N. 22 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 dicembre 2020
Ordinanza del 30 dicembre 2020 della Corte di cassazione sul ricorso proposto da R.A.. Reati e pene - Pene accessorie - Interdizione perpetua dai pubblici uffici in caso di condanna per il reato di cui all'art. 319 del codice penale (Corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio) ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione. - Codice penale, art. 317-bis, nella versione precedente alle modifiche introdotte con la legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici).(GU n.9 del 3-3-2021 )
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Sesta sezione penale Composta da: Giorgio Fidelbo - Presidente; Anna Criscuolo; Emilia Anna Giordano - relatore; Riccardo Amoroso; Maria Sabina Vigna, ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da R. A., nato il.... a.... (...), avverso la sentenza del 25 ottobre 2019 del Tribunale di Brescia; Visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; Udita la relazione svolta dal Consigliere Emilia Anna Giordano; Letta la requisitoria del pubblico ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Ferdinando Lignola che ha concluso per il rigetto del ricorso. Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 25 ottobre 2019 il Tribunale di Brescia applicava ad A. R., a sua richiesta e con il consenso del pubblico ministero, in relazione al reato di cui all'art. 319 del codice penale, la pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione perche', quale pubblico ufficiale, (luogotenente della Guardia di finanza), accettava somme di denaro da M. S. e N. N. per omettere o ritardare controlli fiscali, condotte accertate il 29 novembre 2017 e il 13 gennaio 2018. Individuata la pena base in anni otto di reclusione, veniva operata la diminuzione per l'applicazione della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 6 codice penale in anni sei e su questa pena si applicava la riduzione per il rito. Con la stessa sentenza di «patteggiamento» A. R. era dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici, ai sensi dell'art. 317-bis del codice penale e dichiarato incapace di contrattare con la pubblica amministrazione per durata pari a quella della pena principale applicatagli. 2. Nell'interesse dell'imputato, gli avvocati Vanni Barzellotti e Jacopo Barzellotti, hanno proposto ricorso per cassazione per violazione di legge in relazione all'applicazione della pena accessoria, chiedendo di sollevare questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 317-bis del codice penale, in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione. La disposizione applicata, nel testo vigente all'epoca di commissione dei reati introdotto con l'art. 5 della legge 26 aprile 1990, n. 86, ed esteso anche al reato di corruzione dall'art. 1, comma 75, lettera e) della legge 6 novembre 2012, n. 190, prevede la pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici quale effetto penale della condanna tutte le volte che la pena principale comminata non sia inferiore a tre anni di reclusione: tale disciplina viene ritenuta manifestamente irragionevole, in quanto impone al giudice l'applicazione di una sanzione perpetua che puo' essere sproporzionata rispetto alla gravita' del fatto. Sproporzione che, secondo la difesa del ricorrente che richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 25 settembre 2018, comporta un vulnus ai principi di proporzionalita' e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio - contenuti rispettivamente negli articoli 3 e 27 della Costituzione - giacche' «una pena non proporzionata alla gravita' del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa». Dopo avere evidenziato la rilevanza della questione proposta, si osserva, infine, che il requisito di proporzione, rispetto all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato, non ricorre nel caso del reato di corruzione. Considerato in diritto 1. Preliminarmente, deve ritenersi ammissibile il ricorso per cessazione avverso le sentenza di applicazione della pena nella parte relativa alle pene accessorie in presenza di patteggiamento cd. allargato, in esito al quale e' stata concordata tra le parti la pena superiore a due anni di reclusione. A parte la clausola di equiparazione a una pronuncia di condanna ex art. 445, comma 1-bis, ultima parte, codice di procedura penale, la sentenza di applicazione pena «comporta l'obbligo del pagamento delle spese processuali, l'applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza» (Sez. U, n. 17781 del 29 novembre 2005, dep. 2006, Diop, Rv. 233518). Questa Corte ha gia' affermato che la limitazione dei motivi di impugnazione proponibili contro le sentenze di patteggiamento, al sensi dell'art. 448, comma 2-bis, codice di procedura penale, inserito della legge n. 103 del 23 giugno 2017 riguarda soltanto le parti della decisione che riflettano il contenuto dell'accordo processuale tra il pubblico ministero e l'imputato e non le statuizioni estranee a tale accordo (Sez. U, n. 21368 del 26 settembre 2019, dep. 2020, Savin, Rv. 279348, in tema di misure di sicurezza). Con riferimento alle pene accessorie previste dagli articoli 29 del codice