N. 143 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 ottobre 2022
Ordinanza del 21 ottobre 2022 del Tribunale di Palermo nel procedimento civile promosso da T. M. tutore giudiziario di C. B. contro INPS - Istituto nazionale previdenza sociale. Assistenza e solidarieta' sociale - Prestazioni previdenziali o assistenziali - Revoca di prestazioni previdenziali o assistenziali (nel caso di specie: assegno sociale) nei confronti di soggetti condannati per reati di particolare allarme sociale, individuati dal comma 58 dell'art. 2 della legge n. 92 del 2012 - Applicazione della revoca, con effetto non retroattivo rispetto alle prestazioni gia' percepite, a soggetti gia' condannati con sentenza passata in giudicato (nel caso di specie: condannato che sta espiando la pena in regime di detenzione carceraria). - Legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), art. 2, comma 61.(GU n.49 del 7-12-2022 )
TRIBUNALE DI PALERMO Sezione lavoro La Giudice Paola Marino nella causa iscritta al n. 865/2019 R.G.L., promossa da T. M., N. Q. tutore giudiziario di C. B., rappresentata e difesa dall'avv. Vaccaro Marina - ricorrente, contro Istituto nazionale previdenza sociale, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Sparacino Maria Grazia e dall'avv. Bernocchi Giuseppe - convenuto; Pronunciando a seguito dell'udienza di trattazione scritta del 14 settembre 2022, fissata con le modalita' di trattazione ex art. 221, legge n. 77 del 2020 e successive modifiche; Osserva Con ricorso depositato il 25 gennaio 2019, parte ricorrente esponeva: 1) che il rappresentato C. B. era percettore di pensione cat. (assegno sociale) n. sede , con decorrenza , in quanto in possesso dei prescritti requisiti previsti dalla disciplina di settore; 2) che, con provvedimento datato , l'Istituto nazionale della previdenza sociale, sede di Palermo Sud, comunicava al sig. C. l'avvenuta revoca, a decorrere dal mese di , della predetta prestazione di assegno sociale, in esito «alla comunicazione pervenuta dal Ministero della giustizia, in applicazione dell'art. 2, della legge n. 92 del 28 giugno 2012»; 3) che, per effetto della revoca della prestazione sorgeva, in capo al C., un indebito pari ad euro per il periodo - , come da comunicazione INPS; 4) che, in data , parte ricorrente promuoveva ricorso amministrativo al Comitato provinciale di Palermo, il quale, nonostante sia decorso il termine di giorni novanta, non ha adottato alcuna decisione in merito. Dedusse parte ricorrente che la norma «di cui all'art. 2, comma 58, legge n. 92/2012, e' inapplicabile al sig. C. ed alla prestazione di assegno sociale di cui il medesimo e' titolare, e cio' in quanto, l'articolo citato dispone inequivocabilmente che il Giudice penale debba disporre la sanzione accessoria della revoca della prestazione, ricorrendone i presupposti, in seno alla sentenza di condanna. Detto comma prescrive, infatti, che "Con la sentenza di condanna per i reati di cui agli artt. 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter e 422 del codice penale, nonche' per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, il Giudice dispone la sanzione accessoria della revoca delle seguenti prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, di cui il condannato sia eventualmente titolare: indennita' di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili". Nel caso di specie, e' evidente, che il Giudice non possa aver disposto (e non ha disposto - vds. all. 5 copia per estratto sentenze allegate) alcuna sanzione accessoria a carico del condannato in quanto il sig. C. e' in corso di espiazione di un decreto di cumulo (vds. Decreto di cumulo) concernenti pene irrogate con sentenze emesse in epoca antecedente all'anno 2012. La sanzione accessoria richiamata dalla legge citata, pertanto, nella fattispecie, non avrebbe potuto essere comminata, poiche' non prevista all'epoca dell'emanazione della sentenza attualmente in espiazione, da alcuna legge. Analogamente oggi tale sanzione accessoria non puo' applicarsi retroattivamente, non soltanto poiche', all'epoca in cui i fatti costituenti reato sono stati commessi e nell'anno in cui sono state emessa la sentenza di condanna non era prevista da alcuna norma dell'ordinamento, ma anche perche' non puo' in alcun modo attribuirsi efficacia retroattiva alle disposizioni di cui all'art. 2, comma 58 e ss. della citata legge. Da escludersi, poi, che sentenze ormai definitive possano essere modificate in senso sfavorevole al condannato (in ossequio al principio del favor rei) ... Se, invero, il comma 61, dell'art. 2, della legge n. 92/2012, fosse interpretato nel senso di consentire la revoca di prestazioni assistenziali regolarmente riconosciute ed erogate ai condannati quale conseguenza della commissione di reati avvenuta in epoca anteriore alla previsione normativa stessa esso sarebbe certamente incostituzionale per violazione degli artt. 3, 25 e 38 della Costituzione.». Chiese, pertanto: «Accertare che l'erogazione della prestazione, cat. n. , di cui il sig. C. B. e' titolare, e' stata illegittimamente sospesa, non ricorrendo nella fattispecie i presupposti per l'applicazione dell'art. 2, della legge n. 92/2012; condannare l'INPS al ripristino della prestazione cat. n. , di cui il sig. C. B. e' titolare, a far data dalla illegittima sospensione ( ); condannare l'INPS, per l'effetto, al pagamento dei ratei di pensione non corrisposti, dalla sospensione sino all'attualita', nonche' al pagamento degli interessi legali maturati e maturandi alla data del soddisfo; In subordine accertare che nulla deve il sig. C. B. all'INPS in ragione della revoca della prestazione predetta essendo stata la stessa non versata sin dal mese di e vantando nei confronti dell'INPS un credito maggiore, nascente dal numero di tre mensilita' relative all'anno e non corrisposte; condannare l'INPS alla rifusione delle spese e compensi professionali del giudizio oltre al rimborso delle spese generali ed accessori di legge.». La parte convenuta, ritualmente costituitasi in giudizio, ha contestato la fondatezza del ricorso chiedendone il rigetto, opponendo che «La legge 28 giugno 2012, n. 92 (cd. Legge Fornero), all'art. 2, commi 58-63, dispone la revoca di alcune tipologie di prestazioni di cui siano titolari soggetti condannati per taluni reati di particolare allarme sociale, quali i reati di associazione terroristica, attentato per finalita' terroristiche o di eversione, sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione, associazione di stampo mafioso, scambio elettorale, strage e delitti commessi per agevolare le associazioni di stampo mafioso. In particolare il suddetto articolo, al comma 58, primo periodo, dispone che: "Con la sentenza di condanna per i reati di cui agli artt. 