N. 22 ORDINANZA (Atto di promovimento) 30 dicembre 2020

Ordinanza del 30 dicembre 2020 della Corte di cassazione sul  ricorso
proposto da R.A.. 
 
Reati e pene - Pene accessorie - Interdizione perpetua  dai  pubblici
  uffici in caso di condanna per il reato di  cui  all'art.  319  del
  codice  penale  (Corruzione  per  un  atto  contrario   ai   doveri
  d'ufficio) ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione. 
- Codice  penale,  art.  317-bis,  nella  versione  precedente   alle
  modifiche introdotte con la legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure  per
  il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione,  nonche'
  in materia di prescrizione del reato e in  materia  di  trasparenza
  dei partiti e movimenti politici). 
(GU n.9 del 3-3-2021 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Sesta sezione penale 
 
    Composta da: 
        Giorgio Fidelbo - Presidente; 
        Anna Criscuolo; 
        Emilia Anna Giordano - relatore; 
        Riccardo Amoroso; 
        Maria Sabina Vigna, 
ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da  R.  A.,
nato il.... a.... (...), avverso la sentenza del 25 ottobre 2019  del
Tribunale di Brescia; 
    Visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; 
    Udita la relazione svolta dal Consigliere Emilia Anna Giordano; 
    Letta la requisitoria del  pubblico  ministero,  in  persona  del
Sostituto procuratore generale Ferdinando Lignola che ha concluso per
il rigetto del ricorso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. Con sentenza del 25  ottobre  2019  il  Tribunale  di  Brescia
applicava ad A. R., a sua richiesta e con il  consenso  del  pubblico
ministero, in relazione al reato  di  cui  all'art.  319  del  codice
penale, la pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione perche',
quale pubblico ufficiale, (luogotenente della  Guardia  di  finanza),
accettava somme di denaro da M. S. e N. N. per omettere  o  ritardare
controlli fiscali, condotte accertate il 29 novembre  2017  e  il  13
gennaio 2018. Individuata la pena base in anni  otto  di  reclusione,
veniva operata la diminuzione per  l'applicazione  della  circostanza
attenuante di cui all'art. 62 n. 6 codice penale in  anni  sei  e  su
questa pena si applicava la riduzione per  il  rito.  Con  la  stessa
sentenza di «patteggiamento»  A.  R.  era  dichiarato  interdetto  in
perpetuo dai pubblici uffici, ai sensi dell'art. 317-bis  del  codice
penale  e  dichiarato  incapace  di  contrattare  con   la   pubblica
amministrazione per  durata  pari  a  quella  della  pena  principale
applicatagli. 
    2. Nell'interesse dell'imputato, gli avvocati Vanni Barzellotti e
Jacopo  Barzellotti,  hanno  proposto  ricorso  per  cassazione   per
violazione  di  legge  in  relazione  all'applicazione   della   pena
accessoria,  chiedendo  di  sollevare  questione  di   illegittimita'
costituzionale dell'art. 317-bis del codice  penale,  in  riferimento
agli articoli 3 e 27 della Costituzione. La  disposizione  applicata,
nel testo vigente all'epoca di commissione dei reati  introdotto  con
l'art. 5 della legge 26 aprile 1990, n. 86, ed esteso anche al  reato
di corruzione dall'art.  1,  comma  75,  lettera  e)  della  legge  6
novembre 2012, n. 190, prevede la pena accessoria della  interdizione
perpetua dai pubblici uffici  quale  effetto  penale  della  condanna
tutte le volte che la pena principale comminata non sia  inferiore  a
tre anni di reclusione: tale disciplina viene ritenuta manifestamente
irragionevole, in quanto impone  al  giudice  l'applicazione  di  una
sanzione  perpetua  che  puo'  essere  sproporzionata  rispetto  alla
gravita'  del  fatto.  Sproporzione  che,  secondo  la   difesa   del
ricorrente che richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 222
del  25  settembre  2018,  comporta  un   vulnus   ai   principi   di
proporzionalita' e  necessaria  individualizzazione  del  trattamento
sanzionatorio - contenuti rispettivamente negli articoli 3 e 27 della
Costituzione - giacche' «una pena non proporzionata alla gravita' del
fatto (e non percepita come tale dal condannato)  si  risolve  in  un
ostacolo alla sua funzione rieducativa». Dopo  avere  evidenziato  la
rilevanza della  questione  proposta,  si  osserva,  infine,  che  il
requisito di proporzione, rispetto all'intera gamma di  comportamenti
riconducibili allo specifico tipo di reato, non ricorre nel caso  del
reato di corruzione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. Preliminarmente, deve ritenersi  ammissibile  il  ricorso  per
cessazione avverso le sentenza di applicazione della pena nella parte
relativa alle pene  accessorie  in  presenza  di  patteggiamento  cd.
allargato, in esito al quale e' stata concordata tra le parti la pena
superiore  a  due  anni  di  reclusione.  A  parte  la  clausola   di
equiparazione a una pronuncia di condanna ex art. 445,  comma  1-bis,
ultima parte, codice di procedura penale, la sentenza di applicazione
pena «comporta  l'obbligo  del  pagamento  delle  spese  processuali,
l'applicazione delle pene accessorie e  delle  misure  di  sicurezza»
(Sez. U, n. 17781 del 29 novembre 2005, dep. 2006, Diop, Rv. 233518).
Questa Corte ha gia' affermato  che  la  limitazione  dei  motivi  di
impugnazione proponibili contro le  sentenze  di  patteggiamento,  al
sensi  dell'art.  448,  comma  2-bis,  codice  di  procedura  penale,
inserito della legge n. 103 del 23 giugno 2017 riguarda  soltanto  le
parti  della  decisione  che  riflettano  il  contenuto  dell'accordo
processuale  tra  il  pubblico  ministero  e  l'imputato  e  non   le
statuizioni estranee  a  tale  accordo  (Sez.  U,  n.  21368  del  26
settembre 2019, dep. 2020, Savin, Rv. 279348, in tema  di  misure  di
sicurezza). 
