N. 58 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 dicembre 2013

Ordinanza del 30 dicembre 2013 emessa  dal  Giudice  designato  della
Corte di appello di Reggio Calabria nel procedimento civile  promosso
da Le Mura Pancrazio contro il Ministero della giustizia. 
 
Procedimento  civile  -  Equa  riparazione   per   violazione   della
  ragionevole  durata  del  processo  -  Misura   dell'indennizzo   -
  Limitazione al «valore del diritto accertato [dal  giudice]»  senza
  alcuna   ulteriore   specificazione   o   limite   -    Conseguente
  impossibilita' di liquidare in alcuna misura un'equa riparazione in
  favore della parte che, nel  processo  presupposto,  sia  risultata
  interamente soccombente -  Contrasto  con  la  Convenzione  per  la
  salvaguardia dei diritti dell'uomo (CEDU), come interpretata  dalla
  giurisprudenza della Corte europea dei diritti  dell'uomo,  secondo
  cui la soccombenza nel procedimento  presupposto  non  preclude  il
  diritto alla «equa soddisfazione» per la sua irragionevole durata -
  Inosservanza di vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. 
- Legge 24 marzo 2001, n. 89, art. 2-bis, comma 3, inserito dall'art.
  55, comma 1, lett. b), del decreto-legge 22  giugno  2012,  n.  83,
  convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134. 
- Costituzione, art. 117, primo comma, in relazione all'art. 6  della
  Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
  liberta' fondamentali. 
(GU n.18 del 23-4-2014 )
 
                         LA CORTE D'APPELLO 
 
    Ha emesso il seguente decreto nel  procedimento  iscritto  al  n.
353/2013 V.G. 
    Letto il ricorso proposto ai sensi della legge n. 89/2001 in data
5 dicembre 2013 (ed assegnato a questo magistrato in data 16 dicembre
2013, nonche' trasmesso  in  data  23  dicembre  2013)  da:  Le  Mura
Pancrazio; nato in data 18 ottobre  1954  a  Giardini  Naxos  ed  ivi
residente  in  via  Vittorio  Emanuele  n.   188;   Codice   fiscale:
LMRPCR54R18E014R; 
    Parte rappresentata e difesa per procura ai margini del  predetto
atto  dall'avv.  Gensabella  Filippo   del   foro   di   Messina   ed
.elettivamente domiciliata in Messina, presso lo studio del  medesimo
(via La Farina is. R); pec. avv.filippogensabella@xpointpec.it; 
    Vista la documentazione  allegata  e  rilevato  che  il  presente
ricorso e' stato depositato  allorche'  non  era  ancora  decorso  il
termine di sei mesi dal momento in cui la decisione che  ha  concluso
il cd. procedimento presupposto e' divenuta definitiva (ossia, tenuto
conto della mancata  notificazione  alla  parte  personalmente,  dopo
l'anno dalla data della sua pronuncia e quindi - considerata anche la
sospensione processuale dei relativi termini  per  il  periodo  delle
ferie  estive  -  dal  16  settembre  2013),  donde  la   sua   piena
ammissibilita'; 
    Premesso in fatto che l'odierno  ricorso  e'  stato  azionato  da
soggetto  che  ha  rivestito  la  qualita'  di  parte,  nel  giudizio
presupposto ivi specificato, non gia' nel  giudizio  di  primo  grado
(introdotto avverso la societa' Naxos Pesca dei F.11i Le Mura Carmelo
e Pancrazio s.n.c. in  persona  del  suo  legale  rappresentante  pro
tempore) bensi' in quello d'appello, dal medesimo  formulato  avverso
la sentenza emessa in data 28 settembre 2004-5.10.2004 dal  Tribunale
Civile di Messina - II Sezione Stralcio; 
    Dato atto che, pertanto, il procedimento presupposto: 
        ha avuto una durata (limitatamente  all'unico  grado  cui  la
parte ricorrente ha partecipato) di anni cinque, mesi cinque e giorni
ventidue  (calcolata  dalla  data   della   notificazione   dell'atto
introduttivo, e cioe' dall'8 febbraio  2005  a  quella  del  deposito
della sentenza di merito,  ossia  al  31  luglio  2012),  da  ridursi
tuttavia - al netto della durata delle udienze il cui differimento e'
imputabile al  comportamento  tenuto  dalle  parti,  compresa  quella
odierna ricorrente (per n. 2 occasioni, in relazione alle udienze del
10 marzo 2008 e del 12 marzo 2012) - ad anni quattro, mesi  undici  e
giorni ventidue); 
        esso eccede pertanto  di  anni  due,  mesi  undici  e  giorni
ventidue rispetto ai termini di cui  all'art.  2-bis  e  2-ter  della
legge n. 89/2001; 
        valutati   la   complessita'   del   caso,   l'oggetto    del
procedimento, il comportamento delle parti e del giudice  durante  il
procedimento nonche' degli altri soggetti chiamati a concorrere  o  a
contribuire alla sua definizione; 
    Considerato  che  la  parte  odierna  ricorrente  all'esito   del
giudizio suddetto e' risultata soccombente e che, tenuto conto  degli
interessi coinvolti e del valore e della rilevanza della causa  anche
in considerazione delle condizioni personali della  parte,  si  stima
equo ai sensi dell'art. 2056 del codice civile) riconoscere la  somma
di € 750 per ogni anno, o frazione di anno superiore a sei mesi quale
equo indennizzo, e quindi, complessivamente, l'importo di euro 2250; 
    Considerato in diritto che: 
