N. 126 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 agosto 2023

Ordinanza dell'8 agosto 2023 del Tribunale di Arezzo nel procedimento
liquidatorio nei confronti di L. H.. 
 
Fallimento e procedure concorsuali - Codice della crisi  d'impresa  e
  dell'insolvenza - Liquidazione controllata del debitore in stato di
  sovraindebitamento -  Omessa  previsione  di  un  limite  temporale
  all'acquisizione di beni sopravvenuti all'apertura della  procedura
  concorsuale. 
- Decreto legislativo 12 gennaio 2019,  n.  14  (Codice  della  crisi
  d'impresa e dell'insolvenza in attuazione della  legge  19  ottobre
  2017, n. 155), art. 142, comma 2. 
(GU n.40 del 4-10-2023 )
 
                    TRIBUNALE ORDINARIO DI AREZZO 
                    Ufficio procedure concorsuali 
 
     Il giudice delegato, dott. Federico Pani, 
    letto il programma di liquidazione depositato dai liquidatori; 
    Visto  l'art.  282  del  decreto  legislativo  n.  14/2019   (nel
proseguo, per comodita', anche soltanto «CCII»)  a  mente  del  quale
«entro novanta giorni dall'apertura della liquidazione controllata il
liquidatore completa l'inventario dei beni del debitore e  redige  un
programma in ordine a tempi e modalita' della liquidazione» che viene
«approvato dal giudice delegato»  (comma  2)  e  «il  programma  deve
assicurare la ragionevole durata della procedura» (comma 3); 
    Osservato  che  le  modalita'  di  liquidazione  individuate  dai
liquidatori  (nel  caso   di   specie   sostanzialmente   consistenti
nell'acquisizione del ricavato dalla vendita della quota pari  a  1/2
di piena  proprieta'  avvenuta  in  sede  esecutiva,  gia'  avvenuta,
nonche' nell'apprensione della retribuzione mensile  al  netto  della
quota necessaria per il mantenimento) risultano conformi alla legge; 
    Rilevato che i liquidatori hanno previsto in sette mesi la durata
della procedura, i quali risultano gia' trascorsi; 
 
                               Osserva 
 
    Come noto, la  procedura  di  liquidazione  controllata  prevista
dagli  artt.  268  e  seguenti   CCII   rappresenta   l'erede   della
liquidazione  del  patrimonio  disciplinata  dagli  artt.  14-ter   e
seguenti della legge n.  3/2012.  Sotto  il  vigore  di  quest'ultima
disciplina la giurisprudenza si era consolidata nel senso di ritenere
ammissibile l'apertura  dalle  procedure  liquidatorie  del  debitore
sovraindebitato anche qualora il  patrimonio  di  quest'ultimo  fosse
sprovvisto di beni suscettibili di liquidazione (con cio'  intendendo
un  procedimento  finalizzato  all'alienazione  di  asset  di   norma
mediante procedure competitive) ma il debitore richiedente godesse di
una retribuzione e/o di una pensione da poter mettere a  disposizione
dei creditori, fatta eccezione per la quota  strettamente  necessaria
al mantenimento suo e della propria famiglia (in questi  termini,  ex
plurimis, Tribunale di Verona del 21  dicembre  2018,  reperibile  su
www.ilcaso.it).  A   maggior   ragione,   ovviamente,   si   riteneva
ammissibile l'apertura della liquidazione del patrimonio in  presenza
di beni liquidabili (es. un immobile o un bene mobile  registrato)  e
la sua  prosecuzione  per  un  lasso  di  tempo  ulteriore  a  quello
impiegato per la liquidazione di tali asset in  presenza  di  redditi
acquisibili alla massa. 
    Tali soluzioni non risultavano del tutto distoniche rispetto alla
procedura  concorsuale  piu'  vicina  sul   piano   tipologico   alla
liquidazione del patrimonio, vale a dire  il  fallimento.  L'apertura
del fallimento, infatti, risultava indifferente alla  totale  assenza
di beni nel patrimonio dell' imprenditore; elemento che assumeva solo
indirettamente rilievo nell'ambito dei requisiti dimensionali sanciti
dall'art. l, comma 2, l.f.. In  presenza  di  un'impresa  individuale
(coinvolgente quindi una persona fisica) o di  soci  persone  fisiche
falliti per estensione, quindi, era perfettamente  possibile  che  si
presentasse  la  situazione  nella  quale  non  vi  fossero  beni  da
liquidare ma soltanto  stipendi  mensili  o  ratei  pensionistici  da
apprendere alla massa. 