    Con riferimento alle pene accessorie previste dagli  articoli  29
del codice penale e 216, ult. comma, regio  decreto  n.  267  del  16
marzo 1942, la giurisprudenza di legittimita' ha precisato: a) che e'
ammissibile il ricorso per  cassazione  preposto  per  violazione  di
legge con riferimento alle pene  accessorie  che  non  hanno  formato
oggetto dell'accordo tra le parti, non operando  in  questo  caso  la
disposizione dell'art. 448, comma 2-bis, codice di  procedura  penale
(Sez. 5, n. 49477 del 13 novembre 2019, Letizia, Rv. 277552); b)  che
costituisce onere del giudice quello di motivare  specificamente  sui
punto;  c)  che   la   statuizione   e'   impugnabile,   anche   dopo
l'introduzione  dell'art.  448,  comma  2-bis,  codice  di  procedura
penale,  con  ricorso  per  cassazione  per  vizio  di   motivazione,
riguardando  un  aspetto   della   decisione   estraneo   all'accordo
sull'applicazione della pena (Sez. 6, n. 16508 del  27  maggio  2020,
Condo' Alessio, Rv. 278962). Si tratta di principi che, per identita'
di ratio,  trovano  applicazione  anche  con  riferimento  alla  pena
accessoria della interdizione dai pubblici uffici in materia di reati
contro la pubblica amministrazione, tenuto conto che, con riguardo  a
tale categoria di reati, l'istituto dell'applicazione della  pena  su
richiesta delle parti, sia per  i  requisiti  di  ammissibilita'  del
rito, sia per gli effetti dell'applicazione della pena  a  richiesta,
si delinea come un vero e proprio sottosistema processuale. 
    Sempre   ai   fini   della    valutazione    di    ammissibilita'
dell'impugnazione, si precisa che secondo un costante orientamento di
questa Corte il ricorso per cassazione puo' avere  ad  oggetto  anche
soltanto   l'eccezione    d'illegittimita'    costituzionale    della
disposizione applicata dal giudice  di  merito,  in  quanto  comporta
comunque una censura di violazione di legge  riferita  alla  sentenza
impugnata, sempre che sussista  la  rilevanza  della  questione,  nel
senso che dall'invocata dichiarazione d'illegittimita'  consegua  una
pronuncia favorevole per il  ricorrente  in  termini  d'annullamento,
anche parziale, della sentenza (Sez. 6, n. 31683 del 31  marzo  2008,
Reucci, Rv. 240780; Sez. 1, n. 20702 del 16 giugno  2020,  Sala,  Rv.
279376). 
    2.  Nel  caso  in  esame  la  questione  dedotta  deve  ritenersi
rilevante dal momento che  l'art.  317-bis,  comma  1,  prima  parte,
codice penale, vigente all'epoca di commissione del reato, stabilisce
che la condanna a pena uguale o superiore a tre anni di reclusione il
reato di cui all'art. 319 del codice  penale  importa  l'interdizione
perpetua dai pubblici uffici e, solo quando sia inflitta la  condanna
alla pena inferiore a tre anni, la interdizione temporanea: la  norma
denunciata  va  necessariamente   applicata   e   il   controllo   di
legittimita'  costituzionale,  qualora  venga   definito   in   senso
positivo, renderebbe attuale la doglianza prospettata, con un effetto
corrispondente   all'interesse   del   ricorrente   che    eviterebbe
l'applicazione perpetua della pena accessoria. 
    In altri termini, il presente giudizio non puo'  essere  definito
indipendentemente dalla soluzione  della  questione  di  legittimita'
costituzionale  circa  le  modalita'  di  applicazione   della   pena
accessoria. 
    Ne' e' possibile una interpretazione costituzionalmente orientata
della norma in esame che  prevede,  quale  effetto  automatico  della
condanna, la pena accessoria perpetua. 
    3.   Il   Collegio   ritiene   che   sussista   il   dubbio    di
costituzionalita' dell'art. 317-bis, prima  parte  del  primo  comma,
codice penale - nel testo aggiunto dall'art. 5 della legge 26  aprile
1990, n. 86, precedente all'ultima modifica introdotta dalla legge  9
gennaio 2019, n. 3 -, in cui  si  prevede  l'automatica  applicazione
dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, in caso di  condanna,
per il reato di cui all'art. 319 cod. pen.,  ad  una  pena  uguale  o
superiore a tre anni di reclusione, in relazione agli articoli 3 e 27
della Costituzione. 
    La censura di costituzionalita', con riferimento ai  principi  di
personalita' della responsabilita' penale e finalizzazione della pena
alla rieducazione, quindi in attuazione del principio di  uguaglianza
che risulti saldamente ancorato alla individualizzazione della  pena,
rileva in una duplice direzione  ovvero  quella  dell'automatismo  ed
indefettibilita'  di  applicazione  della   pena   accessoria   della
interdizione perpetua dai pubblici uffici prevista dall'art.  317-bis
del codice penale e, dunque, riferibile all'an  dell'applicazione  al
caso concreto,  e  quella  della  «fissita'»  e  «perpetuita'»  della
sanzione, che si saldano  tra  loro  dando  luogo  ad  un  meccanismo
sanzionatorio  rigido  che  non  appare  compatibile  con  il  «volto
costituzionale della  sanzione  penale»,  delineato  nella  risalente
sentenza della Corte  costituzionale  n.  50  del  1980,  e  via  via
precisato con le sentenze n. 341 del 1994, 68  del  2012  e  236  del
2016. 
