N. 186 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 maggio 2019

Ordinanza del 3 maggio 2019 della Commissione tributaria  provinciale
di Genova sul ricorso  proposto  da  Colucelli  Carla  Pasqua  contro
Equitalia Giustizia S.p.a.. 
 
Spese di  giustizia  -  Contributo  unificato  nel  processo  civile,
  amministrativo e tributario - Importi dovuti - Obbligo per  chi  ha
  proposto un'impugnazione, anche incidentale, respinta integralmente
  o dichiarata inammissibile o improcedibile, di versare un ulteriore
  importo pari a quello dovuto per l'impugnazione stessa. 
- Decreto del Presidente della Repubblica  30  maggio  2002,  n.  115
  (Testo unico delle  disposizioni  legislative  e  regolamentari  in
  materia di spese di giustizia - Testo A), art. 13, comma 1-quater. 
(GU n.45 del 6-11-2019 )
 
           LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI GENOVA 
                              Sezione 4 
 
    riunita con l'intervento dei signori: 
        Delucchi Marcello, Presidente e relatore; 
        Parentini Mirko, giudice; 
        Simonazzi Roberto, giudice. 
    ha  emesso  la  seguente  sentenza  sul  ricorso   n.   1443/2018
depositato il 30 novembre 2018; 
    avverso invito al  pagamento  n.  1731/2018  contr.unif.civile  -
contro: Corte d'appello di Genova c/o Avvocatura dello Stato; 
    avverso  invito  al  pagamento  n.  1731/2018   contr.unif.civile
- contro: Equitalia Giustizia S.p.a., viale di Tor Marancia  4  00147
Roma; 
    difeso da: Bruzzone Aldo, via N Bacigalupo 4 21 16122 Genova; 
    proposto dal ricorrente: Colucelli Carla Pasqua, via  dei  Mulini
10 16030 Cogorno GE; 
    difeso da: Granara Daniele, via Bosco 31/4 16100 Genova GE; 
 
                             Conclusioni 
 
Per la ricorrente: 
    Piaccia a  codesta  ecc.ma  Commissione  tributaria  provinciale,
disattesa e reietta ogni  avversa  eccezione,  deduzione  e  istanza,
annullare il sopra indicato invito al pagamento emesso  da  Equitalia
Giustizia S.p.a. per conto del  Ministero  della  giustizia  -  Corte
d'appello di Genova, su incarico della Suprema Corte  di  cassazione,
nel ricorso proposto nanti la Corte di cassazione, N.R.G. 26332/2015,
- Colucelli Carla Pasqua contro la  Citta'  Metropolitana  ed  altri,
previa sospensione  dell'esecuzione  e  previa  eventuale  rimessione
degli  atti  alla  Corte  costituzionale,  come   specificato   nelle
motivazioni esposte nel presente ricorso. 
    In  ogni  caso,  con  vittoria  delle  spese  (anche   generali),
competenze ed onorari di giudizio. 
Per Equitalia Giustizia: 
    per tutte le ragioni in fatto ed in  diritto  sopra  esposte,  si
insiste  affinche'  l'ecc.ma  commissione  adita  voglia,  previe  le
declaratorie e gli accertamenti del caso,  contrariis  reiectis,  per
tutti i motivi in atti: 
        in via preliminare: 
          dichiarare  il  non  luogo  a  provvedere  sull'istanza  di
sospensione  ex  adverso   proposta   e/o   respingerla   in   quanto
inammissibile e/o improcedibile e/o improvata e/o  infondata  sia  in
fatto sia in diritto; 
        sempre in via preliminare: 
          accertare e dichiarare la tardivita' e/o l'inammissibilita'
e/o l'improcedibilita'  dell'opposizione  proposta,  anche  ai  sensi
dell'art. 19, decreto legislativo n. 546/1992; in via principale, nel
merito: 
          rigettare  integralmente   l'opposizione   e   le   domande
avversarie in quanto inammissibili e/o improcedibili e/o infondate ed
improvate in fatto ed in  diritto,  assolvendo  l'esponente  da  ogni
domanda pregiudizievole formulata nei suoi confronti, con vittoria di
spese, diritti e onorari del presente procedimento. 
 
