N. 193 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 febbraio 2014

Ordinanza del 12 febbraio 2014 emessa  dal  Tribunale  di  Lecce  nel
procedimento civile  promosso  da  Maghenzani  Giorgio  e  Maghenzani
Salvatore contro Tota Alfred. 
 
Esecuzione forzata - Pignoramento di somme di danaro - Previsione che
  lo stipendio, la pensione, i compensi  comunque  corrisposti  dalle
  pubbliche amministrazioni, centrali e locali e dai  loro  enti,  in
  via continuativa,  a  prestatori  d'opera  e  ogni  altro  tipo  di
  emolumento a chiunque destinato, di importo superiore a mille euro,
  debbono  essere  pagati  con  strumenti  di  pagamento  elettronici
  bancari o postali, ivi comprese le carte di pagamento  prepagate  e
  le carte di cui all'art. 4 del d.l.  n.  78/2010,  convertito,  con
  modificazioni, in legge n. 122/2010 - Previsione che  detto  limite
  di  importo  possa  essere  modificato  con  decreto  del  Ministro
  dell'economia e delle  finanze  -  Salvezza  delle  limitazioni  in
  materia di pignoramento  di  cui  all'art.  545  c.p.c.  -  Mancata
  previsione  -  Violazione  del   principio   di   uguaglianza   per
  ingiustificata   disparita'   di   trattamento   tra   pignoramento
  effettuato presso il datore di lavoro (ente previdenziale) e quello
  operato sulle  medesime  somme  accreditate  su  conto  corrente  -
  Violazione della garanzia previdenziale. 
- Decreto-legge  6   dicembre   2011,   n.   201,   convertito,   con
  modificazioni, nella legge 22 dicembre 2011, n. 214, art. 12, comma
  2, lett. c). 
- Costituzione, artt. 3 e 38. 
Esecuzione forzata - Somme dovute a titolo di  stipendio,  salario  o
  altra indennita' relativa al  rapporto  di  lavoro  o  di  impiego,
  comprese  quelle  dovute  a  causa  di  licenziamento  -   Prevista
  possibilita'   di   pignoramento   da   parte   dell'agente   della
  riscossione: a) in misura pari ad 1/10 per  importi  fino  a  2.500
  euro; b) in misura pari ad 1/7 per importi da 2.500 a 5.000 euro  -
  Previsione che resta ferma la misura di cui  all'art.  545,  quarto
  comma, c.p.c., se le somme dovute a titolo di stipendio, di salario
  o di altra indennita' relativa al rapporto di lavoro o di  impiego,
  compresa quella dovuta ai sensi del licenziamento, superano i 5.000
  euro - Violazione del principio  di  uguaglianza  -  Lesione  della
  garanzia previdenziale. 
- Decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito,  con  modificazioni,
  nella legge 26 aprile 2012, n. 44, art. 3, comma 5. 
- Costituzione, artt. 3 e 38. 
(GU n.46 del 5-11-2014 )
 
                         TRIBUNALE DI LECCE 
                         Sezione commerciale 
 
    Il Giudice sciogliendo la riserva che precede; 
    letti  ed  esaminati  gli  atti  della  procedura  esecutiva   n.
3696/2013 promossa da  Giorgio  Maghenzani  e  Salvatore  Maghenzani,
rappresentati  c  difesi  dall'Avv.  Daniele  Galluccio   Mezio,   ed
elettivamente domiciliati nello studio di questi  in  Galatina,  alla
via Martines n. 29; 
    Contro Alfred Tota,  rappresentato  e  difeso  dall'Avv.  Antonio
Tanza, ed elettivamente domiciliato nello studio di questi in  Lecce,
alla via Martiri d'Otranto n. 6; 
 
                                Fatto 
 
    Con atto di pignoramento presso terzi depositato in data 5 agosto
2013, i signori Maghenzani esponevano di essere creditori del  signor
Alfred Tota, in virtu' di  sentenza  n.  133/2012  del  Tribunale  di
Lecce, sez. distaccata di Galatina, del 1° giugno 2012,  nonche'  del
successivo atto di precetto notificato il 10/11  maggio  2013,  della
somma complessiva di  € 3.475,34,  oltre  interessi  e  spese  legali
successive. 
    Citava pertanto il sig. Tota e una serie di banche  con  sede  in
Galatina, a comparire dinanzi al Tribunale di Lecce, sez.  distaccata
di Galatina, all'udienza dell'8 ottobre 2013. 
    Si procedeva al pignoramento, ai sensi dell'art. 546 comma 1 cpc,
sino alla concorrenza dell'imporlo € 5.213,00 delle somme  depositate
a qualsiasi titolo su conti, certificati  di  deposito,  libretti  di
risparmio o equipollenti intestati al sig. Tota. 
