N. 41 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 gennaio 2021

Ordinanza del 19 gennaio 2021 del G.U.P. del Tribunale di Rimini  nel
procedimento penale a carico di B. A.. 
 
Processo penale - Giudizio abbreviato - Imputato  infermo  di  mente,
  riconosciuto incapace di intendere  e  di  volere  al  momento  del
  fatto, con perizia accertata in  sede  di  incidente  probatorio  -
  Mancata previsione della possibilita' di chiedere  di  definire  il
  processo con giudizio abbreviato nel caso  di  reato  astrattamente
  punibile con la pena dell'ergastolo. 
- Codice di procedura penale, art. 438, comma 1-bis, introdotto dalla
  legge  12  aprile  2019,  n.  33  (Inapplicabilita'  del   giudizio
  abbreviato ai delitti puniti con la pena dell'ergastolo). 
(GU n.15 del 14-4-2021 )
 
                         TRIBUNALE DI RIMINI 
                           Sezione penale 
 
 
            Ufficio del Giudice dell'udienza preliminare 
              questione di legittimita' costituzionale 
 
    Con richiesta di rinvio a giudizio depositata in data 5  novembre
2020 il Pubblico Ministero chiedeva il rinvio a giudizio di B. A.  in
relazione al reato di cui agli articoli 575 e 577 n. 1) c.p., poiche'
cagionava la morte della nonna materna S. R. ,  afferrandola  per  le
braccia  e  colpendola  con  pugni  alla   testa,   cosi'   facendola
precipitare al suolo, dove continuava a colpirla al capo ed in  varie
parti del corpo con pugni, calci ed anche con un  corpo  contundente,
provocandole svariate lesioni ed un grave trauma cranio  -  facciale;
quando la vittima giaceva al suolo  ormai  in  stato  di  agonia,  si
portava  con  il  suo  corpo  sopra  di   lei,   immobilizzandola   e
stringendole il collo con le mani, soffocandola. 
    All'udienza del 22  dicembre  2020  il  difensore  e  procuratore
speciale dell'imputato (vedi procura  speciale  in  atti,  aff.  492)
chiedeva in via principale l'emissione di sentenza  di  non  luogo  a
procedere, in subordine insisteva nella richiesta di rito  abbreviato
avanzata con l'istanza depositata il 18 dicembre 2020, ritenendo che,
nel caso in esame, detta richiesta fosse  valutabile,  nonostante  il
disposto dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., a norma del  quale  «non
e' ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti  con  la  pena
dell'ergastolo», trattandosi di imputato gia' riconosciuto totalmente
incapace di intendere e di volere al momento  della  commissione  del
fatto, socialmente pericoloso e in grado di partecipare al  processo,
«in quanto consapevole del reato commesso, del giudizio che  si  pone
in essere nei suoi confronti, e puo', pur nella dimensione patologica
che lo connota, argomentare una propria difesa» (cosi' la perizia  in
atti, pag. 39, aff. 537). 
    Il Pubblico Ministero si opponeva alla richiesta avanzata in  via
principale  dal  difensore,  e  quanto  alla  richiesta  di  giudizio
abbreviato, depositava una memoria nella quale invitava il giudicante
a sollevare questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  438,
comma 1-bis, c.p.p., inserito dalla legge 12 aprile 2019, n. 33,  per
violazione degli articoli 2, 3, 27 Cost.,  anche  in  relazione  agli
articoli 32 e 111 Cost. 
    In particolare il rappresentante della Pubblica  Accusa  ritiene,
con riferimento agli articoli 2 e 3  Cost.,  che  la  preclusione  in
esame comporti un  irragionevole  parificazione  di  trattamento  tra
situazioni   disomogenee,   con   effetti   dannosi   e,    pertanto,
discriminatori, rispetto al soggetto non imputabile  perche'  affetto
da malattia mentale insanabile. 
    La detta preclusione, con conseguente obbligo di celebrazione  di
un pubblico processo per i reati puniti con  la  pena  dell'ergastolo
nei confronti di un soggetto, reo confesso, completamente incapace di
intendere e di volere, periziato  in  sede  di  indagini  preliminari
nelle forme dell'incidente probatorio, non  risponderebbe  a  nessuna
delle ragioni che, secondo la recente  pronuncia  della  Consulta  n.
260/2020, la giustificano  nei  confronti  dei  processi  relativi  a
soggetti imputabili. 
    Nessuno sconto di pena deriva dall'accesso al rito abbreviato per
l'imputato non imputabile, ne' vi e' ragionevolmente alcun interesse,
da parte delle vittime, alla celebrazione di un pubblico processo nei
confronti di una persona che non era capace  di  autodeterminarsi  al
momento dei  fatti  (ne'  lo  e' tuttora),  secondo  un  accertamento
peritale svolto nelle forme  dell'incidente  probatorio  in  sede  di
indagini preliminari, e quindi in una  fase  anticipata  rispetto  al
dibattimento in cui la  disposta  perizia  varrebbe,  comunque,  come
prova. 