    Nella giurisprudenza  costituzionale  i  principi  che  attengono
direttamente alla materia penale, comma quelli di individualizzazione
della pena e della sua finalita' rieducativa nonche' della  legalita'
penale e della personalita' della responsabilita', entrano  in  gioco
tra loro e con il principio di  uguaglianza  sostanziale,  orientando
l'esercizio della potesta' punitiva  statuale  verso  l'articolazione
legale dei sistema sanzionatorio,  affinche'  sia  adeguato  ai  casi
concreti,  in  termini   di   uguaglianza   e   differenziazione   di
trattamento.  Sin  dalla  sentenza  n.   50   del   1980   la   Corte
costituzionale ha affermato che «l'uguaglianza di  fronte  alla  pena
viene a significare, in definitiva, proporzione della  pena  rispetto
alle personali responsabilita' ed alle esigenze di  risposta  che  ne
conseguano, svolgendo una funzione che e' essenzialmente di giustizia
e anche di tutela delle  posizioni  individuali  e  di  limite  della
potesta' punitiva statuale. In questi  termini,  sussiste  di  regola
l'esigenza di una articolazione legale del sistema sanzionatorio, che
renda possibile  tale  adeguamento  individualizzato,  proporzionale,
delle  pene  inflitte  con  le  sentenze  di  condanna  (...).   Tale
articolazione,  di  regola,  non  e'  ravvisabile  in   presenza   di
previsioni  sanzionatorie  rigide  che   insinuano   il   dubbio   di
illegittimita' costituzionale  che  potra'  essere,  caso  per  caso,
superato a condizione che per la natura  dell'illecito  sanzionato  e
per  la  misura  della   sanzione   prevista,   quest'ultima   appaia
ragionevolmente   proporzionata   rispetto   all'intera   gamma   dei
comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato». 
    E' il requisito di «ragionevole proporzione  della  durata  della
pena», rispetto alla possibile gamma dei comportamenti umani ed  alla
loro offensivita', che concorre ad individuare una pena come «giusta»
- e non solo l'astratta cornice legale - e,  dunque,  il  trattamento
sanzionatorio nell'ambito del quale, tra  un  minimo  ed  un  massimo
predeterminato dal  legislatore,  il  giudice  individua,  secondo  i
criteri segnati dalla legge agli articoli 132, 133,  e  133-bis  cod.
pen., la pena da infliggere nel caso  concreto.  La  discrezionalita'
giudiziaria svolge un ruolo centrale nell'ambito del sistema punitivo
delineato dalla Carta fondamentale,  ruolo  che  costituisce  diretta
attuazione dei principi di  proporzionalita'  ed  individualizzazione
del trattamento sanzionatorio calibrato sul  singolo  condannato.  La
considerazione, accanto all'art. 3 della Costituzione, del  principio
di personalita' della responsabilita' penale sancito dal primo  comma
dell'art. 27 della Costituzione - da  leggersi  anch'esso  alla  luce
della necessaria funzione rieducativa della  pena  di  cui  al  terzo
comma dello stesso art. 27 della Costituzione - e' inoltre alla  base
dell'ulteriore  canone  della  necessaria  individualizzazione  della
pena. Tale canone  esige  che  -  nel  passaggio  dalla  comminatoria
astratta operata dal legislatore  alla  sua  concreta  inflizione  da
parte del giudice - la pena si atteggi  come  risposta  proporzionata
anche alla concreta gravita', oggettiva  e  soggettiva,  del  singolo
fatto di reato; il che comporta,  almeno  di  regola,  la  necessita'
dell'attribuzione  al  giudice  dl  un  potere  discrezionale   nella
determinazione della pena nel caso concreto, entro  un  minimo  e  un
massimo predeterminati dal legislatore (Corte costituzionale sentenza
n. 112 del 2019). 
    4. L'applicazione dei principi costituzionali di proporzionalita'
e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio  alla  materia
delle pene accessorie  e,  in  particolare,  di  quelle  interdittive
costituisce il  risultato  della  elaborazione  della  giurisprudenza
costituzionale e di legittimita' lungo un percorso di  ermeneusi  per
nulla scontato e affatto concluso. 
    Si tratta, infatti, di principi che solo negli anni piu'  recenti
hanno trovato applicazione in relazione alla  disciplina  delle  pene
interdittive configurate, sul piano dogmatico,  come  effetti  penali
della  sentenza  di  condanna  (art.  20  del  codice   penale)   cui
«conseguono  di  diritto»  e,  come  tali,  sottratti   a   qualsiasi
discrezionalita' giudiziale che investa l'an della loro applicazione,
il quomodo o il quantum della loro durata. 
    Utile  alla  disamina  della   questione   di   costituzionalita'
sollevata e' il percorso  tracciato  dalla  sentenza  n.  222  del  5
dicembre  2018  della  Corte  costituzionale  e  dalla  piu'  recente
sentenze in materia resa dalle Sezioni unite ai questa Corte (Sez. U,
n. 28910 del 28 febbraio 2019, Suraci, Rv. 276286). 
    I principi enucleati da tali decisioni consentono  di  delineare,
nella materia delle pene interdittive, uno statuto che ne avvicina  i
principi regolatori fondanti a quello della pena principale,  sebbene
il contenuto  afflittivo  dell'interdizione  sia  elaborato  in  modo
autonomo dal sistema e contrassegnato da  una  funzione  marcatamente
orientata alla prevenzione speciale negativa. 
    5. Con la sentenza  222  del  2018  la  Corte  costituzionale  ha
dichiarato costituzionalmente illegittimo  l'art.  216,  ult.  comma,
regio decreto n. 267 del 16 marzo 1942, nella parte in cui  prevedeva
che la condanna per uno dei fatti da essa contemplati comportava  per
una durata fissa di  anni  dieci  l'inabilitazione  all'esercizio  di
un'impresa commerciale  e  l'incapacita'  per  la  stessa  durata  di
esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa, inserendo nella
disposizione, per renderla compatibile con il quadro dei principi che
devono informare le sanzioni penali, l'avverbio «sino». 
    L'esito della  dichiarata  incostituzionalita'  e'  stato  quello
della trasformazione della pena accessoria  da  «fissa»  in  pena  di
durata. 
    Peraltro, il Giudice delle leggi non si' e' limitato a censurare,
dal punto dl vista costituzionale, le pene accessorie «fisse», ma  si
e' spinto oltre sino a indicare che la loro durata  sia  determinata,
discrezionalmente  dal  giudice   per   rendere   davvero   effettiva
l'individualizzazione  della  sanzione  accessoria,  che   altrimenti
sarebbe raggiunta solo a meta'. 