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter e 422 del codice penale, nonche' per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, il Giudice dispone la sanzione accessoria della revoca delle seguenti prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, di cui il condannato sia eventualmente titolare: indennita' di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili". Il comma 58, secondo periodo stabilisce altresi' che: "Con la medesima sentenza il Giudice dispone anche la revoca dei trattamenti previdenziali a carico degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza, ovvero di forme sostitutive, esclusive ed esonerative delle stesse, erogati al condannato, nel caso in cui accerti, o sia stato gia' accertato con sentenza in altro procedimento giurisdizionale, che questi abbiano origine, in tutto o in parte, da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attivita' illecite connesse a taluno dei reati di cui al primo periodo". Il comma 61 prescrive, tra l'altro, che "Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge il Ministro della giustizia, d'intesa con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, trasmette agli enti titolari dei relativi rapporti l'elenco dei soggetti gia' condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58, ai fini della revoca, con effetto non retroattivo, delle prestazioni di cui al medesimo comma 58, primo periodo". E' di tutta evidenza che mentre il comma 58, si riferisce ai casi di sentenze pronunciate successivamente all'entrata in vigore della legge, con cio' introducendo ex novo per le fattispecie in oggetto la descritta pronuncia accessoria, invece, il comma 61 si riferisce ad ipotesi di condanne per i reati di cui al comma 58, che essendo state pronunciate prima dell'introduzione della legge non potevano certamente contemplare la condanna accessoria. Il caso del ricorrente deve appunto farsi rientrare nel comma 61 ... Con messaggio Hermes 2302/2017 l'INPS ha indicato le modalita' da seguire nelle ipotesi previste dalla disciplina su richiamata. Segnatamente il detto messaggio precisa: "Il concetto di 'revoca' sopra descritto viene applicato dall'Istituto, in fase di prima operativita', come 'sospensione' della prestazione nei confronti degli interessati, fino ad una eventuale riattivazione su domanda, previa verifica della completa esecuzione della pena. Pertanto, le prestazioni dell'Istituto che possono essere sospese ai sensi dei citati commi 58, primo periodo, e 61, sono quelle relative all'assistenza ed alla disoccupazione (assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili, 'indennita' di disoccupazione'); quelle relative al comma 58, secondo periodo, possono riguardare anche la generalita' delle prestazioni previdenziali, qualora il Giudice che emette la sentenza lo preveda espressamente, in quanto tali trattamenti previdenziali, aventi natura contributiva, abbiano avuto origine, in tutto o in parte, da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attivita' illecite connesse a taluno dei reati oggetto della sentenza di condanna. In attuazione di tali disposizioni, e nelle more della stipula di una specifica convenzione tra l'Istituto e il Ministero della giustizia, ai fini della gestione del flusso d'informazioni inerente ai soggetti condannati per i reati richiamati al predetto art. 2, comma 58, il citato Ministero, con comunicazione telematica del effettuata secondo il tracciato precedentemente concordato (allegato 4), ha trasmesso all'Istituto il flusso massivo di dati informativi, relativo ai soggetti di cui al comma 61, dell'art. 2, della legge n. 92/2012. L'elenco riguarda i soggetti gia' condannati con sentenza passata in giudicato, sia antecedentemente alla data di entrata in vigore della legge in esame (18 luglio del 2012), sia successivamente a tale data, purche' la sentenza sia stata emessa prima dell'entrata in vigore della legge. L'Istituto ha, quindi, provveduto a sospendere a livello centrale il pagamento delle citate prestazioni, ex art. 2, comma 61, indicate negli allegati 1 e 2, delle quali risultino titolari i soggetti inseriti nell'elenco, utilizzando a tal fine l'applicativo SCUP ... In fase di prima applicazione, per la comunicazione effettuata dal Ministero della giustizia in data , la sospensione decorre dai pagamenti per il mese di , con conseguente decorrenza del calcolo degli arretrati delle prestazioni indebite dal . Cio' che ha determinato la revoca della prestazione e' quindi l'avvenuto inserimento del flusso di dati informativi da parte del Ministero, che deve avere inserito il nominativo del ricorrente in ragione della natura dei reati per i quali e' stato condannato e per i quali non si ha ancora l'espiazione della pena. Nessuna valutazione e' stata effettuata dall'Istituto, e, si ribadisce e' inconferente che le sentenze di condanna non abbiano previsto la revoca della prestazione, in quanto si tratta di pronunce penali antecedenti l'entrata in vigore della legge e non successive".». In ordine all'indebito contestato, poi, l'Istituto previdenziale dedusse che esso era stato contestato dal primo giorno del mese successivo alla comunicazione del Ministero, come da messaggio Hermes cit., e che era stato contestato, quindi, da a poiche' la prestazione non era piu' in pagamento dal , l'Istituto preannunciava che esso sarebbe stato ridotto in misura corrispondente. In giudizio, si e' documentalmente