N. 129 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 luglio 2018

Ordinanza  del  2  luglio  2018  del  Tribunale  di   Pordenone   nel
procedimento civile promosso da B. S. e  D.  C.  contro  Azienda  per
l'assistenza sanitaria n. 5 Friuli Occidentale. 
 
Procreazione  medicalmente  assistita  -  Accesso  alle  tecniche   -
  Esclusione di  coppie  composte  da  soggetti  dello  stesso  sesso
  - Previsione di sanzioni nei confronti di chi (strutture  sanitarie
  o esercenti la professione sanitaria) consente a coppie composte da
  soggetti dello stesso sesso l'accesso alle tecniche. 
- Legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme  in  materia  di  procreazione
  medicalmente assistita), artt. 5 e 12, commi 2, 9 e 10. 
(GU n.38 del 26-9-2018 )
 
                       TRIBUNALE DI PORDENONE 
 
    Il Giudice dott.ssa Maria Paola Costa, nel procedimento cautelare
ante causam iscritto al n. 1337/2018 di ruolo generale, promosso  con
ricorso ex art. 700 del codice di procedura civile, depositato il  14
maggio 2018 da S. B. nata il ... a ... C.F. ... e C. D. nata il ... a
... entrambe residenti a ... in via ... rappresentate e  difese,  per
mandati in calce al predetto ricorso, dall'avv. Maria Antonia Pili  e
presso  il  suo  studio  a  Pordenone  in  viale   Cassetti   n.   20
elettivamente domiciliate, ricorrenti; 
    contro  l'Azienda  per  l'assistenza  sanitaria   n.   5   Friuli
Occidentale, con sede a Pordenone in via della Vecchia Ceramica n. 1,
C.F. e P.IVA 01772890933, in persona del direttore generale e  legale
rappresentante pro  tempore  dott.  Giorgio  Simon,  rappresentata  e
difesa, per mandato in calce alla memoria difensiva e di costituzione
ed in forza di  decreto  di  incarico  n.  435  del  7  giugno  2018,
dall'avv. Vittorina Colo' e presso la sede dell'Azienda  a  Pordenone
in  via  della  Vecchia  Ceramica  n.  1  elettivamente  domiciliata,
resistente; 
    Sentiti i procuratori delle parti; 
    Letti gli atti ed i documenti prodotti; 
    A scioglimento della riserva espressa all'udienza del  28  giugno
2018; 
    ha pronunciato la seguente ordinanza: 
1. L'oggetto del giudizio. 
    1.a Con ricorso ex art.  700  del  codice  di  procedura  civile,
depositato il 14 maggio 2018, le ricorrenti  S.  B.  e  C.  D.  hanno
evocato avanti al Tribunale di Pordenone la  resistente  Azienda  per
l'assistenza sanitaria n. 5 Friuli Occidentale  (nel  prosieguo,  per
ragioni di sintesi, anche solo Azienda o resistente), riferendo: 
        di convivere more uxorio dal 2012 in una casa  di  proprieta'
di S. B.; 
        di  svolgere  quest'ultima  la  professione  di  tecnico   di
radiologia presso l'Ospedale di Pordenone e C. D. la  professione  di
dirigente medico radiologo presso lo stesso Ospedale; 
        di  aver  maturato  nel  corso  del  tempo  il  desiderio  di
genitorialita',   avendo   all'uopo   intrapreso   un   percorso   di
procreazione medicalmente assistita (d'ora innanzi anche solo PMA) in
Spagna; 
        che all'esito di tale percorso C. D. aveva dato alla luce  ad
Udine in data 19 settembre 2015 i due gemelli L. e B. D.; 
        di aver contratto in data 14 maggio 2017 unione civile presso
il Comune di Porcia; 
        che anche S.  B.,  in  accordo  con  la  compagna,  intendeva
realizzare il suo desiderio di maternita' sempre  mediante  PMA,  non
volendo, tuttavia, effettuare tale percorso all'estero, in quanto  la
legge n. 40 del 19 febbraio 2004 - come modificata dopo  l'intervento
della Corte costituzionale (sentenze numeri 162/2014  e  96/2015)  ed
alla luce di importanti arresti della Corte di  cassazione  (sentenze
numeri 12962/2016, 19599/2016 e  14878/2017)  -  avrebbe  agevolmente
previsto siffatta possibilita' anche in Italia, una volta rimossi gli
ostacoli ideologici che precludevano ingiustamente tale accesso  alle
coppie omosessuali; 
        che  peraltro  da  qualche  tempo  era  stato   istituito   a
Pordenone, presso l'Azienda sanitaria n.  5  Friuli  Occidentale,  il
servizio  -  Struttura  semplice   dipartimentale   di   procreazione
medicalmente assistita sia  omologa  che  eterologa,  da  effettuarsi
gratuitamente a carico del Sistema sanitario nazionale; 
        che tale servizio costituiva per le  odierne  ricorrenti  una
garanzia  sia  in  termini  di  qualita'  sanitaria  sia  in  termini
economici, non  costringendo  la  coppia  a  recarsi  all'estero  con
modalita',  tempi  e  costi  piuttosto  elevati,  come  era  avvenuto
all'epoca del percorso effettuato in Spagna da C. D.; 
        che del tutto illogico appariva alle ricorrenti  non  potersi
avvalere dell'opportunita' offerta dall'Azienda  sanitaria  locale  e
soprattutto appariva gravemente discriminatorio costringere S.  B.  a
portare a termine il percorso di PMA all'estero per poi far  comunque
nascere il bambino in Italia come cittadino italiano. Il tutto  sulla
base del loro orientamento sessuale; 
        che  pertanto  S.  B.,  anche  per  ragioni  di  eta'  ovvero
ritenendo di non avere piu' molto tempo di attesa  per  intraprendere
il percorso di PMA in base ai protocolli vigenti,  aveva  presentato,
nel mese di marzo 2018, unitamente alla compagna C. D., la  richiesta
presso  l'Azienda  sanitaria  n.  5  servizio  -  Struttura  semplice
dipartimentale fisiopatologia riproduzione umana  Banca  del  seme  e
degli ovociti per accedere a tale percorso,  sottoponendosi  altresi'
alle visite/indagini mediche ed ematologiche richieste; 
        che  tuttavia  l'Azienda  sanitaria  n.  5,  in  persona  del
responsabile dei trattamenti di procreazione  medicalmente  assistita
dott. F. T., aveva loro comunicato in data 3 maggio 2018  il  rifiuto
all'accesso alla tecnica di PMA, con  la  seguente  motivazione:  «Al
termine  del  counseling  il  sottoscritto  dott.   F.   T.,   medico
responsabile della settore scientifico-disciplinare  di  procreazione
medicalmente assistita, informa la coppia D. C. e B. S. che la  legge
n. 40/2004  all'art.  5  prevede  -  tra  i  requisiti  soggettivi  -
l'accesso a tecniche di riproduzione  assistita,  solo  a  coppie  di
sesso diverso e che pertanto,  pur  rispettando  pienamente  la  loro
scelta di vita e la loro richiesta di accedere ad una tecnica di  PMA
eterologa con donazione di seme non posso consentire l'accesso a tale
tecnica  nel  rispetto  della  sopra  menzionata  legge,  presso   la
struttura da me diretta»; 
        che la causa di  merito  sottostante  il  giudizio  cautelare
andava individuata in un procedimento ordinario ex  articoli  2910  e
seguenti del codice civile (art. 2931 del codice civile:  obbligo  di
fare). 
