N. 244 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 gennaio 2014
Ordinanza dell'11 gennaio 2014 del G.I.P. del Tribunale di Catanzaro nel procedimento penale a carico di P.V.. Processo penale - Misure cautelari - Criteri di scelta delle misure - Obbligatorieta' della custodia cautelare in carcere quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in relazione al delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen., con riferimento ai casi di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - Mancata previsione della salvezza dell'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure - Ingiustificata parificazione della posizione del partecipe alla associazione mafiosa con quella del concorrente esterno - Irragionevole assoggettamento a un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati - Contrasto con i principi di inviolabilita' della liberta' personale e di non colpevolezza sino alla sentenza di condanna definitiva. - Codice di procedura penale, art. 275, comma 3, come modificato dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38. - Costituzione, artt. 3, 13 e 27.(GU n.2 del 14-1-2015 )
TRIBUNALE DI CATANZARO Sezione del Giudice per le indagini preliminari Il G.I.P. dott. Pietro Scuteri nel procediniento sopra rubricato a carico, tra gli altri, di P. V., nato a ..., attualmente detenuto presso la casa circondariale di Vibo Valentia, difeso dall'avv. Paolo Mascaro del foro di Lamezia Terme, imputato del delitto p. e p. dall'art. 110, 416-bis del c.p. «perche' assumeva il ruolo di concorrente esterno della struttura organizzativa dell'associazione criminale di stampo mafioso denominata cosca G. di N. L. T.» (capo 7 dell'ordinanza di custodia cautelare del 15 luglio 2013); Rilevato che con istanza ex art. 299 c.p.p., depositata in data 8 gennaio 2014, la difesa dell'imputato ha chiesto la sostituzione della massima misura cautelare di rigore con quella degli arresti domiciliari; Acquisito il parere favorevole del P.M. in data 9 gennaio 2014; Rilevato che il titolo del reato per il quale l'istante e' cautelato, seppur concretamente configurato nelle forme del c.d. «concorso esterno» ex artt. 110, 416-bis del c.p., ai sensi dell'art. 275 comma 3 del c.p.p. non consente l'applicazione di misura diversa rispetto alla custodia cautelare in carcere; Ritenuto che, nel caso di specie, in cui, peraltro, l'istante chiede esclusivamente la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, la presunzione legislativa di sussistenza delle esigenze cautelari non puo' ritenersi superata con riferimento all'art. 274, lett. c) c.p.p. essendo, a parere dello scrivente, ancora attuali le esigenze cautelari di cui all'art. 274 c.p.p (come ravvisate in sede di applicazione della misura cautelare) le quali possono essere correttamente dedotte: 1) dalle modalita' dei fatti e dalla personalita' dell'agente che in esse si manifesta, con particolare riferimento al reato di cui all'art. 416-bis c.p. (elemento di per se' idoneo a determinare un apprezzamento parimenti utile per ritenere la sussistenza del concreto pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, alla luce delle modalita' del fatto); 2) dalla condotta criminosa sintomatica di uno stile di vita che di per se' impone una prognosi infausta concretante le esigenze di prevenzione; Ritenuto altresi' che nel caso in esame si evidenzia, con particolare rilevanza, la illegittimita' costituzionale della norma citata (art. 275 comma 3 c.p.p.) con riferimento non alla presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, bensi' al divieto di applicazione di diverse misure che possano garantire le esigenze; Osserva e rileva 1. Non appare manifestamente infondata - con riferimento agli artt. 3, 13 e 27 della Costituzione - la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 275 del codice di procedura penale nella parte in cui esclude al terzo comma la facolta' per il giudice di applicare, con riferimento alle ipotesi di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p. qualificabili quali «concorso esterno» in associazione per delinquere di stampo mafioso, una misura cautelare meno afflittiva della custodia in carcere, apparendo irragionevole impedire in linea generale - sia pure per un reato grave quale la fattispecie di «concorso esterno» ma che in concreto puo' assumere diverse connotazioni e gradazioni -, che il giudice possa valutare il caso di merito e applicare, ove adeguata a tutelare le sussistenti esigenze cautelari, una misura diversa da quella di massimo rigore. In particolare ritiene lo scrivente che trattasi di questione - oltre che rilevante nel caso di specie essendo stata avanzata ex art. 299 c.p.p. istanza di sostituzione della misura cautelare carceraria con quella degli arresti domiciliari