        la soccombenza nel giudizio presupposto di colui che promuova
un ricorso per equo indennizzo (ai sensi della legge n. 89 del 2001 e
modif. succ.) e' stata espressamente prevista quale causa di  rigetto
della domanda - a termini dell'art. 2 comma 2-quinquies  della  legge
citata, nel testo  in  atto  vigente  -  soltanto  nel  caso  in  cui
concorrano con essa i requisiti ulteriori: 
          della  condanna   del   soccombente   per   responsabilita'
processuale aggravata ex art. 96 C.P.C.; 
          della condanna del medesimo ex art. 91 primo comma  secondo
periodo C.P.C.; 
        ovvero, ancora: 
          dell'aver detta parte posto in essere un  abuso  di  poteri
processuali che abbia  determinato  un'ingiustificata  dilazione  dei
termini del procedimento; 
          sicche' puo' darsi atto che persiste (pur dopo  la  novella
di cui alla legge n. 134 del 2012) il riconoscimento normativo  d'una
piena legittimazione in capo alla parte, anche  se  gia'  soccombente
nel giudizio presupposto,  a  far  valutare  l'eventuale  sussistenza
d'una lesione del suo diritto a conseguire in  un  tempo  ragionevole
una pronuncia risolutiva della questione controversa; 
          la previsione contenuta nel comma 3 del «nuovo» art. 2-bis,
secondo cui «... la misura dell'indennizzo, anche in deroga al  comma
1, non puo' in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se
inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice  ...»,  che  ha
introdotto un tetto massimo (o valore «soglia» per la  determinazione
in concreto del quantum liquidabile prima non previsto, in quanto non
coordinata  con  il  superiore  principio  fa  tuttavia  sorgere  due
distinti problemi interpretativi, che esigono  coerenti  e  correlate
soluzioni (data la loro reciproca interdipendenza): 
1) cosa debba intendersi per «... valore del  diritto  accertato  dal
giudice ...»; 
2) se l'introduzione d'un tetto  massimo  all'indennizzo  liquidabile
cosi' avvenuta valga per tutti  i  possibili  epiloghi  del  giudizio
presupposto  e  per  tutte  le  parti  d'esso  (qualora,  ovviamente,
promuovano un ricorso ex lege Pinto); 
    Rilevato, in proposito: 
Sub 1): 
    che (nella scelta materiale con cui il legislatore ha  provveduto
a calmierare gli effetti per l'Erario  delle  decisioni  emanande  in
subiecta materia) il «valore del diritto accertato» e' parametro  che
(sebbene suppletivo) prevale  rispetto  a  quello  del  valore  della
causa, qualora in concreto gli sia inferiore; 
    che per l'identificazione del parametro  primario  suddetto  (che
comunque va determinato, ai fini perequativi citati) unico  possibile
richiamo si da' con riferimento alla disciplina della  determinazione
del valore della controversia (rilevante sia in tema d'individuazione
del  Giudice  competente  sia  per  la   liquidazione   delle   spese
giudiziali) dettata dagli artt. 7 e ss. fino a 17 del C.P.C.; 
    che   mentre   per   le   cause   di   valore   «determinato»   o
«determinabile», il «valore soglia» in questione - se ad esso dovesse
essere correlato -sarebbe agevolmente individuabile, per le cause cd.
di valore indeterminabile e' dubbio se debba applicarsi  il  criterio
per cui la causa avra' valore entro il tetto  massimo  di  competenza
del giudice adito (soluzione che potrebbe operare  peraltro  soltanto
per le cause di competenza del giudice  di  pace)  o  quello  aliunde
determinato ai sensi degli artt. 10 e  ss.,  ovvero  se  la  predetta
disposizione non trovi applicazione e quindi l'indennizzo liquidabile
ex lege n. 89 del 2001, non debba, in tali ipotesi, incontrare  alcun
tetto massimo (come sembrerebbe  potersi  arguire,  tra  l'altro,  in
materia  di  accertamento  su  diritti   di   personalita',   diritti
indisponibili  o  status  e   posizioni   giuridicamente   tutelabili
analoghe); 
    che,   comunque,   l'epilogo   del   procedimento    presupposto,
nell'ipotesi di soccombenza in esso di chi promuova ricorso ai  sensi
della legge  n.  89  del  2001,  rileva  alla  luce  delle  superiori
constatazioni anche quale elemento per la determinazione della soglia
(o «tetto massimo») della concreta liquidabilita'  dell'indennizzo  e
va pertanto assunto nel novero degli elementi  funzionali  al  merito
della decisione emananda; 
    che in subiecta materia notoriamente e' ammesso che  sussiste  un
pregiudizio  in  re  ipsa,  suscettibile  dunque  di  quantificazione
equitativa, sicche' non puo' affermarsi: 
        ne' che sia onere del ricorrente  dedurre  e  provare  (quale
elemento indefettibile per il vaglio della  domanda)  se  sussista  e
quale sia il valore «soglia» di cui al comma 3 dell'art. 2-bis  della
legge citata; 
        ne' che, in  difetto  d'allegazione  o  deduzione  d'elementi
idonei a consentirne l'identificazione e la  quantificazione  (sempre
ai soli fini della legge n. 89 del  2001),  tanto  'ne  comporterebbe
l'inammissibilita': 
        non si dimentichi, infatti, che si versa in tema di  giudizio
monitorio cui si applicano i primi due  commi  dell'art.  640  C.P.C.