    Tutto cio' premesso, ritenendo sussistenti i requisiti del  fumus
boni iuris e del periculum in mora, le ricorrenti  hanno  chiesto  al
Tribunale di ordinare alla Azienda di consentire loro l'accesso  alle
tecniche di PMA e di sollevare, in via  pregiudiziale,  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 5 della legge n.  40/2004,  per
contrasto     (ove     ritenuto     non     superabile     in     via
interpretativa/analogica) con gli articoli 2, 3, 31, comma 2°  e  32,
comma 1° della Costituzione, nella parte in cui limitava tale accesso
alle sole «coppie (...) di sesso diverso», inibendolo,  dunque,  alle
coppie formate da persone dello stesso sesso, nonche'  di  sollevare,
in via eventuale, questione di' legittimita' costituzionale dell'art.
4, comma 1° della medesima  legge  n.  40/2004  (anche  in  tal  caso
qualora pure la questione relativa alla  sterilita'/infertilita'  per
le coppie formate da persone dello stesso sesso  non  fosse  ritenuta
superabile in via interpretativa/analogica), per contrasto con l'art.
3 della Costituzione, nella parte in cui limitava il suddetto accesso
«... ai casi di sterilita' o di infertilita'»  anche  per  le  coppie
formate da persone dello stesso sesso. 
    1.b Si  e'  ritualmente  costituita  in  giudizio  l'Azienda  per
l'assistenza sanitaria n. 5 Friuli Occidentale, la quale ha  eccepito
preliminarmente l'incompetenza per materia del Giudice adito ex  art.
442 del codice di procedura civile (essendo competente il Giudice del
lavoro del Tribunale di Pordenone) e ha concluso nel  merito  per  il
rigetto della domanda (rilevando l'insussistenza dei requisiti di cui
all'art. 700 del codice di procedura civile). 
    1.c All'udienza del 28 giugno 2018, essendosi le parti richiamate
ai rispettivi  atti  difensivi  ed  avendo  le  stesse  ulteriormente
illustrato  le  reciproche  deduzioni  ed  istanze,  il  Giudice   ha
trattenuto la causa in riserva. 
    1.d Un tanto esposto in fatto,  va,  anzitutto,  affrontata,  per
essere disattesa, l'eccezione preliminare sollevata dalla resistente. 
    Come si e' sopra accennato,  l'Azienda  eccepisce  l'incompetenza
per materia del Giudice adito, ritenendo che  competente  a  decidere
sulla domanda cautelare proposta dalle signore B. e D. sia il Giudice
del lavoro del Tribunale di Pordenone. 
    La  medesima  Azienda  osserva,  piu'  precisamente,  che,   come
chiarito dalla Suprema Corte (cfr. Cassazione civile, sezioni  unite,
22 febbraio 2012, n. 2570 ed, ancor prima, Cassazione civile, sezioni
unite, 24 aprile 2002, n. 6043), tra le controversie  in  materia  di
previdenza ed assistenza obbligatone di cui all'ari. 442  del  codice
di procedura civile, di competenza ai sensi dell'art. 444 del  codice
di procedura civile del Tribunale in funzione di Giudice del  lavoro,
rientrano anche quelle  aventi  ad  oggetto  le  prestazioni  erogate
nell'ambito  del  Servizio  sanitario  nazionale,  di  talche'   essa
sollecita questo Giudice a dichiarare «la  propria  incompetenza  per
materia ed a rimettere le parti dinanzi al Giudice competente che ...
indica nel Giudice del lavoro presso il Tribunale di Pordenone». 
    L'eccezione in esame in primo luogo  e'  argomentata  in  termini
inesatti ed in secondo luogo appare ad ogni modo infondata. 
    Sotto il primo profilo va, infatti, rilevato che,  non  tanto  di
incompetenza per materia puo' disquisirsi nel caso di specie,  quanto
- al piu' - di distribuzione  degli  affari  civili  all'interno  del
Tribunale di Pordenone. 
    E', del resto, noto (cfr. Cassazione civile, sezione VI -  1,  27
ottobre 2016, n. 21774) che «La ripartizione delle  funzioni  tra  le
sezioni specializzate e le sezioni ordinarie del  medesimo  Tribunale
non implica l'insorgenza di una questione  di  competenza,  attenendo
piuttosto alla distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno
dello stesso ufficio. Ne consegue che l'ordinanza  con  la  quale  il
Giudice istruttore trasmette al Presidente  del  Tribunale  gli  atti
relativi  ad  un  causa  per  la  sua   assegnazione   alla   sezione
specializzata dello stesso Tribunale in materia d'impresa - istituita
ai sensi dell'art. 3 del decreto legislativo n. 168  del  2003,  come
modificato dall'art. 2 del decreto-legge n. 1  del  2012,  convertito
con modificazioni nella legge n. 27 del 2012 - non  e'  qualificabile
come una vera e propria decisione  sulla  competenza,  configurandosi
piuttosto come un provvedimento a valenza meramente amministrativa, e
non e', quindi, impugnabile, ai sensi  dell'art.  42  del  codice  di
procedura civile, con il regolamento di competenza». 