da indagato in custodia cautelare per il reato di cui artt. 110 e 416-bis c.p. in quanto gravemente indiziato di concorso esterno nella associazione per delinquere di stampo mafioso - non manifestamente infondata, avuto riguardo, in particolare: 1) all'evoluzione della giurisprudenza costituzionale in relazione alla portata della presunzione di cui all'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., essendo intervenute plurime pronunce di declaratoria di parziale incostituzionalita' di tale norma; 2) in relazione alla concreta fattispecie in contestazione e cio' in considerazione della intrinseca differenza della posizione del partecipe all'associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) rispetto a quella del c.d. «concorrente esterno» (artt. 110 e 416-bis c.p.). 2. Quanto al primo profilo occorre rilevare, innanzitutto, come peraltro puntualmente evidenziato nella ordinanza delle Sezioni Unite n. 34473 del 2012, che con una pluralita' di interventi, susseguentisi in un arco temporale assai contenuto, la Corte costituzionale ha recentemente ridisegnato i confini della presunzione in materia cautelare di cui all'art. 275 c.p.p., il cui ambito applicativo era stato ampliato, ben oltre il settore della criminalita' mafiosa, al decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modifiche, con legge n. 38 del 2009. In primis con la sentenza n. 265 del 2010 e' stata dichiarata la illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui ha esteso la presunzione di adeguatezza della custodia carceraria, senza possibilita' di apprezzare in concreto l'adeguatezza di altra e meno afflittiva misura, nei procedimenti per i reati di cui all'art. 609-bis comma 1 e 609-quater c.p.. Nello specifico i giudici della Corte costituzionale dopo aver ricordato che nel criterio di adeguatezza trova espressione il principio del «minore sacrificio necessario» e che il ricorso alla custodia carceraria deve essere residuale ed eccezionale (extrema ratio), hanno chiarito come tratto saliente del sistema cautelare sia proprio l'assenza di automatismi e presunzioni. Rispetto a tale regola generale, la deroga costituita dalle presunzioni di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della misura carceraria per i delitti di mafia in senso stretto, ha superato il vaglio della Corte costituzionale e della Corte Europea dei diritti dell'uomo, avendo entrambe le Corti valorizzato le peculiarita' di tali delitti, la cui connotazione strutturale astratta, come reati associativi e dunque permanenti, rende ragionevoli le presunzioni, e specificamente quella di adeguatezza della custodia carceraria, misura ritenuta maggiormente idonea per soddisfare l'esigenza di neutralizzazione del periculum libertatis «connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato e associazione». La Corte costituzionale, quindi, con la decisione in argomento, ha tratto la conclusione dell'impossibilita' di estendere una ratio siffatta, calibrata sui delitti di mafia in senso stretto, ad ambiti criminosi per i quali vale una regola di esperienza diversa, ossia che essi possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con misure alternative alla custodia in carcere. Si tratta di delitti che, per quanto odiosi, sono spesso meramente individuali e tali da non postulare esigenze affrontabili rigidamente con la massima misura. Con argomentazioni del tutto simili, il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 164 del 2011, ha successivamente dichiarato la incostituzionalita' dell'art. 275, comma 3 c.p.p., nella parte in cui non consente di apprezzare, nei procedimenti per il delitto di cui all'art. 575 c.p., l'esistenza di elementi specifici dai quali in concreto risulti che le esigenze cautelari possano essere soddisfatte con misure meno gravose della custodia in carcere. Nonostante la gravita' del reato - ha osservato la Corte - il delitto di omicidio non implica e non presuppone necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosita', perche' puo' essere, e sovente e', un fatto meramente individuale. Il Giudice delle leggi con la sentenza n. 331 del 2010 ha poi fatto venir meno la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia carceraria anche in riferimento ai delitti di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, di cui all'art. 12, comma 3, d.lgs. n. 286 del 1998. Sulla scia di queste pronunce e' intervenuta ancora la Corte costituzionale con la sentenza n. 231 del 2011 con la quale e' stata dichiarata la illegittimita' dell'art. 275, comma 3, del codice di rito, nella parte concernente - il riferimento ai procedimenti per il delitto di cui all'art. 74 D.P.R. n. 309 del 1990. Anche per tale delitto la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria e' stata