penale e 216, ult. comma, regio decreto n. 267 del 16 marzo 1942, la giurisprudenza di legittimita' ha precisato: a) che e' ammissibile il ricorso per cassazione preposto per violazione di legge con riferimento alle pene accessorie che non hanno formato oggetto dell'accordo tra le parti, non operando in questo caso la disposizione dell'art. 448, comma 2-bis, codice di procedura penale (Sez. 5, n. 49477 del 13 novembre 2019, Letizia, Rv. 277552); b) che costituisce onere del giudice quello di motivare specificamente sui punto; c) che la statuizione e' impugnabile, anche dopo l'introduzione dell'art. 448, comma 2-bis, codice di procedura penale, con ricorso per cassazione per vizio di motivazione, riguardando un aspetto della decisione estraneo all'accordo sull'applicazione della pena (Sez. 6, n. 16508 del 27 maggio 2020, Condo' Alessio, Rv. 278962). Si tratta di principi che, per identita' di ratio, trovano applicazione anche con riferimento alla pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici in materia di reati contro la pubblica amministrazione, tenuto conto che, con riguardo a tale categoria di reati, l'istituto dell'applicazione della pena su richiesta delle parti, sia per i requisiti di ammissibilita' del rito, sia per gli effetti dell'applicazione della pena a richiesta, si delinea come un vero e proprio sottosistema processuale. Sempre ai fini della valutazione di ammissibilita' dell'impugnazione, si precisa che secondo un costante orientamento di questa Corte il ricorso per cassazione puo' avere ad oggetto anche soltanto l'eccezione d'illegittimita' costituzionale della disposizione applicata dal giudice di merito, in quanto comporta comunque una censura di violazione di legge riferita alla sentenza impugnata, sempre che sussista la rilevanza della questione, nel senso che dall'invocata dichiarazione d'illegittimita' consegua una pronuncia favorevole per il ricorrente in termini d'annullamento, anche parziale, della sentenza (Sez. 6, n. 31683 del 31 marzo 2008, Reucci, Rv. 240780; Sez. 1, n. 20702 del 16 giugno 2020, Sala, Rv. 279376). 2. Nel caso in esame la questione dedotta deve ritenersi rilevante dal momento che l'art. 317-bis, comma 1, prima parte, codice penale, vigente all'epoca di commissione del reato, stabilisce che la condanna a pena uguale o superiore a tre anni di reclusione il reato di cui all'art. 319 del codice penale importa l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e, solo quando sia inflitta la condanna alla pena inferiore a tre anni, la interdizione temporanea: la norma denunciata va necessariamente applicata e il controllo di legittimita' costituzionale, qualora venga definito in senso positivo, renderebbe attuale la doglianza prospettata, con un effetto corrispondente all'interesse del ricorrente che eviterebbe l'applicazione perpetua della pena accessoria. In altri termini, il presente giudizio non puo' essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione di legittimita' costituzionale circa le modalita' di applicazione della pena accessoria. Ne' e' possibile una interpretazione costituzionalmente orientata della norma in esame che prevede, quale effetto automatico della condanna, la pena accessoria perpetua. 3. Il Collegio ritiene che sussista il dubbio di costituzionalita' dell'art. 317-bis, prima parte del primo comma, codice penale - nel testo aggiunto dall'art. 5 della legge 26 aprile 1990, n. 86, precedente all'ultima modifica introdotta dalla legge 9 gennaio 2019, n. 3 -, in cui si prevede l'automatica applicazione dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, in caso di condanna, per il reato di cui all'art. 319 cod. pen., ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione, in relazione agli articoli 3 e 27 della Costituzione. La censura di costituzionalita', con riferimento ai principi di personalita' della responsabilita' penale e finalizzazione della pena alla rieducazione, quindi in attuazione del principio di uguaglianza che risulti saldamente ancorato alla individualizzazione della pena, rileva in una duplice direzione ovvero quella dell'automatismo ed indefettibilita' di applicazione della pena accessoria della interdizione perpetua dai pubblici uffici prevista dall'art. 317-bis del codice penale e, dunque, riferibile all'an dell'applicazione al caso concreto, e quella della «fissita'» e «perpetuita'» della sanzione, che si saldano tra loro dando luogo ad un meccanismo sanzionatorio rigido che non appare compatibile con il «volto costituzionale della sanzione penale», delineato nella risalente sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 1980, e via via precisato con le sentenze n. 341 del 1994, 68 del 2012 e 236 del 2016. Nella giurisprudenza costituzionale i principi che attengono direttamente alla materia penale, comma quelli di individualizzazione della pena e della sua finalita' rieducativa nonche' della legalita' penale e della personalita' della responsabilita', entrano in gioco tra loro e con il principio di uguaglianza sostanziale, orientando l'esercizio della potesta' punitiva statuale verso l'articolazione legale dei sistema sanzionatorio, affinche' sia adeguato ai casi concreti, in termini di uguaglianza e