    C'e' anzi - prosegue il Pubblico Ministero - un opposto interesse
delle vittime a non riprodurre in dibattimento il  ricordo  di  fatti
assai dolorosi, con conseguente ulteriore loro vittimizzazione, anche
perche'  l'incapacita'  totale  dell'imputato  gli   impedirebbe   di
cogliere qualunque disvalore penale dell'azione commessa,  nonostante
il pubblico processo. 
    In relazione agli articoli 27 e 32 Cost.  il  Pubblico  Ministero
rileva che l'obbligatoria celebrazione del processo nei confronti  di
soggetto non imputabile, per totale vizio di mente, si tradurrebbe in
un comportamento contrario alla dignita'  umana.  L'imputato  infatti
esso  stesso   vittima   della   sua   malattia,   avendo   soppresso
immotivatamente la propria nonna, ovvero colei che si  prendeva  cura
quotidianamente di lui, e non vi sono  sanzioni  penali  che  possano
essergli applicate; detta malattia, che lo rende  pericoloso,  impone
che, con celerita',  venga  decisa  l'applicazione  della  misura  di
sicurezza idonea, che potra'  consentirgli  di  continuare  a  vivere
dignitosamente. 
    A fronte,  allora,  di  una  situazione  come  quella  descritta,
dovrebbe  considerarsi  sproporzionata,  rispetto  alle  esigenze  di
tutela  della  dignita'  e  della  riservatezza   dell'imputato   una
disciplina  come  quella  in  esame,  che  impone  in  ogni  caso  la
celebrazione del processo  pubblico,  anche  laddove  l'imputato  sia
soggetto non imputabile, disposto a rinunciare a tale garanzia. 
    In riferimento agli articoli 111, primo e secondo comma Cost., il
Pubblico Ministero ritiene che l'onere di procedere in ogni caso  con
il rito ordinario innanzi alla Corte d'Assise per i reati puniti  con
l'ergastolo provocherebbe una dilatazione dei tempi  processuali  non
necessaria,  e  anzi  particolarmente  gravosa,  per   soggetti   non
imputabili  che  spesso  si  trovano,  come  nel  caso   di   specie,
assoggettati all'applicazione provvisoria di una misura di sicurezza. 
    Riallacciandosi  alla  motivazione  adottata  nella  sentenza  n.
260/2020, con la  quale  la  Consulta  ha  ritenuto  non  fondata  la
Questione di  legittimita'  costituzionale  della  stessa  norma,  in
relazione a casi non assimilabili a quelli per  cui  si  procede,  il
Pubblico Ministero evidenzia  che  la  violazione  della  ragionevole
durata del processo deve  essere  ravvisata  allorche'  l'effetto  di
dilatazione  dei  tempi  processuali  determinato  da  una  specifica
disciplina non sia sorretto da alcuna logica esigenza  e  si  riveli,
invece, privo di qualsiasi legittima ratio  giustificativa  (cfr.  ex
plurimis sentenze n. 12 del 2016, n. 159 del 2014, n. 63 e n. 56  del
2009). 
    Per il soggetto la cui non imputabilita' e' stata gia'  accertata
nella fase delle  indagini  preliminari,  con  perizia  formatasi  in
incidente probatorio, nessuna delle ragioni che rendono opportuna, in
generale, la celebrazione di processi pubblici, innanzi alle corti di
assise,  per  i  reati  puniti  con  la   pena   dell'ergastolo,   e'
ravvisabile. 
    Pertanto, conclude il Pubblico Ministero, si deve ritenere che la
dilatazione dei tempi medi di risoluzione  dei  processi  relativi  a
questi reati, se commessi da non imputabili,  determinerebbe  di  per
se'  un  risultato  di  «irragionevole»  durata  di  tali   processi,
all'esito dei quali non potra' essere inflitta una pena,  bensi'  una
misura di  sicurezza,  alla  cui  celere  definizione  l'imputato  ha
diritto per poter tornare a vivere dignitosamente, non potendo essere
ristretto  in   carcere,   ne'   fare   rientro   liberamente   nella
collettivita', se (come nel caso di specie) pericoloso. 
    Ebbene, come e' noto, nella sua versione originaria, l'art.  442,
comma 2,  codice  di  procedura  penale  prevedeva  espressamente  la
sostituzione  della  pena  dell'ergastolo,  all'esito  del   giudizio
abbreviato, con quella della reclusione di anni trenta;  dando  cosi'
per presupposta l'ammissibilita' del rito anche per  i  reati  puniti
con tale pena. 