    Il sig. Tota si costituiva in data 10 gennaio  2014,  opponendosi
all'esecuzione mobiliare ex art. 615, comma 2, cpc. 
    Si evidenziavano profili di incostituzionalita',  che  inducevano
questa Autorita' giudicante a riservarsi in merito. 
    Cio' posto, essendo evidente  la  rilevanza  della  questione  di
costituzionalita'  ai   fini   della   adozione   dei   provvedimenti
istruttorie decisori della causa civile in  esame,  appare  opportuno
svolgere brevemente i motivi di  diritto  in  base  ai  quali  questo
organo giudicante ritiene costituzionalmente illegittima  l'impugnata
norma. 
 
                               Diritto 
 
    Dagli atti di causa, nonche' dai documenti  allegati,  si  evince
che il pignoramento che  ha  coinvolto  il  sig.  Tota  Alfred  abbia
interessato la totalita' del patrimonio  mobiliare,  costituito  solo
dall'indennita' mensile di disoccupazione. 
    Recenti sentenze di merito e interventi legislativi  hanno  posto
all'attenzione  degli   operatori   del   diritto   il   tema   della
pignorabilita' di stipendi, pensioni e altri  trattamenti  economici,
nelle ipotesi in  cui  detti  emolumenti  confluiscano  in  un  conto
corrente, perdendo cosi' la loro originaria natura. 
    La materia e'  stata  ed  e'  disciplinata  nel  rispetto  di  un
principio consolidato. Data la funzione  alimentare  riconosciuta  in
tutto o parte a detti emolumenti, essi sono  cedibili  e  pignorabili
entro un certo limite, classicamente identificato nel «quinto»  della
somma. 
    Questa salvaguardia, peraltro, e' stata messa in  discussione  da
tempo, sull'assunto che, con l'accredito in conto corrente bancario o
postale, la somma perda  l'originaria  qualificazione,  confondendosi
nella  «massa»  di  liquidita'  che  costituisce   il   credito   del
correntista nei confronti della banca, come tale aggredibile da parte
di un creditore terzo. 
    La questione, gia' presente  con  il  diffondersi  dell'accredito
volontario, e' diventata di particolare attualita' con l'introduzione
dell'obbligatorieta' di detto  accredito,  prevista  dal  decreto  n.
201/2011 (integrato dal successivo decreto n. 16/2012). 
    Sul punto, allo stato attuale, la giurisprudenza maggioritaria ha
ritenuto che la confluenza nel conto  corrente  faccia  perdere  alla
somma in questione l'identita' originaria, sicche' il meccanismo  del
«quinto» opererebbe  solo  qualora  il  terzo  creditore  agisca  nei
confronti del soggetto debitore della pensione o stipendio. 
    Cosi' di recente, in sede di merito, il Tribunale di Napoli,  con
ordinanza del 28 maggio 2013, ha ribadito tale tesi secondo la  quale
«la natura previdenziale della somma viene meno con il suo versamento
in un conto corrente bancario  dando  luogo  a  un  nuovo  e  diverso
rapporto». 
    Anche il Tribunale di Sulmona,  nella  sua  ordinanza  del  marzo
2013, riprende l'indirizzo  prevalente,  in  tema  di  perdita  della
specificita' delle somme riscosse in pensione, con la loro confluenza
nel restante patrimonio dell'interessato. 
    Queste pronunce dei  giudici  di  merito  hanno  preso  le  mosse
dall'impostazione, palesemente iniqua e discutibile sotto il  profilo
della costituzionalita', che ha trovato compiuta  declinazione  nella
sentenza della Corte di cassazione n. 17178 del  9  ottobre  2012,  e
riguardante crediti da lavoro: «qualora le somme dovute  per  crediti
di lavoro siano gia' affluite  sul  conto  corrente  o  sul  deposito
bancario del debitore esecutato, non si applicano le  limitazioni  al
pignoramento previste dall'articolo 545 cod. proc. civ.» 
    Corollario di tale differente  ed  iniqua  impostazione  sarebbe,
come apertamente dichiarato  dai  giudici  di  legittimita',  che  il
creditore possa arrivare a «prosciugare» il conto  corrente  del  suo
debitore, lasciandolo dunque privo di qualsivoglia tutela. 
    Solo  nel  caso  di  pignoramento  presso  il  datore  di  lavoro
varrebbero dunque le garanzie previste, appunto,  per  i  crediti  da
lavoro,  venendo  meno   qualora   le   somme   corrispondenti   alla
retribuzione siano confluite in un conto corrente bancario. 
