  diritto
affermato  con  la  sentenza  n.  13794  del  2012,  si  assegnerebbe
preferenza ad un'attivita' processuale (quella di mero deposito della
sentenza con l'apposizione di  un  visto  del  cancellerie  del  tipo
"depositata in data....") che - in modo irragionevole ed in virtu' di
un approccio ermeneutico "in  malam  partem"  -  risulterebbe  lesivo
della pienezza e della certezza del diritto  di  difesa  delle  parti
costituite  in  giudizio  (in  relazione  alla   portata   precettiva
dell'art. 24, commi 1° e 2°, Cost.), nei  cui  riguardi,  invece,  il
termine  appena  indicato  dovrebbe  cominciare  a  decorrere   dalla
effettiva pubblicazione della sentenza, che e' l'attivita' alla quale
il cancelliere pone riferimento, in relazione all'art. 133, comma  2,
c.p.c., nel biglietto contenente il dispositivo  da  comunicare  alle
parti e  con  riferimento  alla  quale  le  stesse  prendono  formale
conoscenza dell'avvenuta pubblicazione del provvedimento. Del  resto,
il cancelliere e' tenuto a rilasciare, di norma, le copie  autentiche
delle sentenze solo una volta che  esse  siano  state  effettivamente
pubblicate ed  annotate  nell'apposito  registro  cronologico  ed  e'
corrispondentemente logico ritenere che l'attivita'  di  attestazione
del passaggio in  giudicato,  a  tale  pubblico  ufficiale  conferita
dall'art. 124 disp. att. c.p.c., non possa che assumere come  momento
di decorrenza del termine di cui all'art. 327, comma 1, c.p.c.  -  in
caso  di  mancata  notificazione  della  sentenza  -   quello   della
pubblicazione ufficiale della stessa. 
    A tal riguardo si osserva che non sembra  plausibile  configurare
una distinzione  tra  il  deposito  della  sentenza,  come  "consegna
ufficiale" del documento al cancelliere,  e  la  "certificazione  del
compimento di tale attivita'"; sembra, invece,  ragionevole  ritenere
che sia appunto la certificazione  del  cancelliere,  quale  atto  di
certezza legale, a rendere  ufficiale  la  consegna  della  sentenza,
quale modalita' di esternazione della decisione. Sicche' la sentenza,
la cui deliberazione ha natura di atto  meramente  interno,  acquista
efficacia,  esterna  per  effetto  del  suo  deposito  attestato  dal
cancelliere,  perche'  questa  attestazione,  che  ha  efficacia   di
certezza pubblica, vincola, fino a querela di falso, ad assumere  per
vero l'avvenuto deposito della decisione nella data indicata. Non  si
profila, quindi, congruo leggere (cfr. Cass. n. 6991 del 2007) l'art.
133 c.p.c. tenendo distinto il comma 1, che attribuisce  al  deposito
l'efficacia di rendere pubblica la sentenza, dal secondo  comma,  che
impone al cancelliere  di  dare  atto  del  deposito,  perche'  senza
attestazione del cancelliere non v'e' pubblicazione della sentenza (e
lo stesso comma 2 del citato art. 133 c.p.c, riconduce a quest'ultima
attivita' il conseguente obbligo del cancelliere di provvedere, entro
il termine  -  considerato  ordinatorio  -  di  cinque  giorni,  alla
comunicazione, con apposito  biglietto,  alle  parti  costituite  del
dispositivo della sentenza con riferimento al  quale  deve,  percio',
intendersi completato il procedimento di rituale pubblicazione). 
    Con quanto appena affermato, ovviamente, non si vuole avallare la
tesi alla stregua della quale il termine lungo ex art. 327, comma 1°,
dovrebbe decorrere  a  far  data  dall'avvenuta  comunicazione  della
pubblicazione  della  sentenza  a  cura  della  cancelleria  (la  cui
questione e'  stata,  peraltro,  gia'  ritenuta  -  con  riguardo  al
processo ordinario di cognizione -  manifestamente  infondata,  avuto
riguardo al ravvisato bilanciamento tra l'indispensabile esigenza  di
tutela della certezza delle situazioni giuridiche ed  il  diritto  di
difesa: cfr. Corte cost. sentenze nn. 584 del 1990 e  297  del  2008;
sul punto v. anche Cass. nn. 16311 del 2004  e  Cass.  n.  17704  del
2010), bensi' si vuole  porre  in  risalto  che  tale  termine  debba
decorrere dalla  "pubblicazione  in  senso  proprio",  in  tal  senso
intendendosi il riferimento a tale termine contenuto nel citato  art.