    La Corte costituzionale, in particolare, ha  espresso  una  netta
opzione  di  sfavore  per  l'automatismo  punitivo  sotto   l'aspetto
dosimetrico riferito  alle  pene  accessorie  attraverso  il  ricorso
all'art. 37 cod. pen., osservando che  esso  opera  solo  al  livello
della  legislazione  ordinaria  e,  avendo  una   valenza   meramente
residuale, solo nel caso in cui il legislatore non abbia diversamente
statuito; infine, ha rilevato come la scelta di  ancorare  la  durata
concreta  delle  pene  accessorie  a  quella  della  pena  principale
inflitta «finirebbe per sostituire  l'originario  automatismo  legale
con   un   diverso   automatismo».   La   conclusione   della   Corte
costituzionale di affidare la determinazione della durata della  pena
accessoria alla discrezionalita' del giudice e'  diretta  conseguenza
dell'esigenza,    costituzionalmente    imposta,    della    doverosa
individualizzazione di ogni tipo di sanzione,  esigenza  che  non  si
arresta alla denuncia dell'incostituzionalita' della pena  accessoria
della inabilitazione  all'esercizio  di  una  impresa  commerciale  e
dell'incapacita'  di  esercitare  uffici  direttivi,  ma,  una  volta
corretto  il  dettato  legislativo  con  l'inserimento  dell'avverbio
«sino» che precede il riferimento «a dieci anni»,  si  spinge  oltre,
coinvolgendo anche i criteri di quantificazione di  queste  pene  per
rendere davvero effettiva l'individualizzazione. 
    6. Lungo questa linea si sono poste le Sezioni  unite  di  questa
Corte con la sentenza Suraci, che, richiamandosi alla interpretazione
data all'art. 216, ult. comma, regio decreto n. 267 del 16 marzo 1942
dalla sentenza della  Corte  costituzionale,  hanno  escluso  che  la
durata  della  pena  accessoria  possa  essere  determinata  in  base
all'art. 37 cod. pen. e ne hanno generalizzata la portata  affermando
un convinto principio di diritto nel senso che le pene accessorie per
le quali la legge indica un  termine  di  durata  non  fisso,  devono
essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di  cui
all'art. 133 del  codice  penale.  La  sentenza  in  esame  ha  cosi'
superato, in maniera decisa e argomentata, il  principio  di  diritto
fissato proprio dalle stesse Sezioni unite su un analogo  caso,  solo
quattro anni prima, (Sez. U, n. 6240 del 27 novembre 2014, dep. 2015,
B., Rv. 262328). 
    7. Al di la' della specificita' dell'esame  della  norma  oggetto
dell'incidente  di  costituzionalita'  sono  di  rilievo,   ai   fini
dell'esame della questione proposta, i principi che  la  sentenza  n.
222 del 2018 ha ricostruito. 
    Non  e',  infatti,  la  durata  della  pena  accessoria  maggiore
rispetto a quella della  pena  detentiva  concretamente  inflitta  ad
essere di  per  se'  incostituzionale;  ne'  e'  incostituzionale  la
previsione di sanzioni interdittive la cui durata  sia  stabilita  in
modo indipendente da quella della pena detentiva  (in  ragione  della
diversa finalita' delle due tipologie di sanzione, oltre che del loro
grado  di  afflittivita'  rispetto  ai  diritti  fondamentali   della
persona). 
    Con riguardo al primo aspetto, tale opzione e' di per se'  immune
da censure sotto il  profilo  della  legittimita'  costituzionale  in
ragione della  prospettiva  che  assegna  alle  pene  accessorie  una
funzione marcatamente orientata alla prevenzione speciale negativa ed
imperniata sulla interdizione del condannato da quelle attivita'  che
gli hanno fornito l'occasione per commettere gravi reati. 
    Essenziale a garantire la compatibilita' delle pene accessorie di
natura interdittiva con il volto costituzionale della sanzione penale
e', infatti, che esse non risultino manifestamente sproporzionate per
eccesso rispetto al concreto disvalore del fatto di reato,  tanto  da
vanificare lo stesso obiettivo di  «rieducazione  del  reo»,  imposto
dall'art. 27, terzo comma, Cost. 
    Dalla  giurisprudenza  della  Corte  costituzionale   emerge   il
principio  secondo  cui  e'  proprio  la  durata  fissa  delle   pene
accessorie a non apparire compatibile con i  principi  costituzionali
in  materia  di   pena   e,   segnatamente,   con   i   principi   di
proporzionalita' e  necessaria  individualizzazione  del  trattamento
sanzionatorio,  principi   che   rilevano   sia   sul   piano   della
determinazione del trattamento, sia al  momento  della  condanna,  in
sede  di  applicazione  del  trattamento  punitivo,  che  il  giudice
individua  tenendo  conto  in  particolare  della  vasta   gamma   di
circostanze indicate negli articoli 133 e 133-bis del codice penale. 
    Sotto il primo aspetto la Corte ha, tuttavia, precisato che  tale
discrezionalita'  incontra  il   proprio   limite   nella   manifesta
irragionevolezza delle scelte legislative, limite che -  in  subiecta
materia  -  e'  superato  allorche'  le   pene   comminate   appaiano
manifestamente  sproporzionate  rispetto  alla  gravita'  del   fatto
previsto quale reato. In tal caso, si profila infatti una  violazione
congiunta degli articoli 3 e 27 della Costituzione, giacche' una pena
non proporzionata alla gravita' del fatto (e non percepita come  tale
dal  condannato)  si  risolve  in  un  ostacolo  alla  sua   funzione
rieducativa (ex multis, sentenze n. 236 del 2016, n. 68 del 2012 e n.
341 del 1994). 