accertato che - come altresi' non contestato da nessuna delle parti e, quindi, pacifico - il C. B. era stato condannato con diverse sentenze passate in giudicato, tra gli altri, per i reati di cui agli artt. 575, 577 del codice penale, 416-bis del codice penale, nonche', anche con l'ultima sentenza del 19 aprile 2012 della Corte d'appello di Palermo Sez. 6 (data passaggio in giudicato: 18 ottobre 2013), per i reati di cui agli artt. 416-bis, comma 2 del codice penale, art. 416-bis, comma 3 del codice penale, art. 416-bis, comma 4 del codice penale, art. 416-bis, comma 6 del codice penale, art. 61, n. 6 del codice penale, art. 99, comma 2, n. I del codice penale, art. 99, comma 4 del codice penale (commessi in epoca successiva e prossima alla data luogo: ed il ) e che pertanto doveva scontare la pena principale della «Reclusione anni sedici Ergastolo con isolamento diurno», ricevendo altresi' condanna alle «Pene accessorie: Interdizione dai pubblici uffici perpetua - Interdizione legale durante la pena - Misura di sicurezza: Liberta' vigilata anni tre». Come accertato mediante il certificato dello stato di esecuzione del , il C. ha la seguente «Posizione giuridica: Espiazione pena in regime carcerario». Inoltre, dal medesimo certificato, in atti, risulta che, a seguito di «Provvedimento di unificazione di pene concorrenti (con contestuale Ordine di esecuzione condannato detenuto) emesso in data allegato al presente certificato Decorrenza pena: Scadenza pena: Mai.». Risulta pertanto accertato in giudizio che al C. in atto in detenzione carceraria in regime di ergastolo cd. ostativo, per reati commessi in epoca prossima al e comunque assai risalente, antecedente alla data di entrata in vigore della Legge Fornero, era stata concessa la prestazione assistenziale dell'assegno sociale, poiche' aveva compiuto l'eta' prescritta di almeno e non possedeva redditi, al pari della coniuge, con conseguente accertamento da parte dell'Istituto previdenziale dello stato di bisogno previsto dalla normativa in tema di assegno sociale. Parte ricorrente ha chiesto di sollevare questione di legittimita' costituzionale della norma sopra citata dell'art. 2, comma 61, della legge n. 91/2012, poiche' prevede una pena accessoria o comunque una sanzione di natura sostanzialmente penale retroattiva. La Giudice, atteso che pendeva gia' analoga questione avanti alla Consulta, ha rinviato in attesa della decisione e per l'esame della medesima. A seguito della pronuncia della Consulta, si e' preso atto in giudizio che, con ordinanza n. 138/2022 la Corte costituzionale dichiarava la manifesta inammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 2, commi 60 e 61, della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), sollevate, in riferimento agli artt. 25 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di appello di Venezia, sezione lavoro, atteso che, nel procedimento pendente avanti alla Corte Veneziana, il ricorrente si trovava in stato di detenzione domiciliare e «che questa Corte, con la sentenza n. 137 del 2021, depositata in data successiva all'ordinanza di rimessione, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 61, della legge n. 92 del 2012 "nella parte in cui prevede la revoca delle prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, quali l'indennita' di disoccupazione, l'assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili, nei confronti di coloro che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere"; che, inoltre, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale) e negli stessi termini, ha, altresi', dichiarato l'illegittimita' costituzionale consequenziale dell'art. 2, comma 58, della legge n. 92 del 2012, nella parte in cui prevede "a regime" "la revoca delle prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, quali l'indennita' di disoccupazione, l'assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili, nei confronti di coloro che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere"; che, per effetto di tale dichiarazione di illegittimita' costituzionale parziale, la disposizione censurata e' venuta meno solo in parte, ma e' vigente con un contenuto resecato della fattispecie di chi espia la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere, riferendosi unicamente alla ipotesi di chi espia la pena in carcere; che, quindi, il censurato comma 61 dell'art. 2 della legge n. 92 del 2012 - per effetto della pronuncia di questa Corte - prevede che l'elenco dei soggetti gia' condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58 e' trasmesso dal Ministro della giustizia, d'intesa con il Ministro del lavoro e delle politiche sociale, all'ente previdenziale (nella specie, l'Istituto nazionale della previdenza sociale - INPS) ai fini della revoca del beneficio ove la pena sia scontata in carcere e non gia' in regime alternativo; che, pertanto - in ragione dell'efficacia retroattiva delle sentenze dichiarative di illegittimita' costituzionale, in mancanza di modulazione temporale degli effetti dell'incostituzionalita' - la disposizione censurata gia' al tempo dell'ordinanza di rimessione aveva tale contenuto piu' limitato nel senso che riguardava soltanto chi, condannato con sentenza definitiva per determinati gravi reati, stesse espiando la pena in carcere; che nel giudizio a quo, come risulta pacificamente dall'ordinanza di rimessione, il condannato con sentenza definitiva, destinatario della revoca dell'assegno di inabilita' adottata dall'INPS, stava espiando la pena in regime di detenzione domiciliare; che, dunque, le questioni sono prive di rilevanza, perche' la revoca disciplinata dalla disposizione censurata non si applica, ne' si applicava, alla fattispecie oggetto del giudizio a quo;». Parte ricorrente ha, quindi, reiterato la richiesta di sollevare analoga questione di legittimita' costituzionale, atteso che il C. si trova in detenzione carceraria ed in regime di ergastolo ostativo. Questa Giudice, atteso che la questione che si richiede di sollevare e' rilevante e non manifestamente infondata, valuta doveroso sollevarla innanzi a codesta