                      Svolgimento del processo 
 
    In esito ad un contenzioso svoltosi in sede civile nei  confronti
della Provincia di  Genova,  riguardante  l'impugnativa  del  diniego
della ricostituzione del proprio rapporto di lavoro, che aveva  visto
Carla Pasqua Colucelli soccombere nei  due  gradi  di  merito  e  nel
giudizio di Cassazione, nel quale ultimo era stata «...  riconosciuta
la sussistenza delle condizioni a  carico  della  ricorrente  per  il
versamento dell'ulteriore importo previsto dall'art. 13, comma  1-bis
e 1-quater del decreto del Presidente della  Repubblica  n.  115  del
2002», Equitalia Giustizia  S.p.a.,  per  conto  di  quel  Ministero,
invito' la predetta al pagamento della somma di € 2.072 per il titolo
di cui innanzi (ossia € 1.036 a titolo  di  contributo  unificato  ed
ulteriori € 1.036 ai sensi dell'art. 13, comma 1, quater). 
    Avverso tale provvedimento propose  ricorso  in  questa  sede  la
Colucelli eccependo che  la  controversia,  riguardando  il  pubblico
impiego  e  rientrando  essa  ricorrente   nei   relativi   parametri
reddituali,  doveva  ritenersi  esente  dal  contributo,  cosi'  come
previsto dall'art. 9, comma 1-bis del decreto  del  Presidente  della
Repubblica 30 maggio 2002, n. 115. 
    Per quanto atteneva il  giudizio  per  Cassazione  -  aggiunse  -
l'esame di detta disposizione (secondo cui nei  processi  riguardanti
il pubblico impiego le parti titolari di  un  reddito  imponibile  di
particolare entita'  sono  soggette  al  contributo  unificato  nella
misura di cui all'art. 13, comma 1, lettera a) e comma 3  «...  salvo
che per i processi  dinanzi  alla  Corte  di  cassazione  in  cui  il
contributo e' dovuto nella misura  di  cui  all'art.  13,  comma  1»)
autorizzava a ritenere che  il  legislatore  avesse  inteso,  per  la
misura di quel contributo, riferirsi al comma 1 ed agli  importi  ivi
indicati (€ 518) e non a  quelli  (raddoppiati)  previsti  del  comma
1-bis (€ 1.036). 
    Diversamente opinando - rilevo' - l'art. 9 citato sarebbe entrato
in conflitto con l'art. 3 della  Costituzione  perche'  l'irrazionale
parificazione ai fini del contributo di posizioni  diverse  (rapporti
di lavoro, favoriti  rispetto  agli  altri,  soggetti  a  trattamento
comune) avrebbe contrastato con il principio di eguaglianza. 
    In  subordine  rilevo'  che,  a   tutto   concedere,   la   somma
originariamente dovuta sarebbe stata pari ad € 518  quale  contributo
unificato;  per  cui  il  raddoppio  previsto  dall'art.  13,   comma
l-quater, avrebbe comportato il pagamento  della  somma  di  €  1.036
anziche' di € 2.072 avversariamente pretesa. 
    Equitalia Giustizia, costituitasi, eccepi' l'inammissibilita' del
ricorso in quanto proposto contro un atto (l'invito a pagamento)  non
impugnabile, non contenendo alcuna pretesa tributaria suscettibile di
produrre   effetti   immediati   nella   sfera   patrimoniale   della
contribuente. 
    Nel merito rilevo' di  aver  operato  nel  pieno  rispetto  della
normativa regolante il recupero delle spese di giustizia prevista dal
decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002. Il pagamento
del doppio del contributo unificato era stato deciso dalla  Corte  di
cassazione  con  sentenza;  ed  il  carattere   sanzionatorio   della
disposizione  -  volta  a  scoraggiare  impugnazioni  pretestuose   o
dilatorie ancorche' relative a contenziosi in  materia  di  lavoro  -
escludeva ogni sospetta violazione dell'art. 3 della Costituzione. 
    La misura base del contributo - aggiunse - era (ed  e')  previsto
dall'art. 13, comma 1-bis del decreto del Presidente della Repubblica
n. 115/2002;  onde,  avuto  riguardo  alla  natura  del  procedimento
svoltosi  dinanzi  alla  Corte  di  cassazione,  il  contributo   non
raddoppiato era pari ad € 1.036,00 anziche' ad € 518,00 come  preteso
dalla ricorrente. 
    All'udienza odierna la presente vertenza e' stata  trattenuta  in
decisione e definita come da dispositivo. 
 