(secondo  cui  «...  Il  giudice,   se   ritiene   insufficientemente
giustificata la domanda, dispone che il cancelliere ne dia notizia al
ricorrente, invitandolo a provvedere alla  prova  ...»,  con  l'esito
sanzionatorio per cui « ... se il ricorrente non risponde  all'invito
o non ritira il ricorso oppure se la domanda non e'  accoglibile,  il
giudice la rigetta con decreto motivato ...») e che il giudicante non
puo' pertanto rigettare, ovvero dichiarare inammissibile, la  domanda
per la superiore circostanza; 
        che, pero', mentre per  il  regime  della  competenza  si  fa
riferimento al valore quale determinato o determinabile in  relazione
al petitum (o ai petita), per il  regime  della  legge  Pinto  si  fa
riferimento al valore ritenuto in decisione, e pertanto  va  chiarito
quale sia l'effettivo contenuto prescrittivo della disposizione; 
Sub 2): 
    che va verificato  se  detta  disposizione  integri  un'ulteriore
causa   d'eventuale   esclusione    d'indennizzo    (ancorche'    non
espressamente tipizzata come tale), nel senso che nulla possa  essere
riconosciuto all'istante nel caso in  cui  il  diritto  dallo  stesso
asseritamente vantato sia fatto  valere  in  giudizio  ma  sia  stato
affermato insussistente (in tutto o in parte), ovvero se  qualora  il
ricorrente sia stato soccombente (in tutto o in parte)  nel  giudizio
presupposto e detto giudizio abbia  avuto  durata  irragionevole,  la
negazione del diritto preteso non valga anche ad escludere il diritto
ad equo indennizzo; 
    ed in proposito almeno tre sono le opzioni praticabili, nel senso
che: 
2.1 
    una prima opzione suggerisce  che  la  prima  eventualita'  possa
ammettersi nel sistema (e sarebbe probabilmente quella piu'  coerente
con l'esigenza calmieratrice di cui s'e' detto); 
    cio' (sebbene in apparente contrasto con l'indirizzo  consolidato
della CEDU in proposito, per cui anche il totalmente  soccombente  ha
diritto ad equo  indennizzo  in  caso  di  durata  irragionevole  del
processo di cui sia stato parte) in via ermeneutica deriva dal  fatto
che una siffatta interpretazione  della  norma  (che  apparirebbe  in
sintonia,  peraltro,  con  alcuni  spunti  offerti  dalla   relazione
introduttiva del testo  del  disegno  di  legge  poi  definitivamente
approvato dal Parlamento e, tra questi, segnatamente con  il  rilievo
della  necessita'  d'arginare  la  presunzione  di  dannosita'  della
prolungata durata di un processo in modo che non divenga assoluta, ma
rimanga iuris tantum, con  conseguente  ammissibilita'  -  nonostante
eventuali diversi ditta della Corte CEDU d'ipotesi  d'esclusione  del
diritto ad un indennizzo anche in caso di  irragionevole  durata  del
giudizio stesso la' dove cio' comunque ripugni a  principi  superiori
dell'ordinamento interno) sarebbe coerente altresi' con la  ratio  di
non poche altre disposizioni della novella normativa  in  esame,  tra
cui: 
        le   richiamate   previsioni   d'esclusione    del    diritto
all'indennizzo di cui all'art. 2 comma 2-quinquies; 
        la  disposizione  che  indica  l'esito  del  processo  tra  i
parametri cui commisurare l'indennizzo; 
        la  prevista  improponibilita'  della  domanda  prima   della
definizione del procedimento con provvedimento irrevocabile  (che  e'
funzionale a consentire proprio il vaglio dell'esito di tale giudizio
ai fini liquidatori suddetti); 
2.2 
    una seconda opzione proporrebbe, invece, di ritenere non soltanto
che il diritto ad equo indennizzo spetti comunque (ove non  si  versi
nelle cause d'esclusione espressamente tipizzate) anche al ricorrente
totalmente soccombente nel giudizio presupposto,  ma  pure  che  esso
debba essere commisurato entro il range  normativamente  stabilito  -
tra i 500 ed i 1500 euro per anno (o frazione) - e  comunque  con  le
limitazioni  di  soglia  o  di  tetto   massimo   dettate   dall'art.
2-quinquies comma 3 (come a dire  che  non  solo  il  vittorioso  nel
giudizio presupposto ma anche il soccombente  incontrera'  un  limite
quantitativo alla pretesa riconoscibile); 
2.3 
    una terza  opzione,  infine,  parrebbe  ammettere  che  in  detta
liquidazione a pro del totale soccombente il valore  soglia  suddetto
non dovrebbe operare (perche' non v'e' a  suo  favore  riconoscimento
d'alcun diritto al cui valore parametrare tale tetto massimo); 
    ma e' palese che  tanto  implicherebbe  una  diversificazione  di
trattamento (con esito premiale per il soccombente e penalizzante per
il vittorioso parziale)  difficilmente  compatibile  con  i  principi
costituzionali d'uguaglianza e ragionevolezza; 
    Constatato che la seconda delle tre opzioni enunciate  e'  invece
quella (nel contesto di sistema vigente in proposito)  piu'  coerente
con l'indirizzo costante CEDU retro richiamato e con la littera legis
della novella  del  2012  e,  per  tal  ragione,  va  tendenzialmente
preferita, poiche' se il legislatore  avesse  voluto  anche  in  tale
ipotesi derogarvi (in ossequio a  principi  superiori  d'ordinamento,
quali quelli d'uguaglianza e  di  ragionevolezza)  avrebbe  potuto  e
dovuto prevederlo; 
    Rilevato che, tuttavia, occorre chiarire ugualmente -  nei  sensi
retro richiamati sub 1) -  cosa  debba  intendersi  per  «valore  del
diritto accertato»; 
    Ritenuto, in proposito, che: 
        assumere che il valore di soglia massima sia applicabile  per
il solo caso in cui il ricorrente ex lege n. 89 del  2011  sia  stato
sostanzialmente  vittorioso  (in  tutto  o  in  parte)  nel  giudizio
presupposto non risulta, in difetto d'espresse  clausole  limitative,
ammissibile; 
        la disposizione, d'altronde, va coordinata con la  previsione
del comma 2 del medesimo  articolo  (secondo  cui:  «L'indennizzo  e'
determinato a norma dell'art. 2056 del codice civile, tenendo  conto:
a) dell'esito del processo [corsivo dell'estensore] nel quale  si  e'