    La disposizione che nei fallimenti legittimava  l'apprensione  di
tali somme - il diritto  alle  quali  maturava  necessariamente  dopo
l'apertura del fallimento - era l'art. 42, comma 2, l.f.,  che  cosi'
recitava: «sono compresi nel fallimento anche i beni  che  pervengono
al fallito durante il fallimento, dedotte  le  passivita'  incontrate
per  l'acquisto  e  la  conservazione  dei  beni   medesimi».   Nella
liquidazione del patrimonio, invece, si faceva  riferimento  all'art.
14-undecies della legge n. 3/2012: «i beni sopravvenuti  nei  quattro
anni successivi al deposito della  domanda  di  liquidazione  di  cui
all'art.  14-ter  costituiscono  oggetto  della  stessa,  dedotte  le
passivita' incontrate per l'acquisto  e  la  conservazione  dei  beni
medesimi». Come agevolmente notabile, la differenza tra le due  norme
risiedeva esclusivamente nel fatto che la seconda, a differenza della
prima, fissava un orizzonte temporale massimo, pari a  quattro  anni.
Da tale disposizione veniva fatta discendere la  conclusione  che  la
liquidazione del patrimonio del debitore sovraindebitato potesse  si'
proseguire anche in assenza di beni da liquidare  e  in  presenza  di
redditi da acquisire, ma non oltre il limite  temporale  dei  quattro
anni dal deposito della domanda di liquidazione. 
    Siffatta soluzione - obiettivamente obbligata nella  liquidazione
del patrimonio  -  non  poteva  essere  replicata  nel  contesto  del
fallimento, essendo per l'appunto  assente  un  limite  temporale  di
acquisizione. Tale assenza, tuttavia, non poteva significare che  nei
fallimenti con le medesime caratteristiche (vale a  dire  con  nessun
bene da liquidare ma con redditi da acquisire)  non  vi  fosse  alcun
limite temporale. Una simile conclusione  sarebbe  stata  ictu  oculi
irragionevole, tantopiu' in un contesto nel quale la  persona  fisica
fallita poteva aspirare all'esdebitazione soltanto contestualmente  o
dopo la chiusura della procedura concorsuale. Questo Tribunale  aveva
ritenuto allora che l'acquisizione dei redditi  del  fallito  sarebbe
proseguita fintantoche' fosse stato necessario  a  coprire  le  spese
prededucibili del  fallimento;  cio'  postulando  che  sarebbe  stato
irragionevole  disporre  una  chiusura  a  tal  punto  prematura   da
determinare l'allocazione di suddette spese a  carico  dell'Erario  a
norma dell'art. 146 del decreto del Presidente  della  Repubblica  n.
115/2002. 
    In questo scenario si e' inserito il CCII, il quale ha  apportato
modifiche piuttosto rilevanti alla disciplina della liquidazione  del
debitore  sovraindebitato  (denominata   liquidazione   controllata).
Soffermandoci su cio' che pare di  piu'  stretto  interesse,  non  e'
stata replicata la disposizione contenuta all'art. 14-unclecies della
legge  n.  3/2012,  sicche'  e'  bene  soffermarsi  sulle   possibili
implicazioni sistematiche di tale elisione. 
    Sicuramente  puo'  escludersi  che  la   sua   assenza   implichi
l'inammissibilita'  in  radice  dei  ricorsi  volti  all'apertura  di
liquidazioni controllate «senza beni».  Invero,  le  ragioni  che  la
giurisprudenza aveva enucleato a favore della possibilita' di  aprire
la liquidazione del patrimonio con  soli  redditi  erano  svariate  e
sostanzialmente  sganciate  dal  peso  specifico  assunto   dall'art.
14-undecies, vale a dire (sinteticamente): 
        la somiglianza tipologica tra liquidazione del  patrimonio  e
fallimento e la constatazione che quest'ultimo potesse aprirsi  anche
in assenza di beni in capo al fallito; 
        il fatto che  la  legge  escludesse  dalla  liquidazione  gli
stipendi e le pensioni  nei  soli  limiti  di  quanto  occorresse  al
mantenimento, con cio' implicitamente confermando la possibilita'  di
apprendere  tali  emolumenti  periodici   e   certamente   successivi
all'apertura della liquidazione; 
        il fatto che  pacificamente  fossero  proponibili  piani  del
consumatore o accordi di ristrutturazione del debito fondati soltanto
su attivo reddituale e che,  in  caso  di  risoluzione  del  piano  o
dell'accordo, potesse  aprirsi  la  liquidazione  del  patrimonio  su
richiesta di un creditore. 