                       Motivi della decisione 
 
1. -  Infondata  e'  l'eccezione  di  inammissibilita'  del  ricorso,
formulata da Equitalia  Giustizia,  per  essere  stato  proposto  nei
confronti di un atto non impugnabile. 
    Da  tempo  si  registra  una  evoluzione  giurisprudenziale   che
interpreta in chiave estensiva l'art. 19 del decreto  legislativo  n.
546/92 (contenente una  elencazione  specifica  di  atti  impugnabili
dinanzi alle commissioni);  per  la  quale  sono  qualificabili  come
avvisi di accertamento o di liquidazione  (e  quindi  impugnabili  ai
sensi dell'art. 19 del decreto legislativo n. 546/1992) tutti  quegli
atti con cui l'amministrazione comunica al contribuente  una  pretesa
tributaria  ormai  definita,  ancorche'  tale  comunicazione  non  si
concluda con una formale intimazione  di  pagamento,  sorretta  dalla
prospettazione  in  termini  brevi  dell'attivita'  esecutiva   (cfr.
Cassazione 11 febbraio 2015, n. 2616 con  riferimento  ad  un  invito
bonario a versare quanto  dovuto,  non  assumendo  alcun  rilievo  la
mancanza della formale dizione «avviso di liquidazione» o «avviso  di
pagamento»). 
    In quei casi - si e' sostenuto  -  l'impugnazione  da  parte  del
contribuente di un atto non espressamente indicato  dall'art.  19  ma
che,  tuttavia,  sia  espressivo  di  una  pretesa  tributaria  ormai
definita, e' una facolta' e non un onere,  costituendo  un'estensione
della tutela accordatagli. 
    Tale  e'  l'ipotesi  del  caso  di   specie.   L'atto   impugnato
costituisce infatti un vero e proprio invito a  pagamento  contenente
l'importo,  le  modalita'  ed  i  termini  della  corresponsione  del
tributo; elementi tutti che denotano una chiara pretesa  dell'ufficio
nei confronti della Colucelli avverso la quale la stessa ha del tutto
legittimamente ritenuto di ricorrere in questa sede  senza  attendere
di essere raggiunta da atti pretensivi ulteriori. 
2. - Parimenti  infondata  e'  la  pretesa  della  Colucelli  di  non
corrispondere alcun importo a titolo di contributo in  considerazione
delle proprie condizioni reddituali e della  natura  lavoristica  del
rapporto addotta in giudizio. La Colucelli ha infatti  solo  allegato
ma  non  dimostrato  le  proprie  condizioni  economiche  per  fruire
dell'esenzione;  e  l'insussistenza  di  tali  condizioni  e'   stata
contestata dalla  resistente  che  l'ha  riconosciuta  irrilevante  e
«comunque infondata» (v. pag. 4 delle controdeduzioni). 
3. - Detto questo la debenza del pagamento del contributo si pone con
esclusivo riferimento alla sua misura: 
        a) se, di base, nell'importo di €  518  cosi'  come  previsto
dall'art. 13, comma 1, lettera d) del decreto  del  Presidente  della
Repubblica n. 115/02, richiamato dall'art. 9, comma 1-bis; 
        b) oppure, sempre di base, se  nell'importo  di  €  1.036,  a
seguito  del  raddoppio  previsto  in   via   generalizzata   per   i
procedimenti dinanzi alla Corte di cassazione. 
    Sulla somma individuata, poi, la Colucelli dovrebbe corrispondere
il doppio ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater (e quindi o € 1.036 o
€ 2.072) poiche' essa si e' vista rigettare dalla Corte di cassazione
il ricorso proposto avverso la sentenza della  Corte  di  appello  di
Genova. In quell'occasione la S.C. aveva infatti dichiarato  «...  la
sussistenza delle condizioni,  a  carico  della  ricorrente,  per  il
versamento dell'ulteriore importo previsto dal decreto del Presidente
della Repubblica n. 115 del 2002, art. 13, commi 1-bis ed  1-quater»,
vale a dire il doppio del contributo  unificato  dovuto  (Cass.  sez.
lavoro 15 marzo 2017, n. 6779). 
    In conclusione la Colucelli dovrebbe  corrispondere  comunque  un
raddoppio  del  contributo  unificato   in   conseguenza   dell'esito