    Soprattutto, in presenza di una pena accessoria di durata  fissa,
la Corte e' tornata sui principi enunciati nella sentenza n.  50  del
1980 ed ha con chiarezza affermato: «se la "regola" e'  rappresentata
dalla "discrezionalita'", ogni fattispecie sanzionata con pena  fissa
(qualunque ne  sia  la  specie)  e'  per  cio'  solo  "indiziata"  di
illegittimita'; e tale indizio potra'  essere  smentito  soltanto  in
seguito a un controllo strutturale della  fattispecie  di  reato  che
viene in considerazione, attraverso la puntuale dimostrazione che  la
peculiare  struttura  della  fattispecie  la  renda   "proporzionata"
all'intera gamma dei comportamenti tipizzati». 
    8. E' alla luce di tali principi che,  ad  avviso  del  Collegio,
deve essere vagliata la non manifesta infondatezza della questione di
legittimita' costituzionale dell'art. 317-bis cod. pen. che  commina,
in relazione ad  alcune  fattispecie  di  reati  contro  la  pubblica
amministrazione, per cui sia  stata  inflitta  in  concreto  la  pena
eguale  o  superiore  ad  anni  tre   di   reclusione,   l'automatica
interdizione in perpetuo dai pubblici uffici, previsione «anelastica»
ovvero «rigida», che non consente  di  calibrare  la  sanzione  sulla
gravita' della violazione commessa. 
    Nel caso di specie il reato di corruzione previsto dall'art.  319
del codice penale ricomprende e sanziona in  modo  uniforme,  con  la
pena da sei a dieci anni di reclusione, condotte  che  possono  avere
gravita' oggettivamente diversa per il differente  grado  di  lesione
del bene giuridico tutelato:  cosi',  ad  esempio,  il  caso  in  cui
l'agente abbia ricevuta la somma per avere compiuto un atto contrario
ai doveri di ufficio presenta una diversa e  piu'  spiccata  gravita'
rispetto  all'ipotesi  in  cui  si  sia  in   presenza   della   sola
accettazione di una promessa di futura dazione come corrispettivo per
ritardare il compimento di un atto dovuto, ritardo non prodottosi per
la subitanea emersione dell'accordo illecito o anche per resipiscenza
del pubblico ufficiale.  Ebbene,  in  quest'ultima  ipotesi  la  pena
principale rimane,  comunque,  ben  al  di  sopra  dei  tre  anni  di
reclusione  e,  conseguentemente,  e'  identica  la  pena  accessoria
perpetua della interdizione dai pubblici uffici da applicare in esito
alla condanna, nonostante si tratti di una condotta connotata  da  un
minor disvalore rispetto a quella in cui l'agente abbia  ricevuto  la
somma di denaro ed abbia  compiuto  l'atto  contrario  ai  doveri  di
ufficio. 
    Ne'  a  diverso  risultato  si  perverrebbe   per   effetto   del
riconoscimento  delle  circostanze  attenuanti  generiche,  che  pure
consentono di adeguare la pena al concreto disvalore del  fatto,  non
essendo matematicamente possibile scendere, anche in tale  evenienza,
al disotto dei tre anni di reclusione. 
    Va, altresi', evidenziato che il catalogo dei reati ai  quali  e'
collegata l'interdizione in perpetuo  dai  pubblici  uffici  prevista
dall'art.  317-bis  del  codice   penale   non   e'   inteso,   nella
giurisprudenza di legittimita', in chiave tassativa tanto e' vero che
la pena accessoria perpetua e' stata ritenuta applicabile anche  alle
fattispecie tentate di  peculato  e  concussione  per  le  quali,  si
osserva,  ricorrono  inalterate  le  esigenze  alla  cui  tutela   e'
finalizzata la previsione sanzionatoria  (Sez.  6,  n.  9204  del  17
gennaio 2005, Mancini, Rv. 230765). L'applicazione di tale  principio
al  delitto  di  tentata  corruzione  comporta  che  la  pena   della
interdizione in perpetuo dai pubblici uffici scatta  in  presenza  di
una condanna uguale a quella di anni tre reclusione. Anche in  questo
caso, la riduzione della pene in  misura  di  un  terzo,  sulla  pena
minima del delitto di  corruzione  tentata,  comporta  l'applicazione
automatica della pena accessoria poiche' non e' possibile scendere al
di sotto dei tre anni  di  reclusione,  quale  che  sia  la  gravita'
concreta delle condotte costitutive del reato. 
    8.1. Nella fattispecie in esame non hanno trovato applicazione le
circostanze, di cui all'art. 323-bis del codice penale  che,  secondo
la  previsione  contenuta  nell'art.  317-bis  codice  penale,   come
modificato dalla  legge  n.  3  del  2019,  possono  avere  incidenza
sull'applicazione  della  pena  accessoria  della   interdizione   in
perpetuo. 
    L'applicazione  della  circostanza  attenuante   del   fatto   di
particolare tenuita' richiede, secondo la univoca  giurisprudenza  di
questa corte, che il reato, valutato nella sua  globalita',  presenti
una gravita' contenuta, dovendosi a tal fine considerare non soltanto
l'entita' del  danno  economico  o  del  lucro  conseguito,  ma  ogni
caratteristica   della   condotta,   dell'atteggiamento    soggettivo
dell'agente e dell'evento da questi determinato (Sez. 6, n. 8295  del
9 novembre 2018, dep. 2019, Santimone, Rv. 275091). 
    Nella specie, la disponibilita' mostrata dall'imputato  a  favore
di un noto imprenditore locale e delle sue  societa',  attraverso  la
collaborazione della titolare di uno studio di consulenza  contabile,
ancorche'  non  connotate  da  particolare   gravita',   non   appare
compatibile con il giudizio di particolare tenuita'. 
    Sempre con riguardo alle concrete modalita'  di  commissione  del
reato e di emersione dell'illecito, non sono stati acquisiti positivi
elementi neppure per  ritenere  applicabile  le  circostanze  di  cui
all'art. 323-bis, secondo comma, codice penale  ovvero  una  condotta
collaborativa dell'imputato  volta  ad  evitare  ulteriori  attivita'
criminose, ad  assicurare  la  prova  di  altri  reati  o  di  altrui
responsabilita' e il sequestro delle somme  conseguite  a  titolo  di
profitto del reato. 