    Il Codice, anzi, ha avvalorato  ulteriormente  tali  conclusioni,
avvicinando  ancora  di  piu'  la   liquidazione   controllata   alla
liquidazione giudiziale  da  un  punto  di  vista  procedurale.  Tale
somiglianza (o forse e' meglio dire quasi identita') tipologica  pare
giustificare la conclusione secondo la quale anche nella liquidazione
controllata trova applicazione la regola impressa all'art. 142, comma
2, CCII, che nella disciplina della liquidazione giudiziale riproduce
esattamente l'art. 42,  comma  2,  della  legge  fallimentare  («sono
compresi nella liquidazione giudiziale anche i beni che pervengono al
debitore durante la procedura, dedotte le passivita'  incontrate  per
l'acquisto e la conservazione dei  beni  medesimi»).  D'altra  parte,
come appena detto, l'art. 268, comma 4, lettera b), CCII, esattamente
come l'art. 14-ter, comma  6,  lettera  b)  della  legge  n.  3/2012,
sancisce l'esclusione dalla  procedura  della  sola  quota  parte  di
stipendio e pensione che oltrepassa il limite di mantenimento fissato
dal giudice,  ragion  per  cui,  implicitamente,  il  legislatore  ha
confermato la possibilita' che i redditi futuri  siano  appresi  alla
procedura. 
    Come gia' visto, tuttavia, l'art.  42  l.f.  (e  oggi  egualmente
l'art. 142 CCII), a differenza dell'abrogato art.  14-undecies  della
legge n. 3/2012, non sancisce alcun limite temporale, ragion per  cui
e' venuto meno l'appiglio normativo in forza del quale l'acquisizione
delle quote di reddito veniva limitata al primo quadriennio. Si  pone
allora  nella  liquidazione  controllata   il   tema   della   durata
dell'apprensione reddituale allo stesso modo in  cui  si  pone  nella
liquidazione giudiziale. 
    Una prima soluzione ipotizzabile parrebbe quella gia' adottata da
questo  Tribunale  in  presenza   di   un   fallimento   con   simili
caratteristiche, alla  quale  si  e'  fatto  sopra  cenno.  In  buona
sostanza, in assenza di riferimenti normativi  in  ordine  ai  limiti
temporali  di  apprensione  e  dovendosi  ovviamente  escludere   che
l'acquisizione possa  durare  vita  natural  durante,  l'acquisizione
sarebbe possibile fino a quando non venga raggiunto un attivo tale da
coprire le spese della procedura; cio' per  evitare  che  tali  spese
(ivi  compreso  il  compenso  del  curatore)  finiscano  per   essere
scaricate sulla collettivita'. 
    Una  seconda  soluzione  -  sostanzialmente  fatta  propria   dai
liquidatori nella presente procedura, come  meglio  si  vedra'  -  e'
tarare la durata dell'apprensione, e quindi della procedura, in  modo
tale da assicurare una minima soddisfazione per il ceto creditorio, e
quindi  andare  oltre  la  pura  e  semplice  copertura  delle  spese
prededucibili. 
    Infine, una terza soluzione e'  quella  suggerita  da  una  parte
della giurisprudenza di merito (Tribunale di Verona del 20  settembre
2022, reperibile su www.dirittodellacrisi.it e Tribunale  di  Bologna
del 29 novembre 2022, reperibile su www.ilcaso.it). Tali sentenze  si
sono  opportunamente  occupate  del  problema  della   durata   delle
liquidazioni controllate fin dagli albori, vale  a  dire  al  momento
dell'apertura. Entrambe  hanno  fatto  leva  sulla  nuova  disciplina
dell'esdebitazione,  beneficio  che,  a  differenza  che  nel  regime
previgente,  opera  a  prescindere  dagli   esiti   delle   procedure
concorsuali (e in particolare dal soddisfacimento concretamente avuto
dai creditori) ed eventualmente anche in pendenza di  queste  ultime.