infruttuoso del proprio ricorso alla Corte di cassazione sull'importo
da determinarsi o in € 518 o in € 1.036. 
    4. - Ritiene la Commissione che l'art. 13,  comma  1-quater  cit.
confligga con alcune disposizioni della Costituzione; e che quindi la
questione,  prospettata  nei  sensi  di  cui  infra,   debba   essere
sottoposta alla valutazione della Corte costituzionale. 
    Il presupposto dell'obbligo  del  versamento  del  raddoppio  del
contributo unificato e'  costituito  dal  mero  fatto  oggettivo  del
rigetto  integrale  o  della  definizione  in  rito,   negativa   per
l'impugnante, del gravame (cfr. Cassazione 13 maggio 2014, n. 10306);
e la ratio di tale disposizione va individuata, secondo la prevalente
giurisprudenza, nella finalita' di scoraggiare impugnazioni dilatorie
o pretestuose (cfr. Cassazione 2 luglio 2015, n. 13636). 
    Quale sia la natura del contributo e' oggetto di discussione.  La
giurisprudenza della Cassazione oscilla tra il  carattere  «latamente
sanzionatorio» (cfr. Cassazione ordd. nn. 23980 e 15111 del  2018)  e
la «natura tributaria» della  prestazione  imposta  (cfr.  Cassazione
ordinanza n. 15166/2018). A favore  della  prima  sembra  aderire  la
giurisprudenza della Corte costituzionale per la quale si  tratta  di
una  «misura  eccezionale  e  lato  sensu  sanzionatoria»  (v.  Corte
costituzionale  n.  18/2018);  a  favore  della  seconda  sono  stati
sottolineati la doverosita' della prestazione ed il  collegamento  di
questa  ad  una  pubblica  spesa,  quale  e'  quella   del   servizio
giudiziario  con  riferimento  ad   un   presupposto   economicamente
rilevante (v. Corte costituzionale sentenza n.  120/2016;  Cassazione
17 maggio 2018, n. 12103). 
4.1. -  Ove  al  contributo  raddoppiato  venisse  attribuita  natura
sanzionatoria  la  norma  di  che  trattasi  contrasterebbe  con  gli
articoli 3, 24, 25 e 111 della Costituzione. 
    Una sanzione dovrebbe  presupporre  un  precetto  imperativo,  un
dovere giuridico disatteso, una condotta oggetto di riprovazione. 
    Inoltre la norma precettiva - la cui  violazione  dovesse  essere
sanzionata  -  dovrebbe  soggiacere  ai  principi  di   tipicita'   e
determinatezza previsti dall'art. 25 della Costituzione,  applicabile
anche alle fattispecie sanzionate  in  via  amministrativa  (cfr.  C.
Stato 12 ottobre 2018, n. 5883); mentre  nello  specifico  una  norma
siffatta non sembra esistere (e cio' in contrasto con l'art. 25 della
Costituzione). Il legislatore ha infatti previsto  una  sanzione  non
gia' per reprimere la violazione di una regola di condotta bensi' per
contrastare l'esercizio di un diritto  costituzionalmente  garantito;
sanzionandone la fruizione in funzione degli esiti. 
    Ne' varrebbe individuare una condotta riprovevole nell'abuso  del
diritto il quale, applicato al processo, consisterebbe in un distorto
utilizzo dello strumento processuale; per cui la sanzione  fungerebbe
da  deterrente  di  impugnazioni  dilatorie  e  strumentali.  A  cio'
potrebbe  agevolmente  rispondersi   che   tali   non   sono   quelle
semplicemente non accolte, poiche' si puo' soccombere interamente  ma
aver  usato  correttamente  e  diligentemente  del   processo,   come
soccombere solo parzialmente ed averne abusato;  si  puo'  soccombere
avendo incolpevolmente confidato in una giurisprudenza  costantemente
orientata,  poi  inaspettatamente  cambiata,  cosi'  come   si   puo'
soccombere per aver tentato di offrire in sede di legittimita'  nuove
opzioni interpretative poi disattese. 
    Il   solo   fatto    del    rigetto    o    dell'inammissibilita'
dell'impugnazione non significa che il diritto di  difesa  sia  stato
esercitato  con  modi  e/o  intenti  pretestuosi  o  dilatori;  senza