    A  parziale  correzione  di  questa  argomentazione   lo   stesso
Tribunale di Sulmona,  nella  summenzionata  sentenza,  ha  ritenuto,
pero', che la natura privilegiata  del  rateo  pensionistico  permane
anche se esso e' accreditato su di un conto corrente o un libretto di
deposito purche': 
        «la natura del credito sia immediatamente  riconoscibile  per
denominazione ed importo e purche' non  vi  siano,  all'attivo,  voci
diverse dall'accredito della pensione ovvero prelievi subito dopo  il
deposito della somma a titolo di pensione». 
    Tale ultima e peculiare ipotesi, certamente presente, allo  stato
degli atti, nella fattispecie oggetto di giudizio,  e'  stata  dunque
appena  delineata  da  una  parte  della  giurisprudenza   e   appare
decisamente piu' in armonia rispetto al  dettato  costituzionale  (in
primis con l'art. 38 Cost.), tant'e' che trova pieno  conforto  nelle
piu'   recenti   statuizioni   sul   punto    della    giurisprudenza
costituzionale. 
    Va detto, altresi', che sul piano delle prassi amministrative una
«correzione di tiro» e' venuta proprio dall'ente  della  riscossione,
Equitalia, il cui Direttore generale, nel sottolineare per  primo  la
perversita' del meccanismo scaturito  dall'obbligo  di  apertura  del
conto corrente, ha evitato di pignorare somme sui conti correnti  dei
pensionati, a prescindere ed in attesa di una  soluzione  legislativa
del problema. 
    Tale opzione, successivamente imposta anche dall'art. 3, comma  5
del successivo  decreto-legge  n.  16/2012  convertito  in  legge  n.
44/2012, su cui di  seguito  ci  si  soffermera',  sembra  confermare
dunque una discrasia all'interno del sistema, a seguito di questi due
interventi legislativi. 
    Il tema, gia' noto  agli  operatori  del  diritto  piu'  attenti,
andava invece affrontato con equilibrata attenzione agli interessi  e
alle aspettative di tutte le parti in causa, specie  con  riferimento
ai  conti  rispetto  ai  quali  appaiono  evidenti  ed   agevoli   le
possibilita'  di  definirne  la  fonte  (pensione,  stipendio   altri
trattamenti  economici  equivalenti)  e  le  singole  operazioni   in
entrata/uscita. 
    La  stessa  Corte  costituzionale,  come  sara'   successivamente
specificato, aveva gia' richiamato l'attenzione sulla  necessita'  di
tenere conto delle legittime aspettative dei creditori, operando, per
l'appunto, un adeguato bilanciamento degli interessi in gioco. 
    L'ipotesi  particolarmente   problematica,   e'   dunque   quella
riguardante la  pignorabilita'  di  detti  emolumenti  da  parte  del
creditore  che  vada  alla  fonte  dell'emolumento,  con   meccanismi
d'intervento che trovano una disciplina specifica  nel  codice  e  in
leggi speciali oltre che  nella  ricostruzione  operata  per  i  vari
istituti dalla giurisprudenza. 
    Non puo' ignorarsi tra l'altro il disposto dell'art. 545  c.p.c.,
il quale stabilisce che le somme  dovute  dai  privati  a  titolo  di
stipendio, salario o altre indennita' relative al rapporto di  lavoro
o di impiego comprese quelle dovute a causa di licenziamento, possono
essere pignorate nella misura di un quinto per i tributi dovuti  allo
Stato, alle province e ai comuni, ed in eguale misura per ogni  altro
credito. 
    Attorno a questa norma  base  e'  stato  costruito  un  complesso
sistema, che brevemente si ripercorre. 
    Per le pensioni il decreto n. 1827 del 1935  stabiliva  che:  «Le
pensioni, gli  assegni  e  le  indennita',  spettanti  in  forza  del
presente  decreto,  non  sono  cedibili,   ne'   sequestrabili,   ne'
pignorabili, eccezione fatta per  le  pensioni,  che  possono  essere
pignorate   soltanto   nell'interesse   di   stabilimenti    pubblici
ospitalieri o di ricoveri per il pagamento delle diarie  relative,  e
non oltre il loro importo». 
    Una  previsione  chiaramente  ispirata  al   favor  pro   misero,
prevedendo come sola eccezione la necessita'  di  erogare  il  dovuto
corrispettivo a soggetti che si facessero  carico  dell'assistenza  e
ricovero del pensionato. A distanza di oltre trenta  anni  l'articolo
69 della legge n.  153/1969  ha  arricchito  l'area  delle  eccezioni
prevedendo che «le pensioni, gli  assegni  e  le  indennita'  possono
essere ceduti, sequestrati e pignorati nei limiti di  un  quinto  del
loro  ammontare,  per  debiti  verso  l'INPS  derivanti  da  indebite
prestazioni. percepite  a  carico  di  forme  di  previdenza  gestite
dall'Istituto stesso, oppure da omissioni contributive». 