    Ed, andando sullo specifico tema che ci occupa  (cfr.  Cassazione
civile, sezione I, 19 luglio 2016, n. 14790), anche «La  ripartizione
delle funzioni tra la sezione  lavoro  e  le  sezioni  ordinarie  del
medesimo Tribunale non  implica  l'insorgenza  di  una  questione  di
competenza,  attenendo  piuttosto  alla  distribuzione  degli  affari
giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio». 
    Invero, «A seguito dell'istituzione del Giudice  unico  di  primo
grado, la ripartizione delle funzioni tra  le  sezioni  lavoro  e  le
sezioni ordinarie del  Tribunale  non  implica  l'insorgenza  di  una
questione di'  competenza,  attenendo  piuttosto  alla  distribuzione
degli affari giurisdizionali all'interno  dello  stesso  ufficio;  ne
consegue  che,  ove  il  Tribunale  ordinario  abbia   impropriamente
dichiarato la propria incompetenza per essere competente  il  Giudice
del lavoro presso lo stesso ufficio, e' inammissibile il  regolamento
di competenza  proposto  avverso  l'indicata  pronuncia,  poiche'  il
Tribunale avrebbe dovuto disporre soltanto il cambiamento del rito  e
la conseguente  rimessione  al  capo  dell'ufficio  per  la  relativa
assegnazione al Giudice del lavoro» (cfr. Cassazione civile,  sezione
III, 23 settembre 2009, n. 20494). 
    Quanto, invece, al secondo profilo  (infondatezza  dell'eccezione
in esame), diversamente da quanto sostiene la resistente, la presente
controversia non e' relativa alla «tutela del diritto  del  cittadino
alla  salute  ed   alle   correlate   prestazioni   assistenziali   e
previdenziali nei confronti della pubblica amministrazione». 
    La lettura del ricorso rende, difatti, di tutta evidenza  che  la
questione  sottoposta  all'attenzione  di  questo  Tribunale  non  e'
l'erogazione di' una prestazione sanitaria a tutela di un diritto (in
se'  incontestato)   ad   una   specifica   cura,   quanto   l'esatta
individuazione dei limiti e delle facolta' connessi al  diritto  alla
genitorialita', diritto che, solo incidentalmente, verrebbe veicolato
attraverso il ricorso ad un determinato percorso terapeutico. 
    Per le ragioni che precedono, l'eccezione va, dunque, disattesa. 
    1.e Venendo, ora, al merito della domanda cautelare, S. B.,  dopo
aver contratto il 14 maggio 2017 unione civile presso  il  Comune  di
Porcia con C. D. (cfr. documento  2  del  fascicolo  di  parte  delle
ricorrenti), si e' rivolta nei marzo 2018, unitamente alla  compagna,
all'Azienda per l'assistenza sanitaria n. 5  Friuli  Occidentale  per
accedere al percorso di PMA (ibidem documento 3), sottoponendosi alle
visite/indagini mediche ed ematologiche richieste (ib. documento 4). 
    L'Azienda, con comunicazioni del 2  e  del  3  maggio  2018,  ha,
tuttavia, informato le ricorrenti di non poter  consentire  l'accesso
alla tecnica sopra indicata, in quanto «la legge 4012004  all'art.  5
prevede - tra i  requisiti  soggettivi  -  l'accesso  a  tecniche  di
riproduzione  assistita,  solo  a  coppie  di  sesso  diverso»   (ib.
documento 5). 
    Con il ricorso introduttivo del presente giudizio le signore B. e
D. chiedono, pertanto, al Tribunale di ordinare in via d'urgenza alla
locale Azienda sanitaria di consentire loro l'accesso  alle  tecniche
di  procreazione  medicalmente   assistita,   alle   quali   dovrebbe
sottoporsi la B. 
    Le ricorrenti, con specifico riguardo al requisito del fumus boni
iuris, lamentano  che  l'unica  ragione  per  cui  la  resistente  ha
rigettato la loro istanza e' rappresentata dall'art. 5 della legge 19
febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui detta norma prescrive che  i
richiedenti l'accesso alla PMA debbano  essere  «di  sesso  diverso»,
posto che tutti gli  altri  requisiti  soggettivi  previsti  da  tale
disposizione risultano rispettati. 
    Il citato art. 5  (rubricato,  appunto,  «Requisiti  soggettivi»)
dispone, piu' nel dettaglio, che  «Fermo  restando  quanto  stabilito
dall'art. 4, comma 1, possono accedere alle tecniche di  procreazione
medicalmente  assistita  coppie  di  maggiorenni  di  sesso  diverso,
coniugate o conviventi,  in  eta'  potenzialmente  fertile,  entrambi
viventi». 
    Ed, in effetti, le ricorrenti sono  «maggiorenni»,  «coniugate  o
conviventi»  (avendo   costituito   un'unione   civile),   «in   eta'
potenzialmente fertile» (essendo nate la B. nel  1982  e  la  D.  nel
1979), «entrambe viventi». 
    Esse, pertanto, denunciano anzitutto che la restrizione  prevista
dal predetto art. 5, ove non sia in principalita'  ritenuta  superata
in forza del piu' recente intervento giurisprudenziale e  legislativo
pronunciatosi nella materia de qua, e'  illegittima  ed  in  evidente
contrasto con quanto previsto dagli articoli 2, 3, 31 comma 2°  e  32
comma 1° della Costituzione, nonche' con le previsioni degli articoli
8 e 14 della Convenzione europea dei diritti umani. 