considerare che il suo esercizio consiste proprio nella  possibilita'
di adire tutti i gradi  di  giudizio  per  cercare  di  ottenere  una
pronuncia favorevole. Non sembra quindi  costituzionalmente  corretto
sanzionare il tentativo di ricerca di  una  sentenza  vittoriosa  con
l'applicazione del raddoppio del contributo. 
    Dall'analisi, poi, dei piu' recenti strumenti deflattivi posti  a
tutela della funzionalita' del sistema giustizia (si pensi ad esempio
al  potere  conferito  al  giudice  di  condannare  di   ufficio   il
soccombente al pagamento di una  somma  equitativamente  determinata;
art. 96, comma 3, c.p.c.) si ricava la necessita' che,  per  la  loro
applicazione, debba esistere una qualche colpevolezza  da  parte  del
fruitore:  o  nell'insistere  «in  tesi  giuridiche   gia'   reputate
manifestamente infondate dal giudice» precedente (cfr. Cassazione  18
novembre 2014, n. 24546), o nell'aver violato «... quel grado  minimo
di diligenza che consente di avvertire  facilmente  l'infondatezza  o
inammissibilita' della propria domanda» (cfr. SS.UU. 20 aprile  2018,
n. 9912) posto che «non e' sufficiente  la  mera  infondatezza  anche
manifesta delle tesi prospettate» (cfr. SS.UU. 11 dicembre  2007,  n.
25831; Cass. 18 gennaio 2010, n.  654)  per  integrare  una  condotta
abusante. 
    Occorre quindi la sussistenza di un elemento  ulteriore  che  non
sia il mero  rigetto  della  domanda  perche'  sia  considerato  «...
meritevole di sanzione punitiva l'abuso dello  strumento  processuale
in se', anche a prescindere dal danno procurato all'avversario  e  da
una richiesta di questi» (cfr. Cassazione 19 aprile 2016, n. 7726). 
    Invece la misura del raddoppio, applicata  automaticamente  senza
distinguere tra le varie ipotesi di soccombenza,  accomunando  difese
pretestuose a difese piu' che  legittime,  costituisce  una  sanzione
irragionevole finendo per punire indiscriminatamente chiunque si  sia
comunque difeso ed abbia perso a prescindere; e cio' in contrasto con
la giurisprudenza della S.C., per la quale «agire in giudizio per far
valere una pretesa che alla fine si rivela infondata non  costituisce
condotta di per se' rimproverabile»  (cosi'  Cassazione  30  novembre
2012,  n.  21570)  in  violazione  degli  articoli  3  e   24   della
Costituzione. 
    E per quanto possa occorrere  non  risulta  dalla  lettura  della
sentenza  -  che,  seppur  non  prodotta  dalle  parti,  puo'  essere
liberamente esaminata sul sito web della Cassazione e che  quindi  fa
parte del notorio conoscibile dal giudice -  che  la  condotta  della
Colucelli sia stata particolarmente abusante; e soprattutto  che  nel
giudizio di legittimita' la stessa abbia agito con la  consapevolezza
del proprio torto. 
    Ulteriore profilo di irragionevolezza e' poi  il  fatto  che  nel
caso specifico il raddoppio sia stato disposto all'esito del giudizio
di cassazione; ricorso quest'ultimo sempre ammesso ai sensi dell'art.
111, settimo comma, Cost. Penalizzare la fruizione di tale  strumento
ad eventum litis finirebbe  inevitabilmente  per  disincentivarne  il
ricorso. 
    E va aggiunto che siffatta previsione discrimina tra utenti della
giustizia (art. 3 della Costituzione) poiche' quelli  ricchi  possono
trovare conveniente  accettare  l'alea  della  tassazione  elevata  a
fronte della prospettiva di ottenere un rilevante beneficio economico
all'esito eventualmente favorevole del giudizio; mentre quelli poveri
potrebbero ritenere non conveniente il rischio del raddoppio e quindi
rassegnarsi a non difendersi. 
4.2. -  Ove  al  contributo  raddoppiato  venisse  attribuita  natura
esclusivamente tributaria la norma di che trattasi contrasterebbe con
gli articoli 3, 24, 53 e 111 della Costituzione. 
    La misura del contributo, se inteso come  prestazione  tributaria