Piu' in particolare,  tanto  l'art.  279  CCII  per  la  liquidazione
giudiziale quanto l'art. 282 CCII  per  la  liquidazione  controllata
sanciscono il  diritto  del  debitore  a  conseguire  l'esdebitazione
«decorsi tre anni dall'apertura della procedura di liquidazione o  al
momento della chiusura della procedura, se antecedente», con  l'unica
differenza che, una volta trascorsi i  tre  anni,  nel  secondo  caso
l'esdebitazione opera di diritto, mentre nel primo caso e' necessaria
una richiesta del debitore (si veda al riguardo l'art. 281, comma  2,
CCII). Ecco, secondo il ragionamento delle  sentenze  citate  sarebbe
possibile   l'apprensione   di   stipendio   e   pensione   fino   al
raggiungimento  dei   tre   anni   dall'apertura   della   procedura,
dopodiche', in assenza di altre attivita' liquidatorie in essere,  al
liquidatore non rimarrebbe altra  scelta  che  chiedere  la  chiusura
della procedura. 
    Quest'ultima interpretazione e' sicuramente  condivisibile  nella
parte in cui sostiene che, trascorso il  triennio  (quantomeno  nella
liquidazione controllata: nella liquidazione giudiziale, infatti,  e'
necessaria un'apposita domanda da parte del debitore, per cui qualora
essa non sia depositata o comunque fintantoche' il Tribunale  non  si
sia espresso, non puo' prodursi alcun effetto esdebitativo),  non  e'
piu' possibile acquisire quote  stipendiali  all'attivo  procedurale.
Non pare tuttavia rappresentare  la  soluzione  al  problema  qui  in
esame, per piu' ragioni. 
    Anzitutto,  l'esdebitazione  non  costituisce   un   automatismo,
passando pur sempre dal vaglio giudiziale circa la sussistenza  delle
condizioni sancite dall'art. 280 CCII (e, nel  caso  di  liquidazione
controllata, anche  dall'esclusione  da  parte  del  giudice  che  il
debitore abbia determinato la situazione  di  sovraindebitamento  con
colpa grave, malafede o frode). In  caso  di  mancata  esdebitazione,
quindi, rimarrebbe  intatto  il  problema  alla  base,  vale  a  dire
determinare il limite temporale di apprensione dei redditi. 
    Piu' in generale, l'interpretazione in  questione  e'  senz'altro
utile a determinare il limite massimo di  acquisizione  dei  redditi,
quale conseguenza dell'effetto esdebitativo previsto dalla legge,  ma
non esclude che possa esserci un diverso limite minimo, e  cioe'  che
l'acquisizione di redditi possa durare  meno  in  totale  assenza  di
altre attivita' liquidatorie da porre in essere. Detto altrimenti, il
limite   delineato    dalle    sentenze    in    questione    risulta
indiscutibilmente utile, ed anzi e' ineludibile, nel caso in  cui  le
attivita' liquidatorie lato  sensu  intese  raggiungano  i  tre  anni
dall'apertura della procedura, ma nulla esclude che,  in  assenza  di
tali attivita', la procedura si chiuda prima. 
    Pare insomma  avventato  sostenere  che  il  triennio  a  cui  il
legislatore collega l'effetto esdebitativo rappresenti  non  solo  il
(potenziale) limite massimo di  apprensione  dei  redditi,  ma  anche
quello minimo, vale a dire un termine prima del quale  una  procedura
liquidatoria non  potrebbe  mai  chiudersi  nell'ipotesi  in  cui  il
debitore percepisca un reddito. Riprova e' il fatto - gia' sondato  -
che, decorsi i tre anni, per  i  piu'  svariati  motivi  il  debitore
potrebbe non ottenere il beneficio dell'esdebitazione, situazione  in
cui  tale  termine  perderebbe  completamente  di  significato  e  si
riaprirebbe quindi l'arbitrio del liquidatore nella fissazione  della
durata. Cio' salvo non  voler  ritenere  che,  anche  in  assenza  di
esdebitazione, comunque  la  procedura  dovrebbe  chiudersi,  ma  una
simile   conclusione   appare    assurda    atteso    che,    secondo
l'interpretazione in esame, il limite dei tre anni viene  individuato
come tetto massimo proprio a cagione  dell'effetto  esdebitativo  che
renderebbe  giuridicamente  impossibile   l'apprensione   di   attivo
sopravvenuto. Detto altrimenti, non e' sostenibile che una  procedura
liquidatoria (in presenza di redditi) duri sempre e comunque tre anni
a prescindere dall'effetto esdebitativo  in  base  all'argomento  che
l'intervallo triennale  e'  quello  decorso  il  quale  si  determina
(melius: puo' determinarsi) l'effetto esdebitativo medesimo. 