    A ben riflettere, a meno dell'attenuante del fatto di particolare
tenuita',    peraltro    di    complessa    e    rara    applicazione
giurisprudenziale, le descritte  circostanze  attenuanti  sono  tutte
costruite sull'attivita' post delictum del reo e, pertanto,  estranee
al giudizio di gravita' del reato sul quale e'  strutturata  la  pena
edittale e, quindi, la soglia della pena di anni tre di reclusione  a
partire dalla quale scatta la pena interdittiva in perpetuo. 
    Nel  caso  in  esame  all'imputato  e  stata  applicata  in   via
automatica la pena della interdizione in perpetuo dai pubblici uffici
in presenza di un fatto che non  si  attesta  tra  le  condotte  piu'
gravi, pur non essendo apprezzabile come di particolare tenuita',  in
relazione alle specifiche e concrete modalita'  della  condotta  che,
come ben evidenziato nella sentenza, vedevano  i  privati  agire,  in
vista del conseguimento dei loro interessi illeciti, su un  piano  di
assoluta parita' con il pubblico ufficiale e dietro  l'accorta  regia
della titolare di un accorsato studio di consulenza.  Anche  la  pena
finale, individuata quella base in  misura  non  coincidente  con  il
minimo edittale, e' stata  poi  ridotta  in  seguito  all'intervenuto
risarcimento del danno (nell'importo di cinquantamila euro, a  fronte
di una tangente confessata di ventimila euro) e alla scelta del rito,
non attestandosi quindi in una pena detentiva eccessivamente elevata. 
    La necessita' di sanzionare  in  modo  particolarmente  severo  i
pubblici ufficiali resisi responsabili di infedelta', anche  mediante
la  comminazione  per  le  condanne  non  inferiori  a  tre  anni  di
reclusione, di una pena accessoria  piu'  severa  rispetto  a  quella
prevista dalle  regole  generali  -  che  prevedono  la  interdizione
perpetua per la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a
cinque anni e  l'interdizione  temporanea,  per  la  durata  di  anni
cinque, in presenza di una condanna alla reclusione per un tempo  non
inferiore a tre anni (art. 29 cod.  pen.)  -  avrebbe  dovuto  essere
soddisfatta  nel  rispetto  dei  principi   di   proporzionalita'   e
individualizzazione  del   trattamento   sanzionatorio.   Invece   la
interdizione in  perpetuo  dal  pubblici  uffici  trova  applicazione
indifferenziata  per   tutte   le   fattispecie   concrete,   sebbene
caratterizzate da una gravita' marcatamente differenziata. 
    Si e'  in  presenza  di  una  rigidita'  applicativa  della  pena
accessoria perpetua, frutto della struttura  della  fattispecie,  che
non  puo'  che   generare   risposte   sanzionatorie   manifestamente
sproporzionate   per   eccesso   rispetto   all'intera   gamma    dei
comportamenti tipizzati, e, dunque, in contrasto con gli articoli 3 e
27 della Costituzione, rispetto a fatti meno gravi e in distonia  con
il principio di individualizzazione del trattamento sanzionatorio. 
    9. La rigidita' dell'apparato sanzionatorio e la sua indifferenza
ai connotati strutturali del  trattamento  punitivo  delineati  nella
Costituzione  e'  amplificata  dalla  natura  perpetua   della   pena
accessoria prevista dall'art. 317-bis codice penale, che ne  rafforza
il contrasto con la finalita' rieducativa. 
    La pena accessoria della interdizione in  perpetuo  dai  pubblici
uffici comminata in relazione  alle  fattispecie  previste  dall'art.
317-bis  del  codice  penale  va  certamente  valutata  in   rapporto
all'allarme generato dagli illeciti commessi nell'ambito delle  sfere
funzionali, in quanto lesivi  di  beni  di  rilievo  collettivo  e  a
contenuto anche economico. E, proprio con la riforma  introdotta  con
la legge n.  3  del  9  gennaio  2019,  il  legislatore  storico,  ha
giustificato  l'inasprimento   complessivo   del   sistema   punitivo
evidenziando l'intrinseco disvalore delle condotte, che  minano  alla
base  i  requisiti  di  integrita'  e  affidabilita'  necessari   per
l'assunzione dei pubblici uffici, a tutela del buon andamento  e  del
prestigio di quest'ultima, unitamente ad esigenze special-preventive.
Prospettiva, questa, di cui la Corte costituzionale ha confermato  la
costituzionalita' in forza della funzione, distinta da  quella  della
pena detentiva, e marcatamente orientata  alla  prevenzione  speciale
negativa, imperniata sulla  interdizione  del  condannato  da  quelle
attivita' che gli hanno  fornito  l'occasione  per  commettere  gravi
reati. 
    La  valorizzazione  del  ruolo   delle   sanzioni   a   contenuto
interdittivo, in rapporto agli illeciti commessi nell'ambito di sfere
funzionali, in quanto lesivi  di  beni  di  rilievo  collettivo  e  a
contenuto anche economico, in un  sistema  governato  dalle  garanzie
sostanziali  imposte  dalla  Carta  fondamentale,  non  puo'   essere
concepita  in  rapporto  esclusivamente  all'autore   ed   alla   sua
pericolosita',  strettamente  intesa,  o  semmai  alla  capacita'   a
delinquere, ma deve, comunque, essere concepita in relazione al fatto
commesso e, quindi, alla sua gravita' e non puo' sottrarsi, in quanto
pena,  alla  necessita'  di   individualizzazione   del   trattamento
sanzionatorio ed all'adeguamento  delle  risposte  punitive  ai  casi
concreti che, come precisato dalla sentenza n. 50 del 1980,  realizza
plurime finalita' contribuendo, da un lato,  a  rendere  quanto  piu'
possibile personale la responsabilita' penale e nello stesso tempo e'
strumento per la determinazione  della  pena  quanto  piu'  possibile
finalizzata alla rieducazione del condannato. 