verificata la violazione di cui  al  comma  1  dell'art.  2;  b)  del
comportamento del giudice  e  delle  parti;  c)  della  natura  degli
interessi coinvolti; d) dei valore e  della  rilevanza  della  causa,
valutati anche in relazione alle  condizioni  personali  della  parte
...»), che a tanto non fa alcun riferimento; 
        ancora, e' da considerare che l'accertamento della violazione
del diritto alla ragionevole durata del processo  (che  e'  l'oggetto
della cognizione del procedimento in questione)  non  verte  soltanto
quanto accade «nel»  processo,  come  parrebbe  prima  facie  dedursi
dall'incipit dell'art. 2 comma 2 («... Nell'accertare  la  violazione
il  giudice  valuta  la  complessita'   del   caso,   l'oggetto   del
procedimento, il comportamento delle parti e del giudice  durante  il
procedimento, nonche'  quello  di  ogni  altro  soggetto  chiamato  a
concorrervi o a contribuire alla sua definizione»), ma anche  il  suo
concreto epilogo (perche' occorre verificare che si sia al  di  fuori
delle ipotesi di prevista esclusione del  diritto  ad  indennizzo,  e
dunque non si puo' prescindere dal suo rilievo ai superiori fini); 
        opinare che la  superiore  lettera  possa  interpretarsi  nel
senso di aver fatto riferimento alla vittoriosita' o alla soccombenza
in senso processuale  e  non  sostanziale  (equiparando  cosi'  l'una
all'altra delle  due  parti  del  giudizio  presupposto)  non  sembra
discutibile tanto sotto il profilo dell'equita'  sostanziale,  quanto
sotto il profilo del rigore formale  dell'interpretazione  che  vuole
adottarsi; 
        non appare infatti concettualmente scorretto legittimare,  in
tali eventualita',  l'impiego  quale  valore  di  soglia  massima  di
liquidazione - in via suppletiva rispetto a  quello  del  valore  del
diritto riconosciuto (che non c'e', perche' la sentenza  «rigetta»  o
dichiara inammissibile o improponibile o improcedibile la domanda)  -
quello del valore «positivo» che il giudizio  abbia  comunque  recato
alla parte processualmente vittoriosa: 
        avendo infatti il diritto negato all'uno un rilievo  concreto
economicamente correlabile alla sfera giuridica dell'altro (nel senso
che  il  convenuto  nel  giudizio   presupposto   che   non   formuli
riconvenzionali ma si limiti ad  una  mera  difesa  comunque  «lucra»
dalla sconfitta della pretesa altrui  la  stabilizzazione  della  sua
situazione quo antea, ossia il non dover corrispondere o il non dover
adempiere ad un facere altrimenti per lui oneroso  nella  misura  del
petitum preteso e poi disatteso),  l'interessato  potrebbe  venire  a
conseguire un indennizzo  da  irragionevole  durata  pur  non  avendo
azionato alcuna pretesa ex adverso, ed addirittura in misura massima,
mentre  quella   consentita   al   sostanzialmente   vittorioso   (ma
processualmente  di   gran   lunga   soccombente)   potrebbe   essere
decisamente inferiore alla prima; 
        e cio' non  risulterebbe  irragionevole  (o  comunque  lesivo
dell'uguaglianza sostanziale tra le parti di lite),  per  la  diversa
incidenza concreta sulla situazione di  vita  dell'uno  e  dell'altro
della pendenza in se d'un processo potenzialmente foriero d'apportare
vantaggio o svantaggio rilevante ad entrambi i contendenti; 
        in tale ipotesi si dovrebbe pero' prescindere  dal  principio
della domanda, che sembra invece recepito dal dictum  espresso  della
disposizione in esame («... valore del diritto accertato ...»); 
        di  dubbia  legittimita'  appare,  invece,  una  liquidazione
equitativa  che  -adottando,  in  via  suppletiva,  un  criterio   di
perequazione correttivo di potenziali distorsioni - riconoscesse  che
l'ammontare: o del valore del diritto riconosciuto in  concreto  alla
controparte; o del valore del giudizio (in base al variabile grado di
rilevanza della soccombenza, se parziale o totale) possano costituire
soglie non superabili per entrambi i gia' contendenti; 
        e cio' nel senso che, qualora il valore del diritto accertato
in capo all'attore (o ricorrente) del giudizio presupposto  fosse  (o
inferiore a quello del valore del giudizio in  senso  processuale,  o
comunque accertato ex post, della controparte,  questa  non  potrebbe
vedersi  comunque  riconosciuto  un  indennizzo  superiore  a  quello
dell'attore sostanzialmente soccombente; 
        e cio'  poiche'  tanto  risulta  incompatibile  con  l'indole
oggettiva del valore «soglia» in questione e non  e'  consentito  dal
tipo di  discrezionalita'  ammessa  per  il  giudicante  in  subiecta
materia, poiche' detta discrezionalita' e' pur sempre  «vincolata»  -
trattandosi  d'un  procedimento  liquidatorio   che   conferisce   al
decidente un potere mai sostanzialmente arbitrario, ove si  riconosca
che e' comunque prevista una soglia minima  inderogabile  (riferibile
all'indole non meramente simbolica dell'indennizzo da riconoscere)  -
e  la  sua  sindacabilita'  in  sede  d'opposizione  garantisce   che
l'eventuale ricorso appunto a  parametri  d'equita'  non  vulneri  il
fondamento  che  la  predetta  discrezionalita'  ripete  dalla  legge
vigente; 
        provando  allora  ad   individuare   i   casi   astrattamente
prospettabili, e cioe': 
          a) quello in  cui  il  ricorrente  sia  stato  parzialmente
soccombente - vuoi quale attore (o ricorrente), vuoi quale  convenuto
(o resistente) - nel giudizio presupposto; 
          b)  quello  in  cui  il  ricorrente  sia  stato  totalmente
soccombente quale convenuto (o resistente) nel giudizio presupposto; 
          c)  quello  in  cui  il  ricorrente  sia  stato  totalmente
soccombente quale attore (o ricorrente) nel giudizio presupposto; 
        puo'  pertanto   assumersi,   alla   luce   delle   superiori
arguizioni, che: 
          nell'ipotesi  sub  a),  il  valore  «soglia»  comunque  non
superabile  nella  liquidazione  dell'indennizzo  (imposto  dall'art.