    Inoltre,  sia  l'art.  279  che  l'art.  282  CCII  prevedono  la
possibilita' che l'esdebitazione  possa  essere  ottenuta  senza  che
ancora sia spirato il triennio se vi sono i presupposti per  chiudere
prima. Possibilita' - quella di chiusura ante-triennio - che in  base
a questa interpretazione sarebbe possibile solo qualora  il  debitore
non dovesse avere redditi di sorta, facendo si' quindi che una  norma
dettata solo ai fini dell'esdebitazione (e quindi di un  effetto  che
costituisce un posterius rispetto  all'apertura  della  liquidazione)
determini una diversita' di trattamento tra  debitori  percettori  di
reddito e debitori non percettori di reddito senza che di cio' vi sia
alcuna traccia ne' nella  disciplina  della  liquidazione  giudiziale
(l'art. 213, comma 5, CCII prescrive soltanto che «nel  programma  e'
indicato il termine  entro  il  quale  avra'  inizio  l'attivita'  di
liquidazione  dell'attivo  ed  il   termine   del   suo   presumibile
completamente», cosi' legando il termine solo ed esclusivamente  alla
dismissione dell'attivo oggetto  di  inventario),  ne'  tantomeno  in
quella della liquidazione controllata  (l'art.  272,  comma  2,  CCII
sancisce unicamente che «entro  novanta  giorni  dall'apertura  della
liquidazione controllata il  liquidatore  completa  l'inventario  dei
beni del debitore e redige un programma in ordine a tempi e modalita'
della liquidazione», anche  in  questo  caso,  quindi,  ancorando  il
termine di durata alla dismissione dell'attivo inventariato). 
    Occorre allora necessariamente sondare le altre  soluzioni  sopra
prospettate. 
    La soluzione secondo la quale la durata della procedura  dovrebbe
essere funzionale ad acquisire un ammontare minimo per poter non solo
coprire le spese prededucibili, ma anche soddisfare in minima parte i
creditori, non pare perseguibile. La difficolta' e'  in  primo  luogo
quella di stabilire  quale  sia  la  soglia  minima  tollerabile:  in
assenza di  riferimenti  normativi,  infatti,  la  decisione  sarebbe
rimessa alla discrezionalita' (ma forse e' meglio dire  all'arbitrio)
del liquidatore in fase di redazione del programma  di  liquidazione,
con l'effetto  (non  solo  paradossale,  ma  questo  si'  palesemente
irragionevole) che la  durata  della  procedura  potrebbe  variare  a
seconda della severita' dimostrata nel  caso  specifico  dal  singolo
liquidatore coinvolto. In secondo luogo,  un  simile  approccio  pare
poco compatibile con il principio di ragionevole durata del  processo
(peraltro richiamato dall'art.  272,  comma  3,  CCII).  Ed  infatti,
nell'ipotesi in cui il  debitore  non  possa  giovare  del  beneficio
dell'esdebitazione    e    nel    caso    in     cui     la     quota
stipendiale/pensionistica appresa all'attivo risulti  particolarmente
bassa  (anche  in  ragione  della   necessita'   di   assicurare   il
mantenimento   familiare,   che   varia   ovviamente   in    funzione
dell'ampiezza e tipologia del nucleo), una procedura concorsuale  che
intenda soddisfare i creditori in misura minima potrebbe durare anche
ben piu' dei sei anni che, ai sensi dell'art. 2, comma  2-bis,  della
legge n. 89/2001, costituisce  il  tempo  ragionevole  di  durata  di
questo  tipo  di  giudizi.  Il  riferimento  alla  Legge  Pinto  pare
piuttosto emblematico al fine di dimostrare gli  effetti  paradossali
della soluzione in esame: ed infatti proprio il  prolungamento  della
procedura esclusivamente giustificato dalla necessita' di  apprendere
risorse per pagare anche solo in parte i creditori  potrebbe  portare
(fatalmente) gli stessi creditori ad avanzare  domanda  di  pagamento
dell'equo indennizzo. 