    Il sistema, in ogni caso, rimaneva consolidato  nella  preminenza
dell'interesse del percettore dell'emolumento pubblico. 
    Va dato atto, dunque, che  entrambe  le  leggi  analizzate  dalla
parte, vale a dire  il  decreto-legge  n.  201/2011,  successivamente
convertito in legge n. 214/2011 (c.d. «salva-Italia»), e d.l.  n.  16
del  2012,  convertito   in   legge   n.   44/2012   (c.d.   «decreto
semplificazioni»),  si  pongono  in  incomprensibile  discontinuita',
sotto il profilo della ratio, rispetto alla tradizionale visione  del
legislatore, presentando conseguentemente  macroscopiche  criticita',
sulle quali e' opportuno soffermarsi. 
    In particolare, i principi costituzionali  che  risultano  essere
violati dalle specifiche disposizioni normative in esame sono  quelli
di cui agli artt.  38  (diritto  al  mantenimento  ed  all'assistenza
sociale) e 3 (principio di uguaglianza) della Costituzione. 
    1. E' bene evidenziare, innanzitutto, l'art. 12, comma  2,  lett.
c) della legge n. 214/2011, il quale ha stabilito che: 
        «lo stipendio, la pensione, i compensi  comunque  corrisposti
dalla pubblica amministrazione centrale e locale e dai loro enti,  in
via continuativa a prestatori d'opera e ogni altro tipo di emolumento
a chiunque  destinato,  di  importo  superiore  a  cinquecento  euro,
debbono essere erogati con  strumenti  diversi  dal  denaro  contante
ovvero mediante l'utilizzo  di  strumenti  di  pagamento  elettronici
bancari o postali, ivi comprese le carte di pagamento  prepagate.  Il
limite di importo di cui al periodo precedente puo' essere modificato
con decreto del Ministero dell'economia e delle finanze». 
    L'iniquita' sostanziale del sistema elaborato e' di  agevolissima
individuazione. 
    In sostanza puo' accadere che la pensione mensile o la busta paga
mensile, se superiore a 1.000,00 euro venga versata direttamente  sul
conto corrente del pensionato o del dipendente, e chi deve riscuotere
un credito puo' rifarsi direttamente, senza alcun limite, sul  denaro
che il soggetto detiene sul conto, quindi anche su tutta la  pensione
o tutto lo stipendio. 
    Cio'  avviene,  e'  importante  precisare,  nonostante  il  conto
corrente bancario o postale si presenti come un  prospetto  analitico
in cui ogni voce «in entrata» ed «in uscita» e' distinta  dall'altra,
oltre che facilmente identificabile. 
    Incostituzionalita' art. 12, comma 2, lett. c) legge n. 214/2011,
per violazione art. 38 Cost. 
    Come correttamente rilevato dalla parte, la disposizione  di  cui
all'art. 12, comma 2, lett. c) della legge n.  214/2011  si  pone  in
contrasto, in prima istanza, con l'art. 38 della Costituzione. 
    La giurisprudenza costituzionale manifesta, a questo riguardo, un
orientamento consolidato. 
    La sentenza  n.  506/2002  della  Corte  costituzionale  descrive
efficacemente il valore solidaristico dell'art. 38 della Costituzione
e,  conseguentemente,  i  limiti  che  tale  principio  ha  posto  al
legislatore in materia. 
    «L'art. 38, secondo  comma,  Cost.  e'  certamente  norma  che  -
sancendo il diritto dei lavoratori, in caso di infortunio,  malattia,
invalidita', vecchiaia e disoccupazione  involontaria,  a  che  siano
"preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze  di  vita"
si ispira a criteri di solidarieta' sociale e "di pubblico  interesse
a che venga garantita  la  corresponsione  di  un  minimum»,  il  cui
ammontare e' ovviamente riservato all'apprezzamento  del  legislatore
(cosi la sentenza n. 22 del 1969). 
    E' ben vero che il pubblico interesse -  in  cui  si  traduce  il
criterio di solidarieta' sociale - a che il  pensionato  goda  di  un
trattamento «adeguato alle esigenze di  vita»  puo',  ed  anzi  deve,
comportare - oltre che un dovere  dello  Stato  (da  bilanciarsi,  in
primis, con le esigenze della finanza pubblica: ordinanza n. 342  del
2002) - anche una compressione del diritto di terzi di soddisfare  le
proprie ragioni creditorie sul bene-pensione, ma e'  anche  vero  che
tale compressione non puo' essere totale  ed  indiscriminata,  bensi'
deve rispondere a criteri di ragionevolezza che valgano, da un  lato,
ad assicurare in ogni caso (e, quindi,  anche  con  sacrificio  delle
ragioni di terzi) al pensionato mezzi adeguati alle sue  esigenze  di
vita e, dall'altro lato, a non imporre ai terzi, oltre il ragionevole
limite appena indicato, un sacrificio dei loro crediti, negando  alla
intera pensione la qualita' di bene sul quale possano soddisfarsi. 