327, comma 1°, del codice di rito civile. 
    In   relazione,   percio',   ad   una    possibile    equivocita'
interpretativa del dato normativo (per come - in ipotesi - emergente,
nella specie, in relazione al combinato  disposto  degli  artt.  133,
commi  1°  e  2°,  e  327,  comma  1°,  c.p.c.)  andrebbe  attribuita
preferenza   alla   soluzione   ermeneutica   conforme    a    quella
costituzionalmente orientata, ovvero espressiva del  generale  canone
di  coerenza  sistematica  dell'ordinamento  giuridico  (processuale,
nella  fattispecie),  tale   da   non   determinare   situazioni   di
irragionevolezza e  da  garantire,  in  modo  certo  ed  univoco,  le
posizioni delle parti processuali nell'esercizio del diritto assoluto
di  difesa,  di  cui  il  diritto  di  impugnazione  rappresenta  una
estrinsecazione essenziale. 
    Diversamente opinando si configurerebbe il rischio di esporre  le
suddette parti ad una indebita penalizzazione del loro ruolo, qualora
le stesse dovessero essere ritenute gravate di un non previsto  onere
(peraltro non riconducibile allo scopo di assicurare al processo  uno
svolgimento meglio conforme  alla  sua  funzione)  di  verificare  la
possibile scissione - che si realizza nella pratica  giudiziaria  (ed
invero molto frequentemente, solo che  si  pensi  alle  numerosissime
pronunce  della  giurisprudenza  di   legittimita'   sulla   inerente
questione, tanto da determinarsi un contrasto) - tra le attivita'  di
"mero deposito" e quella di pubblicazione in senso stretto (come tale
attestata dal  cancelliere)  e,  in  quanto  tale,  avente  rilevanza
esterna nel processo e nei confronti delle parti medesime. 
    Si e', anzi, sostenuto, in  proposito,  che  al  cancelliere  non
dovrebbe nemmeno essere  riconosciuta  la  facolta'  di  scindere  il
procedimento unitario di pubblicazione della sentenza, segmentando in
fasi   successive   l'attivita'   di   deposito   (della   minuta   o
dell'originale) e di pubblicazione,  non  potendo  avere  margine  di
discrezionalita' sulla data in cui rendere effettivamente pubblica la
sentenza stessa, ragion per cui, ove tale evenienza si  verifichi,  i
relativi effetti negativi non possono ripercuotersi  in  danno  delle
parti incolpevoli. 
    Alla stregua di queste argomentazioni, quindi, il collegio  -  al
fine di rafforzare la ritenuta  lesione,  per  effetto  del  "diritto
vivente" rappresentato dalla sentenza delle Sezioni  unite  n.  13794
del 2012, degli artt. 3, comma 2, e  24,  commi  1°  e  2°,  Cost.  -
intende nuovamente sottolineare che  la  decadenza  dall'impugnazione
deriva, come si e' ricordato, dallo spirare di un termine che  inizia
a decorrere dalla "pubblicazione della sentenza". La parte  che  deve
sottostare al  termine  e'  quindi  indotta,  sia  dal  principio  di
affidamento,  sia   da   un'interpretazione   letterale   di   questa
disposizione, ad ancorare la propria attivita' alla  pubblicazione  e
non al (mero) deposito della sentenza. Pertanto la ricerca della data
di deposito, quale veicolo per conoscere la data di pubblicazione  ex
art. 133 c.p.c., e' esigibile solo ove nell'atto da impugnare non sia
presente una specifica attestazione che riguardi la pubblicazione. Il
conflitto tra le due attestazioni - ad avviso del  collegio  -  deve,
percio', essere necessariamente risolto attribuendo ad una di esse un
senso diverso da  quello  che  e'  foriero  delle  conseguenze  della
pubblicazione della sentenza, che e' il momento in cui l'atto e' reso
conoscibile alle parti e che fa  decorrere  il  tempo  utile  per  la
proposizione del gravame. 
    Orbene, l'orientamento recepito con  la  sentenza  delle  Sezioni
unite n. 13794 del 2012 e'  costretto  a  risolvere  forzatamente  la
contraddizione  conferendo  all'attestazione  di  "pubblicazione"  un
senso che e' estraneo -  e  anzi  opposto  -  a  quello  proprio  del
termine, individuandolo nelle attivita' di annotazione  nei  registri
di cancelleria, che e' attivita' meramente interna dell'ufficio.  Per
contro si appalesa - in  linea  generale  -  ispirata  ad  un  sicuro
criterio   di   ragionevolezza   una    lettura    che    attribuisca
all'attestazione di "deposito" il  senso  di  "deposito  in  minuta".