considerata non rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla struttura stessa e alle connotazioni criminologiche della figura criminosa, pur se essa presuppone uno stabile vincolo di appartenenza a un sodalizio criminoso. Con tale sentenza e' stato precisato che il delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope si concretizza in una forma speciale del delitto di associazione per delinquere, qualificata unicamente dalla natura dei reati-fine, che non postula necessariamente la creazione di una struttura complessa e gerarchicamente ordinata, essendo sufficiente una qualunque organizzazione, anche rudimentale, di attivita' personali e di mezzi economici, benche' semplici ed elementari. Detta figura criminosa, ha osservato ancora la Corte costituzionale, «si presta, pertanto, a qualificare penalmente fatti e situazioni in concreto i piu' diversi ed eterogenei: da un sodalizio transnazionale, forte di una articolata organizzazione, di ingenti risorse finanziarie e rigidamente strutturato, al piccolo gruppo, talora persino ristretto ad un ambito familiare operante in un'area limitata e con i piu' modesti e semplici mezzi», per cui «non e' possibile enucleare una regola di esperienza, ricollegabile ragionevolmente a tutte le connotazioni criminoloiche del fenomeno, secondo cui la custodia carceraria sarebbe l'unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari» atteso che «in un significativo numero di casi, al contrario, queste ultime potrebbero trovare risposta in misure diverse e meno afflittive, che valgano comunque ad assicurare la separazione dell'indiziato dal contesto delinquenziale e ad impedire la reiterazione del recito». Sulla falsariga della pronuncia da ultimo citata, con la sentenza n. 110 del 2012, la Corte costituzionale, e' intervenuta ancora una volta con una ulteriore (parziale) declaratoria di incostituzionalita' dell'art. 275, comma 3 c.p.p., con specifico riferimento alla fattispecie di cui all'art. 416 cod. pen. realizzata allo scopo di commettere i delitti previsti dagli artt. 473 e 474 dello stesso codice, facendo cosi' venir meno la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia in carcere per tale reato associativo. Nel riprendere le argomentazioni delle precedenti pronunce, la Corte ha significativamente precisato che per la fattispecie presa in esame puo' dirsi che mancano quelle connotazioni normative (forza intimidatrice del vincolo associativo e condizione di assoggettamento ed omerta') proprie dell'associazione di tipo mafioso e in grado di fornire una congrua base statistica alla presunzione assoluta di adeguatezza. Da ultimo con la sentenza n. 57 del 2013 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Nel corpo della motivazione, i giudici delle leggi, dopo aver ribadito che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit» -ampliando ulteriormente il novero delle fattispecie rispetto alle quali la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere risulta priva di un fondamento giustificativo costituzionalmente valido fino a ricomprendere anche «fattispecie collocate in un contesto mafioso» quali quelle aggravate dall'art. 7 legge n. 203/91- ha statuito che il «semplice impiego del cosiddetto "metodo mafioso" o la finalizzazione della condotta criminosa all'agevolazione di un'associazione mafiosa non sono necessariamente equiparabili, ai fini della presunzione in questione, alla partecipazione all'associazione, ed e' a questa partecipazione che e' collegato il dato empirico, ripetutamente constatato, della inidoneita' del processo, e delle stesse misure cautelari, a recidere, il vincolo associativo e a far venir meno la connessa attivita' collaborativa, sicche', una volta riconosciuta la perdurante pericolosita' dell'indagato o dell'imputato del delitto previsto dall'art. 416-bis cod. pen., e' legittimo presumere che solo la custodia in carcere sia idonea a contrastarla efficacemente». In particolare appare significativo ai fini della questione oggetto della presente ordinanza il dato che nella sentenza citata la Corte costituzionale, anche attraverso il richiamo alla propria precedente decisione n. 450 del 1995, evidenzi come la ratio della presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per l'associazione di tipo mafioso si basa sulla constatazione che «dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche - connesse alla circostanza che l'appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un'adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice - deriva, nella generalita' dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere». 