    E'  sufficientemente   chiaro,   dunque,   che   il   legislatore
costituente, nel prevedere l'art. 38, ha immaginato  una  costruzione
giuridica che, in nome  di  ineliminabili  principi  di  solidarieta'
sociale, imponga limiti ben determinati, rispettivamente in  capo  al
legislatore ordinario (nel rapporto con i cittadini) e  al  creditore
pignorante (nei rapporti inter privatos). 
    Fondamentale, anche  perche'  richiamata  in  tutte  le  sentenze
successive  sul  punto  (in  misura  diversa,  sent.  44/2005;  sent.
256/2006;  sent.  183/2009),  e'  la  sentenza  n.   506/2002,   che,
rivolgendosi sia alle  pensioni  erogate  dall'I.N.P.S.,  cosi'  come
quelle proprie del settore pubblico (I.N.P.D.A.P.), ha confermato  la
pignorabilita' delle pensioni - nella consueta misura  del  quinto  -
per ogni  credito,  da  determinarsi  «sulla  parte  aggredibile  del
trattamento in quanto  eccedente  le  esigenze  minime  di  vita  del
pensionato  (diversamente,  la  parte  necessariamente  destinata   a
soddisfare tali esigenze, resta sottratta ad ogni pretesa esecutiva». 
    Nella medesima sentenza, a proposito della  determinazione  della
quota di pensione idonea a soddisfare le esigenze minime  vitali,  la
Consulta ha  stabilito  che  «non  rientra  nel  potere  della  Corte
costituzionale,  ma  in   quello   discrezionale   del   legislatore,
individuare in concreto l'ammontare della (parte di) pensione  idoneo
ad assicurare «mezzi adeguati alle esigenze di vita» del  pensionato,
come  tale  legittimamente  assoggettabile  al  regime  di   assoluta
impignorabilita'». 
    Si  concorda,  inoltre,  con   la   parte   nel   rilevare   che,
pronunciandosi in materia di trattamenti  previdenziali  nei  termini
sopra menzionati, le statuizioni di cui  sopra,  siano  pacificamente
applicabili anche alle indennita' di  disoccupazione,  ancorche'  con
specifico riferimento  al  limite  di  pignorabilita'  di  un  quinto
dell'emolumento, che in questa sede costituisce  l'unico  oggetto  di
attenzione. Quanto appena detto assume ancora piu' valore  razionale,
se si tiene conto che gli emolumenti in questione  (indennita'  ASPI)
presentano caratteri di precarieta',  temporaneita'  e  finalita'  di
sostentamento ancora piu' marcati (tant'e' che lo stesso  legislatore
costituente a farne espressa menzione,  equiparandoli  alle  pensioni
nell'art. 38 Cost.). 
    Da un lato, infatti, l'art. 38, secondo comma, Cost.  enuncia  un
precetto che, quale  espressione  di  un  principio  di  solidarieta'
sociale, ha come destinatari anche (nei limiti di  ragione)  tutti  i
consociati, dall'altro, l'art. 36  Cost.,  -  secondo  quanto  questa
Corte ha statuito nelle ricordate decisioni (n. 5) - indica parametri
ai quali, nei rapporti lavoratore-datore di lavoro, deve  conformarsi
l'entita'  della  retribuzione,  senza  che  ne  scaturisca,  quindi,
vincolo alcuno per terzi estranei a tale  rapporto,  oltre  quello  -
frutto di razionale «contemperamento dell'interesse del creditore con
quello del debitore che percepisca uno stipendio» (sentenze n. 20 del
1968 e 38 del 1970) - del limite del quinto della retribuzione  quale
possibile oggetto  di  pignoramento  (sempre  sent.  Corte  cost.  n.
506/2002). 
    Proseguendo nella rilettura del sistema, si puo' notare  come  la
Corte costituzionale fosse  gia'  intervenuta,  precedentemente  alla
sentenza n. 506/2002, con la pronuncia n. 468/2002. 
    Con la prima sentenza la Corte costituzionale aveva ulteriormente
ribadito il principio secondo cui le pensioni, le indennita'  che  ne
tengano luogo e gli assegni sono pignorabili fino alla concorrenza di
un quinto, valutato al netto di ritenute,  per  tributi  dovuti  allo
Stato, alle province e ai comuni, facenti  carico,  fino  dalla  loro
origine, al pensionato. 
    Rispetto alla conclusione della prima delle due sentenze,  la  n.