    Con  la  sentenza  n.  176   del   1991,   tuttavia,   la   Corte
costituzionale dichiaro' illegittimo l'art. 442, comma 2,  codice  di
procedura penale , nella parte in  cui  prevedeva  che  «[a]lla  pena
dell'ergastolo e' sostituita quella della reclusione di anni  trenta»
per violazione dell'art. 76 Cost., dal momento che  la  legge  delega
prevedeva unicamente, per il giudizio abbreviato, il  criterio  della
diminuzione di un terzo della pena,  evidentemente  inapplicabile  ai
reati puniti con l'ergastolo. Il venir  meno  di  tale  disposizione,
dichiarata incostituzionale, non  pote'  che  determinare  -  secondo
quanto espressamente affermato dalla  sentenza  n.  176  del  1991  -
l'inapplicabilita' del giudizio abbreviato ai  «processi  concernenti
delitti punibili con l'ergastolo». 
    Risolvendo  le  incertezze  interpretative  emerse  nella  prassi
all'indomani di tale pronuncia,  le  sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione affermarono che l'inammissibilita' del giudizio abbreviato
conseguente  alla  dichiarazione  di  illegittimita'   costituzionale
dovesse valere in ogni caso  in  cui  l'imputazione  enucleata  nella
richiesta di rinvio a giudizio concernesse un  reato  «punibile»  con
l'ergastolo, anche laddove il  giudice  ritenesse  in  ragione  della
sussistenza di circostanze attenuanti - doversi in concreto applicare
una pena diversa (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza
6 marzo 1992, n. 2977). 
    Poco  dopo,  con  l'ordinanza  n.  163   del   1992,   la   Corte
costituzionale dichiaro' manifestamente  inammissibili  le  questioni
poste da due ordinanze di rimessione, che si dolevano  appunto  della
mancata possibilita' di definire il giudizio con rito abbreviato  per
i delitti punibili con l'ergastolo, conseguente alla sentenza n.  176
del 1991. La Corte ritenne, in  particolare,  che  l'inapplicabilita'
del giudizio abbreviato ai reati punibili con l'ergastolo  non  fosse
di per se' irragionevole, ne' determinasse ingiustificate  disparita'
di trattamento rispetto ad altri reati. 
    L'art. 30 della legge 16 dicembre 1999, n.  479  (Modifiche  alle
disposizioni sul procedimento davanti al  tribunale  in  composizione
monocratica  e  altre  modifiche  al  codice  di  procedura   penale.
Modifiche  al  codice   di   procedura   penale   e   all'ordinamento
giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile  pendente,
di indennita' spettanti al giudice  di  pace  e  di  esercizio  della
professione forense), la cosiddetta «legge  Carotti»,  ripristino'  -
nel contesto di una piu' generale modifica dei tratti strutturali del
giudizio abbreviato - la possibilita' di accesso a tale  rito  per  i
delitti puniti con l'ergastolo, aggiungendo  un  secondo  periodo  al
comma 2 dell'art. 442 codice di procedura penale, con  cui  reiterava
l'originaria soluzione dei compilatori  del  codice,  prevedendo  che
«[a]lla pena dell'ergastolo e' sostituita quella della reclusione  di
anni trenta». 
    Il di poco successivo art. 7 del decreto-legge 23 novembre  2000,
n. 341 (Interpretazione autentica dell'art. 442, comma 2, del  codice
di procedura penale e disposizioni in materia di giudizio  abbreviato
nei processi per  reati  puniti  con  l'ergastolo),  convertito,  con
modificazioni, nella legge 10 gennaio 2001, n. 4, stabili' quindi che
«[n]ell'art. 442, comma 2, ultimo periodo, del  codice  di  procedura
penale, l'espressione «pena dell'ergastolo» deve intendersi  riferita
all'ergastolo senza isolamento diurno», aggiungendo poi  allo  stesso
art. 442, comma 2, codice di procedura penale Un terzo  periodo,  dal
seguente tenore letterale: «[a]lla pena dell'ergastolo con isolamento
diurno, nei casi di concorso di  reati  e  di  reato  continuato,  e'
sostituita quella dell'ergastolo». 
    In seguito a tali novelle, dunque, il giudizio abbreviato  torno'
ad operare anche per i reati punibili  con  la  pena  dell'ergastolo,
dando luogo - in caso di condanna - alle pene previste dall'art. 442,
comma 2, secondo e terzo periodo, codice di  procedura  penale  ,  in
sostituzione, rispettivamente, dell'ergastolo senza isolamento diurno
e dell'ergastolo con isolamento diurno. 