2-bis comma 3 della  legge  citata)  debba  essere  identificato  nel
valore   del   diritto   effettivamente   riconosciuto   alla   parte
sostanzialmente vittoriosa; 
          nell'ipotesi  sub  b),  il  valore  «soglia»  comunque  non
superabile sara'  pur  sempre  individuato  nel  valore  del  diritto
riconosciuto alla parte sostanzialmente  vittoriosa,  ed  ovviamente,
salva  la  specificita'  della  vicenda   processuale   (che   potra'
giustificare, in situazioni peculiari, anche l'equiparazione  tra  le
parti), potra' essere diversificata la misura dell'indennizzo - entro
il range assentito -  con  tendenziale  liquidazione  di  quella  del
sostanzialmente   soccombente   in   misura   inferiore   a    quella
riconoscibile al sostanzialmente vittorioso ma  con  possibilita'  di
sua equiparazione ad essa; 
        nell'ipotesi sub c), infine, e' da osservare che: 
          l'accertamento negativo della  sussistenza  di  un  diritto
equivale all'accertamento che il diritto fatto valere in giudizio  ha
valore (per chi asseriva di esserne titolare e di  poterne  fruire  e
disporre) giuridicamente ed economicamente pari a 0; 
          e' vero poi che, ove non siano  formulate  riconvenzionali,
ma mere difese (o eccezioni idonee a paralizzare la pretesa  altrui),
non v'e' ex adverso alcuna domanda e pertanto  non  puo'  agevolmente
affermarsi che la pronuncia abbia implicitamente accertato contra  un
qualche  diritto  del  convenuto  o  del  resistente  (cui   riferire
l'individuazione del predetto valore soglia). 
    A questo ultimo riguardo va pero' chiarito: 
        in primo luogo, che puo' assumersi, se il  soccombente  e  la
controparte permangono nella situazione quo antea, che dal  punto  di
vista della controparte vi sia una sostanziale vittoriosita', poiche'
essa pur godra' del risultato utile costituito dalla  continuita'  di
detta situazione  di  fatto  rispetto  alle  pretese  dell'attore  (o
ricorrente) su cui sia intervenuto il giudicato ed entro i limiti del
suo valore (quale  emerso  in  decisione)  potra'  invocare  per  se'
indennizzo (come riconosciuto sub b); 
        in  secondo  luogo,  che  cio'   non   equivale   ad   alcuna
stabilizzazione o qualificabilita' della  stessa  alla  stregua  d'un
diritto o di situazione di fatto giuridicamente tutelabile ne'  verso
costui ne' verso chicchessia ed  implichera'  soltanto  che  il  bene
della vita controverso (che ha pur sempre  un  valore  economicamente
quantificabile) risultera' «intatto» rispetto all'iniziativa attorea,
ma solo interinalmente; 
        in terzo luogo, che a pro' dell'attore  o  ricorrente  -  che
subisca  (nel   giudizio   presupposto)   la   predetta   soccombenza
processuale, eventualmente con condanna  soltanto  per  la  rifusione
delle spese processuali - ai fini della quantificazione del correlato
diritto ad equo indennizzo in caso di durata irragionevole  di  detto
procedimento potra' utilizzarsi quale valore «soglia» non  superabile
quello del valore economico del diritto antea goduto dal convenuto  o
resistente vittorioso, o, qualora non ve ne fosse alcuno,  il  valore
soglia costituito dal valore economico del bene della vita dedotto in
controversia quale emerso in decisione mentre, in ultima analisi,  se
esso non sia suscettibile di rilievo patrimoniale,  non  v'e'  a  ben
vedere un parametro che consenta di provvedere; 
    Dato atto che presso  questa  Corte  d'Appello  i  precedenti  di
merito disponibili ad oggi (per casi identici a quello  che  oggi  ne
occupa) appaiono tra loro discordanti al riguardo della soluzione  da
individuare per la questione esaminata, poiche': 
        in precedente occasione  (nel  procedimento  iscritto  al  n.
566/2012 VG) essa e' stata risolta da questo magistrato delegato  nel
senso  di  riconoscere  comunque  l'operativita'   della   norma   di
riferimento, pur  senza  che  sia  ritraibile  nel  sistema  certezza
rassicurante in proposito; 
        in data 8 aprile 2013 e' stata  invece  da  altro  magistrato
delegato gia' posta questione di costituzionalita' (nel  procedimento
iscritto al n. 58/2013 VG) nei sensi che di seguito si riproducono: 
          «... 3. - Il  parametro  costituzionale  di  riferimmo.  La
rilevano  e  la  non  manifesta  infondatezza  della   questione   di
legittimita' costituzionale. 