506/2002  va  dunque  oltre  sul   piano   sistematico,   descrivendo
sostanzialmente  i  termini  in  cui  l'art.  38  Cost.   impone   il
bilanciamento tra gli interessi contrapposti del  creditore,  da  una
parte, e del soggetto in ristrettezza economica, dall'altra. 
    A  questo  riguardo  la  sentenza  cosi   recita:   il   presidio
costituzionale (art. 38) del  diritto  dei  pensionati  a  godere  di
«mezzi  adeguati  alle  loro  esigenze  di  vita»  non  e'  tale   da
comportare, quale suo ineludibile corollario, l'impignorabilita',  in
linea di principio, della pensione,  ma  soltanto  l'impignorabilita'
assoluta di quella parte di essa che vale, appunto, ad assicurare  al
pensionato  quei  «mezzi  adeguati  alle  esigenze  di  vita  che  la
Costituzione impone gli siano garantiti, ispirandosi ad  un  criterio
di solidarieta' sociale; e, pertanto, ad un criterio che, da un lato,
sancisce un dovere dello Stato e, dall'altro,  legittimamente  impone
un sacrificio (ma  nei  limiti  funzionali  allo  scopo)  a  tutti  i
consociati (e segnatamente ai creditori)». 
    Del resto, sebbene, come  sopra  evidenziato,  recentemente  pare
manifestarsi  il  contrario,  questa  impostazione   trova   comunque
riscontro  nella  giurisprudenza  ordinaria,  anche  di  legittimita'
(Cass.  11  giugno  1999,  n.  5761),  la  quale  ritiene  rilevabile
d'ufficio, «l'impignorabilita' di pensioni di modesto importo (quale,
nel caso di specie, di invalidita')». 
    Incostituzionalita' art. 12, comma 2, lett. c) legge n. 214/2011,
per violazione art. 3 Cost. (principio di ragionevolezza). 
    Sotto l'aspetto della difformita' di trattamento che si  viene  a
determinare, a seguito dell'entrata  in  vigore  della  summenzionata
novella legislativa, tra pignoramento effettuato presso il datore  di
lavoro/ente previdenziale  e  quello  operato  sulla  medesima  somma
accreditata su conto corrente, il riferimento  non  puo'  che  essere
quello dell'art. 3 della Costituzione. 
    Come rilevabile  dalle  varie  relazioni  annuali  della  Suprema
Corte, sin dai suoi primi anni di  attivita',  il  parametro  di  cui
all'art. 3 della Costituzione ha assunto un ruolo di  preminenza  nei
giudizi di legittimita' costituzionale. 
    Cio' in quanto, l'eguaglianza,  come  affermato  nella  sent.  n.
25/1966, «e' principio generale che  condiziona  tutto  l'ordinamento
nella sua obbiettiva struttura», nonche', secondo la sent. n. 204 del
1982, «canone di coerenza [...] nel campo delle norme di diritto». 
    In realta', la lettura che la giurisprudenza della Corte ha  dato
del principio di eguaglianza - inteso in  senso  sia  formale,  quale
regola della forza e dell'efficacia  della  legge,  sia  sostanziale,
quale regola del contenuto della stessa -  ha  portato  ad  enucleare
anche un generale principio di ragionevolezza, alla luce del quale la
legge deve regolare in maniera uguale situazioni uguali ed in maniera
razionalmente diversa situazioni diverse, con la conseguenza  che  la
disparita' di  trattamento  trova  giustificazione  nella  diversita'
delle  situazioni  disciplinate:  «il  principio  di  eguaglianza  e'
violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un
trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni»
(sent. n. 15 del 1960), poiche' «l'art. 3 Cost. vieta  disparita'  di
trattamento di situazioni  simili  e  discriminazioni  irragionevoli»
(sent. n. 96/1980). 
    Cosi', stando a quanto si osserva leggendo le pronunce che  hanno
affrontato il parametro di cui all'art.  3  Cost.,  il  principio  in
oggetto «deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando
eguali siano le condizioni soggettive  ed  oggettive  alle  quali  le
norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione»  (sent.  n.
3/1957), con la conseguenza che il principio risulta violato «quando,
di fronte a situazioni obbiettivamente omogenee, si ha una disciplina
giuridica differenziata determinando  discriminazioni  arbitrarie  ed
ingiustificate» (sent. n. 111 del 1981). 
    Pertanto, il giudizio ex art. 3 Cost. si articola in due momenti,
il primo destinato verificare la sussistenza di  omogeneita'  fra  le
situazioni poste a confronto «quel minimo di  omogeneita'  necessario
per l'instaurazione di un giudizio di ragionevolezza» (sent.  n.  209
del  1988),  il  secondo,  subordinato  all'esito   affermativo   del
precedente,  destinato  a  stabilire  se  sia  razionale  o  meno  la
diversita' di trattamento predisposta per le stesse dalla legge. 