    Passando all'altra soluzione immaginata, vale a dire  quella  che
implicherebbe una durata  per  il  tempo  strettamente  necessario  a
coprire i costi prededucibili della procedura,  valgano  le  seguenti
considerazioni. 
    Anzitutto, potrebbe  porsi  un  problema  di  ragionevolezza  nel
raffronto  con  la   disciplina   dell'esdebitazione   del   debitore
sovraindebitato  incapiente.   Trattasi   dell'istituto   contemplato
dall'art. 283 CCII che consente una volta  nella  vita  alla  persona
fisica «meritevole» che «non sia in grado  di  offrire  ai  creditori
alcuna utilita', diretta o indiretta, nemmeno in prospettiva futura»,
e quindi priva (anche)  di  uno  stipendio  o  di  una  pensione,  di
ottenere  l'esdebitazione.  Ecco,  il  comma  1  della   disposizione
richiamata prevede che sull'incapiente grava «l'obbligo di  pagamento
del debito  entro  quattro  anni  dal  decreto  del  giudice  laddove
sopravvengano utilita' rilevanti che  consentano  il  soddisfacimento
dei creditori in misura non inferiore complessivamente al  dieci  per
cento». Cio' significa  che,  in  caso  di  debitore  incapiente,  la
sopravvenienza di attivo (eventualmente anche costituita da  redditi)
potrebbe «nuocere» alla persona fisica che si  ritroverebbe  a  dover
pagare i propri creditori (passati) in caso di  raggiungimento  della
soglia del 10%, mentre  invece  in  caso  di  debitore  (minimamente)
capiente, e cioe' percettore di redditi, la procedura liquidatoria si
chiuderebbe in un lasso di tempo  verosimilmente  breve  e  senza  un
obbligo analogo a quello previsto per l'incapiente. 
    Trattasi di un effetto certamente paradossale, ma ad avviso dello
scrivente non foriero di censure di irragionevolezza. Per  quanto  il
debitore (minimamente) capiente non  soggiaccia  per  un  quadriennio
all'obbligo di pagamento del 10% (ipotesi, peraltro,  di  non  facile
verificazione), rimane il fatto che per un certo lasso di tempo (come
detto, ragionevolmente ridotto, ma non necessariamente  tale)  questi
si vedra' apprendere una parte del proprio reddito,  e  tale  effetto
costituisce senz'altro una differenza tra le due situazioni  poste  a
confronto. 
    Ne' si intravedono rischi di abuso dello strumento  esdebitativo.
Si allude con cio' al fatto  che  il  debitore  sovraindebitato  poco
capiente (id est: senza beni e con solo reddito) potrebbe beneficiare
dell'esdebitazione in un breve lasso  di  tempo  entrando  (anche  su
richiesta: art. 269 CCII) nella liquidazione controllata, conservando
cosi' la chance di  chiedere  successivamente  anche  l'esdebitazione
dell'incapiente vera e propria oppure (sempre in assenza di beni e in
presenza  di  redditi)  nuovamente   Ia   liquidazione   controllata.
L'ordinamento, infatti, predispone  i  giusti  anticorpi,  prevedendo
ostacoli temporali (cinque anni tra una  esdebitazione  e  l'altra  e
massimo due esdebitazioni nella vita) e soggettivi (il  debitore  non
deve aver aggravato il proprio dissesto o fatto  ricorso  abusivo  al
credito   o   comunque   aver   determinato    la    situazione    di
sovraindebitamento con colpa grave, malafede o frode). 
    Un  altro  profilo  di  tensione  sistematica  nella  complessiva
disciplina   delle   procedure    legate    alla    situazione    del
sovraindebitamento, e  foriero  di  effetti  quantomeno  paradossali,
potrebbe intravedersi in caso di liquidazione c.d. di  rimbalzo.  Si'
allude all'ipotesi in cui il piano di ristrutturazione dei  debiti  e
il concordato minore vengano revocati e, su  semplice  richiesta  del
debitore, si convertano in liquidazione controllata (artt.  73  e  83
CCII). Dal momento  che  sia  il  piano  che  il  concordato  possono
prevedere il soddisfacimento dei creditori  anche  solo  con  redditi
futuri, la conclusione secondo la quale in presenza di  soli  redditi
la procedura dovrebbe rimane aperta solo per il  tempo  necessario  a
coprire le spese prededucibili potrebbe - per l'appunto - determinare
un effetto paradossale, vale a dire che verrebbe aperta su iniziativa
dei creditori che vogliono «sanzionare»  il  debitore  fraudolento  o
inadempiente  una   procedura   che,   in   realta',   non   potrebbe
ontologicamente determinare per loro alcun soddisfacimento. 