    Osservano, in subordine, le  ricorrenti  che  potrebbe  porsi  in
contrasto con l'art. 3 della Costituzione anche l'art.  4,  comma  1°
della legge n. 40/2004, nella parte  in  cui  limita  l'accesso  alle
tecniche di PMA «ai casi di sterilita' o infertilita'» anche  per  le
coppie  formate  da  persone   dello   stesso   sesso,   laddove   in
principalita'  non  si  ritenga  sostanzialmente   soddisfatto   tale
requisito gia' in ragione della loro omosessualita'. 
    Quanto, invece, al requisito del periculum in mora, le ricorrenti
chiariscono che, avendo la B. compiuto 36 anni a gennaio 2018, vi  e'
oggettivo interesse della coppia ad  accedere  prima  possibile  alle
tecniche  de  quibus,  essendo  la  possibilita'  di  utilizzare  con
successo la fecondazione non illimitata nel tempo ed aumentando anche
i rischi di insorgenze disfunzionali per il concepito con  l'avanzare
dell'eta' della madre. 
    L'Azienda  reputa,  invece,  che  non  ricorrano  i   presupposti
previsti dall'art. 700 del  codice  di  procedura  civile,  sotto  il
versante del fumus per la chiara lettera del piu' volte citato art. 5
della legge  n.  40/2004,  la  cui  violazione  risulta,  oltretutto,
sanzionata dal successivo art. 12 commi 2°, 9° e 10°  della  medesima
legge, e con riguardo al periculum potendo la fecondazione  assistita
a carico del Servizio sanitario nazionale essere effettuata  sino  ai
43 anni della donna. 
    La stessa Azienda dichiara, infine, di non  comprendere  come  le
ricorrenti abbiano scelto lo strumento del ricorso ex  art.  700  del
codice  di  procedura  civile,  che  prevede   l'emanazione   di   un
provvedimento  d'urgenza,  nel  momento  in  cui  chiedono  anche  al
Tribunale di sollevare questione di legittimita' costituzionale degli
articoli 4 e 5 della legge n. 40/2004. 
    1.f Partendo, per comodita' espositiva, dalla questione da ultimo
riportata, non puo' disconoscersi  il  diritto  delle  ricorrenti  di
avvalersi del  procedimento  cautelare  innominato,  sol  perche'  le
stesse hanno chiesto al  Tribunale  di  sollevare  eventualmente  una
questione di legittimita' costituzionale, laddove tale questione  non
fosse     in     principalita'     superabile     gia'     in     via
interpretativo/analogica. 
    Come ha correttamente ricordato la difesa delle signore B. e  D.,
la miglior smentita e' fornita dalla vicenda processuale  (per  certi
tratti, analoga) affrontata dal Tribunale di Roma  con  le  ordinanze
del 15 gennaio e del 28 febbraio 2014, con cui,  proprio  nell'ambito
di un procedimento promosso ai sensi  dell'art.  700  del  codice  di
procedura   civile,   e'   stata   sollevata    la    questione    di
incostituzionalita' dell'art. 4 della legge n.  40/2004,  poi  decisa
dalla  Consulta  con  la  sentenza  n.  96/2015  che  tale  norma  ha
dichiarato, appunto, incostituzionale. 
    Per   quanto   si    chiarira'    infra,    la    questione    di
incostituzionalita' e' ammissibile, ancorche' sollevata nel  contesto
del presente procedimento d'urgenza ante causam, poiche', non potendo
questo Giudice provvedere in via  definitiva  sull'istanza  cautelare
delle ricorrenti,  non  puo',  dunque,  ritenersi  consumata  la  sua
potestas  iudicandi  (cfr.,  per  tutte,  sullo  specifico  tema,  la
sentenza della Corte costituzionale n. 200/2014). 
    1.g Passando ora alla disamina degli specifici presupposti di cui
allo strumento cautelare innominato, e' risaputo  che  l'accoglimento
del ricorso ex art. 700 del codice di procedura  civile  richiede  la
contemporanea sussistenza del periculum in  mora  e  del  fumus  boni
iuris, di talche' la constatata assenza  di  uno  dei  due  requisiti
indefettibili giustifica gia' di per se' il  rigetto  della  domanda,
rendendo di fatto superflua ogni considerazione  sull'altro  elemento
fondante la pretesa. 
    Per quanto concerne, quindi, il periculum in mora, l'art. 700 del
codice di procedura civile richiede, a tale riguardo,  la  ricorrenza
di un pregiudizio imminente  ed  irreparabile,  tale  dovendo  essere
qualificato  quel  pregiudizio   che,   non   essendo   adeguatamente
ristorabile per equivalente, cioe' mediante assegnazione di una somma
di danaro a titolo risarcitorio, in caso di  mancata  adozione  della
cautela  innominata  determinerebbe  la  irreversibile  lesione   del
diritto fatto valere nel processo. 
    E tali  caratteristiche  sussistono  indubbiamente  nel  caso  di
specie, costituendo fatto notorio, ricavabile dagli studi scientifici
intervenuti sulla materia de qua e non  a  caso  recepiti  anche  dal
nostro Istituto superiore  della  sanita',  che  la  possibilita'  di
sottoporsi con successo a tecniche di  fecondazione  e'  strettamente
legata all'eta' della donna ed e' destinata a diminuire sensibilmente
perlomeno dopo i 35 anni della stessa, come pure che i rischi per  la
salute della madre e del  nascituro  aumentano  esponenzialmente  col
passare del tempo. 
    Si deve, percio',  concludere  che  per  una  donna  di  36  anni
compiuti (qual e' S. B.) l'attesa dei tempi di un ordinario  giudizio
di  cognizione   potrebbe   di   fatto   pregiudicare   definitamente
l'accoglimento della domanda qui azionata dalle ricorrenti. 
    1.h   Quanto   sopra   consente,   percio',    di    concentrarsi
sull'esistenza  dell'ulteriore   (e,   come   detto,   indefettibile)
presupposto,  ossia  sul  requisito  del  fumus  boni   iuris,   che,
notoriamente, viene inteso  come  la  presenza  di  elementi  che,  a
livello di cognizione  sia  pure  sommaria  (come  impone  il  rito),
fondino  l'opinione  positiva  in  ordine   all'esistenza   ed   alla
tutelabilita' del diritto azionato (c.d. verosimiglianza). 