3. Cio' posto, secondo lo scrivente, le ragioni che sostengono il giudizio di non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita' in esame, si sostanziano, oltre che negli argomenti, appena richiamati, che la stessa giurisprudenza costituzionale ha nel tempo utilizzato per eliminare la presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere per alcuni tipi di reato (da ultimo per i delitti aggravati ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge n. 152 del 1991), soprattutto nel rilievo che anche le ipotesi di «concorso esterno in associazione mafiosa» ex artt. 110 e 416-bis c.p. potrebbero in concreto, per le loro caratteristiche e per le intrinseche differenze che tale figura assume rispetto a quella del partecipe concorrente, non postulare necessariamente esigenze cautelari affrontabili esclusivamente con la custodia in carcere. Onde chiarire il fondamento di tale asserzione, appare opportuno ricordare, in generale, quelli che sono gli elementi che caratterizzano, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, sia la condotta di partecipazione di cui all'art. 416-bis c.p. sia quella del c.d. «concorso esterno» nel reato di cui agli artt. 110 e 416-bis c.p. A partire dal notissimo pronunciamento della Corte di Cassazione a Sezioni Unite (c.d. sentenza MANNINO) la giurisprudenza di legittimita' e di merito e' oramai concorde nell'affermare che e' partecipe colui che, «risultando inserito stabilmente ed organicamente nella struttura organizzativa dell'associazione, non solo e', ma fa parte della (meglio ancora prende parte) alla stessa, locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensi' in senso dinamico e funzionale, con riferimento all'effettivo ruolo in cui si' e' immessi e ai compiti che si e' chiamati a svolgere perche' l'associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attivita' organizzate dalla medesima». Siffatta configurazione della condotta partecipativa trova piena conferma nella giurisprudenza piu' recente secondo la quale «la condotta di partecipazione ad una associazione mafiosa e' riferibile a colui che si trova in un rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio tale da implicare piu' che uno status di appartenenza un ruolo dinamico e funzionale in esplicazione del quale l'interessato prende parte al fenomeno associativo rimanendo a disposiizione dell'ente per il perseguimento dei suoi fini criminosi» (Cassazione penale sezione V sentenza 24 gennaio 2013 n. 3823). Sul piano della prova della sussistenza della condotta di partecipazione, i Supremi Giudici, sin dalla sentenza Mannino, hanno precisato che rilevano a tal fine «tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalita' di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa e cioe' la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio. Deve dunque trattarsi di indizi gravi e precisi (tra i quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova, l'affiliazione rituale, l'investitura della qualifica di uomo di onore, la commissione di delitti scopo, oltre a molteplici, variegati, e pero' significativi factia concludentia) dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonche' della duratura e sempre utilizzabile messa ci disposizione della persona per ogni attivita' del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento peraltro allo specifico periodo temporale considerato nella imputazione». Cosi' delineati i confini della condotta partecipativa, la distinzione fra la figura dell'«intraneus» e quella del «concorrente esterno» appare, in astratto, agevolmente tracciabile. Al proposito sempre i Supremi Giudici di legittimita' hanno precisato che il concorso esterno (sanzionato a norma del combinato disposto degli artt. 110, 416-bis c.p.) sussiste in capo alla persona che, priva dell'«affectio societatis» (ossia della consapevolezza del soggetto di inserirsi in una associazione vietata condividendo lo scopo del raggiungimento dei fini della stessa: ex plurimis Cass. 679/ 1991 RV 186683, Cass. 4805/ 1992 RV 192648; Cass. 32904/2004 RV 229488) e non inserita nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisca un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale e continuativo, purche' detto contributo abbia un'effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione e del rafforzamento dell'associazione e l'agente se ne rappresenti, nella forma del dolo diretto, l'utilita' per la realizzazione anche parziale del programma criminoso. Nella sentenza c.d. Mannino si e' anche puntualizzato che la prova del concorso esterno nel reato associativo deve avere ad oggetto gli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa, con la conseguenza che esulano dall'ipotesi in esame situazioni quali la «contiguita' compiacente", o la "vicinanza" o la "disponibilita'" nei riguardi del sodalizio o di suoi esponenti, anche di spicco, quando non siano accompagnate da positive attivita' che, in