    La legge n. 33 del 2019 ha nuovamente previsto l'inapplicabilita'
del  giudizio  abbreviato  per  i  delitti   puniti   con   la   pena
dell'ergastolo. In particolare, l'art. 1, comma  1,  lettera  a),  di
tale legge ha introdotto il  comma  1-bis  dell'art.  438  codice  di
procedura penale, il quale espressamente  stabilisce  che  «[n]on  e'
ammesso il giudizio abbreviato per  i  delitti  puniti  con  la  pena
dell'ergastolo». 
    L'art. 3 della legge n. 33 del 2019 ha parallelamente abrogato il
secondo e  il  terzo  periodo  dell'art.  442,  comma  2,  codice  di
procedura penale , introdotti - come  si  e'  poc'anzi  rammentato  -
rispettivamente dalla legge Carotti e dal decreto-legge  n.  341  del
2000,  come  convertito,  eliminando  cosi'  le  pene   eventualmente
applicabili in luogo dell'ergastolo (con o senza  isolamento  diurno)
in esito al giudizio abbreviato. 
    Infine, l'art. 5 della legge n. 33 del  2019  stabilisce  che  le
nuove disposizioni «si applicano ai  fatti  commessi  successivamente
alla data di entrata in vigore» della legge medesima. 
    La  questione  e'  senz'altro  rilevante  nel  caso  di   specie,
trattandosi di fatto commesso dopo l'entrata in vigore della  novella
del 2019 ed avendo il difensore, munito di procura speciale,  chiesto
di definire il processo con rito abbreviato,  di  talche'  giudicante
deve  necessariamente  fare  applicazione  della  norma   della   cui
costituzionalita' si sospetta. 
    Per  quanto   concerne   il   requisito   della   non   manifesta
infondatezza,  conviene  rammentare  che  la  Consulta  si  e'   gia'
pronunciata in passato, come gia' detto, con l'ordinanza n.  163  del
1992, sulla preclusione del giudizio abbreviato per gli  imputati  di
delitti punibili con l'ergastolo, rilevando  che  tale  disciplina  -
conseguente alla precedente sentenza n. 176 del 1991,  e  rimasta  in
vigore sino alla legge n. 479 del 1999 (supra, punti 5.1. e  5.2.)  -
«non e' in se' irragionevole, ne' l'esclusione di alcune categorie di
reati, come attualmente quelli punibili con l'ergastolo,  in  ragione
della  maggiore  gravita'  di  essi,  determina  una   ingiustificata
disparita' di trattamento rispetto agli altri reati,  trattandosi  di
situazioni non omogenee». 
    In successive pronunce,  la  Corte  ha  escluso  l'illegittimita'
costituzionale delle preclusioni di  natura  oggettiva,  fondate  sul
titolo astratto del reato, poste dal legislatore all'accesso ad altri
riti speciali ad effetto premiale. In particolare, l'ordinanza n. 455
del  2006   ha   affermato,   con   riferimento   alla   legittimita'
costituzionale  delle  preclusioni   al   cosiddetto   patteggiamento
allargato,  che  «l'individuazione  delle  fattispecie  criminose  da
assoggettare al trattamento piu' rigoroso - proprio in quanto  basata
su  apprezzamenti  di  politica  criminale,   connessi   specialmente
all'allarme sociale generato dai  singoli  reati,  il  quale  non  e'
necessariamente correlato al mero livello della pena edittale - resta
affidata alla discrezionalita' del legislatore; e le relative  scelte
possono venir sindacate dalla Corte solo in rapporto  alle  eventuali
disarmonie  del  catalogo  legislativo,  allorche'  la  sperequazione
normativa tra figure omogenee di reati assuma  aspetti  e  dimensioni
tali da  non  potersi  considerare  sorretta  da  alcuna  ragionevole
giustificazione». La medesima ordinanza n. 455 del  2006  ha  d'altra
parte sottolineato che  «l'ordinamento  annovera  un'ampia  gamma  di
ipotesi  nelle  quali,  per  ragioni  di   politica   criminale,   il
legislatore connette al titolo del reato - e non (o non soltanto)  al
livello della pena edittale  -  l'applicabilita'  di  un  trattamento
sostanziale o processuale piu' rigoroso»,  formulando  poi  un  lungo
elenco di esempi a supporto di tale affermazione,  e  insistendo  sul
principio (anche di recente ribadito nella sentenza n. 95  del  2015)
secondo cui la discrezionalita' legislativa e' soggetta,  rispetto  a
tali scelte,  al  solo  limite  della  manifesta  irragionevolezza  o
dell'arbitrarieta'. 