    Ed, in ordine a tale  specifico  presupposto,  la  lettura  degli
scritti difensivi lascia chiaramente comprendere come  l'accertamento
in concreto della  sua  sussistenza  discenda  necessariamente  dalla
disamina delle previsioni contenute nella legge  n.  40/2004  ed,  in
particolare, nei suoi articoli 5 e 12. 
    Da un lato, infatti, sono le ricorrenti a  specificare  che  tale
legge, dopo  le  modifiche  conseguenti  alle  pronunce  della  Corte
costituzionale (sentenze numeri 162/2014 e 96/2015) e della Corte  di
cassazione (sentenze numeri  14878/2017,  19599/2016  e  12962/2016),
deve essere interpretata nel senso  di  consentire  anche  in  Italia
l'accesso alle tecniche di PMA alle coppie formate da  persone  dello
stesso sesso. 
    Di contro, l'Azienda assume che siffatto accesso e' espressamente
vietato dalla legge in commento. 
    Se ne ha che, prima di poter essere concretamente affrontata, nel
caso  sottoposto  all'attenzione  del  Tribunale  di  Pordenone,   la
verifica della sussistenza del fumus boni iuris e, quindi,  affinche'
il   presente   giudizio   possa   essere   deciso,    deve    essere
pregiudizialmente superato il sospetto di  incostituzionalita'  degli
articoli 5 e 12, che verra' trattato nei successivi paragrafi. 
2. Il sospetto di incostituzionalita' (ossia le disposizioni di legge
di cui si denuncia la incostituzionalita'). 
    Un tanto chiarito,  questo  Giudice  ritiene  che  non  si  possa
dubitare, per quanto piu' sopra esposto e per quanto si dira'  infra,
della rilevanza della  questione  di  costituzionalita'  dell'art.  5
della legge n. 40/2004 e, di riflesso, dell'art. 12, commi 2°,  9°  e
10° della medesima legge n.  40/2004  (norma  quest'ultima  che,  per
ragioni di maggior sinteticita', in  seguito  verra'  anche  indicata
solo con il  richiamo  all'art.  12,  da  intendersi,  pero',  sempre
riferito espressamente ai suoi soli  commi  2°,  9°  e  10°,  qui  di
rilievo). 
    La prima disposizione, poiche' stabilisce che  «possono  accedere
alle  tecniche  di  procreazione  medicalmente  assistita  coppie  di
maggiorenni  di  sesso  diverso,  coniugate  o  conviventi,  in  eta'
potenzialmente fertile, entrambi viventi», esclude, infatti, da  tale
accesso le signore B. e D., in  quanto  coppia  composta  da  persone
dello stesso sesso, seppur biologicamente compatibili con la  pratica
della PMA. 
    La seconda disposizione, invece, dispone (al suo comma 2°  e  per
quanto  qui  di  rilievo)  che  «Chiunque  a  qualsiasi  titolo,   in
violazione dell'art. 5, applica tecniche di procreazione medicalmente
assistita a coppie ... che siano composte da  soggetti  dello  stesso
sesso ... e' punito con  la  sanzione  amministrativa  pecuniaria  da
200.000 a 400.000 euro», prevedendo (al suo comma 9°) «la sospensione
da uno a tre anni  dall'esercizio  della  professione  nei  confronti
dell'esercente una professione sanitaria  condannato  per  uno  degli
illeciti di' cui al presente  articolo»  e  (al  suo  comma  10°)  la
sospensione «per un anno» della  «autorizzazione  concessa  ...  alla
struttura al cui interno  e'»  stata  «eseguita  una  delle  pratiche
vietate ai  sensi  del  presente  articolo»  e  la  revoca  di  detta
autorizzazione  in  caso  di  «piu'  violazioni  dei  divieti  o   di
recidiva». Essa, dunque, rafforza il divieto di accesso alle tecniche
di PMA da parte  delle  ricorrenti,  poiche'  sanziona  (in  termini,
peraltro, particolarmente incisivi) i sanitari  o  la  struttura  che
tale accesso volessero, al contrario, consentire. 
    La non manifesta infondatezza della  questione  emerge,  poi,  de
plano dalle considerazioni che seguiranno,  incentrate  sul  ritenuto
contrasto  delle  due  norme  sopra  indicate  con  le   disposizioni
costituzionali di seguito specificate. 
3. I parametri del giudizio (ovvero  le  disposizioni  costituzionali
che si asseriscono violate). 
    3.A. Contrasto con l'art. 2 della Costituzione. 
    L'esclusione dall'accesso  alle  tecniche  di  PMA  delle  coppie
composte  da  soggetti  dello  stesso  sesso,  nonche'  la  correlata
applicazione di sanzioni a chi (struttura sanitaria  o  esercente  la
professione sanitaria) tale esclusione non rispetti, contrastano,  in
primo  luogo,  con  l'art.  2  della  Costituzione,  in  quanto   non
garantiscono   il   diritto    fondamentale    alla    genitorialita'
dell'individuo, sia  come  soggetto  singolo,  sia  nelle  formazioni
sociali ove si svolge la sua personalita'. 
    Diritto alla  genitorialita'  consistente  nella  aspirazione  ad
avere un figlio,  che  legittimamente  nutre  ogni  soggetto,  specie
allorche' ha costituito un legame di  coppia  stabile  (nel  caso  in
esame, risalente a 6 anni fa) e pubblico (avendo,  nella  specie,  le
ricorrenti contratto unione civile il 14 maggio  2017,  come  risulta
dai registri dello stato civile del Comune di Porcia). 
    La nozione di formazione sociale (di cui al citato art.  2  della
Costituzione) viene, infatti, intesa come «ogni forma  di  comunita',
semplice o complessa,  idonea  a  consentire  e  favorire  il  libero
sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto  di  una
valorizzazione del modello  pluralistico»  (cfr.  la  sentenza  della
Corte costituzionale n. 138/2010). 
    Ed in tale nozione va  oggi  annoverata  anche  l'unione  tra  le
signore B. e D. avendo la legge 20 maggio 2016, n. 76, al suo art. 1,
espressamente istituito «l'unione civile  tra  persone  dello  stesso
sesso quale specifica formazione sociale ai sensi degli articoli 2  e
3 della Costituzione». 