Questa impostazione trova conforto  anche  nella  previsione  di  cui
all'art. 119 disp. att. c.p.c. (laddove, al comma 2°, si discorre  di
"minuta consegnata al cancelliere"), che prescrive la consegna di una
minuta da parte dell'estensore al presidente del Collegio e da questi
al cancelliere, che ne affida la scritturazione  al  dattilografo  di
ruolo. Ultimata la scritturazione, presidente ed estensore verificano
la  corrispondenza  dall'originale  alla  minuta,  sottoscrivono   la
sentenza e la avviano alla pubblicazione da  parte  del  cancelliere.
Ora, nel corso del tempo l'attestazione del  deposito  in  minuta  e'
invalsa  negli  uffici  giudiziari  quale  momento  utile  a  fissare
l'adempimento (rilevante anche  disciplinarmente)  dell'attivita'  di
predisposizione della sentenza  da  parte  dell'estensore.  L'avvento
dell'utilizzazione degli strumenti  elettronici  ha  progressivamente
compresso tali fasi, in virtu'  della  (ormai  sempre  piu'  invalsa)
scritturazione diretta da parte dell'estensore  e  alla  consegna  al
cancelliere di un testo che: a) a volte deve essere controfirmato dal
presidente; b) a volte consta della sola motivazione e  deve  essere,
completato con "l'intestazione" della sentenza (cioe' con  l'epigrafe
predisposta sovente dalla cancelleria); c) a volte  e'  completo,  ma
perviene al cancelliere quando questi non e' in  condizione,  per  il
carico di lavoro, di provvedere al deposito nel senso proprio di  cui
all'art. 133 c.p.c. 
    A tal proposito e' particolarmente  rilevante  segnalare  che  il
differimento del formale deposito per la condizione delle cancellerie
e' spesso di alcuni giorni  e  talvolta  di  molte  settimane.  L'uso
dell'attestazione "depositato in minuta" mantiene  quindi  attualita'
al fine di scandire i tempi dell'attivita' giurisdizionale  e  quelli
della cancelleria. E' dunque ben piu' consono rispetto  ai  precisati
parametri costituzionali ritenere che,  in  presenza  di  una  doppia
contraddittoria attestazione - tra  deposito  e  pubblicazione  della
sentenza - la prima si riferisca al deposito della  minuta,  cioe'  a
un'attivita' codificata, interna  al  procedimento  di  pubblicazione
della sentenza e riconoscibile nella prassi giudiziaria.  Ne'  appare
trascurabile  un  altro  fondamentale  argomento:   l'interpretazione
rigorista alla quale hanno aderito le Sezioni unite con la menzionata
sentenza n. 13794 del 2012 si  risolve  -  in  modo  irragionevole  e
discriminatorio (per la ritenuta gravita' della difficolta',  in  tal
caso, dell'esercizio del diritto di difesa, v., da ultimo,  Cass.  n.
6304 del 2013 e Cass. n. 6991 del  2007)  -  nella  sottrazione  alle
parti di una frazione, che puo' essere anche molto consistente e  che
puo' risultare (in situazioni particolarmente patologiche)  anche  di
alcuni mesi, del tempo utile per l'impugnazione, che  -  nell'attuale
regime processuale - deve essere non inferiore a sei  mesi  (un  anno
prima  della  modifica  dell'art.  327  c.p.c.).  Anteriormente  alla
"pubblicazione" la sentenza, per quanto depositata,  non  e'  infatti
nota ai contendenti.  Ne'  sembra  verosimile  e  plausibile  opinare
diversamente, giacche'  se  la  cancelleria  ha  proceduto  a  doppia
attestazione  e  alla  seconda  ha  attribuito  la  denominazione  di
"pubblicazione", con evidenza ha dato  atto  della  circostanza  che,
prima di  quella  data,  la  sentenza  non  era  stata  ancora  "resa
pubblica". Il senso del primo termine,  "depositato",  e'  quindi  da
desumere dalla connessione con l'uso del  secondo,  salvaguardando  i
diritti dei litiganti (v., in tal senso, le  condivisibili  Cass.  n.
12681 del 2008; Cass. n. 22057 del 2011 e Cass. n. 22455 del 2011). 