        Il dubbio di costituzionalita' delle norma  suindicata  nasce
dal contrasto della stessa con  l'art.  6,  §  1,  della  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre  1950,  come  interpretata
dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'Uomo, nella
misura in cui tale norma, nella detta interpretazione,  puo'  e  deve
intendersi assurta  a  parametro  di  costituzionalita'  della  legge
interna per effetto del richiamo operato dall'art. 1 17 Cost. 
        3.1.  -  Al  riguardo  e'  opportuno   anzitutto   brevemente
tratteggiare le coordinate giuridiche entro le quali questo decidente
ritiene doversi muovere  nel  districarsi  trai  rapporti  tra  nonne
interne e norme CEDU: 
          i) prima regola  deve  considerarsi  quella  (costantemente
affermata dalla Corte di cessazione a partire  dalle  pronunce  delle
Sezioni Unite del 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339,  n.  1340  e  n.
1341 e quindi avallata anche dalla  Corte  costituzionale  a  partire
dalle note sentenze gemelle del 2007, nn. 348 e 349, e  con  numerose
successive pronunce, sino, da ultimo, all'ordinanza 7 giugno 2012, n.
150) secondo cui il giudice comune ha  il  dovere  di  «applicare  il
diritto nazionale conformemente alla Convenzione» e di  «interpretare
detta legge in modo conforme alla  CEDU  per  come  essa  vice  nella
giurisprudenza della Corte europea»; a tal fine secondo  la  costante
giurisprudenza  costituzionale,  il  giudice  comune  deve  anzitutto
individuare la norma della Convenzione applicabile  alla  fattispecie
sottoposta al suo esame e, nel verificare se essa sia vulnerata dalla
disposizione interna, cio' deve fare avendo riguardo alla norma  CEDU
quale risulta dall'interpretazione  della  Corte  di  Strasburgo  (v.
Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236 contenente una  completa  rassegna
delle pronunce che, a partire dalle sentenze 24 ottobre 2007, n.  348
e n. 349 dei 2007, hanno affermato detto principio).  Egli  non  puo'
«sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di
Strasburgo», che  deve  applicare  nel  significato  attribuitole  da
quest'ultima, avendo  tuttavia  riguardo  alla  «sostanza  di  quella
giurisprudenza»,  e  dunque  potendo  in  tal  senso  giovarsi  degli
specifici margini di apprezzamento  riservati  al  giudice  nazionale
(Corte cost. 26 novembre 2009, n. 31 I;  22  luglio  201,1,  n.  236,
cit.); 
          ii) tale dovere opera «"per  quanto  possibile",  e  quindi
solo nei limiti  in  cui  detta  interpretazione  conforme  sia  resa
possibile dal testo della stessa legge»,  che  il  giudice  non  puo'
violare, essendo ad essa «pur sempre soggetto»,  con  la  conseguenza
che qualora rilevi un contrasto della  norma  interna  con  la  norma
convenzionale,  al   quale   non   possa   porre   rimedio   mediante
l'interpretazione  conforme,  e'  tenuto  a  sollevare  questione  di
legittimita' costituzionale della prima, in riferimento all'art. 117,
primo comma, Cost., poiche' e' privo del potere di non  applicare  la
disposizione interna (v. in tal senso, proprio  in  materia  di  equa
riparazione, Cass. 11 marzo 2009, n. 5894). 
    Siffatti principi, dopo  l'entrata  in  vigore  del  Trattato  di
Lisbona, sono stati dapprima implicitamente confermati da  una  serie
di sentenze del 2010 e dell'inizio del 2011 (sentenze 5 gennaio 2011,
n. 1; 4 giugno 2010, n. 196; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile  2010,
n. 138; 12 marzo 2010, n. 93) quindi,  sono  stati  ribaditi,  quanto
all'inesistenza del potere del  giudice  comune  di  disapplicare  la
norma interna in contrasto con la norma convenzionale, dalla sentenza
dell'11 marzo 2011, n. 80, i cui principi sono  stati  confermati  da
successive pronunce (sentenze 11 novembre 2011,  n.  303;  22  luglio
2011, n. 236; 8 giugno 2011, n. 175; 7 aprile 2011, n. 113; ordinanze
8 giugno 2011, n. 180; 15 aprile 2011, n. 138) e, di  recente,  hanno
ricevuto il conforto della Corte di  giustizia  (sentenza  24  aprile
2012, n. C-571/10, Kamberaj, secondo  la  quale  «il  rinvio  operato
dall'art. 6,  paragrafo  3,  TUE  alla  Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, non impone al  giudice  nazionale,
in caso di conflitto tra una  norma  di  diritto  nazionale  e  detta
Convenzione,   di   applicare   direttamente   le   disposizioni   di
quest'ultima,  disapplicando  la  norma  di  diritto   nazionale   in
contrasto con essa»). 
    3.2. - Orbene, le esposte coordinate non  possono  che  condurre,
con riferimento alla questione descritta, ad investire  della  stessa
la Corte costituzionale, sussistendo entrambi i presupposti richiesti
dall'art. 23 legge 11 marzo 1953 n.  87,  ossia  la  rilevanza  della
questione ai fini della decisione sulla proposta  domanda  e  la  non
manifesta infondatezza della stessa. 
    Quanto alla rilevanza e' appena il caso di ribadire che la  norma
additata a sospetto ha una diretta incidenza  nella  decisione  sulla
proposta  domanda  di  equa  riparazione:  se  ne   fosse,   infatti,
confermata  la  legittimita'  costituzionale  in  applicazione  della
stessa la domanda (conte in altri casi analoghi e' stato  deciso  nei
precedenti  citati)  andrebbe  rigettata;  in  caso  contrario   essa
andrebbe accolta, salvo solo una  commisurazione  tendenzialmente  al
minimo dell'indennizzo spettante, all'intenso del range  fissato  nel
primo comma dell'art. 2-bis e salvo sempre  il  limite  rappresentato
dal valore della causa. 