differenziazione di trattamento. Sin dalla sentenza n. 50 del 1980 la Corte costituzionale ha affermato che «l'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva, proporzione della pena rispetto alle personali responsabilita' ed alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo una funzione che e' essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle posizioni individuali e di limite della potesta' punitiva statuale. In questi termini, sussiste di regola l'esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio, che renda possibile tale adeguamento individualizzato, proporzionale, delle pene inflitte con le sentenze di condanna (...). Tale articolazione, di regola, non e' ravvisabile in presenza di previsioni sanzionatorie rigide che insinuano il dubbio di illegittimita' costituzionale che potra' essere, caso per caso, superato a condizione che per la natura dell'illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest'ultima appaia ragionevolmente proporzionata rispetto all'intera gamma dei comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato». E' il requisito di «ragionevole proporzione della durata della pena», rispetto alla possibile gamma dei comportamenti umani ed alla loro offensivita', che concorre ad individuare una pena come «giusta» - e non solo l'astratta cornice legale - e, dunque, il trattamento sanzionatorio nell'ambito del quale, tra un minimo ed un massimo predeterminato dal legislatore, il giudice individua, secondo i criteri segnati dalla legge agli articoli 132, 133, e 133-bis cod. pen., la pena da infliggere nel caso concreto. La discrezionalita' giudiziaria svolge un ruolo centrale nell'ambito del sistema punitivo delineato dalla Carta fondamentale, ruolo che costituisce diretta attuazione dei principi di proporzionalita' ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio calibrato sul singolo condannato. La considerazione, accanto all'art. 3 della Costituzione, del principio di personalita' della responsabilita' penale sancito dal primo comma dell'art. 27 della Costituzione - da leggersi anch'esso alla luce della necessaria funzione rieducativa della pena di cui al terzo comma dello stesso art. 27 della Costituzione - e' inoltre alla base dell'ulteriore canone della necessaria individualizzazione della pena. Tale canone esige che - nel passaggio dalla comminatoria astratta operata dal legislatore alla sua concreta inflizione da parte del giudice - la pena si atteggi come risposta proporzionata anche alla concreta gravita', oggettiva e soggettiva, del singolo fatto di reato; il che comporta, almeno di regola, la necessita' dell'attribuzione al giudice dl un potere discrezionale nella determinazione della pena nel caso concreto, entro un minimo e un massimo predeterminati dal legislatore (Corte costituzionale sentenza n. 112 del 2019). 4. L'applicazione dei principi costituzionali di proporzionalita' e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio alla materia delle pene accessorie e, in particolare, di quelle interdittive costituisce il risultato della elaborazione della giurisprudenza costituzionale e di legittimita' lungo un percorso di ermeneusi per nulla scontato e affatto concluso. Si tratta, infatti, di principi che solo negli anni piu' recenti hanno trovato applicazione in relazione alla disciplina delle pene interdittive configurate, sul piano dogmatico, come effetti penali della sentenza di condanna (art. 20 del codice penale) cui «conseguono di diritto» e, come tali, sottratti a qualsiasi discrezionalita' giudiziale che investa l'an della loro applicazione, il quomodo o il quantum della loro durata. Utile alla disamina della questione di costituzionalita' sollevata e' il percorso tracciato dalla sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018 della Corte costituzionale e dalla piu' recente sentenze in materia resa dalle Sezioni unite ai questa Corte (Sez. U, n. 28910 del 28 febbraio 2019, Suraci, Rv. 276286). I principi enucleati da tali decisioni consentono di delineare, nella materia delle pene interdittive, uno statuto che ne avvicina i principi regolatori fondanti a quello della pena principale, sebbene il contenuto afflittivo dell'interdizione sia elaborato in modo autonomo dal sistema e contrassegnato da una funzione marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa. 5. Con la sentenza 222 del 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 216, ult. comma, regio decreto n. 267 del 16 marzo 1942, nella parte in cui prevedeva che la condanna per uno dei fatti da essa contemplati comportava per una durata fissa di anni dieci l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacita' per la stessa durata di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, inserendo nella disposizione, per renderla compatibile con il quadro dei principi che devono informare le sanzioni penali, l'avverbio «sino». L'esito della dichiarata incostituzionalita' e' stato quello della trasformazione della pena accessoria da «fissa» in pena di durata. Peraltro, il Giudice delle leggi non si' e' limitato a censurare, dal punto dl vista costituzionale, le pene accessorie «fisse», ma si e' spinto oltre sino a indicare che la loro durata sia