eccellentissima Corte. Orbene, non puo' non rilevarsi che il dubbio di legittimita' costituzionale, nei medesimi termini proposti dalla Corte d'appello di Venezia con l'ordinanza di rimessione sopra ricordata, non e' venuto meno e non e' stato affrontato dalla Consulta, per le ipotesi in cui i soggetti attinti da condanne definitive precedenti alla data di entrata in vigore della legge n. 92/2012 - per reati commessi ancora in precedenza - stiano espiando la pena in regime di detenzione carceraria, e che esso e' rilevante nel presente giudizio, poiche' e' stato accertato in giudizio che il rappresentato di parte ricorrente, cui la prestazione dell'assegno sociale e' stata revocata, sta tuttora scontando la pena in regime di detenzione carceraria, peraltro con «Fine Pena Mai», come recita il certificato di esecuzione in atti, sicche' solo la declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma per i profili precisati potrebbe produrre la riattivazione in suo favore della prestazione revocata, mutando radicalmente l'esito del giudizio. Questo Tribunale ritiene, quindi doveroso, come detto, ed a prescindere da ogni considerazione relativa al disvalore morale e sociale delle condotte per le quali il C. e' stato condannato in via definitiva, che sono le medesime prese in considerazione dal legislatore nell'emanare la normativa della cui legittimita' costituzionale e' lecito parzialmente dubitare, sollevare - in quanto rilevante e non manifestamente infondata - la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 61, legge n. 92/2012, poiche' o nella parte in cui non esclude dalla revoca automatica delle prestazioni assistenziali ivi previste i soggetti condannati per i reati ivi elencati commessi prima della sua entrata in vigore, con riguardo ai parametri di cui agli artt. 25, comma 2 e 117, comma 1 della Costituzione (come integrato dall'art. 7 CEDU). Cio' sulla scorta dell'interpretazione della norma evocata dall'INPS, che, in effetti, risulta confermata in modo esente da qualsiasi dubbio interpretativo dalla lettura della norma stessa, la quale prevede la revoca dei trattamenti previdenziali a carico degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza, ovvero di forme sostitutive, esclusive ed esonerative delle stesse ... a carico dei condannati per uno dei gravi delitti tra quelli compresi nel numero chiuso indicato dalla norma in esame, con sentenze rese in data anteriore alla data di entrata in vigore della legge medesima, cosi' comminando ad un soggetto gia' condannato una sanzione che non era prevista al momento in cui egli aveva commesso i fatti e neppure al momento della pronuncia giudiziale di condanna. La legge n. 92 del 2012 prevede all'art. 2, commi 58-61: «58. Con la sentenza di condanna per i reati di cui agli artt. 270-bis, 280, 289-bis, 416-bis, 416-ter e 422 del codice penale, nonche' per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, il Giudice dispone la sanzione accessoria della revoca delle seguenti prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, di cui il condannato sia eventualmente titolare: indennita' di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili. Con la medesima sentenza il Giudice dispone anche la revoca dei trattamenti previdenziali a carico degli enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza, ovvero di forme sostitutive, esclusive ed esonerative delle stesse, erogati al condannato, nel caso in cui accerti, o sia stato gia' accertato con sentenza in altro procedimento giurisdizionale, che questi abbiano origine, in tutto o in parte, da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attivita' illecite connesse a taluno dei reati di cui al primo periodo. 59. I condannati ai quali sia stata applicata la sanzione accessoria di cui al comma 58, primo periodo, possono beneficiare, una volta che la pena sia stata completamente eseguita e previa presentazione di apposita domanda, delle prestazioni previste dalla normativa vigente in materia, nel caso in cui ne ricorrano i presupposti. 60. I provvedimenti adottati ai sensi del comma 58 sono comunicati, entro quindici giorni dalla data di adozione dei medesimi, all'ente titolare dei rapporti previdenziali e assistenziali facenti capo al soggetto condannato, ai fini della loro immediata esecuzione. 61. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministro della giustizia, d'intesa con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, trasmette agli enti titolari dei relativi rapporti l'elenco dei soggetti gia' condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58, ai fini della revoca, con effetto non retroattivo, delle prestazioni di cui al medesimo comma 58, primo periodo.». L'interpretazione della predetta norma sottoposta all'esame della Corte, nel senso di non prevedere alcuna possibile deroga alla revoca delle prestazioni in questione, si ricava in modo inequivoco anche dalla sentenza n. 137/2021 della Consulta, con cui ne veniva dichiarata l'illegittimita' costituzionale limitatamente alla parte «in cui prevede la revoca delle prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, quali l'indennita' di disoccupazione, l'assegno sociale, la pensione sociale e la pensione per gli invalidi civili, nei confronti di coloro che scontino la pena in regime alternativo alla detenzione in carcere;». Nel presente giudizio, la questione di legittimita' costituzionale viene sollevata in relazione al diverso profilo dell'irretroattivita' delle sanzioni di natura sostanzialmente penale, imposto dall'art. 25 della Costituzione e 117 della Costituzione in relazione all'art. 7 CEDU, questione non affrontata neppure nella sentenza appena citata, poiche' ritenuta non ammissibile in relazione alla formulazione dell'ordinanza di rimessione del Tribunale di Fermo. Il comma 58 dell'art. 2 della legge n. 92/2012 definisce la revoca della prestazione assistenziale o previdenziale come «sanzione accessoria» della pena principale, che va irrogata dal Giudice penale qualora sia intervenuta condanna per i reati ivi elencati. Rispetto a tale previsione il comma 61 impone di