    Con la sentenza n.  260/2020  la  Consulta,  ritenendo  di  dover
ribadire l'orientamento espresso in passato,  ha  affermato  che  non
«possa  ritenersi  produttiva  di  irragionevoli   equiparazioni   di
trattamento una disciplina processuale che precluda, in via generale,
l'accesso al giudizio abbreviato a tutti indistintamente gli imputati
di tali reati», dato che «la comminatoria edittale  dell'ergastolo  -
che e' pena  anche  qualitativamente  diversa  dalla  reclusione,  in
ragione del suo carattere potenzialmente perpetuo, come evidenzia non
a caso l'autonoma considerazione della stessa nell'elenco delle  pene
principali di cui all'art. 17 codice  penale  -  segnala  infatti  un
giudizio di speciale disvalore della figura astratta del reato che il
legislatore, sulla base di una valutazione discrezionale che  non  e'
qui oggetto di censure, ha ritenuto di formulare; speciale  disvalore
che sta per l'appunto alla base della scelta del legislatore del 2019
di precludere l'accesso al giudizio abbreviato a tutti  gli  imputati
di tali delitti. Una tale scelta non puo'  certo  essere  qualificata
ne' in termini di manifesta irragionevolezza, ne' di arbitrarieta'; e
si sottrae pertanto, sotto lo specifico profilo qui  esaminato,  alle
censure dei rimettenti». La Corte  ha  ritenuto  «non  manifestamente
irragionevole,  ne'  arbitraria,  appare  la  scelta  legislativa  di
ancorare la preclusione del rito alla pena edittale prevista  per  il
reato per il quale si procede. Un simile ancoraggio  si  ritrova  del
resto in una quantita' di istituti di diritto  penale  sostanziale  o
processuale (dalla prescrizione alla non punibilita' per  particolare
tenuita' del fatto, ovvero -  in  materia  processuale  dalle  misure
cautelari alle intercettazioni di comunicazioni); e la sua  manifesta
irragionevolezza o arbitrarieta' deve qui tanto piu'  escludersi,  in
quanto la comminatoria che determina la preclusione e'  quella  della
pena piu' grave prevista nel nostro ordinamento, che segnala  -  come
parimenti si e' osservato - una valutazione di massimo disvalore  del
reato per il quale si procede». 
    Anche con riferimento alle finalita' perseguite dal  legislatore,
la  Corte  non  ha  ravvisato  alcuna  manifesta  irragionevolezza  o
arbitrarieta'  della  scelta  del  legislatore,   che   ha   ritenuto
l'opportunita'  che   rispetto   ai   reati   piu'   gravi   previsti
dall'ordinamento fosse celebrato un processo  pubblico  innanzi  alla
corte di assise e  non  a  un  giudice  monocratico,  «con  le  piene
garanzie sia per l'imputato,  sia  per  le  vittime,  di  partecipare
all'accertamento  della  verita'».  Tutte  queste  finalita'  possono
essere o meno condivise; ma ne' le finalita'  in  se',  ne'  i  mezzi
individuati dal legislatore per raggiungerle sono apparsi alla  Corte
connotabili in termini di manifesta irragionevolezza o arbitrarieta'.
Piuttosto, si deve ritenere che una disciplina mirante a  imporre  in
ogni caso, per i delitti piu'  gravi  previsti  dall'ordinamento,  lo
svolgimento di un processo pubblico avanti una corte  a  composizione
mista  -  nella  quale  tra   l'altro   si   invera   la   previsione
costituzionale   della    «partecipazione    diretta    del    popolo
all'amministrazione della giustizia» (art. 102, terzo comma, Cost.) -
rientri  nel  novero  delle  scelte  discrezionali  del  legislatore,
rispetto alle quali  non  e' consentito  alla  Corte  sovrapporre  la
propria autonoma valutazione. 
    Con riferimento al caso di specie, non puo' negarsi che il  fatto
commesso  dall'imputato  sia  di  estrema  gravita',   commesso   con
modalita'. cruente e ai danni della anziana congiunta che si prendeva
cura di lui e che, pertanto, permanga anche  in  ipotesi  del  genere
l'interesse dello Stato, visto l'allarme sociale suscitato dal fatto,
alla celebrazione di un processo pubblico con un giudice collegiale a
composizione mista, in ossequio al principio  di  cui  all'art.  102,
terzo comma, Cost. 
    La considerazione che precede vale  anche  con  riferimento  alle
ipotesi  in  cui  l'imputato  sia  stato  riconosciuto  incapace   di
intendere e di volere con una perizia espletata in sede di  incidente
probatorio nel contraddittorio tra le parti perche' il  fatto  genera
allarme sociale a prescindere dalle condizioni soggettive del  reo  e
quindi  necessario  garantire,  anche  in  tal  caso,  il   controllo
dell'opinione pubblica. 