determinata, discrezionalmente dal giudice per rendere davvero effettiva l'individualizzazione della sanzione accessoria, che altrimenti sarebbe raggiunta solo a meta'. La Corte costituzionale, in particolare, ha espresso una netta opzione di sfavore per l'automatismo punitivo sotto l'aspetto dosimetrico riferito alle pene accessorie attraverso il ricorso all'art. 37 cod. pen., osservando che esso opera solo al livello della legislazione ordinaria e, avendo una valenza meramente residuale, solo nel caso in cui il legislatore non abbia diversamente statuito; infine, ha rilevato come la scelta di ancorare la durata concreta delle pene accessorie a quella della pena principale inflitta «finirebbe per sostituire l'originario automatismo legale con un diverso automatismo». La conclusione della Corte costituzionale di affidare la determinazione della durata della pena accessoria alla discrezionalita' del giudice e' diretta conseguenza dell'esigenza, costituzionalmente imposta, della doverosa individualizzazione di ogni tipo di sanzione, esigenza che non si arresta alla denuncia dell'incostituzionalita' della pena accessoria della inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e dell'incapacita' di esercitare uffici direttivi, ma, una volta corretto il dettato legislativo con l'inserimento dell'avverbio «sino» che precede il riferimento «a dieci anni», si spinge oltre, coinvolgendo anche i criteri di quantificazione di queste pene per rendere davvero effettiva l'individualizzazione. 6. Lungo questa linea si sono poste le Sezioni unite di questa Corte con la sentenza Suraci, che, richiamandosi alla interpretazione data all'art. 216, ult. comma, regio decreto n. 267 del 16 marzo 1942 dalla sentenza della Corte costituzionale, hanno escluso che la durata della pena accessoria possa essere determinata in base all'art. 37 cod. pen. e ne hanno generalizzata la portata affermando un convinto principio di diritto nel senso che le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fisso, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 del codice penale. La sentenza in esame ha cosi' superato, in maniera decisa e argomentata, il principio di diritto fissato proprio dalle stesse Sezioni unite su un analogo caso, solo quattro anni prima, (Sez. U, n. 6240 del 27 novembre 2014, dep. 2015, B., Rv. 262328). 7. Al di la' della specificita' dell'esame della norma oggetto dell'incidente di costituzionalita' sono di rilievo, ai fini dell'esame della questione proposta, i principi che la sentenza n. 222 del 2018 ha ricostruito. Non e', infatti, la durata della pena accessoria maggiore rispetto a quella della pena detentiva concretamente inflitta ad essere di per se' incostituzionale; ne' e' incostituzionale la previsione di sanzioni interdittive la cui durata sia stabilita in modo indipendente da quella della pena detentiva (in ragione della diversa finalita' delle due tipologie di sanzione, oltre che del loro grado di afflittivita' rispetto ai diritti fondamentali della persona). Con riguardo al primo aspetto, tale opzione e' di per se' immune da censure sotto il profilo della legittimita' costituzionale in ragione della prospettiva che assegna alle pene accessorie una funzione marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa ed imperniata sulla interdizione del condannato da quelle attivita' che gli hanno fornito l'occasione per commettere gravi reati. Essenziale a garantire la compatibilita' delle pene accessorie di natura interdittiva con il volto costituzionale della sanzione penale e', infatti, che esse non risultino manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto al concreto disvalore del fatto di reato, tanto da vanificare lo stesso obiettivo di «rieducazione del reo», imposto dall'art. 27, terzo comma, Cost. Dalla giurisprudenza della Corte costituzionale emerge il principio secondo cui e' proprio la durata fissa delle pene accessorie a non apparire compatibile con i principi costituzionali in materia di pena e, segnatamente, con i principi di proporzionalita' e necessaria individualizzazione del trattamento sanzionatorio, principi che rilevano sia sul piano della determinazione del trattamento, sia al momento della condanna, in sede di applicazione del trattamento punitivo, che il giudice individua tenendo conto in particolare della vasta gamma di circostanze indicate negli articoli 133 e 133-bis del codice penale. Sotto il primo aspetto la Corte ha, tuttavia, precisato che tale discrezionalita' incontra il proprio limite nella manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, limite che - in subiecta materia - e' superato allorche' le pene comminate appaiano manifestamente sproporzionate rispetto alla gravita' del fatto previsto quale reato. In tal caso, si profila infatti una violazione congiunta degli articoli 3 e 27 della Costituzione, giacche' una pena non proporzionata alla gravita' del fatto (e non percepita come tale dal condannato) si risolve in un ostacolo alla sua funzione rieducativa (ex multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n. 341 del 1994). Soprattutto, in presenza di una pena accessoria di durata fissa, la Corte e' tornata sui principi enunciati nella sentenza n. 50 del 1980 ed ha con chiarezza affermato: «se la "regola" e' rappresentata dalla "discrezionalita'", ogni fattispecie sanzionata con pena fissa (qualunque ne sia la specie) e' per cio' solo "indiziata" di illegittimita'; e tale indizio potra' essere smentito soltanto in seguito a un controllo strutturale della fattispecie di reato che viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che la peculiare struttura della fattispecie la renda "proporzionata" all'intera gamma dei comportamenti tipizzati». 