    Quanto alla sua  non  manifesta  infondatezza  la  stessa  appare
altresi' piu' che fondatamene predicabile, atteso che,  da  un  lato,
non puo' dubitarsi dell'irriducibile contrasto  della  norma  interna
(ripetesi, art. 2-bis comma 3, ultimo inciso, legge n.  89/2001)  con
la giurisprudenza della Corte europea sul tema, dall'altro,  si  deve
anche escludere  la  possibilita'  di  una  diversa  interpretazione,
costituzionalmente orientata, della norma interna. 
    3.2.1. - Sotto il primo profilo (contrasto  della  norma  con  la
giurisprudenza europea) e' noto che la Corte di Strasburgo ha  sempre
sottolineato l'irrilevanza della soccombenza del ricorrente, in se' e
per  se'  considerata,  ai  fini  del  diritto   alla   «satisfaction
equitable» dell'art. 41 della Convenzione, in ragione del rilievo che
la parte,  indipendentemente  dall'esito  della  causa,  ha  comunque
subito una diminuzione della qualita' della vita in  conseguenza  dei
patemi d'animo sopportati durante il  lungo  arco  temporale  che  ha
preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale (v.
ex  aliis  Corte  europea  diritti  dell'uomo,  19   febbraio   1992,
Paulsen-Medalen c. Svezia, in Recued 1998, I, p. 132, che, in un caso
in cui una madre protestava contro alcune restrizioni al  diritto  di
visitare i propri figli, dati in affidamento,  ha  riconosciuto  alla
ricorrente la somma di 10.000 corone titolo di  «equa  soddisfazione»
ai sensi dell'art. 41 della convenzione, anche se le  restrizioni  in
questione erano state confermate nei vari gradi di giudizio). 
    Un siffatto principio e'  da  sempre  stato  ribadito,  sotto  il
vigore  della  previgente  disciplina,  dalla  Corte  di   cassazione
essendosi da sempre affermato - come gia' visto - che  il  danno  non
patrimoniale non e' escluso dall'esito negativo del processo,  ovvero
dall'elevata possibilita'  del  rigetto  della  domanda  e  che,  per
ritenere  infondata  la  domanda,  occorre,  come  pure  sopra   gia'
accennato, che la parte si sia resa responsabile di lite temeraria, o
comunque di un vero e proprio abuso del processo (da ultimo Cass.  12
aprile 2010, n, 8632; Casa. 9 aprile 2010, n. 85415, del  quale  deve
dare prova la parte che la eccepisce (tra le molte, Cass. 19  gennaio
2010, n. 819). Secondo la Corte di cassazione, per negare l'esistenza
del danno, puo' bensi' assumere  rilievo  la  «chiara,  originaria  e
perdurante certezza sulla inconsistenza» del diritto fatto valere nel
giudizio, con l'avvertenza che  non  «equivale  a  siffatta  certezza
originaria  la  mera  consapevolezza  della  scarsa  probabilita'  di
successo della azione» (Cass.  2  aprile  2010,  n.  8165;  2008,  n.
24269). 
    Il    descritto    quadro     internazionale,     normativo     e
giurisprudenziale,   di    riferimento    non    puo'    considerarsi
rilevantemente  mutato,  per  il  profilo   in   esame,   a   seguito
dell'entrata in vigore, il 1° giugno 2010, del nuovo art. 35 comma 3°
lettera  b)  della  Convenzione  EDU,  che  consente  al  giudice  di
Strasburgo di dichiarare irricevibile il ricorso individuale ex  art.
34 per il quale il ricorrente  non  abbia  subito  alcun  pregiudizio
rilevante, salve  le  ipotesi  (c.d.  clausole  di  salvaguardia)  di
mancato esame del caso da parte  del  giudice  nazionale,  oppure  di
compressione di diritti umani convenzionali. 
    Occorre al  riguardo  osservare  che  i  contorni  e  i  riflessi
operativi  di  una  tale  condizione  di  ricevibilita'  (comunemente
definita de minimis non curat praetor  e  finalizzata  a  ridurre  il
contenzioso su violazioni di minima  entita')  non  risultano  ancora
chiari e consolidati. 
    A quanto consta, le uniche applicazioni sono state finte: a)  per
escludere il diritto all'equa riparazione in relazione  alla  equita'
di un procedimento penale conclusosi con  la  condanna  a  multa  per
€ 150,00 oltre ad € 22,00 per spese e al ritiro  di  un  punto  dalla
patente di guida (sent. 19 ottobre 2010, Rinck e.  Francia);  b)  per
escludere l'equa riparazione reclamata dall'imputato  per  la  durata
irragionevole di un  processo  penale  conclusosi  pero',  proprio  a
ragione  della  sua  durata,  con  il  proscioglimento  dell'imputato
medesimo per prescrizione del reato, che la Corte ha ritenuto  idonea
ad integrare una compensatio lucri cum danno a favore del  ricorrente
(Corte EDU 6 marzo 2012, Gagliano c. Italia: in tale caso tuttavia la
Corte ha poi comunque condannato lo Stato italiano  al  pagamento  di
una somma di euro 500, forfettariamente determinata, oltre spese, per
il danno morale subito dal  ricorrente  per  l'eccessiva  durata  del
procedimento ex lege Pinto). 