imposta, non  risulta  tanto  connessa  all'effettiva  fruizione  del
servizio-giustizia (come invece accade per  il  contributo  unificato
ordinario) quanto piuttosto al risultato ottenuto. 
    In sostanza viene colpito  maggiormente  colui  che  impugna  una
sentenza e perde rispetto a colui che impugna e vince; e cio'  sembra
costituire una violazione del principio della capacita'  contributiva
poiche' l'applicazione del raddoppio risulta  del  tutto  avulsa  dal
collegamento prestazione imposta/consistenza economica  del  fruitore
(cfr. Corte  costituzionale  n.  155/01  e  Corte  costituzionale  n.
156/01) di cui all'art. 53 della Costituzione. 
    Non ignora  la  commissione  che  la  Corte  costituzionale,  nel
passato, ha affermato che il principio di capacita' contributiva  non
si applica alle tasse ma solamente alle imposte;  e  che  proprio  in
tema di tributi  giudiziari  esso  «...ha  ...  riguardo  soltanto  a
prestazioni  di  servizi  il  cui  costo  non  si  puo'   determinare
divisibilmente»;  per  cui  «...  non  concerne  ...   quelle   spese
giudiziarie la cui entita' e' misurabile per ogni singolo atto, e che
quindi possono gravare individualmente su chi vi ha  dato  occasione;
ed e' richiamabile solo per la spesa  della  organizzazione  generale
dei servizi giudiziari, che e' sostenuta dallo  Stato  nell'interesse
indistinto  di  tutta  la  collettivita',  e  che,  di   conseguenza,
indistintamente  su  tutta  la   collettivita'   deve   gravare,   in
proporzione della capacita' contributiva di ognuno dei  suoi  membri»
(cfr. Corte costituzionale 18 marzo 1964, n. 30) 
    Nelle tasse,  contrariamente  a  quanto  avviene  nelle  imposte,
sarebbe identificabile colui che ha dato luogo  alla  spesa  pubblica
fruendo dello specifico servizio. Si tratterebbe, poi, di  una  spesa
divisibile; e tale qualificazione giustificherebbe l'applicazione  di
un criterio di giustizia distributiva basato sul costo  del  servizio
piuttosto che l'applicazione del principio di capacita' contributiva. 
    Va detto, intanto, che tale orientamento non e'  condiviso  dalla
recente dottrina; la quale ha posto  in  rilievo  come  la  copertura
costituzionale potrebbe non essere  necessaria  solo  per  i  servizi
pubblici non essenziali per i quali  sono  ammissibili  modalita'  di
finanziamento che prescindono dalla capacita' contributiva di chi  li
usa, ma si basano sul principio del beneficio. 
    Poiche', peraltro, il servizio, come quello della  giustizia,  e'
essenziale e  quindi  costituzionalmente  garantito,  non  dovrebbero
esservi  ragioni  per  non  applicare  il  principio   di   capacita'
contributiva agli oneri che ne consentono il funzionamento. I servizi
pubblici essenziali,  anche  se  divisibili,  devono  infatti  essere
assicurati a tutti; per  cui  la  relativa  spesa,  assumendo  natura
pubblica,  non  dovrebbe  ricadere  solo  sul  singolo  fruitore  del
servizio, bensi' su tutta la collettivita'. 
    E lo stesso legislatore, del resto, parametrando  la  misura  del
contributo di base al  valore  economico  della  causa,  sembra  aver
considerato in qualche misura la  capacita'  economica  del  fruitore
posto  che  il  servizio/giustizia   viene   comunque   impegnato   a
prescindere dal valore economico in contesa. 
    Detto orientamento e' condiviso da questa commissione; che quindi
ritiene il  raddoppio  contrastare  con  il  principio  di  capacita'
contributiva di cui all'art. 53 della Costituzione. 
    In ogni caso, anche nell'ipotesi in cui le tasse  giudiziarie  (e
nello specifico il  contributo  unificato)  non  godessero  di  detta
copertura costituzionale e che per la loro commisurazione valesse  il
principio costituito dal costo del servizio assicurato  al  fruitore,