8. E' alla luce di tali principi che, ad avviso del Collegio, deve essere vagliata la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 317-bis cod. pen. che commina, in relazione ad alcune fattispecie di reati contro la pubblica amministrazione, per cui sia stata inflitta in concreto la pena eguale o superiore ad anni tre di reclusione, l'automatica interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, previsione «anelastica» ovvero «rigida», che non consente di calibrare la sanzione sulla gravita' della violazione commessa. Nel caso di specie il reato di corruzione previsto dall'art. 319 del codice penale ricomprende e sanziona in modo uniforme, con la pena da sei a dieci anni di reclusione, condotte che possono avere gravita' oggettivamente diversa per il differente grado di lesione del bene giuridico tutelato: cosi', ad esempio, il caso in cui l'agente abbia ricevuta la somma per avere compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio presenta una diversa e piu' spiccata gravita' rispetto all'ipotesi in cui si sia in presenza della sola accettazione di una promessa di futura dazione come corrispettivo per ritardare il compimento di un atto dovuto, ritardo non prodottosi per la subitanea emersione dell'accordo illecito o anche per resipiscenza del pubblico ufficiale. Ebbene, in quest'ultima ipotesi la pena principale rimane, comunque, ben al di sopra dei tre anni di reclusione e, conseguentemente, e' identica la pena accessoria perpetua della interdizione dai pubblici uffici da applicare in esito alla condanna, nonostante si tratti di una condotta connotata da un minor disvalore rispetto a quella in cui l'agente abbia ricevuto la somma di denaro ed abbia compiuto l'atto contrario ai doveri di ufficio. Ne' a diverso risultato si perverrebbe per effetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, che pure consentono di adeguare la pena al concreto disvalore del fatto, non essendo matematicamente possibile scendere, anche in tale evenienza, al disotto dei tre anni di reclusione. Va, altresi', evidenziato che il catalogo dei reati ai quali e' collegata l'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici prevista dall'art. 317-bis del codice penale non e' inteso, nella giurisprudenza di legittimita', in chiave tassativa tanto e' vero che la pena accessoria perpetua e' stata ritenuta applicabile anche alle fattispecie tentate di peculato e concussione per le quali, si osserva, ricorrono inalterate le esigenze alla cui tutela e' finalizzata la previsione sanzionatoria (Sez. 6, n. 9204 del 17 gennaio 2005, Mancini, Rv. 230765). L'applicazione di tale principio al delitto di tentata corruzione comporta che la pena della interdizione in perpetuo dai pubblici uffici scatta in presenza di una condanna uguale a quella di anni tre reclusione. Anche in questo caso, la riduzione della pene in misura di un terzo, sulla pena minima del delitto di corruzione tentata, comporta l'applicazione automatica della pena accessoria poiche' non e' possibile scendere al di sotto dei tre anni di reclusione, quale che sia la gravita' concreta delle condotte costitutive del reato. 8.1. Nella fattispecie in esame non hanno trovato applicazione le circostanze, di cui all'art. 323-bis del codice penale che, secondo la previsione contenuta nell'art. 317-bis codice penale, come modificato dalla legge n. 3 del 2019, possono avere incidenza sull'applicazione della pena accessoria della interdizione in perpetuo. L'applicazione della circostanza attenuante del fatto di particolare tenuita' richiede, secondo la univoca giurisprudenza di questa corte, che il reato, valutato nella sua globalita', presenti una gravita' contenuta, dovendosi a tal fine considerare non soltanto l'entita' del danno economico o del lucro conseguito, ma ogni caratteristica della condotta, dell'atteggiamento soggettivo dell'agente e dell'evento da questi determinato (Sez. 6, n. 8295 del 9 novembre 2018, dep. 2019, Santimone, Rv. 275091). Nella specie, la disponibilita' mostrata dall'imputato a favore di un noto imprenditore locale e delle sue societa', attraverso la collaborazione della titolare di uno studio di consulenza contabile, ancorche' non connotate da particolare gravita', non appare compatibile con il giudizio di particolare tenuita'. Sempre con riguardo alle concrete modalita' di commissione del reato e di emersione dell'illecito, non sono stati acquisiti positivi elementi neppure per ritenere applicabile le circostanze di cui all'art. 323-bis, secondo comma, codice penale ovvero una condotta collaborativa dell'imputato volta ad evitare ulteriori attivita' criminose, ad assicurare la prova di altri reati o di altrui responsabilita' e il sequestro delle somme conseguite