    In altra sentenza infine,  la  Corte  di  Strasburgo,  dopo  aver
rilevato che  «la  giurisprudenza,  ancora  limitata,  fornisce  solo
parzialmente i criteri che permettono di verificare se la  violazione
del diritto abbia  raggiunto  "la  soglia  minima"  di  gravita'  per
giustificare un esame da parte di un giudice internazionale»; che «la
valutazione di questa soglia e', per sua natura, relativa  e  dipende
dalle circostanze del caso di specie» (§ 33);  che  occorre  comunque
«tener conto dei seguenti elementi: la  natura  del  diritto  che  si
presume violato, la gravita' dell'incidenza della violazione allegata
nell'esercizio di un  diritto  e/o  le  eventuali  conseguenze  della
violazione sulla situazione personale del ricorrente» (§ 34) (ma - si
aggiunge  nella  sentenza  Gagliano,  cit.,  §  55  -  anche   «della
percezione soggettiva del ricorrente e della posta in gioco oggettiva
della controversia»), ha poi affermato il principio  secondo  cui,  a
fronte di una grave violazione del principio  di  durata  ragionevole
del processo, «l'entita' della causa  innanzi  ai  giudici  nazionali
puo' essere determinante soltanto nell'ipotesi in cui il  valore  sia
modico o irrisorio» (sentenza 18 ottobre 2010, Giusti  e.  Italia,  §
35). 
    A ben vedere nulla autorizza a ritenere che  una  tale  clausola,
essendo rapportata a parametri ulteriori e  diversi  dal  mero  esito
della causa e legati piuttosto alla  considerazione  delle  variabili
circostanze del caso  concreto,  possa  di  per  se'  comportare  una
revisione  dei  descritti  parametri  talmente  radicale  da  potersi
prevedere che, in forza della stessa, possa  escludersi  tout  court,
sempre e in ogni caso, la riconoscibilita' dell'equo indennizzo  alla
parte soccombente. 
    3.2.2.  -  Sotto  il  secondo  profilo   (possibilita'   di   una
interpretazione costituzionalmente orientata della norma interna tale
da renderla compatibile con il parametro pattizio  come  interpretato
dalla giurisprudenza europea), non puo' non ribadirsi  che  ogni  pur
dovuto tentativo in tale direzione  e'  destinato  a  scontrarsi  con
l'insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di  liquidare
un indennizzo in misura superiore al «radere del diritto accertato». 
    La lettera di tale ultima disposizione non sembra in  particolare
consentirne una interpretazione restrittiva e correttiva nel senso di
ritenere - come pure e' stato sostenuto in uno dei primi  commenti  -
che «il riferimento al diritto accertato dal giudice  costituisca  un
limite nella determinazione del valore della causa cosi come  avviene
per individuare lo scaglione di valore  della  causa  ai  fini  della
liquidazione delle spese legali»:  l'analisi  logica  della  frase  e
l'uso  della  disgiuntiva  «o»,   rafforzato   peraltro   dall'inciso
condizionale «se Ulteriore»,  evidenziano  inconfutabilmente  che  il
valore del diritto accertato viene indicato, in alternativa a  quello
del valore della causa, come limite alla «misura  dell'indennizzo»  e
non come criterio di determinazione del «valore della causa». 
    Una diversa  lettura  finirebbe,  dunque,  col  tradursi  in  una
interpretazione contra legem, come detto non consentita nemmeno se si
tratta di armonizzare la norma interna  al  parametro  costituzionale
rappresentato dalla CEDU, in forza del richiamo ai «vincoli derivanti
... dagli obblighi internazionali»  contenuto  nell'art.  117  Cost.,
dovendo, in tal caso,  una  siffatta  opera  di  raccordo  tra  fonte
intensa e fonte internazionale in  conflitto  essere  necessariamente
rimessa alla Corte delle leggi nei termini, e con  le  consequenziali
statuizioni, di cui al dispositivo ...»; 
    Constatato che quanto sinora esposto  legittima  ulteriormente  a
ritenere sussistenti i presupposti per promuovere  dunque,  in  piena
adesione  al  secondo  precedente  retro  richiamato,  incidente   di
costituzionalita' della disposizione  in  premessa  richiamata  anche
nell'odierno  procedimento  onde  far  seguire   ad   esso   la   sua
definizione; 
 
                               P. Q. M. 
 
    Visti gli artt. 134 e 137 Cost., 1 della Legge Cost.  9  febbraio
1948 n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87; 
        1) dichiara non manifestamente  infondata,  e  rilevante  nel
presente  giudizio,  la  questione  di  legittimita'   costituzionale
dell'art. 2-bis, comma 3, legge  24  marzo  2001  n.  89  (introdotto
dall'art. 55 comma 1 lettera b) decreto-legge 22 giugno 2012  n.  83,
convertito con legge 7 agosto 2012 n. 134), per contrasto con  l'art.
117  della  Costituzione,  nella  parte  in  cui  limita  la   misura
dell'indennizzo (liquidabile in favore della parte che  abbia  subito
un danno per la durata irragionevole  del  processo  presupposto)  al
«valore del diritto accertato» senza alcuna ulteriore  specificazione
o limite, comportando in tal modo l'impossibilita'  di  liquidare  in
alcuna misura un'equa riparazione in  favore  della  parte  che,  nel
processo presupposto, sia risultata interamente soccombente; 
        2) dispone l'immediata trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale  e  la  sospensione  del  presente  procedimento  fino
all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale; 
        3)  ordina  che,  a  cura  della  Cancelleria,  la   presente
ordinanza sia notificata al ricorrente e al Ministero della giustizia
presso l'Avvocatura distrettuale  dello  Stato  e,  con  urgenza,  al
Presidente del Consiglio dei ministri, e che la stessa venga altresi'
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
 
          Cosi' deciso in Reggio Calabria, addi' 27 dicembre 2013 
 
                  Il Consigliere delegato: Sabatini