il meccanismo del raddoppio apparirebbe del tutto  irrazionale  posto
che uno stesso utente si vedrebbe  obbligato  a  pagare  di  piu'  se
avesse avuto torto rispetto a  quel  che  avrebbe  dovuto  pagare  se
avesse  avuto  ragione;  e  cio'  pur  avendo  impegnato   ugualmente
l'organizzazione giudiziaria (art. 3 della Costituzione). 
    Anzi,  l'impegno  processuale  profuso  (ed  i   costi   connessi
all'impegno) nel dichiarare inammissibile una impugnazione (si  pensi
ad un appello o ad un ricorso per cassazione tardivi) il  piu'  delle
volte e' ben inferiore rispetto all'impegno profuso nella riforma  di
una  sentenza   impugnata   conseguente   all'accoglimento   di   una
impugnazione; per attuare la quale e' di  solito  necessario  l'esame
del materiale probatorio se non la rinnovazione o  l'espletamento  di
una faticosa istruttoria (si pensi  all'appello)  e  la  disamina  di
numerosi motivi (si pensi al giudizio per cassazione). 
    Tra l'altro non si comprende perche' mai  il  raddoppio  dovrebbe
applicarsi solo  nella  fase  dell'impugnazione  e  del  ricorso  per
cassazione e non nel giudizio di primo  grado,  posto  che  anche  in
quest'ultima ipotesi il servizio ha un costo che non si vede  perche'
dovrebbe essere distribuito in maniera diversa da quella degli  altri
gradi. 
    Se poi lo scopo fosse quello di disincentivare le impugnazioni il
meccanismo    confliggerebbe    con    il    diritto    di    difesa,
costituzionalmente garantito (art. 24 della Costituzione) in tutte le
articolazioni processuali di una vicenda. 
    Vale, anche in questo caso, il rilievo  formulato  nel  paragrafo
precedente, di irragionevolezza  della  previsione  di  un  raddoppio
all'esito del giudizio di  cassazione;  ricorso  quest'ultimo  sempre
ammesso ai' sensi dell'art. 111, settimo comma, Cost. Penalizzare  la
fruizione   di   tale   strumento   ad   eventum   litis    finirebbe
inevitabilmente per disincentivarne il ricorso. 
    Conclusivamente suddividere un  costo  del  servizio  ad  eventum
litis  pare  alla  commissione  contrastare  con  il   principio   di
razionalita' che informa il principio di eguaglianza di cui  all'art.
3 della Costotituzione  discriminando  irragionevolmente  gli  stessi
impugnanti in relazione all'esito della loro impugnazione. 
5. - Pare alla commissione  che  la  questione  prospettata  non  sia
manifestamente infondata per le ragioni suesposte; e  che  la  stessa
sia rilevante ai fini del decidere perche', ove la  norma  denunciata
fosse  riconosciuta  incostituzionale,  la  Colucelli  non   dovrebbe
corrispondere il doppio del contributo comunque venisse  determinato;
e  l'atto  impugnato  per  cio'  solo  dovrebbe   essere   dichiarato
illegittimo e conseguentemente annullato in parte qua. 
    Si  impone  quindi  la   rimessione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale con conseguente sospensione del presente  procedimento
sino all'esito del giudizio di costituzionalita'. 
 
                              P. Q. M. 
 
    La Commissione tributaria provinciale di Genova, visto l'art.  23
della legge 11 marzo 1953, n. 87, dispone la trasmissione degli  atti
alla Corte costituzionale  per  la  risoluzione  della  questione  di
costituzionalita'  dell'art.  13,  comma  1-quater  del  decreto  del
Presidente  della  Repubblica  n.  115/2002  per  contrasto  con  gli
articoli 3, 24, 25, 53 e 111 della Costituzione; 
    Sospende il giudizio in corso; 
    Ordina che a cura della  segreteria  la  presente  ordinanza  sia
notificata alle parti in causa, nonche' al Presidente  del  Consiglio
dei  ministri  e  comunicata  ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
Parlamento. 
        Genova, 15 aprile 2019 
 
                  Il Presidente estensore: Delucchi