    Se, infatti, «la valutazione della rilevanza delle diversita'  di
situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare  non
puo' essere riservata alla discrezionalita' del  legislatore»  (sent.
n. 3 del 1957), tale discrezionalita' non puo' trascendere  i  limiti
stabiliti dal primo comma dell'art. 3 Cost.. 
    Quindi, «si ha violazione dell'art. 3 della  Costituzione  quando
situazioni  sostanzialmente  identiche  siano  disciplinate  in  modo
ingiustificatamente diverso, mentre non si manifesta  tale  contrasto
quando alla diversita' di  disciplina  corrispondano  situazioni  non
sostanzialmente identiche» (sent. n. 340 del 2004). 
    Illuminante appare sul punto la lettera della sent.  n.  163  del
1993: «il principio di eguaglianza comporta che a  una  categoria  di
persone, definita secondo caratteristiche identiche o ragionevolmente
omogenee in  relazione  al  fine  obiettivo  cui  e'  indirizzata  la
disciplina normativa considerata, deve essere imputato un trattamento
giuridico identico  od  omogeneo,  ragionevolmente  commisurato  alle
caratteristiche essenziali in ragione delle quali e'  stata  definita
quella determinata categoria di persone. 
    Incostituzionalita' art.  3,  comma  5,  legge  n.  44/2012,  per
violazione artt. 38 e 3 Cost. 
    2. La seconda disposizione normativa,  sulla  quale  si  avanzano
perplessita' in relazione ai medesimi profili di  incostituzionalita'
gia' analizzati, e' l'art. 3, comma 5 del decreto-legge  n.  16/2012,
convertito in legge n.  44/2012,  che  ha  aggiunto,  nel  d.P.R.  n.
602/1973,  in  materia  di   pignoramento   presso   terzi   disposto
dall'agente della riscossione, l'art.  72-ter:  «Le  somme  dovute  a
titolo di stipendio, di salario o di  altre  indennita'  relative  al
rapporto di lavoro o di impiego, comprese quelle dovute  a  causa  di
licenziamento,   possono   essere   pignorate    dall'agente    della
riscossione: a) in misura pari ad 1/10 per importi  fino  a  2.500,00
euro; b) in misura pari ad 1/7 per importi  da  2.500,00  a  5.000,00
euro». «Resta ferma la misura di cui all'articolo 545, comma  4,  del
codice di procedura civile, se le somme dovute a titolo di stipendio,
di salario o di altre indennita' relative al rapporto di lavoro o  di
impiego, comprese quelle dovute a causa di licenziamento, superano  i
cinquemila euro». 
    Si puo' sottolineare il medesimo ordine  di  considerazioni  gia'
effettuato, in relazione alla violazione degli artt. 38 e 3 Cost. 
    Con particolare riferimento al principio  di  ragionevolezza,  il
principio  in  parola,  racchiuso  nell'art.  3   Cost.   (anche   in
conformita' di quello sovranazionale UE e CEDU cui quello interno  e'
tenuto a conformarsi), impone il rispetto  del  piu'  generale  dogma
della coerenza organica. 
    Rispetto a tale principio generale, la norma si  pone  in  palese
contrasto, svuotando completamente di  significato  l'intero  tessuto
normativo in cui  essa  incide  e,  di  conseguenza,  improvvisamente
menomando,  anzi  annullando  del  tutto  diritti  che  ne  sarebbero
conseguiti a tutela degli interessi  lesi  in  danno  del  contraente
debole. 
    Come gia' sottolineato,  la  giurisprudenza  di  legittimita'  ha
chiaramente affermato che il principio in oggetto debba assicurare ad
ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le  condizioni
soggettive,  ed  oggettive  alle  quali  le   norme   giuridiche   si
riferiscono per la loro applicazione. 
    Non  si  scorge  ragionevolezza,   dunque,   nel   riconoscimento
dell'indiscutibile principio generale  di  impignorabilita'  relativa
dell'emolumento pubblico, solo ai rapporti debitori nei confronti  di
Equitalia S.p.a,, e non anche in quelli inter privatos. 
    Infine, non sussistono assolutamente limitazioni  di  sorta,  con
riferimento al sindacato di costituzionalita' a cui ci si rimette, in
ragione delle eventuali valutazioni, anche di carattere quantitativo,
che dovrebbero caratterizzare la pronuncia della Suprema Corte. 
    La  teorizzazione  esplicita  del  sindacato  di   ragionevolezza
intrinseca, quale canone generale del giudizio di  costituzionalita',
e' comunemente ricondotta alla sentenza della Corte costituzionale n.
1130 del 1988. 