    Con  siffatta  previsione  normativa,  pertanto,  il  legislatore
italiano ha superato la impostazione tradizionale, che individuava la
coppia (fondata su matrimonio o su convivenza di fatto) come  formata
da soli soggetti di sesso diverso, dunque da un uomo e da una  donna,
e ha di conseguenza reso omogenee le  famiglie  sia  omosessuali  che
eterosessuali. 
    3.B. Contrasto con l'art. 3 della Costituzione. 
    Il negare l'accesso alle tecniche di PMA alle coppie composte  da
soggetti  dello  stesso  sesso,  biologicamente  compatibili  con  la
pratica in oggetto, e, nel contempo, il sanzionare la struttura ed il
sanitario che non  adottino  tale  diniego  contrastano,  in  secondo
luogo, con l'art. 3 della  Costituzione,  in  quanto  comportano  una
disparita' di trattamento basata sull'orientamento sessuale  e  sulle
condizioni economiche dei cittadini. 
    Risulta, difatti, irragionevole e logicamente contraddittoria  la
mancata inclusione delle coppie formate da persone dello stesso sesso
nell'elenco dei soggetti legittimati ad  accedere  alle  tecniche  di
PMA, contenuta in una legge  che,  fra  le  sue  finalita',  si  pone
l'obiettivo  di  favorire  la  soluzione  dei  problemi  riproduttivi
derivanti dalla sterilita'  o  dalla  infertilita'  umana  (requisiti
questi ultimi che la Suprema Corte, con la sentenza n. 19599/2016, ha
ritenuto indiscutibili ed intuitivi in una coppia omosessuale, avendo
chiarito come «una coppia ... dello stesso  sesso  si  trovi  in  una
situazione assimilabile a quella di' una coppia di persone  di  sesso
diverso cui sia diagnosticata una sterilita' o infertilita'  assoluta
e  irreversibile»;  circostanza  questa  che   rende   manifestamente
infondata  la  sollecitata  questione  di  incostituzionalita'  anche
dell'art. 4, comma 1° della legge n. 4012004, del  resto  prospettata
dalle ricorrenti solo in via di stretto subordine), dovendosi  avere,
allo scopo, particolare riguardo ai casi in cui la coppia abbia  dato
vita ad una relazione affettiva tipica del rapporto  familiare,  come
oggi riconosciuto dall'ordinamento. 
    Come pure discriminatoria e' la previsione normativa  di  cui  al
combinato disposto degli articoli 5 e  12  della  legge  n.  40/2004,
laddove, vietando in Italia, finanche sanzionandolo, il  percorso  di
PMA alle coppie di cittadini dello stesso sesso, riconosce  di  fatto
il diritto alla filiazione  alle  sole  coppie  same  sex  capaci  di
sostenere i costi per sottoporsi ad un analogo  percorso  presso  uno
dei  Paesi  esteri  (anche  all'interno  dell'Unione  europea)   che,
viceversa, tale ricorso ammettono. 
    E' chiaro, invero, che, cosi' facendo, viene  a  realizzarsi  «un
ingiustificato, diverso trattamento delle coppie ...,  in  base  alla
disponibilita' economica delle stesse, che assurge  intollerabilmente
a requisito dell'esercizio di un diritto fondamentale, negato solo  a
quelle prive delle risorse finanziarie  necessarie  per  potere  fare
ricorso a tale tecnica recandosi in altri Paesi. Ed e' questo non  un
mero  inconveniente  di  fatto,  bensi'  il  diretto  effetto   delle
disposizioni  in  esame,  conseguente  ad  un   bilanciamento   degli
interessi manifestamente irragionevole» (cfr. la sentenza della Corte
costituzionale n. 162/2014, sia  pure  intervenuta  in  relazione  al
ricorso a PMA di tipo eterologo  da  parte  di  coppia  di  cittadini
italiani eterosessuali). 
    3.C. Contrasto con l'art. 31, comma 2° della Costituzione. 
    Impedire, come fa l'art. 5 della legge n.  40/2004,  alle  coppie
composte da persone dello stesso sesso l'accesso alle tecniche di PMA
e sanzionare, come fa l'art. 12 della medesima legge, la struttura ed
il  sanitario  che  tale  accesso,  al  contrario,  consentano   sono
previsioni che contrastano, in terzo luogo, con l'art. 31,  comma  2°
della Costituzione. 
    Dal momento che la Repubblica protegge la  maternita',  favorendo
gli istituti necessari a tale scopo, e' del  tutto  evidente  che  le
norme sopra  indicate  si  pongono  in  stridente  contrasto  con  la
suddetta disposizione di rango costituzionale. 
    3.D. Contrasto con l'art. 32, comma 1° della Costituzione. 
    Le norme oggetto della odierna censura confliggono, inoltre,  con
l'art. 32, comma 1° della Costituzione, in quanto il diritto tutelato
da tale  ultima  disposizione  e'  «comprensivo  anche  della  salute
psichica ... la cui tutela deve essere di grado pari a  quello  della
salute fisica ... In relazione a  questo  profilo  ...  e',  infatti,
certo che l'impossibilita' di formare una famiglia con figli  assieme
al proprio partner, mediante il ricorso alla PMA di  tipo  eterologo,
possa incidere negativamente, in misura anche rilevante, sulla salute
della coppia» (cfr. la gia' citata sentenza n. 162/2014  della  Corte
costituzionale). 
    3.E. contrasto con l'art. 117, comma  1°  della  Costituzione  in
relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata  a  Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con  legge  4  agosto
1955, n. 848 (c.d. CEDU). 
    I piu' volte richiamati articoli 5 e 12 della  legge  n.  40/2004
confliggono, infine, con l'art. 117, comma 1° della Costituzione,  in
relazione alle norme interposte di cui agli articoli 8  (sul  diritto
al  rispetto  della  vita   familiare)   e   14   (sul   divieto   di
discriminazione) della Convenzione europea per  la  salvaguardia  dei
diritti   dell'uomo    e    delle    liberta'    fondamentali,    per
l'irragionevolezza del divieto di accesso alla PMA delle coppie  same
sex in ragione della discriminazione gia' evidenziata per il  profilo
di violazione dell'art. 3 della Costituzione. 