    Tale  paradosso,  tuttavia,  non  e'  idoneo   a   confutare   le
conclusioni a cui sopra si e' pervenuti. Per meglio  dire,  non  pare
sostenibile che, sussistendo l'astratta possibilita' che in  caso  di
revoca di un piano ristrutturativo o di un concordato minore solo  su
base  reddituale  la  procedura  liquidatoria   sarebbe   intimamente
incapace di soddisfare anche  solo  in  minima  parte  i'  creditori,
dovrebbe trarsi necessariamente dal sistema un tempo minimo di durata
delle procedure liquidatorie a «vocazione reddituale». Il tutto senza
poi  considerare  che  l'insuccesso  tanto  del  piano   quanto   del
concordato,   il   piu'   delle   volte,   e'   determinato   proprio
dall'incapacita'  del  sovraindebitato  di  percepire   redditi   (ad
esempio, a causa della perdita dell'occupazione lavorativa),  sicche'
anche la liquidazione di una certa  durata  (arbitrariamente  fissata
dal liquidatore) potrebbe non risultare risolutiva per i creditori. 
    Maggiori  problemi,  invece,  si  pongono  avuto  riguardo   alle
implicazioni  che  la  soluzione  qui  prospettata   potrebbe   avere
sull'eventuale esecuzione forzata presso terzi in corso  nel  momento
in cui viene depositato il ricorso volto all'accesso  alla  procedura
di liquidazione controllata (che, si rammenta, puo'  essere  proposto
anche dallo stesso debitore a mente dell'art. 269 CCII). Invero,  nel
caso in cui il debitore sovraindebitato non sia proprietario di  beni
immobili o di beni mobili registrati ma solo di beni impignorabili  a
norma degli articoli 514 e 515 codice di procedura civile  e  subisca
un'esecuzione forzata  con  pignoramento  presso  terzi  (laddove  il
debitor debitoris sia il datore di lavoro o l'INPS), il  deposito  di
un ricorso volto all'apertura della liquidazione controllata potrebbe
tramutarsi   in   un    «facile»    escamotage    per:    determinare
l'improcedibilita'  dell'esecuzione  (art.   150   CCII,   richiamato
dall'art. 270, comma 5, CCII); impedire al creditore o  ai  creditori
esecutanti l'acquisizione di qualsivoglia somma giacche' la procedura
rimarrebbe aperta solo fin quanto fosse necessario a coprire le  sole
spese  della  procedura  stessa  (ergo,  principalmente,  i  compensi
dell'OCC e del liquidatore); ottenere l'esdebitazione (quantomeno  in
presenza dei requisiti soggettivi) atteso che, nel nuovo sistema,  ai
fini   dell'ottenimento   del   beneficio   non   e'   richiesto   il
soddisfacimento minimo dei creditori. 
    Ad  avviso  di  questo  giudicante,   una   simile   eventualita'
rappresenta un vero e proprio cortocircuito nella tutela del credito.
Non si ignora che quella del trattamento «preferenziale» del debitore
costituisce una linea  di  tendenza  da  tempo  percorsa  dal  nostro
legislatore  anche  sulla  spinta  degli  input  unionali  e  che  la
disciplina del sovraindebitamento e' ispirata a un  nettissimo  favor
verso la parte debitrice. Tuttavia, tale trattamento  di  favore  non
puo' mai spingersi fino al  punto  da  sacrificare  completamente  il
diritto alla tutela esecutiva del credito. 
    Come recentemente ribadito dalla Corte  costituzionale  (sentenza
n. 87 del 2022), infatti, «il diritto del creditore a soddisfarsi  in
sede esecutiva  costituisce  componente  essenziale  del  diritto  di
accesso al giudice, sancito dall'art. 24 Cost.», costituendo l'azione
esecutiva un «fattore complementare  e  necessario  dell'effettivita'
della  tutela  giurisdizionale  perche'  consente  al  creditore   di
soddisfare la  propria  pretesa  anche  in  mancanza  di  adempimento
spontaneo da parte del debitore»,  sicche'  «da  fase  di  esecuzione
forzata  delle  decisioni  giudiziarie,  in  quanto   intrinseco   ed
essenziale   connotato    della    funzione    giurisdizionale,    e'
costituzionalmente necessaria (sentenze n. 213 e n.  128  del  2021),
mentre eccezionali sono le deroghe al principio,  espresso  dall'art.