    La  sentenza  -  giudicando  su  un  ricorso  avverso  una  legge
regionale impugnata dal Governo sull'assunto che  non  vi  fosse  una
giustificata proporzione tra mezzi  finanziari  e  personali  che  la
legge metteva a disposizione dei  gruppi  consiliari  e  le  esigenze
obiettive  cui  questi  dovevano  far  fronte  nella  loro  attivita'
istituzionale  -  ha  posto  la  Corte  davanti  ad  un  giudizio  di
ragionevolezza delle scelte compiute dal legislatore regionale. 
    L'eccezione  di  inammissibilita'   prospettata   dalla   Regione
resistente sull'assunto che le censure  riguardassero  l'opportunita'
della legge  impugnata  (in  quanto  relative  ad  aspetti  puramente
quantitativi, rispetto ai quali sarebbe stato impossibile determinare
il limite  oltre  il  quale  l'erogazione  di  somme  o  la  messa  a
disposizione   di   maggiore   personale   dovrebbero    considerarsi
costituzionalmente illegittime) venne respinta. 
    Afferma testualmente la Corte: «il  giudizio  di  ragionevolezza,
lungi dal comportare il ricorso a criteri di valutazione  assoluti  e
astrattamente prefissati, si svolge attraverso ponderazioni  relative
alla proporzionalita' dei mezzi prescelti dal legislatore  nella  sua
insindacabile discrezionalita' rispetto alle  esigenze  obiettive  da
soddisfare o alle finalita'  che  intende  perseguire,  tenuto  conto
delle circostanze  e  delle  limitazioni  concretamente  sussistenti.
Sicche',   diversamente   da   quanto    suppone    la    resistente,
l'impossibilita' di fissare in  astratto  un  punto  oltre  il  quale
scelte di ordine quantitativo divengono manifestamente arbitrarie  e,
come  tali,   costituzionalmente   illegittime,   non   puo'   essere
validamente assunta come  elemento  connotativo  di  un  giudizio  di
merito, essendo un tratto che si riscontra, come s'e'  appena  visto,
anche nei giudizi di ragionevolezza. Del resto, come questa Corte  ha
gia' rilevato in relazione  ad  un'analoga  eccezione  sollevata  nel
corso di un precedente giudizio (sent. n. 991 del 1988),  le  censure
di merito non comportano valutazioni strutturalmente diverse, sono il
profilo logico, dal procedimento argomentativo  proprio  dei  giudizi
valutativi    implicati    dal     sindacato     di     legittimita',
differenziandosene, piuttosto, per il fatto che  in  quest'ultimo  le
regole o gli interessi che debbono essere assunti come parametro  del
giudizio  sono  formalmente  sanciti  in  norme  di  legge  o   della
Costituzione». 
    Pertanto, poiche' entrambe le disposizioni possono incidere sulle
questioni che interessano il contenzioso  in  essere  tra  i  signori
Maghenzani Giorgio e Maghenzani Salvatore e il sig. Tota  Alfred,  e'
necessario verificare se, in ipotesi di ritenuta applicabilita'  tout
court delle norme anche alle questioni in esame, le stesse  risultino
effettivamente coerenti con i summenzionati  principi  sanciti  dalla
Costituzione. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Letti gli artt. 134 e  137  della  Costituzione,  1  della  legge
costituzionale 9 febbraio 1948 n. l e 23 della legge 11 marzo 1953 n.
87, il Tribunale di  Lecce,  in  persona  del  GOT  dott.  Alessandro
Maggiore, ritenuta non manifestamente infondata e rilevante,  per  la
decisione  del  presente  giudizio,  la  questione  di   legittimita'
costituzionale: 
        Dell'art. 12, comma  2,  lett.  c)  legge  n.  214/2011,  per
violazione degli artt. 38 e 3 della Costituzione, nei termini  e  per
le ragioni di cui in motivazione, nella parte in cui non ha  previsto
che sono fatte salve le limitazioni in materia di pignoramento di cui
all'art. 545 c.p.c.; 
        Dell'art. 3, comma 5, legge n. 44/2012, per violazione  degli
artt. 38 e 3 della Costituzione, nei termini e per le ragioni di  cui
in motivazione, (nella parte in cui non  prevede  l'applicazione  dei
limiti individuati  da  siffatto  articolo  anche  ai  crediti  inter
privatos); 
    Cosi' decide: 
        dispone la sospensione del procedimento in corso; 
        ordina  la  notificazione   della   presente   ordinanza   al
Presidente del Consiglio  dei  ministri,  e  la  comunicazione  della
stessa ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato; 
        ordina   la   trasmissione    dell'ordinanza    alla    Corte
costituzionale insieme con gli atti del giudizio e con la prova delle
notificazioni e delle comunicazioni prescritte. 
    Si comunichi. 
 
        Lecce, 12 febbraio 2014 
 
                          Il GOT: Maggiore