estendere la revoca anche in presenza di condanne gia' passate in giudicato, pur limitandone l'effetto sul piano temporale, non includendo i ratei delle prestazioni gia' erogati («con effetto non retroattivo»), come accaduto proprio nella fattispecie oggetto del presente giudizio. La revoca, che nel caso del comma 58 costituisce il trattamento sanzionatorio accessorio disposto dal Giudice penale, nel caso in esame e', invece, disposta dall'ente titolare del rapporto, cosi', anzitutto imponendo all'interprete di valutare se la mera previsione di irrogazione della stessa sanzione da parte di due diversi soggetti, ma in conseguenza di un medesimo accadimento - che si differenzia solo in relazione all'epoca in cui e' avvenuto - possa portare a ritenere la diversa natura di sanzione penale accessoria (per la prima) o effetto extrapenale della condanna penale (per la seconda). Nel caso di specie la peculiarita' della fattispecie concreta - ossia essere intervenuta la revoca rispetto ad una provvidenza riconosciuta con effetto da un momento successivo all'entrata in vigore della legge n. 92 del 2012 - non muta i termini della questione: l'Istituto previdenziale, infatti, al tempo del riconoscimento del beneficio, non aveva avuto ancora notizia della condanna penale. Invero si tratta pur sempre di misura che produce i propri effetti sul presupposto di una condanna penale e, tanto piu' di un fatto criminoso, anteriore rispetto all'entrata in vigore della norma che prevede la sanzione della revoca della prestazione. E' proprio rispetto a tale modo di operare della disposizione, infatti, che si pone il dubbio di conformita' a Costituzione, anche alla stregua della Carta dei diritti dell'uomo richiamata ex art. 117 della Costituzione. A sostegno della questione di illegittimita' costituzionale che si prospetta deve considerarsi, in primo luogo, che il tema della qualificazione della misura prevista dall'art. 2, comma 61 - in particolare se si tratti di «sanzione accessoria» o mero effetto extra penale ed anche ove venisse risolto in favore di quest'ultima qualificazione il dubbio in proposito sopra avanzato - non risulterebbe dirimente, alla luce dei parametri rispetto ai quali deve essere verificato se si tratti di misura che in senso lato costituisca «sanzione penale». Infatti, sul punto l'indagine dell'interprete non puo' svolgersi sul piano meramente formale, ma su quello sostanziale riguardante i presupposti, la finalita' e gli effetti propri della revoca. In questi termini, infatti, si impone di valutare la norma, sulla scorta della previsione dell'art. 117, comma 1 della Costituzione in relazione all'art. 7 della CEDU (vedi Corte costituzionale n. 348 e n. 349 del 2007, secondo la quale si reputa che l'art. 117, comma 1, «viene integrato e reso operativo dalle norme della CEDU, la cui funzione e' quindi di concretizzare nella fattispecie la consistenza degli obblighi internazionali dello Stato.»). Orbene, alla luce della ragione che viene posta a fondamento della disciplina introdotta dalla legge n. 92 del 2012 - costituita dalla volonta' di sancire il marcato disvalore sociale dei reati richiamati, per il gravissimo allarme sociale che producono, mediante la previsione che tali condotte siano incompatibili con le finalita' dell'art. 38 della Costituzione -, deve rilevarsi che comuni alle previsioni dei commi 58 e 61 sono il presupposto, dato dell'intervenuta sentenza di condanna (nel caso qui in esame passata in giudicato), quale condizione necessaria per la revoca del beneficio, e lo stato di esecuzione della pena, quale limite per l'esclusione temporanea della provvidenza, momento dopo il quale la prestazione puo' essere ripristinata. In questa prospettiva va ripresa la distinzione gia' operata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 276 del 2016 che, nello scrutinare la diversa materia dell'incandidabilita', decadenza e sospensione, ha ritenuto non fondata la questione di legittimita' costituzionale della disciplina del decreto legislativo n. 235 del 2012 (in violazione degli artt. 25, secondo comma, e 117, primo comma della Costituzione, quest'ultimo, in relazione all'art. 7 della CEDU), con riguardo alla previsione della sospensione dalla carica degli amministratori regionali e locali che abbiano riportato una condanna non definitiva per uno dei reati in esse previsti, sollevata in relazione al fatto che la sua applicazione non e' limitata alle sentenze di condanna relative a reati consumati dopo la loro entrata in vigore (argomentando la Consulta anche in relazione alla natura della normativa elettorale interna di ciascuno degli Stati membri dell'Unione). La Consulta, nella citata pronuncia, ha osservato che «l'art. 25, secondo comma, della Costituzione riferisce il principio di stretta legalita' soltanto alla pena, disponendo che "nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". Anche con riguardo alle misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto questa Corte ha affermato che sussiste "l'esigenza della prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all'applicazione (o alla non applicazione) di esse"» (sentenza n. 447 del 1988), e ha inoltre precisato come la necessita' «che sia la legge a configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire» risulti pur sempre «ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione» (sentenza n. 78 del 1967). La Corte ha inoltre affermato che il principio, desumibile dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, secondo cui tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto e' «desumibile anche dall'art. 25, secondo comma della Costituzione, il quale data l'ampiezza della sua formulazione ("Nessuno puo' essere punito ...") puo' essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile in senso stretto a vere e proprie misure di sicurezza), e' applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti gia' vigente al momento della commissione del fatto sanzionato (sentenza n. 196 del 2010; nello stesso senso anche la successiva pronuncia n. 104 del 2014).». Proprio con riguardo a tale