    10.  Non  va  trascurato  che  le  pene  accessorie,   e   quella
interdittiva in esame, incidono in senso fortemente limitativo su una
vasta gamma di  diritti  fondamentali  del  condannato,  tra  cui  la
perdita della capacita' elettorale e il diritto elettorale, attivo  e
passivo, compromettendone in settori amplissimi la  sfera  giuridica,
riducendo drasticamente la sua possibilita' di  esercitare  attivita'
lavorative in una prospettiva perpetua, con decorrenza dall'integrale
esecuzione della pena detentiva, la quale potrebbe avere luogo  molti
anni dopo la commissione del fatto di reato. 
    E', dunque, sul terreno della compatibilita' con la  funzione  di
rieducazione del condannato che la misura dell'interdizione  perpetua
rivela l'altro suo aspetto di frizione con il sistema costituzionale,
e con i descritti principi di proporzionalita' e individualizzazione,
tanto piu' ove si rifletta che essa incide sulla capacita'  giuridica
generale   dell'individuo,   contraddicendo   quelle   ragioni    (la
flessibilita' e precisione,  ovvero  la  specificita'  della  misura,
ritagliata sull'attivita' alla quale  si  riferisce  l'illecito)  che
giustificano, in chiave di  prevenzione  speciale,  il  ricorso  alla
misura interdittiva. 
    Flessibilita', precisione e, dunque, specificita',  che,  invece,
orientano la previsione delle sanzioni interdittive, nella disciplina
recata dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231  in  materia  di
responsabilita' delle persone giuridiche. Si tratta  di  un  contesto
certamente diverso da quello in esame, ma nel quale rileva la  scelta
di fondo della misura interdittiva come strumento di  prevenzione  in
relazione a forme di criminalita' determinata da  moventi  economici,
comune anche al reato commesso da persone  fisiche.  Cio'  che  balza
evidente nell'esame del sistema positivo della interdizione perpetua,
regolata dall'art. 317-bis del codice penale, e' la natura automatica
fissa del meccanismo in contrasto con i principi di  proporzionalita'
e  individualizzazione,  della  pena.  Si  tratta  di   un   congegno
sanzionatorio in cui convivono aspetti e  funzioni  diverse  che  non
sono ben armonizzati tra loro e sul quale, a ben  vedere,  pesano  il
marchio infamante connesso alla natura stessa della interdizione come
espulsione del cittadino dalla fruizione  dei  diritti  politici,  il
connotato di  effetto  penale  della  condanna,  che  ne  delinea  la
struttura nel sistema del codice penale, nonche' l'ampliamento  della
funzione di  prevenzione  che,  invece,  nel  corso  degli  anni,  il
legislatore positivo e' venuto assegnando all'istituto  di  una  pena
accessoria, come quella perpetua, di per se' fissa che  non  consente
di calibrarne l'applicazione sulla gravita' della violazione commessa
e sul giudizio di pericolosita' in concreto della persona condannata,
essendo meccanicamente collegata ad una pena, quella di anni  tre  di
reclusione, non espressiva di un giudizio di particolare gravita' del
fatto. 
    11. I descritti  connotati  della  pena  accessoria  interdittiva
prevista dall'art. 317-bis del codice penale restituiscono l'immagine
di una norma sanzionatoria priva  dei  requisiti,  costituzionalmente
obbligati, di proporzionalita' e ragionevolezza. 
    Il Giudice delle leggi, valorizzando  accanto  all'art.  3  della
Costituzione, il parametro rappresentato dall'art. 27,  terzo  comma,
della Costituzione ha esteso in numerose pronunce  (a  partire  dalle
sentenze n. 343 del 1993, n. 422 del 1993  e  n.  341  del  1994)  il
proprio sindacato anche a  ipotesi  in  cui  la  pena  comminata  dal
legislatore  appaia  manifestamente  sproporzionata  non   tanto   in
rapporto alle  pene  previste  per  altre  figure  di  reato,  quanto
piuttosto in rapporto - direttamente - alla gravita'  delle  condotte
abbracciate dalla fattispecie astratta, senza che sia piu' necessaria
l'evocazione di alcuno specifico tertium comparationis da  parte  del
rimettente,  se  non  al  limitato  fine  di   assistere   la   Corte
nell'individuazione   del   trattamento   sanzionatorio   che   possa
sostituirsi,  in  attesa  di  un  sempre  possibile  intervento   del
legislatore, a quello dichiarato incostituzionale (in  questo  senso,
in particolare, sentenze n. 40 del 2019, n. 222 del 2018 e n. 236 del
2016). Cio'  nella  consapevolezza  che  pene  eccessivamente  severe
tendono a essere percepite come ingiuste dal condannato  e  finiscono
cosi' per risolversi in un ostacolo alla sua  rieducazione  (sentenza
n. 68 del 2012). Nella stessa ottica, d'altra parte,  possono  essere
lette le numerose pronunce che  hanno  inciso  sull'art.  69,  ultimo
comma,  del  codice  penale,  in  ragione  dell'esigenza  di  evitare
l'irrogazione in concreto di  pene  sproporzionate  per  eccesso  per
effetto del divieto di prevalenza di  talune  circostanze  attenuanti
sulle aggravanti indicate in quella disposizione (sentenze n. 205 del
2017, n. 106 e n. 105 del 2014 e n. 251 del 2012). 