    Per quanto concerne poi i dubbi di compatibilita' dell'art.  438,
comma 1-bis, codice di procedura penale con il diritto di  difesa  di
cui all'art. 24  Cost.,  in  se'  considerato  e  in  relazione  agli
articoli 2, 3 e 27, secondo comma, Cost. la Consulta nella  decisione
260/20,  piu'  volte   richiamata,   ha   rammentato   «la   costante
giurisprudenza  costituzionale  secondo  cui  e'  ben  vero  che  "la
facolta' di chiedere i riti alternativi - quando  e'  riconosciuta  -
costituisce una modalita',  tra  le  piu'  qualificanti  ed  incisive
(sentenze n. 237 del 2012 e  n.  148  del  2004),  di  esercizio  del
diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 273 del 2014, n. 333  del
2009 e n. 219 del 2004). Ma e'  altrettanto  vero  che  la  negazione
legislativa di tale facolta' in rapporto ad una determinata categoria
di reati non vulnera il nucleo incomprimibile del  predetto  diritto"
(sentenza n. 95 del 2015). L'accesso ai riti alternativi costituisce,
dunque, parte integrante del diritto di difesa  di  cui  all'art.  24
Cost. soltanto in  quanto  il  legislatore  abbia  previsto  la  loro
esperibilita' in presenza di certe condizioni; di talche'  esso  deve
essere garantito - o quanto meno deve essere  garantito  il  recupero
dei vantaggi sul piano sanzionatorio che l'accesso tempestivo al rito
avrebbe consentito - ogniqualvolta  il  rito  alternativo  sia  stato
ingiustificatamente negato a un imputato per effetto di un errore del
pubblico  ministero  nella  formulazione  dell'imputazione,  di   una
erronea valutazione di un giudice  intervenuto  in  precedenza  nella
medesima vicenda processuale, ovvero di una modifica dell'imputazione
nel corso del processo (sentenza n. 14  del  2020  e  precedenti  ivi
citati). Ma dall'art.  24  Cost.  non  puo'  dedursi  un  diritto  di
qualunque imputato ad accedere a tutti i  riti  alternativi  previsti
dall'ordinamento   processuale   penale».   Pertanto    il    diritto
dell'imputato  ad   accedere   a   riti   alternativi   puo'   essere
legittimamente compresso in ragione della gravita' del fatto. 
    Quanto poi alla lamentata violazione del diritto  di  difesa  «in
relazione»   al   diritto   alla   dignita'   e   alla   riservatezza
dell'imputato, anche in tal caso  torna  utile  l'insegnamento  della
Consulta nella sentenza piu' volte  citata,  secondo  cui  «non  v'e'
dubbio che la pubblicita' delle udienze sia  concepita  dall'art.  6,
comma 1, CEDU,  dall'art.  47,  comma  2,  della  Carta  dei  diritti
fondamentali dell'Unione europea (CDFUE) e dall'art. 14, comma 1, del
Patto internazionale dei diritti civili e politici come una  garanzia
soggettiva  dell'imputato.  Tuttavia,  la   dimensione   di   diritto
fondamentale riconosciuta alla pubblicita' dei processi  dalle  carte
internazionali dei  diritti  alle  quali  il  nostro  ordinamento  e'
vincolato non esaurisce la ratio del principio medesimo, che nel  suo
nucleo    essenziale    costituisce    altresi'    -    sul     piano
oggettivo-ordinamentale - un connotato  identitario  dello  stato  di
diritto, in chiave di «garanzia di imparzialita' ed obiettivita'»  di
un  processo  che  «si  svolge  sotto  il   controllo   dell'opinione
pubblica», quale corollario  sia  del  principio  secondo  cui  «[l]a
giustizia e' amministrata in nome del popolo» (art. 101,primo  comma,
Cost.), sia della garanzia di un «giusto processo» (art.  111,  primo
comma,  Cost.)  (sentenza  n.  373  del  1992).  Il  che  appare   di
particolare significato nei processi relativi ai  reati  piu'  gravi,
«che maggiormente colpiscono l'ordinata convivenza  civile»  (ancora,
sentenza n. 373 del 1992) e addirittura ledono il nucleo dei  diritti
fondamentali delle vittime, a cominciare dalla loro stessa  vita.  Di
talche' il mero consenso dell'imputato non basta  a  fondare  un  suo
diritto costituzionale - opposto, e anzi speculare,  al  suo  diritto
alla pubblicita' delle udienze - alla celebrazione di un processo  «a
porte chiuse», al riparo  del  controllo  dell'opinione  pubblica.  A
fronte, allora, di imputazioni relative a  delitti  gravissimi,  come
quelli puniti con  la  pena  dell'ergastolo,  non  puo'  considerarsi
sproporzionata rispetto alle esigenze  di  tutela  della  dignita'  e
della  riservatezza  dell'imputato   una   disciplina   come   quella
all'esame, che impone in ogni caso la  celebrazione  di  un  processo
pubblico, anche laddove l'imputato sia disposto a rinunziare  a  tale
garanzia». Vale la pena  osservare,  inoltre,  che  il  diritto  alla
riservatezza dell'imputato e' gia' stato intaccato,  nel  momento  in
cui  e'  stata  eseguita   la   misura   cautelare   a   suo   carico
(successivamente sostituita con una misura di sicurezza),  in  favore
del diritto di cronaca, data la  risonanza  mediatica  suscitata  dal
processo (e da tutti i  processi  concernenti  fatti  di  particolare
allarme sociale). Per quanto detto, la norma di  cui  si  tratta  non
appare incompatibile con i principi di cui agli articoli 2, 3, 24, 27
e 32 della Carta fondamentale. 