a titolo di profitto del reato. A ben riflettere, a meno dell'attenuante del fatto di particolare tenuita', peraltro di complessa e rara applicazione giurisprudenziale, le descritte circostanze attenuanti sono tutte costruite sull'attivita' post delictum del reo e, pertanto, estranee al giudizio di gravita' del reato sul quale e' strutturata la pena edittale e, quindi, la soglia della pena di anni tre di reclusione a partire dalla quale scatta la pena interdittiva in perpetuo. Nel caso in esame all'imputato e stata applicata in via automatica la pena della interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in presenza di un fatto che non si attesta tra le condotte piu' gravi, pur non essendo apprezzabile come di particolare tenuita', in relazione alle specifiche e concrete modalita' della condotta che, come ben evidenziato nella sentenza, vedevano i privati agire, in vista del conseguimento dei loro interessi illeciti, su un piano di assoluta parita' con il pubblico ufficiale e dietro l'accorta regia della titolare di un accorsato studio di consulenza. Anche la pena finale, individuata quella base in misura non coincidente con il minimo edittale, e' stata poi ridotta in seguito all'intervenuto risarcimento del danno (nell'importo di cinquantamila euro, a fronte di una tangente confessata di ventimila euro) e alla scelta del rito, non attestandosi quindi in una pena detentiva eccessivamente elevata. La necessita' di sanzionare in modo particolarmente severo i pubblici ufficiali resisi responsabili di infedelta', anche mediante la comminazione per le condanne non inferiori a tre anni di reclusione, di una pena accessoria piu' severa rispetto a quella prevista dalle regole generali - che prevedono la interdizione perpetua per la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni e l'interdizione temporanea, per la durata di anni cinque, in presenza di una condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni (art. 29 cod. pen.) - avrebbe dovuto essere soddisfatta nel rispetto dei principi di proporzionalita' e individualizzazione del trattamento sanzionatorio. Invece la interdizione in perpetuo dal pubblici uffici trova applicazione indifferenziata per tutte le fattispecie concrete, sebbene caratterizzate da una gravita' marcatamente differenziata. Si e' in presenza di una rigidita' applicativa della pena accessoria perpetua, frutto della struttura della fattispecie, che non puo' che generare risposte sanzionatorie manifestamente sproporzionate per eccesso rispetto all'intera gamma dei comportamenti tipizzati, e, dunque, in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione, rispetto a fatti meno gravi e in distonia con il principio di individualizzazione del trattamento sanzionatorio. 9. La rigidita' dell'apparato sanzionatorio e la sua indifferenza ai connotati strutturali del trattamento punitivo delineati nella Costituzione e' amplificata dalla natura perpetua della pena accessoria prevista dall'art. 317-bis codice penale, che ne rafforza il contrasto con la finalita' rieducativa. La pena accessoria della interdizione in perpetuo dai pubblici uffici comminata in relazione alle fattispecie previste dall'art. 317-bis del codice penale va certamente valutata in rapporto all'allarme generato dagli illeciti commessi nell'ambito delle sfere funzionali, in quanto lesivi di beni di rilievo collettivo e a contenuto anche economico. E, proprio con la riforma introdotta con la legge n. 3 del 9 gennaio 2019, il legislatore storico, ha giustificato l'inasprimento complessivo del sistema punitivo evidenziando l'intrinseco disvalore delle condotte, che minano alla base i requisiti di integrita' e affidabilita' necessari per l'assunzione dei pubblici uffici, a tutela del buon andamento e del prestigio di quest'ultima, unitamente ad esigenze special-preventive. Prospettiva, questa, di cui la Corte costituzionale ha confermato la costituzionalita' in forza della funzione, distinta da quella della pena detentiva, e marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa, imperniata sulla interdizione del condannato da quelle attivita' che gli hanno fornito l'occasione per commettere gravi reati. La valorizzazione del ruolo delle sanzioni a contenuto interdittivo, in rapporto agli illeciti commessi nell'ambito di sfere funzionali, in quanto lesivi di beni di rilievo collettivo e a contenuto anche economico, in un sistema governato dalle garanzie sostanziali imposte dalla Carta fondamentale, non puo' essere concepita in rapporto esclusivamente all'autore ed alla sua pericolosita', strettamente intesa, o semmai alla capacita' a delinquere, ma deve, comunque, essere concepita in relazione al fatto commesso e, quindi, alla sua gravita' e non puo' sottrarsi, in quanto pena, alla necessita' di individualizzazione del trattamento sanzionatorio ed all'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti che, come precisato dalla sentenza n. 50 del 1980, realizza plurime finalita' contribuendo, da un lato, a rendere quanto piu' possibile personale la responsabilita' penale e nello stesso tempo e' strumento per la determinazione della pena quanto piu' possibile finalizzata alla rieducazione del condannato. 