    8.  Ravvisata  la  non  manifesta  infondatezza  della  descritta
questione incidentale di legittimita' costituzionale con  riferimento
agli artt. 3, comma 2, e 24, commi 1 e 2, Cost., rileva  il  collegio
che la questione stessa e' anche chiaramente rilevante  in  relazione
al presente giudizio di legittimita', essendosi riferita la  sentenza
di appello impugnata, ai fini  dell'individuazione  della  decorrenza
del termine di cui all'art. 327, comma 1; c.p.c., proprio al  momento
del "mero deposito" della sentenza di primo grado (avvenuto in data 8
aprile 2003), qualificato come  idoneo  a  determinare  la  giuridica
esistenza della sentenza stessa, anziche' a quello  della  "effettiva
pubblicazione"  della  medesima,  attestata  dal   cancelliere   come
verificatasi il successivo 28 luglio 2003 (oltre tre mesi  dopo),  in
tal  senso  pervenendo  alla  declaratoria  di  inammissibilita'  del
gravame per  rilevata  intempestivita'  della  sua  proposizione.  La
proposizione  dell'appello  sarebbe  stata,  invece,   da   ritenersi
tempestiva (con conseguente  sua  ammissibilita')  ove  la  Corte  di
appello partenopea avesse posto riferimento alla  (seconda)  data  di
attestazione dell'avvenuta pubblicazione effettiva  (coincidente  con
quella annotata nel registro cronologico delle sentenze  e  riportata
dalla stessa cancelleria anche sull'avviso di deposito comunicato  ai
difensori delle parti costituite), dal momento che l'atto di  appello
(relativo ad un giudizio locatizio) risultava essere stato depositato
nella cancelleria del giudice di secondo  grado  il  13  luglio  2004
(momento da considerare pacificamente dirimente ai fini  del  rilievo
della tempestivita' del gravame nel rito  speciale  ex  art.  447-bis
c.p.c.: cfr., ad es., Cass. n. 9530 del 2010 e  Cass.  n.  20344  del
2010) e, quindi, entro l'anno (senza, peraltro, nemmeno computare  il
periodo di sospensione feriale di altri 46 giorni, pur  pacificamente
spettante alla parte appellante) dalla predetta data  del  28  luglio
2003, avuto riguardo all'osservanza del disposto di cui all'art. 327,
comma 1°, c.p.c., nella sua versione "ratione temporis"  applicabile,
ovvero in  quella  antecedente  alla  sua  modifica  intervenuta  per
effetto dell'art. 46, comma 17, della legge 18  giugno  2009,  n.  69
(riferibile ai soli giudizi "ab initio" instaurati dopo l'entrata  in
vigore di quest'ultima legge, ossia dopo il 4 luglio 2009). 
    9. In definitiva, alla  stregua  delle  ragioni  complessivamente
esposte, bisogna disporre, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo
1953,  n.  87,  l'immediata  trasmissione  degli  atti   alla   Corte
costituzionale, con la conseguente sospensione del presente  giudizio
l'assolvimento degli  adempimenti  notificatori  e  di  comunicazione
prescritti dal comma 4 dei citato art. 23. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Letto l'art. 23 della  legge  11  marzo  1953,  n.  87,  dichiara
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale del combinato disposto degli artt. 133, commi 1 e 2, e
327,  comma  1,  c.p.c.  (nella  sua  versione   "ratione   temporis"
applicabile, antecedente alla modifica apportata con l'art. 46, comma
17°, della legge 18 giugno 2009, n. 69), in relazione agli  artt.  3,
comma 2, e 24, commi 1 e 2, della Costituzione, nella parte  in  cui,
secondo  il  diritto  vivente  (riconducibile  alla   interpretazione
riferita ai predetti artt. 133 e 327 c.p.c.  operata  dalla  sentenza
delle Sezioni unite n.  13794  del  1°  agosto  2012,  confermata  da
successive  pronunce  di  sezioni  singole)  deve  ritenersi  che   -
nell'eventualita' in cui, sulla sentenza,  oggetto  di  impugnazione,
siano state apposte due date, una  (precedente)  di  deposito,  senza
espressa specificazione che il documento contiene soltanto la  minuta
del provvedimento, e l'altra (successiva) di  pubblicazione  -  tutti
gli effetti giuridici derivanti dalla  pubblicazione  della  sentenza
(e, quindi, anche la decorrenza del  termine  previsto  dallo  stesso
art. 327, comma 1, c.p.c.), si producono gia' dalla  prima  data  del
suo deposito e non, invece, dalla seconda data attestante l'effettiva
pubblicazione della sentenza. 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale e sospende il presente giudizio. 
    Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata alle parti in causa  ed  al  Procuratore  Generale  presso
questa Corte, nonche'  al  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri.
Ordina, altresi', che l'ordinanza venga  comunicata  dal  Cancelliere
anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
        Cosi' deciso nella  camera  di  consiglio  della  2^  Sezione
civile in data 3 ottobre 2013. 
 
                        Il Presidente: Triola