    La censura relativa al principio  della  ragionevole  durata  del
processo di cui all'art. 111, secondo  comma,  Cost.,  appare  invece
fondata, proprio sulla scorta dell'insegnamento reso  dalla  Consulta
nella piu' volte  citata  sentenza  n.  260/2020,  secondo  cui  «una
violazione del principio della ragionevole durata del processo di cui
all'art. 111, secondo comma, Cost. potra' essere  ravvisata  soltanto
allorche' l'effetto di dilatazione dei tempi processuali  determinato
da una  specifica  disciplina  non  sia  sorretto  da  alcuna  logica
esigenza, e si riveli  invece  privo  di  qualsiasi  legittima  ratio
giustificativa (ex plurimis, sentenze n. 12  del  2016,  n.  159  del
2014, n. 63 e n. 56 del 2009)». 
    Per quanto concerne tale parametro, va innanzitutto ricordato che
la Costituzione lo declina 'in  positivo',  onerando  il  legislatore
ordinario di attivarsi  per  sviluppare  appositi  strumenti  che  ne
assicurino  il  rispetto.  Quindi  il  legislatore  deve  individuare
elementi strutturali che garantiscano la ragionevole durata di  tutti
i processi e non limitarsi a indennizzare le vittime di  quelli  che,
ex post, si siano rivelati troppo lunghi. Questa prospettiva  implica
che l'impatto operativo delle riforme  debba  essere  necessariamente
preso in considerazione. 
    E  precludere  l'accesso  al  rito  abbreviato  ad  un   imputato
riconosciuto,  con  le  garanzie  del  contraddittorio,  incapace  di
intendere di volere, sembra collidere con principi costituzionali  di
ragionevolezza, nonche' di efficienza del processo penale»,  entrambi
«affermati, in plurime occasioni, dalla  giurisprudenza  della  Corte
costituzionale (sentenza n.  460  del  1995,  che  ha  affermato  che
l'efficienza  del  processo  penale   "e'   bene   costituzionalmente
protetto")». 
    Ebbene, nel caso di specie recente dottrina ha osservato come sia
palese, in generale l'impatto negativo della  disposizione  censurata
sul sistema giudiziario: l'aumento del carico giudiziario della Corte
d'Assise, competente a giudicare  ai  sensi  dell'art.  5  codice  di
procedura penale, i delitti puniti con l'ergastolo sara' consistente,
dato che le statistiche ministeriali (tratti dalla delibera  del  CSM
del 6 febbraio 2019) rappresentano,  riguardo  ai  reati  puniti  con
l'ergastolo, percentuali molto elevate di  definizione  con  giudizio
abbreviato. L'incremento dei processi davanti  alle  Corti  d'Assise,
conseguenti anche alla stessa  particolare  composizione  dell'organo
per la partecipazione dei giudizi popolari, determinera'  prevedibili
problemi organizzativi. 
    Il vulnus al principio  della  efficiente  amministrazione  della
giustizia ad avviso del giudicante deriva, nel caso di specie,  dalla
totale superfluita' di un processo dibattimentale e  collegiale,  che
nulla potrebbe aggiungere al materiale probatorio gia'  esistente,  e
non potrebbe rafforzare in alcun modo i diritti della difesa. 
    Se infatti a norma  dell'art.  187  codice  di  procedura  penale
rientrano nell'oggetto della prova i fatti che  si  riferiscono  alla
punibilita' dell'imputato, comprensivi  della  imputabilita',  e  che
l'imputato ha diritto a «difendersi provando», e'  altrettanto  vero,
come correttamente osservato dal Pubblico Ministero, che nel caso  di
specie l'incapacita'  di  intendere  e  di  volere  dell'imputato  al
momento del fatto e' stata gia' incontrovertibilmente  accertata  con
perizia disposta in sede di incidente probatorio,  e  quindi  con  le
regole del contraddittorio, con la conseguenza che un dibattimento si
appalesa  inutile,  essendo  la  prova   gia'   cristallizzata,   non
modificabile e determinante per la decisione. 