ultimo profilo la Corte ha quindi affermato: «Nella sua ormai quarantennale giurisprudenza in tema, la Corte di Strasbrugo ha individuato tre figure sintomatiche della natura penale di una sanzione (i cosiddetti criteri "Engel"): la qualificazione dell'illecito operata dal diritto nazionale; la natura della sanzione, alla luce della sua funzione punitiva-deterrente; la sua severita', ovvero la gravita' del sacrificio imposto (sentenza 8 giugno 1976, Engel c. Olanda; i principi da essa enunciati sono stati confermati da molte sentenze successive: ... Come ribadito da ultimo nella sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens e altri c. Italia, questi criteri sono "alternativi e non cumulativi", ma cio' non impedisce di adottare un "approccio cumulativo se l'analisi separata di ciascun criterio non permette di arrivare ad una conclusione chiara in merito alla sussistenza di una "accusa in materia penale" (Jussila c. Finlandia [GC], n. 73053/01, §§ 30 e 31, CEDU 2006-XIII, e Zaicevs c. Lettonia, n. 65022/01, § 31, CEDU 2007-IX)" (paragrafo 94). 5.5. - La qualificazione sostanziale come pena, nel senso della nozione elaborata dalla Corte di Strasburgo, di una misura prevista dall'ordinamento interno che incida negativamente nella sfera del destinatario, comporta che siano applicabili ad essa le garanzie previste dalla CEDU, quali in particolare: il diritto al giusto processo in materia civile e penale (art. 6); il principio nulla poena sine lege (art. 7); il divieto del bis in idem (art. 4, paragrafo 1, del protocollo n. 7). Spetta nondimeno a questa Corte valutare come ed in qual misura il prodotto dell'interpretazione della Corte europea si inserisca nell'ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell'art. 117 della Costituzione, da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto cio' che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte e' chiamata in tutti i giudizi di sua competenza" (sentenza n. 317 del 2009). In altri termini, spetta a essa di apprezzare la giurisprudenza europea formatasi sulla norma conferente, "in modo da rispettarne la sostanza, ma con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarita' dell'ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale e' destinata a inserirsi (sentenza n. 311 del 2009)" (sentenza n. 236 del 2011; da ultimo, sentenza n. 193 del 2016).». Inoltre, e' stato evidenziato che «La natura punitiva della misura si desume, secondo la giurisprudenza di Strasburgo, da un complesso di elementi, tra i quali principalmente il tipo di condotta sanzionata, il nesso fra la misura inflitta e l'accertamento di un reato, la presenza di beni e interessi tradizionalmente affidati alla sfera penale, il procedimento con il quale la misura e' adottata.». Orbene, l'applicazione dei ricordati principi affermati dalla Consulta e dalla Corte EDU alla fattispecie porta proprio al dubbio di legittimita' costituzionale che si solleva. Nel caso di specie, la revoca - va ricordato - inerisce a condanna per una platea di reati connotata dell'estrema gravita' del trattamento sanzionatorio e per il tratto comune dell'elevato allarme sociale che la loro commissione determina, di talche' il legislatore ha ritenuto che, a fronte della gravita' della lesione perpetrata in danno dell'ordinamento e del pregiudizio alla civile convivenza, le ragioni ed i presupposti per il godimento del beneficio - espressione del principio fissato dall'art. 38 della Costituzione - riconosciuto all'anziano indigente, siano recessivi rispetto alla necessita' di un'adeguata reazione dello ordinamento stesso. In questa prospettiva, tuttavia, per verificare in concreto se la revoca in oggetto costituisca una sanzione di natura penale, appare necessario valutare se risultino integrati i cosiddetti «criteri di Engel», tra loro alternativi, ma valutabili anche nel loro insieme, costituiti dalla qualificazione dell'illecito operata dal diritto nazionale, dalla natura della sanzione - alla luce della sua funzione punitiva-deterrente -, della sua severita' ovvero dalla gravita' del sacrificio imposto. Quanto al primo si e' precisato che si tratta di aspetto non dirimente (secondo la stessa decisione CEDU, sentenza Engel e a. c. Paesi Bassi (Grande Camera) dell'8 giugno 1976 (ricorsi n. 5100/71; n. 5101/71; n. 5102/71; n. 5354/72; n. 5370/72, Serie A n. 22, § 82); quanto al secondo e' stato chiarito che si tratta di trattamento strettamente connesso alla condanna penale, tanto da determinare un automatismo che non ammette sindacato ne' in sede amministrativa ne' in sede giurisdizionale, la cui applicazione opera nella comunanza dei presupposti nelle due sedi; la funzione punitiva e deterrente, quindi viene esaltata con l'aggravamento insito nella «pena civile» di cui si tratta. Tale secondo criterio appare qualificare la sanzione in oggetto come sanzione penale, proprio per l'automatismo che esclude qualsiasi discrezionalita' nella sua applicazione, legata alla condanna penale, alla quale si aggiunge. Il terzo criterio attiene alla severita' della sanzione ovvero alla gravita' del sacrificio imposto al soggetto passivo, con evidentemente riferimento alla situazione soggettiva di questi, per il quale una certa sanzione comporta come conseguenza un «grave sacrificio». Orbene, anche questo terzo criterio, ad avviso di questa Giudice, risulta integrato nella fattispecie. L'assegno sociale revocato, infatti, «rappresenta una prestazione di base avente natura assistenziale ed in quanto tale e' volta ad assicurare "i mezzi necessari per vivere" (ai sensi dell'art. 38 della Costituzione, comma 1) alle persone anziane che hanno superato una prefissata soglia di eta', e che non dispongono di tutela previdenziale per fronteggiare l'evento della vecchiaia. Il relativo diritto si fonda sullo stato di bisogno accertato del titolare che viene desunto, in base alla legge, dalla mancanza di redditi o dall'insufficienza di quelli percepiti al disotto del limite massimo indicato dalla legge. L'assegno viene infatti corrisposto per intero o ad integrazione, a coloro che, compiuta l'eta' prevista (oggi rileva l'eta' di sessantasette anni), siano privi di reddito o godano di un reddito inferiore al limite fissato dalla legge (raddoppiato in ipotesi di coniugio) ed adeguato nel tempo dal legislatore (da ultimo legge n. 448 del 2011, art. 38, comma 1, lettera b).», come ritenuto da Cassazione, Sez. VI, n. 14513/2020. Al fine di determinare lo stato di bisogno del soggetto che ne richieda l'erogazione, vanno valutati tutti i redditi in concreto percepiti dal medesimo e dal coniuge - nella specie rientranti nei limiti di legge, come accertato - atteso che «Nell'interpretare tale disposizione, questa Corte ha gia' affermato che, essendo il conguaglio strettamente connesso non alla mera titolarita' di un reddito, bensi' alla sua effettiva percezione, e' da ritenere che il reddito incompatibile in tanto rilevi in quanto sia stato effettivamente acquisito al patrimonio dell'assistito: una lettura costituzionalmente orientata della norma in esame esclude infatti che si possa negare l'assegno a coloro che, pur essendo astrattamente titolari di un reddito totalmente o parzialmente incompatibile con l'assegno sociale, si vengano a trovare, in conseguenza della mancata percezione di fatto di tale reddito, nella medesima situazione reddituale di coloro che hanno diritto all'assegno sociale (cosi' Cassazione n. 6570 del 2010, cit. dalla sentenza impugnata).», come di recente affermato da Cassazione, Sez. lav., 15 settembre 2021, n. 24954, che ha altresi' ritenuto che non e' dato rinvenire «ne' nella lettera ne' nella ratio della legge n. 335 del 1995, art. 3, comma 6, alcuna indicazione circa il fatto che lo stato di bisogno, per essere normativamente rilevante, debba essere anche incolpevole: al contrario, la condizione legittimante per l'accesso alla prestazione assistenziale rileva nella sua mera oggettivita'. La previsione secondo cui il reddito rilevante ai fini del diritto all'assegno "e' costituito dall'ammontare dei redditi (...) conseguibili nell'anno solare di riferimento" dev'essere infatti interpretata in stretta connessione con quella immediatamente successiva, secondo cui, come appena ricordato, l'assegno "e' erogato con carattere di provvisorieta' sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed e' conguagliato (...) sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti": vale a dire che all'assistito e' richiesto soltanto di formulare una prognosi riguardante i redditi percepibili in relazione allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della domanda, fermo restando che la corresponsione effettiva dell'assegno dovra' essere parametrata a cio' che di tali redditi risulti "effettivamente percepito". Si deve piuttosto aggiungere che tale conclusione s'impone in ragione del fatto che il sistema di sicurezza sociale delineato dalla Costituzione non consente di ritenere in via generale che l'intervento pubblico a favore dei bisognosi abbia carattere sussidiario, ossia che possa aver luogo solo nel caso in cui manchino obbligati al mantenimento e/o agli alimenti in grado di provvedervi: ...». Pertanto, la sanzione oggetto di sindacato e' costituita dalla revoca delle prestazioni che lo Stato appresta in favore degli anziani in stato di bisogno - cosi' come degli invalidi e di altri soggetti in stato di svantaggio sociale, quanto ad altre prestazioni del pari previste dalla norma oggetto di sindacato - al fine di garantire loro i mezzi necessari per vivere. Parte ricorrente, del resto, ha osservato che, in ogni caso, si tratta di prestazioni che i titolari utilizzano per consentire la sopravvivenza del nucleo familiare e che il venir meno della prestazione in questione rappresenta in concreto un grave danno non solo per il condannato, ma anche per la sua famiglia, atteso che - nella specie - ella coniuge e' priva di redditi (come risulta provato in atti). In tale contesto, la sanzione in questione, della revoca dell'assegno sociale o di altre prestazioni assistenziali dovute ai soggetti svantaggiati, finalizzate a garantire ai titolari e al loro nucleo familiare i mezzi di sussistenza non puo' valutarsi che di rilevante gravita', quanto al sacrificio imposto al soggetto passivo. Osserva, infatti, questa Giudice che la gravita' della sanzione, sub specie del sacrificio imposto, va valutata soggettivamente, in relazione al pregiudizio cagionato al soggetto (inteso come categoria di soggetti) che ne e' destinatario, come del resto sotteso alle pronunce citate della Corte EDU, e non in senso assoluto, sicche' va certamente valutata come foriera di gravi conseguenze per il soggetto interessato una sanzione che abbia come effetto il privare il medesimo e la sua famiglia dei mezzi di sostentamento, a prescindere dall'entita' della somma a tal fine mensilmente erogata dall'Istituto previdenziale (nella fattispecie pari ad euro per dodici mensilita' annue, oltre tredicesima pari ad euro , come da documentazione in atti). Nella specie, quindi, ritiene questa Giudice che la integrazione del secondo e del terzo criterio indicati, anche nell'ambito di una valutazione complessiva dei cd. criteri «Engels», porti a concludere per la natura sostanzialmente penale della sanzione in questione, atteso che essa viene comminata in conseguenza della commissione di gravi illeciti penali, con funzione punitiva - in considerazione della gravita' e del grave allarme sociale prodotto dalle condotte illecite - e che produce per il destinatario un sacrificio di rilevante gravita', costituito dall'impossibilita' di provvedere al reperimento dei mezzi di sussistenza per se' e per i familiari, che si aggiunge agli effetti della sanzione penale gia' comminata e di estrema severita'. Per tali ragioni, deve dubitarsi della legittimita' costituzionale di una norma che prevede l'applicazione di detta sanzione, di natura sostanzialmente penale, a gravi fatti di reato commessi prima dell'entrata in vigore della norma, con la conseguenza che il soggetto agente non avrebbe mai potuto rappresentarsela come una delle conseguenze della propria azione delittuosa. Questa impostazione interpretativa - come