base ad una verifica ex post, abbiano fornito uno o piu' contributi suscettibili di produrre un oggettivo apporto di rafforzamento o di consolidamento dell'associazione o quanto meno di un suo particolare settore. Non e' sufficiente, quindi, neppure ai fini del concorso esterno, la mera disponibilita' a fornire il contributo richiesto dall'associazione, ma occorre l'effettivita' di tale contributo, cioe' l'attivazione del soggetto nel senso indicatogli dal sodalizio criminoso: SSUU 22327/ 2003 Carnevale- Cass 24469/2009 RV 244382 che ha confermato che «in tema di associazione di tipo mafioso la mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti di affari ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti non costituiscono elementi di per se' sintomatici dell'appartenenza mafiosa ma possono essere utilizzati come riscontri da valutare ai sensi dell'art. 192 c.p.p. comma 3 quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione e connotati dal necessario carattere individualizzante». In conclusione puo', quindi, affermarsi che la differenza fra «intraneus» e quella dell'«extraneus concorrente esterno» consiste: sotto il profilo oggettivo nel fatto che il concorrente esterno, benche' fornisca un contributo che abbia rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell'associazione, non sia inserito nella struttura criminale, sotto il profilo soggettivo nel fatto che il concorrente esterno - differentemente da quello interno il cui dolo consiste nella coscienza e volonta' di partecipare attivamente alla realizzazione dell'accordo e quindi del programma delittuoso in modo stabile e permanente - sia privo dell'affectio societatis. Al fine, allora di fornire ulteriori, chiari elementi di distinzione, appare opportuno ricordare che l'art. 416-bis c.p., incriminando «chiunque partecipi all'associazione», indipendentemente dalle modalita' attraverso le quali il reo sia entrato a fare parte dell'organizzazione, e' un reato «a forma libera», che cioe' volutamente non tipizza le modalita' di manifestazione della condotta associativa. Da cio' discende che l'ingresso nell'associazione non sempre avviene in conseguenza di atti formali o cerimonie sacramentali, anzi la mancanza di tali riti non esclude che un soggetto possa, di fatto, contribuire con il suo comportamento ai fini dell'associazione, attraverso l'esplicazione, perdurante nel tempo; di uno specifico ruolo, dinamico e funzionale, da cui derivi un costante, effettivo e concreto apporto - di qualsiasi forma e contenuto - destinato alla conservazione o al rafforzamento del gruppo. Proprio per tale ragione la Suprema Corte, da tempo, ha chiarito che la prova dell'appartenenza, come intraneus al sodalizio criminoso, puo' essere data anche attraverso significativi «facta concludentia» ove questi siano idonei, senza alcun automatismo probatorio, a fornire la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo. Da quanto detto consegue, allora, che la condotta del partecipe puo' assumere forme e contributi diversi e variabili proprio perche', per raggiungere i fini propri dell'associazione, occorrono diverse competenze e diverse mansioni, ognuna delle quali e' suscettibile di contribuire, in modo sinergico, al raggiungimento del fine comune. Del pari, anche la condotta dell'extraneus all'associazione/concorrente esterno puo' assumere connotati, forme e contributi diversi traducendosi in concreto in una svariata astratta possibile pluralita' di condotte potenzialmente differenti non solo quanto ai contenuti quanto anche rispetto all'intensita' ed alla durata del contributo causale offerto. Alla stregua dei principi appena esposti, appare, quindi, evidente che essendo ontologicamente differente la posizione del partecipe rispetto a quella del concorrente esterno - soggetto non aderente in maniera permanente ad un sodalizio criminoso ed il cui contributo al sodalizio puo' (come spesso accade) essere anche temporalmente assai circoscritto se non addirittura occasionale - la scelta di equiparare sotto il profilo del trattamento cautelare situazioni tra loro eterogenee e suscettibili di proporre, in un numero non marginale di casi, esigenze cautelari adeguatamente fronteggiabili con misure diverse e meno afflittive di quella carceraria, risulta costituzionalmente non orientata. In altre parole, proprio la circostanza che in concreto il contributo offerto all'associazione di stampo mafioso dal concorrente eventuale esterno ex artt. 110 e 416-bis c.p. - soggetto privo di affectio societatis ed il cui rapporto con l'associazione e' non connotato da stabilita' - puo' assumere i contenuti piu' vari e tradursi in concreto in condotte che, per quanto gravi ed odiose, siano tali da presentare disvalore ed intrinseca pericolosita' differente, rende