    Invero, le restrizioni della legge  italiana  sulle  tecniche  di
PMA, non consentite alle  coppie  formate  da  persone  dello  stesso
sesso, configura una  inammissibile  interferenza  (dettata  da  sole
distinzioni fondate sul sesso) in una scelta personalissima  di  vita
che compete alla coppia familiare. 
4. In conclusione quanto alla rilevanza  della  questione,  alla  non
manifesta infondatezza della domanda alla Corte costituzionale,  alla
impraticabilita' dell'interpretazione conforme ed alla impossibilita'
di una diretta disapplicazione delle norme censurate. 
    In conclusione  di  quanto  sopra  illustrato,  la  questione  di
legittimita' appare  rilevante  nel  caso  di  specie,  ponendosi  in
rapporto di strumentalita' rispetto alla concreta  definizione  della
presente controversia, oltre che non manifestamente infondata. 
    4.A. La rilevanza della questione. 
    Invero, la richiesta delle ricorrenti, idonee  biologicamente  ad
accedere alla PMA, trova insuperabile ostacolo nel disposto dell'art.
5 della legge n. 40/2004, che consente alle sole  coppie  formate  da
persone di sesso diverso l'accesso  alle  tecniche  di  PMA,  nonche'
nelle conseguenti sanzioni che l'art. 12, commi 2°, 9°  e  10°  della
stessa legge commina alle strutture ed ai  sanitari  che,  viceversa,
quell'accesso consentano. 
    Per poter decidere, infatti, sulla richiesta delle ricorrenti  di
ordinare in via d'urgenza, attesa l'eta' di S. B. alla locale Azienda
di  consentire  loro  l'accesso  alle  tecniche  in  esame,   occorre
applicare la legge 19 febbraio 2004, n. 40. 
    4.B. La non  manifesta  infondatezza  della  domanda  alla  Corte
costituzionale. 
    Il ricorso alla PMA espressamente vietato dalle citate due  norme
di tale legge anche alle coppie same sex  biologicamente  compatibili
con tale pratica appare in contrasto con gli articoli 2, 3, 31, comma
2° e 32, comma 1° della Costituzione, nonche' con l'art.  117,  comma
1° della Costituzione, in relazione agli articoli 8 e 14 della  CEDU,
in quanto esso, in estrema sintesi: 
        reca un vulnus ai diritti inviolabili  della  persona,  quali
sono il diritto alla genitorialita' ed il diritto alla  procreazione,
nell'ambito di una unione civile legalmente riconosciuta dallo  Stato
italiano; 
        discrimina i cittadini per il loro orientamento  sessuale  ed
in considerazione delle condizioni patrimoniali delle coppie; 
        non si cura di favorire gli istituti necessari destinati allo
scopo di proteggere la maternita'; 
        incide sulla salute psicofisica del genitore; 
        introduce,   anche   avuto   riguardo   al   panorama   della
legislazione   europea,   un   irragionevole   divieto   basato    su
discriminazioni per mere ragioni legate all'orientamento sessuale dei
componenti la coppia. 
    4.C. La impraticabilita' dell'interpretazione conforme. 
    Ne' appare, d'altro canto, possibile conferire alle  norme  sopra
riportate  un  significato  assoggettabile  ad  una   interpretazione
costituzionalmente orientata (o «adeguatrice», che  dir  si  voglia),
nel senso auspicato dalle ricorrenti, come le  stesse  propongono  in
principalita' allorche' assumono che la legge n. 40/2004 «prevedrebbe
agevolmente tale possibilita' anche in Italia». 
    Nonostante, infatti, la «apertura» verso  le  coppie  formate  da
persone  dello  stesso  sesso  dimostrata  negli  ultimi  tempi   dal
legislatore e dalla giurisprudenza (di  merito  e  di  legittimita'),
l'univoco tenore lessicale delle specifiche norme  qui  in  questione
segna  il  confine  in   presenza   del   quale   il   tentativo   di
interpretazione  esperito  dal  Giudice  deve  cedere  il  passo   al
sindacato di legittimita' costituzionale  (cfr.,  in  tal  senso,  le
sentenze numero 270 e 315 del 2010 della Corte costituzionale). 
    Detto  altrimenti,  le   disposizioni   in   commento   escludono
espressamente che le coppie same sex possano accedere in Italia  alle
tecniche di PMA, sanzionando finanche la struttura ed i sanitari  che
a tali coppie applichino le suddette tecniche, e non v'e' modo alcuno
per  dare  una  diversa   interpretazione   estensiva,   giustappunto
costituzionalmente orientata, ad un dato  letterale  cosi'  chiaro  e
cristallino, interpretazione estensiva diretta insomma  a  consentire
anche a quelle coppie escluse dalla legge il ricorso alle tecniche in
esame. 
    4.D. La impossibilita' di una diretta disapplicazione delle norme
censurate. 
    Va, altresi', escluso che le norme  oggetto  di  censura  possano
essere direttamente non applicate da questo  Giudice,  per  contrasto
con gli articoli 8 e 14 della Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4  agosto  1955,
n. 848 (c.d. CEDU). 
    Il Giudice, infatti, non puo' disapplicare la  norma  di  diritto
nazionale  che  si  ponga  in  conflitto  con  le  previsioni   della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta'  fondamentali,  ma  deve,  invece,   previamente   sollevare
questione di costituzionalita' dinanzi alla Corte costituzionale. 