gia' osservato dalla Corte d'appello di Venezia nell'ordinanza citata di rimessione di analoga questione - e' stata avallata dalla stessa giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 196 del 2010) in fattispecie che si connota per alcune analogie con il caso in esame. Con la sentenza citata e' stata oggetto di vaglio costituzionale la previsione dell'art. 186 c.d.s. rispetto ai parametri degli artt. 3 e 117 della Costituzione, con specifico riguardo alla «sanzione» della confisca del veicolo. La Consulta ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale della norma «limitatamente alle parole "ai sensi dell'art. 240, secondo comma, del codice penale", dell'art. 186, comma 2, lettera c)». In motivazione la Corte ha affermato: a) la necessita' di chiarire preliminarmente se il legislatore qualifichi in termini di misura di sicurezza o meno la confisca «al fine di impedire che risposte di segno repressivo, e quindi con i caratteri propri delle pene in senso stretto, si prestino ad essere qualificate come misure di sicurezza» con «surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale»; b) la necessita' di adottare criteri interpretativi che «in aggiunta a quello della qualificazione giuridico-formale attribuita nel diritto nazionale» «sulla base di due sottocriteri, costituiti dall'ambito di applicazione della norma che lo preveda e dallo scopo della sanzione - ovvero alla gravita', o meglio al grado di severita', della sanzione irrogata.»; c) la necessita' di conformare l'interpretazione della norma interna in conformita' alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo sull'interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, per cui «tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto.»; d) la coerenza di tale principio con quello dell'art. 25, secondo comma della Costituzione «il quale - data l'ampiezza della sua formulazione ("Nessuno puo' essere punito ...") - puo' essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile - in senso stretto - a vere e proprie misure di sicurezza), e' applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti gia' vigente al momento della commissione del fatto sanzionato.»; e) la natura essenzialmente sanzionatoria della confisca dell'art. 186 c.d.s. in quanto al di la' della sua qualificazione formale, presenta una funzione sanzionatoria e meramente repressiva e non preventiva, trattandosi di misura applicabile anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile «sicche' la misura della confisca si presenta non idonea a neutralizzare la situazione di pericolo per la cui prevenzione e' stata concepita». Come nel caso ora esaminato, quindi, si impone una valutazione circa il carattere «elusivo» della previsione sospettata di non essere conforme al dettato costituzionale, in quanto riferita ad un ambito, quello della gestione del rapporto previdenziale, apparentemente neutro; si impone, altresi', la considerazione circa il carattere meramente punitivo della sanzione aggiuntiva, che, come risulta evidente, non ha alcuna specifica funzione di prevenzione rispetto alla commissione dei gravi delitti che con essa vengono altresi' sanzionati. Tale ricostruzione interpretativa della sanzione di natura sostanzialmente penale porta, quindi, a ritenere - come accennato - che la previsione legislativa dell'applicazione della revoca delle prestazioni assistenziali in oggetto, come conseguenza di condanne penali irrogate in epoca anteriore alla sua entrata in vigore, per fatti ancora anteriori, si traduca nel vulnus ai precetti costituzionali sopra richiamati. Deve dunque ritenersi rilevante e non manifestamente infondato il dubbio di costituzionalita' della norma dell'art. 2, comma 61, della legge n. 92/2012 per contrasto con gli artt. 25, comma 2, della Costituzione e 117, comma 1, della Costituzione in relazione all'art. 7 CEDU, per il fatto di prevedere l'applicazione di una sanzione di natura sostanzialmente penale a fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore. Per la rilevanza della questione, va ribadito che la revoca operata dall'INPS si appalesa del tutto rispettosa della normativa citata, sicche' la eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale della medesima norma porterebbe ad una pronuncia all'evidenza di segno diametralmente opposto a quello in atto doveroso, rendendo illegittima la revoca della prestazione assistenziale oggetto di causa, con conseguente diritto della parte ricorrente a ottenere la condanna dell'Istituto alla sua riattivazione e al suo pagamento, come richiesto in ricorso, che, in atto, andrebbe sul punto rigettato, atteso che il condannato - per fatti commessi in epoca ben anteriore all'entrata in vigore della Legge Fornero - si trova in regime di detenzione carceraria, scontando la pena dell'ergastolo (cd. ostativo).
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 della legge n. 87 del 1953: a) dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 61 della legge n. 92 del 2012, che prevede la revoca delle prestazioni previdenziali o assistenziali «... comunque denominate in base alla legislazione vigente, di cui il condannato sia eventualmente titolare: indennita' di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili» nei confronti dei «soggetti gia' condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58, ... con effetto non retroattivo.», in rapporto agli artt. 25 della Costituzione e 117 della Costituzione in relazione all'art. 7 CEDU; b) dispone la sospensione del presente giudizio; c) ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti del giudizio ed al Presidente del Consiglio dei ministri; d) ordina, altresi', che l'ordinanza venga comunicata dal cancelliere ai Presidenti delle due Camere del Parlamento; e) dispone l'immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione attestante il perfezionamento delle prescritte notificazioni e comunicazioni, alla Corte costituzionale. Manda alla cancelleria per ogni adempimento di competenza. Palermo, a seguito dell'udienza di trattazione scritta del 14 settembre 2022 La Giudice del lavoro: Marino