10. Non va trascurato che le pene accessorie, e quella interdittiva in esame, incidono in senso fortemente limitativo su una vasta gamma di diritti fondamentali del condannato, tra cui la perdita della capacita' elettorale e il diritto elettorale, attivo e passivo, compromettendone in settori amplissimi la sfera giuridica, riducendo drasticamente la sua possibilita' di esercitare attivita' lavorative in una prospettiva perpetua, con decorrenza dall'integrale esecuzione della pena detentiva, la quale potrebbe avere luogo molti anni dopo la commissione del fatto di reato. E', dunque, sul terreno della compatibilita' con la funzione di rieducazione del condannato che la misura dell'interdizione perpetua rivela l'altro suo aspetto di frizione con il sistema costituzionale, e con i descritti principi di proporzionalita' e individualizzazione, tanto piu' ove si rifletta che essa incide sulla capacita' giuridica generale dell'individuo, contraddicendo quelle ragioni (la flessibilita' e precisione, ovvero la specificita' della misura, ritagliata sull'attivita' alla quale si riferisce l'illecito) che giustificano, in chiave di prevenzione speciale, il ricorso alla misura interdittiva. Flessibilita', precisione e, dunque, specificita', che, invece, orientano la previsione delle sanzioni interdittive, nella disciplina recata dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 in materia di responsabilita' delle persone giuridiche. Si tratta di un contesto certamente diverso da quello in esame, ma nel quale rileva la scelta di fondo della misura interdittiva come strumento di prevenzione in relazione a forme di criminalita' determinata da moventi economici, comune anche al reato commesso da persone fisiche. Cio' che balza evidente nell'esame del sistema positivo della interdizione perpetua, regolata dall'art. 317-bis del codice penale, e' la natura automatica fissa del meccanismo in contrasto con i principi di proporzionalita' e individualizzazione, della pena. Si tratta di un congegno sanzionatorio in cui convivono aspetti e funzioni diverse che non sono ben armonizzati tra loro e sul quale, a ben vedere, pesano il marchio infamante connesso alla natura stessa della interdizione come espulsione del cittadino dalla fruizione dei diritti politici, il connotato di effetto penale della condanna, che ne delinea la struttura nel sistema del codice penale, nonche' l'ampliamento della funzione di prevenzione che, invece, nel corso degli anni, il legislatore positivo e' venuto assegnando all'istituto di una pena accessoria, come quella perpetua, di per se' fissa che non consente di calibrarne l'applicazione sulla gravita' della violazione commessa e sul giudizio di pericolosita' in concreto della persona condannata, essendo meccanicamente collegata ad una pena, quella di anni tre di reclusione, non espressiva di un giudizio di particolare gravita' del fatto. 11. I descritti connotati della pena accessoria interdittiva prevista dall'art. 317-bis del codice penale restituiscono l'immagine di una norma sanzionatoria priva dei requisiti, costituzionalmente obbligati, di proporzionalita' e ragionevolezza. Il Giudice delle leggi, valorizzando accanto all'art. 3 della Costituzione, il parametro rappresentato dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione ha esteso in numerose pronunce (a partire dalle sentenze n. 343 del 1993, n. 422 del 1993 e n. 341 del 1994) il proprio sindacato anche a ipotesi in cui la pena comminata dal legislatore appaia manifestamente sproporzionata non tanto in rapporto alle pene previste per altre figure di reato, quanto piuttosto in rapporto - direttamente - alla gravita' delle condotte abbracciate dalla fattispecie astratta, senza che sia piu' necessaria l'evocazione di alcuno specifico tertium comparationis da parte del rimettente, se non al limitato fine di assistere la Corte nell'individuazione del trattamento sanzionatorio che possa sostituirsi, in attesa di un sempre possibile intervento del legislatore, a quello dichiarato incostituzionale (in questo senso, in particolare, sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del 2016). Cio' nella consapevolezza che pene eccessivamente severe tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato e finiscono cosi' per risolversi in un ostacolo alla sua rieducazione (sentenza n. 68 del 2012). Nella stessa ottica, d'altra parte, possono essere lette le numerose pronunce che hanno inciso sull'art. 69, ultimo comma, del codice penale, in ragione dell'esigenza di evitare l'irrogazione in concreto di pene sproporzionate per eccesso per effetto del divieto di prevalenza di talune circostanze attenuanti sulle aggravanti indicate in quella disposizione (sentenze n. 205 del 2017, n. 106 e n. 105 del 2014 e n. 251 del 2012). I precedenti del Giudice delle leggi individuano, come e' noto, una serie di soluzioni alla incostituzionalita' di una norma, tra cui quello dell'ablazione radicale della norma sospetta o meccanismi piu' sofisticati, che passano attraverso l'ablazione parziale della norma e la sua trasformazione (sentenza n. 233 del 2018) ovvero l'individuazione di qualsiasi altra norma vigente nell'ordinamento che offra «una diversa soluzione, in grado di sostituirsi alla