la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia carceraria non rispondente a un dato di esperienza generalizzato, ricollegabile alla struttura stessa e alle connotazioni criminologiche della figura criminosa. Alla luce di tali considerazioni deve, pertanto, concludersi che la norma censurata (art. 275 comma 3 c. p.p.) e' in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, per l'ingiustificata parificazione di figure criminose (il partecipe ed il concorrente esterno) che pur riconducibili entrambe al paradigma dell'art. 416-bis c.p. risultano oggettivamente differenti tra loro, senza che vi siano fondate ragioni per impedire la piena individualizzazione della coercizione cautelare. Difatti, in un numero tutt'altro che marginale di casi, le esigenze cautelari per l'indagato di concorso esterno in associazione mafiosa ex artt. 110 e 416-bis c.p. sono suscettibili di trovare idonea risposta anche in misure diverse da quella carceraria, in primis quella degli arresti domiciliari, misura coercitiva custodiale, limitativa della liberta' di movimento dell'indagato e idonea ad impedire i collegamenti dell'indagato stesso con i contesto di criminalita' cui risulta essere contiguo. La medesima disposizione si pone, altresi', in contrasto con il principio di inviolabilita' della liberta' personale, sancito dall'art. 13, primo comma, Costituzionale, imponendo il massimo sacrificio di tale bene primario all'esito di un giudizio di bilanciamento non corretto, in quanto non del principio di ragionevolezza. Essa lede, infine, la presunzione di non colpevolezza, prevista dall'art. 27, secondo comma, della Costituzione, affidando al regime cautelare funzioni proprie della pena, la cui applicazione presuppone invece un giudizio definitivo di responsabilita'. Cio' che vulnera i parametri costituzionali richiamati non e' la presunzione in se', ma il suo carattere assoluto, che implica una indiscriminata e totale negazione di rilevanza al principio del «minore sacrificio necessario». La previsione, invece, di una presunzione solo relativa di adeguatezza della custodia carceraria - atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio, suggerita da aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi di segno contrario - non eccede i limiti di compatibilita' costituzionale, rimanendo per tale verso non censurabile l'apprezzamento legislativo circa la ordinaria configurabilita' di esigenze cautelari nel grado piu' intenso. Per tutte le suesposte argomentazioni, ritiene lo scrivente che la prospettata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275 comma 3 c.p.p. - in riferimento agli artt. 3, 13 e 27 della Costituzione, nella parte in cui nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, con riferimento ai casi di «concorso esterno» in associazione mafiosa ex artt. 110 e 416-bis del codice penale, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure - oltre che rilevante ai fini della decisione dell'interposta istanza, non sia manifestamente infondata e che, pertanto, vada sollevata e proposta innanzi la Corte costituzionale; dovendosi, per l'effetto, sospendere il presente procedimento per pregiudizialita' costituzionale sino alla decisione del Giudice delle Leggi sulla questione medesima, ordinare la trasmissione degli atti alla stessa Corte costituzionale, nonche' porre, a cura dell'ufficio di cancelleria, la notificazione del presente provvedimento al Pubblico Ministero, all'Imputato, al Difensore, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della Camera dei Deputati e al Presidente del Senato della Repubblica.
P.Q.M. Solleva e propone d'ufficio la rilevante e non manifestamente infondata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 275 comma 3 c.p.p. - in riferimento agli artt. 3, 13, 27 e 32 della Costituzione - nella parte in cui nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis del codice penale, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, con riferimento ai casi di «concorso esterno» in associazione mafiosa ex artt. 110 e 416-bis del codice penale, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Sospende, per l'effetto, il presente procedimento per pregiudizialita' costituzionale sino alla decisione del Giudice delle Leggi sulla questione sollevata e proposta. Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale con sede presso il palazzo della Consulta in Roma. Dispone la notificazione del presente provvedimento al Pubblico Ministero, all'Imputato, al Difensore, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della Camera dei Deputati e al Presidente del Senato della Repubblica. Manda alla Cancelleria per l'esecuzione di tali adempimenti e di ogni altro di competenza. Cosi' deciso in Catanzaro il 10 gennaio 2014. Il G.I.P.: Scuteri