    Invero, a questo Giudice, in ragione del sospettato contrasto dei
sopra citati articoli 5 e 12 della legge n. 40/2004 con gli  articoli
8 e 14 della Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e  delle  liberta'  fondamentali,  non  e'  consentita  una
applicazione «in via diretta delle norme convenzionali  in  luogo  di
quelle nazionali, in tesi  con  esse  non  compatibili,  atteso  che,
diversamente dal diritto  comunitario,  la  Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo non crea un ordinamento giuridico sovranazionale ma
costituisce un modello di diritto internazionale pattizio,  idoneo  a
vincolare   lo   Stato,   ma   improduttivo   di   effetti    diretti
nell'ordinamento interno (sentenze n.  349  e  n.  348  del  2007,  e
successive conformi). Collocazione, questa, delle disposizioni  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali che, nel sistema delle  fonti,  resta  immutata
anche dopo il  richiamo  operatone  dall'art.  6,  paragrafo  3,  del
Trattato sull'Unione europea (TUE), come modificato dal  Trattato  di
Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con
legge 2 agosto 2008, n. 130, ed entrato  in  vigore  il  1°  dicembre
2009» (cfr., per tutte,  la  sentenza  della  Corte  costituzione  n.
96/2015). 
    I Giudici della Consulta hanno «gia' avuto, infatti, occasione di
chiarire che "dalla qualificazione dei diritti  fondamentali  oggetto
di disposizioni della Convenzione europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  come   principi
generali  del  diritto  comunitario  non  puo'  farsi  discendere  la
riferibilita'  alla  Convenzione  europea  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali del parametro di  cui
all'art. 11 Cost., ne', correlativamente,  la  spettanza  al  Giudice
comune  del  potere-dovere  di  non  applicare   le   norme   interne
contrastanti con la predetta Convenzione" (sentenze n. 303 del 2011 e
n. 349 del 2007). Ragione per cui "i principi in  questione  rilevano
unicamente in rapporto alle fattispecie cui  il  diritto  comunitario
(oggi, il diritto dell'Unione) e' applicabile" (sentenze n.  210  del
2013, n. 303 e n. 80 del 2011) e, poiche' le fattispecie, oggetto dei
giudizi a quibus, non sono riconducibili al diritto comunitario,  non
vi   era,   dunque,   effettivamente,   spazio    per    un'eventuale
disapplicazione della normativa  nazionale  da  parte  del  Tribunale
rimettente, da ritenersi  oltretutto  limitata  ai  casi  in  cui  il
diritto comunitario rilevante sia dotato di  effetti  diretti"  (cfr.
sempre la citata sentenza n. 96/2015 della Corte costituzionale). 
    Ed ancor piu'  recentemente  la  Corte  costituzionale  (cfr.  la
sentenza n. 269/2017) ha ribadito che, anche dopo l'entrata in vigore
del Trattato di Lisbona, «quando una disposizione di diritto  interno
diverge da  norme  dell'Unione  europea  prive  di  effetti  diretti,
occorre  sollevare  una  questione  di  legittimita'  costituzionale,
riservata alla esclusiva competenza di questa Corte,  senza  delibare
preventivamente i profili di incompatibilita' con il diritto europeo.
In tali ipotesi spetta a questa Corte  giudicare  la  legge,  sia  in
riferimento ai parametri europei (con riguardo  alle  priorita',  nei
giudizi in via di azione, si veda ad esempio la sentenza n.  197  del
2014, ove si afferma che «la verifica della conformita'  della  norma
impugnata  alle  regole  di  competenza  interna  e'  preliminare  al
controllo del rispetto dei principi comunitari (sentenze n.  245  del
2013, n. 127 e n. 120 del 2010)"». 
    Di fronte, dunque, a casi di  c.d.  doppia  pregiudizialita',  la
Corte costituzionale ha ritenuto che, «laddove una legge sia  oggetto
di dubbi di illegittimita' tanto in riferimento ai  diritti  protetti
dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a  quelli  garantiti
dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea in ambito di
rilevanza  comunitaria,  debba  essere  sollevata  la  questione   di
legittimita'  costituzionale,  fatto  salvo  il  ricorso,  al  rinvio
pregiudiziale per le questioni di interpretazione  o  di  invalidita'
del diritto dell'Unione, ai sensi dell'art. 267 del  TFUE»  (cfr.  la
sopra citata sentenza n. 269/2017 della Corte costituzionale). 
    Da ultimo, la possibilita' di sollevare questioni di legittimita'
costituzionale in  sede  cautelare  e'  stata  riconosciuta  in  piu'
occasioni dai Giudici della Consulta (cfr., fra le altre, le sentenze
della Corte costituzionale numeri 151/2009 e 96/2015). 
    Non potendo,  per  tutte  le  ragioni  sopra  illustrate,  essere
definito  indipendentemente   dalla   risoluzione   della   superiore
questione di costituzionalita', il presente  giudizio  cautelare  va,
quindi, sospeso, con rimessione degli atti alla Corte costituzionale. 
 
                               P. Q. M. 
 
    1) Visto l'art. 23, comma 2° della legge 11 marzo  1953,  n.  87,
dichiara rilevante e non manifestamente  infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 5 e dell'art. 12, commi 2°,  9°
e 10° della legge 19 febbraio 2004, n.  40,  per  contrasto  con  gli
articoli 2, 3, 31, comma  2°  e  32,  comma  1°  della  Costituzione,
nonche' per contrasto con l'art. 117, comma 1° della Costituzione, in
relazione agli articoli 8 e 14 della Convenzione per la  salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata  a  Roma
il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con  legge  4  agosto
1955, n. 848  (c.d.  CEDU),  nella  parte  in  cui,  rispettivamente,
limitano  l'accesso  alle  tecniche  di   procreazione   medicalmente
assistita alle sole «coppie ... di sesso diverso» (art. 5  citato)  e
sanzionano, di riflesso, chiunque applichi tali  tecniche  «a  coppie
composte da soggetti dello stesso sesso» (art. 12 citato). 
    2) Sospende, per l'effetto, il presente giudizio cautelare. 
    Manda alla cancelleria di notificare la presente  ordinanza  alle
parti costituite ed al Presidente del Consiglio dei ministri  nonche'
di comunicarla ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
    Dispone l'immediata trasmissione, a cura della cancelleria, della
presente  ordinanza  e   degli   atti   del   giudizio   alla   Corte
costituzionale,  unitamente  alla   prova   delle   notificazioni   e
comunicazioni prescritte. 
        Pordenone, 2 luglio 2018 
 
                          Il Giudice: Costa