disposizione (...) censurata e di inserirsi al tempo stesso armonicamente all'interno della logica gia' seguita dal legislatore, al netto del vizio dl costituzionalita' (sentenza n. 222 del 2018)» e, tanto, ai fine di restituire al giudice, tenuto a farne applicazione al caso concreto, un meccanismo sanzionatorio che, nel rispetto del principio di proporzionalita' e ragionevolezza, consenta di determinare discrezionalmente la durata della pena accessoria realizzandone la funzione sanzionatoria e preventiva. Il Collegio rimettente e' consapevole della difficolta' di intervenire sulla norma censurata che, rispetto ad altre fattispecie analoghe dichiarate incostituzionali, costituisce un unicum, trattandosi di una pena accessoria perpetua e come tale strutturata nel sistema punitiva. Ma proprio tale connotato ed il gigantismo della funzione preventiva, richiedono un intervento inteso a renderne proporzionata e ragionevole l'applicazione. 11.1. L'ablazione della norma dal sistema sanzionatorio, tuttavia, non lascerebbe scoperta l'attuazione della funzione sanzionatoria e special-preventiva realizzata attraverso la previsione dell'art. 317-bis del codice penale, potendo trovare applicazione, in caso di condanna per il reato di cui all'art. 319 del codice penale, le disposizioni generali, in materia di pene accessorie, degli articoli 29 e 31 del codice penale. Le Sezioni unite di questa Corte (Sez. U, n. 12228 del 24 ottobre 2013, Maldera, Rv. 25847), esaminando la fattispecie di reato introdotta dall'art. 319-quater del codice penale - all'epoca non prevista tra i reati ai quali era applicabile l'art. 317-bis del codice penale - hanno affermato che, in caso di condanna per tale reato, trattandosi di reato comunque commesso con abuso di poteri, ossia con l'abuso della posizione che al funzionario pubblico deriva dall'essere titolare del corrispondente potere, doveva essere applicata la pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici modulata in base alle norme generali di cui agli articoli 29, 31 (e 37) codice penale. Secondo, le regole generali la interdizione in perpetuo dai pubblici uffici troverebbe applicazione per il pubblico funzionario corrotto nelle ipotesi in cui sia stata inflitta una pena non inferiore a cinque anni di reclusione ovvero, in caso di condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a tre anni, la interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque. All'imputato, dunque, nel caso in esame, sarebbe applicabile l'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque, ai sensi dell'art. 29 del codice penale. In alternativa, per il pubblico ufficiale, in presenza di condanna per delitti commessi con abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, puo' trovare applicazione, a prescindere dalla entita' della condanna, l'interdizione temporanea dai pubblici uffici ex art. 31 del codice penale, che non ha una durata predeterminata ex lege e che, tenuto conto dei principi affermati dalla sentenza Suraci, innanzi richiamata, non sarebbe commisurata a quella della pena principale inflitta, ma determinata in concreto dal giudice in base ai criteri segnati dalla legge agli articoli 132, 133, e 133-bis del codice penale e, dunque, nell'esercizio dei criteri di discrezionalita' che concorrono all'attuazione dei principi di proporzionalita' ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio calibrato sul singolo condannato. Nella specie, l'eventuale abrogazione dell'interdizione perpetua prevista dalla prima parte del primo comma dell'art. 317-bis del codice penale comporterebbe che in presenza del reato di corruzione commesso in violazione dei doveri di ufficio, con una pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione, come quella applicata sull'accordo delle parti all'odierno ricorrente, il giudice potrebbe applicare la pena della interdizione temporanea dai pubblici uffici, in una misura che, entro il limite legale di durata della pena accessoria temporanea di cui all'art. 28 del codice penale, non sarebbe automatica e rigida, ma determinata secondo i poteri discrezionali del giudice, sulla scorta dei principi enunciati dalla richiamata sentenza delle Sezioni unite Suraci.
P.Q.M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata in relazione agli articoli 3 e 27 della Costituzione la questione relativa alla conformita' a Costituzione dell'art. 317-bis del codice penale, nella versione precedente alle modifiche introdotte con la legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui prevede l'automatica applicazione dell'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna, per il reato di cui all'art. 319 del codice penale, ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione; Sospende il giudizio in corso sino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale; Dispone che, a cura della cancelleria, gli atti siano immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale e che la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa e al pubblico ministero nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e che sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso l'8 aprile 2020 Il Presidente: Fidelbo Il consigliere relatore: Giordano