    La celebrazione del processo  dinanzi  alla  Corte  d'Assise  non
potrebbe portare in nessun caso a conseguenze diverse da quelle  gia'
accertate; infatti all'art.  431,  comma  1,  lettera  e)  codice  di
procedura  penale  previsto  l'inserimento  nel  fascicolo   per   il
dibattimento  dei   verbali   degli   atti   assunti   nell'incidente
probatorio, che quindi saranno a disposizione  della  Corte  d'Assise
che, dopo averne dato lettura nei tempi  e  con  le  forme  previste,
potranno essere utilizzati ai  fini  della  decisione.  La  Corte  di
Cassazione ha inoltre avuto modo di precisare che, sebbene la lettera
della legge si riferisca solo ai verbali, qualora - come nel caso  di
specie - l'atto assunto in  incidente  probatorio  sia  una  perizia,
anche l'elaborato con il quale il perito abbia  risposto  ai  quesiti
dovra' essere inserito nel fascicolo per il dibattimento  (Cassazione
9-7-93, Tacconi, 195321). In entrambi i  casi  l'esito  del  processo
sarebbe identico, non essendo applicabile alcuna  pena,  ma  soltanto
una misura di sicurezza. 
    Misura di sicurezza la cui applicazione e' preclusa dal  disposto
dell'art. 425, comma 4, codice di procedura penale, a norma del quale
il giudice non puo' pronunciare sentenza di non luogo a procedere  se
ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire l'applicazione di
una misura di sicurezza diversa dalla confisca. 
    Come  e'  noto,  l'art.  425  comma  primo,  nella  sua  versione
originaria, prevedeva che  la  sentenza  di  non  luogo  a  procedere
dovesse  essere  pronunciata   quando   risultasse   «evidente»   che
l'imputato fosse persona non imputabile o non punibile per  qualsiasi
altra causa.  In  tal  caso,  qualora  l'imputato  fosse  socialmente
pericoloso, al proscioglimento poteva  applicarsi  l'applicazione  di
una misura di  sicurezza.  Tale  disposizione  stata  poi  dichiarata
illegittima da Corte costituzionale n. 41/93 sulla base  del  rilievo
che in parte qua l'art. 425 imponeva al giudice  di  pronunciare  una
sentenza di non luogo  a  procedere  per  difetto  di  imputabilita',
applicando, se del caso, le misure di sicurezza,  all'esito  e  sulla
base di un accertamento di responsabilita'  basato  solo  sull'etereo
presupposto della non evidente  infondatezza  dell'addebito,  con  il
risultato di privare la persona non  imputabile  del  dibattimento  e
della conseguente possibilita' di esercitare appieno il diritto  alla
prova sul merito della regiudicanda, con correlativa compressione del
diritto di difesa non bilanciata da contrapposte esigenze di economia
processuale. 
    Pertanto  da  un  lato  il  sistema   processuale   preclude   di
pronunciare una sentenza di non luogo  a  procedere  per  difetto  di
imputabilita', quando sia necessaria l'applicazione di una misura  di
sicurezza, data la particolare natura della sentenza di cui  all'art.
425 codice di procedura penale; dall'altro si  preclude  all'imputato
infermo di mente, socialmente pericoloso e reo confesso  di  ottenere
una pronuncia di assoluzione in sede di giudizio abbreviato, rendendo
obbligatoria la celebrazione  di  un  lungo  e  dispendioso  processo
dibattimentale. 
    Nella  specie,  la  dichiarazione  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 438, comma 1-bis, codice di procedura penale,  nella  parte
in cui non consente all'imputato infermo di mente, la cui incapacita'
di intendere e di volere al momento del fatto sia stata accertata con
perizia  eseguita  in  sede  di  incidente  probatorio,  al  giudizio
abbreviato  per  un  reato   astrattamente   punito   con   la   pena
dell'ergastolo, consentirebbe di definire il processo in tempi  brevi
senza  inutile  dispendio  di  preziose  risorse  organizzative,  con
l'applicazione, in via definitiva, di una misura di sicurezza e senza
nessuna compressione del diritto di difesa. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    Dichiara rilevante e non manifestamente  infondata  in  relazione
all'art.  111,  secondo  comma,  Cost.  la  questione  relativa  alla
conformita' a Costituzione dell'art.  438,  comma  1-bis,  codice  di
procedura penale, introdotto dalla  legge  12  aprile  2019,  n.  33,
laddove non prevede che l'imputato  infermo  di  mente,  riconosciuto
incapace di intendere e di volere al momento del fatto,  con  perizia
accertata in sede di incidente probatorio, possa chiedere di definire
il processo con giudizio abbreviato nel caso di  reato  astrattamente
punibile con la pena dell'ergastolo; 
    Sospende il giudizio in corso  sino  all'esito  del  giudizio  di
legittimita' costituzionale; 
    Dispone  che,  a  cura  della   cancelleria,   gli   atti   siano
immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale e che la  presente
ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei  ministri  e
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. 
        Rimini, 19 gennaio 2021 
 
                         Il Giudice: Vitolo