    I precedenti del Giudice delle leggi individuano, come  e'  noto,
una serie di soluzioni alla incostituzionalita' di una norma, tra cui
quello dell'ablazione radicale della norma sospetta o meccanismi piu'
sofisticati, che passano attraverso l'ablazione parziale della  norma
e  la  sua  trasformazione  (sentenza  n.  233   del   2018)   ovvero
l'individuazione di qualsiasi altra  norma  vigente  nell'ordinamento
che offra «una  diversa  soluzione,  in  grado  di  sostituirsi  alla
disposizione  (...)  censurata  e  di  inserirsi  al   tempo   stesso
armonicamente all'interno della logica gia' seguita dal  legislatore,
al netto del vizio dl costituzionalita' (sentenza n. 222  del  2018)»
e,  tanto,  ai  fine  di  restituire  al  giudice,  tenuto  a   farne
applicazione al caso concreto, un meccanismo sanzionatorio  che,  nel
rispetto del principio di proporzionalita' e ragionevolezza, consenta
di determinare discrezionalmente  la  durata  della  pena  accessoria
realizzandone la funzione sanzionatoria e preventiva. 
    Il  Collegio  rimettente  e'  consapevole  della  difficolta'  di
intervenire sulla norma censurata che, rispetto ad altre  fattispecie
analoghe  dichiarate   incostituzionali,   costituisce   un   unicum,
trattandosi di una pena accessoria perpetua e come  tale  strutturata
nel sistema punitiva. Ma proprio  tale  connotato  ed  il  gigantismo
della funzione preventiva, richiedono un intervento inteso a renderne
proporzionata e ragionevole l'applicazione. 
    11.1.  L'ablazione  della  norma   dal   sistema   sanzionatorio,
tuttavia,  non  lascerebbe  scoperta  l'attuazione   della   funzione
sanzionatoria   e   special-preventiva   realizzata   attraverso   la
previsione dell'art.  317-bis  del  codice  penale,  potendo  trovare
applicazione, in caso di condanna per il reato di  cui  all'art.  319
del codice penale, le  disposizioni  generali,  in  materia  di  pene
accessorie, degli articoli 29 e 31 del codice penale. 
    Le Sezioni unite di questa Corte (Sez. U, n. 12228 del 24 ottobre
2013,  Maldera,  Rv.  25847),  esaminando  la  fattispecie  di  reato
introdotta dall'art. 319-quater del codice  penale  -  all'epoca  non
prevista tra i reati ai quali  era  applicabile  l'art.  317-bis  del
codice penale - hanno affermato che, in caso  di  condanna  per  tale
reato, trattandosi di reato comunque commesso con  abuso  di  poteri,
ossia con l'abuso della posizione che al funzionario pubblico  deriva
dall'essere  titolare  del  corrispondente  potere,   doveva   essere
applicata la pena accessoria della interdizione dai  pubblici  uffici
modulata in base alle norme generali di cui agli articoli 29,  31  (e
37) codice penale. 
    Secondo, le regole  generali  la  interdizione  in  perpetuo  dai
pubblici uffici troverebbe applicazione per il  pubblico  funzionario
corrotto nelle ipotesi  in  cui  sia  stata  inflitta  una  pena  non
inferiore a cinque anni di reclusione ovvero,  in  caso  di  condanna
alla  reclusione  per  un  tempo  non  inferiore  a  tre   anni,   la
interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque. 
    All'imputato, dunque, nel  caso  in  esame,  sarebbe  applicabile
l'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni  cinque,  ai
sensi dell'art. 29 del codice penale. 
    In  alternativa,  per  il  pubblico  ufficiale,  in  presenza  di
condanna  per  delitti  commessi  con  abuso  dei  poteri  o  con  la
violazione dei doveri inerenti ad  una  pubblica  funzione  o  ad  un
pubblico servizio, puo' trovare  applicazione,  a  prescindere  dalla
entita' della condanna, l'interdizione temporanea dai pubblici uffici
ex art. 31 del codice penale, che non ha una durata predeterminata ex
lege e che,  tenuto  conto  dei  principi  affermati  dalla  sentenza
Suraci, innanzi richiamata, non sarebbe commisurata  a  quella  della
pena principale inflitta, ma determinata in concreto dal  giudice  in
base ai criteri segnati dalla legge agli articoli 132, 133, e 133-bis
del  codice  penale  e,  dunque,  nell'esercizio   dei   criteri   di
discrezionalita'  che  concorrono  all'attuazione  dei  principi   di
proporzionalita' ed individualizzazione del trattamento sanzionatorio
calibrato sul singolo condannato. 
    Nella specie, l'eventuale abrogazione dell'interdizione  perpetua
prevista dalla prima parte del  primo  comma  dell'art.  317-bis  del
codice penale comporterebbe che in presenza del reato  di  corruzione
commesso in violazione dei doveri di ufficio, con una  pena  di  anni
quattro  e  mesi  quattro  di  reclusione,  come   quella   applicata
sull'accordo delle parti all'odierno ricorrente, il giudice  potrebbe
applicare la pena della interdizione temporanea dai pubblici  uffici,
in una misura che, entro  il  limite  legale  di  durata  della  pena
accessoria temporanea di cui  all'art.  28  del  codice  penale,  non
sarebbe  automatica  e  rigida,  ma  determinata  secondo  i   poteri
discrezionali del giudice, sulla scorta dei principi enunciati  dalla
richiamata sentenza delle Sezioni unite Suraci. 
 
                               P.Q.M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente  infondata  in  relazione
agli articoli 3 e 27 della Costituzione la  questione  relativa  alla
conformita' a Costituzione dell'art. 317-bis del codice penale, nella
versione precedente alle modifiche introdotte con la legge 9  gennaio
2019, n. 3, nella parte  in  cui  prevede  l'automatica  applicazione
dell'interdizione  in  perpetuo  dai  pubblici  uffici  in  caso   di
condanna, per il reato di cui all'art. 319 del codice penale, ad  una
pena uguale o superiore a tre anni di reclusione; 
    Sospende  il  giudizio  in  corso  sino  all'esito  del  giudizio
incidentale di legittimita' costituzionale; 
    Dispone  che,  a  cura  della   cancelleria,   gli   atti   siano
immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale e che la  presente
ordinanza sia notificata alle parti in causa e al pubblico  ministero
nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e che sia comunicata
ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
        Cosi' deciso l'8 aprile 2020 
 
                       Il Presidente: Fidelbo 
 
 
                                    Il consigliere relatore: Giordano