2740 codice civile, per cui  il  debitore  risponde  dell'adempimento
delle obbligazioni con tutti i  suoi  beni  presenti  e  futuri».  E'
inoltre costante nella giurisprudenza  costituzionale  l'orientamento
secondo il quale e' riservata alla discrezionalita'  del  legislatore
la conformazione degli istituti processuali, ma con il  limite  della
manifesta irragionevolezza o arbitrarieta' della disciplina, per  cui
«[n]ell'esercizio  di  tale  discrezionalita'  e'   necessario,   tra
l'altro, che si rispetti il principio di  effettivita'  della  tutela
giurisdizionale, il quale rappresenta un connotato rilevante di  ogni
modello processuale» (sentenza n. 304 del 2011), precisandosi che  il
limite  della   manifesta   irragionevolezza   e'   valicato   «[...]
ogniqualvolta emerga un'ingiustificabile compressione del diritto di'
agire (sentenza n. 335 del 2004)» (sentenza n. 44 del 2016 e, piu' di
recente, sentenza n. 225 del 2018). 
    Orbene, ad avviso di  questo  giudicante  risulta  manifestamente
irragionevole la  disciplina  della  liquidazione  controllata  nella
parte in cui non prevede un termine minimo di durata della  procedura
in presenza di un attivo costituito soltanto dai redditi sopravvenuti
in corso di procedura  e,  pertanto,  sussistono  i  presupposti  per
sollevare  in  via   incidentale   la   questione   di   legittimita'
costituzionale ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87/1953. 
    La questione  e'  anzitutto  rilevante.  La  presente  ordinanza,
infatti,  viene  adottata  nella  fase  di   esercizio   del   potere
approvativo sancito dall'art. 272,  comma  2,  CCII  a  fronte  della
sottoposizione  da   parte   dei   liquidatori   del   programma   di
liquidazione. La liquidazione controllata  che  coinvolge  L...  H...
prevede  l'acquisizione  da  parte  della  procedura  degli  introiti
derivanti dall'esecuzione immobiliare che, alla data di deposito  del
ricorso, si trovava  gia'  nella  fase  successiva  al  trasferimento
dell'immobile (una  precedente  alla  distribuzione  delle  somme  in
favore  dei  creditori  procedenti,  e  segnatamente  del   creditore
ipotecario,   al   netto   delle   spese   prededucibili),    nonche'
l'apprensione della quota parte di retribuzione del sig.  L...  ,  al
netto  della  somma  a  lui  lasciata  a  titolo  di  mantenimento  e
quantificata dal  giudice  delegato  con  separato  provvedimento.  I
liquidatori  hanno  fissato  la  durata  della  procedura,  e  quindi
dell'acquisizione delle quote  retributive,  in sette  mesi  (termine
che, ad oggi, e' gia' trascorso); e cio' in base al rilievo che, gia'
ora, sarebbe possibile soddisfare i creditori chirografari in  misura
pari al 7,77%. Per questo giudicante, tuttavia, non e' possibile  che
sia rimessa al pure e semplice arbitrio dell'organo  liquidatorio  la
determinazione di un limite minimo di  apprensione  dei  redditi  del
debitore sovraindebitato, dovendo trarsi dall'ordito  normativo  tale
limite;  limite,  tuttavia,  assente.  La  fissazione  da  parte  dei
liquidatori del termine di durata,  senza  alcun  tipo  di  «bussola»
normativa, presta il fianco a inevitabili  censure  di  arbitrarieta'
giacche', se per un gestore con una certa sensibilita'  il  pagamento
del 7,77% dei creditori chirografari potrebbe essere  considerato  di
per se' soddisfacente (come accadrebbe in questa  procedura),  invece
per un diverso gestore una simile misura percentuale potrebbe  essere
considerata troppo afflittivi per le aspettative del ceto creditorio.
Insomma, il grado di sacrificio dei creditori  (e,  a  specchio,  del
debitore sovraindebitato) dipenderebbe solo ed  esclusivamente  dalla
volonta' del soggetto gestore, non accompagnata,  tuttavia,  da  seri
indici  normativi  bensi'  soltanto  dalla  proprie  sensibilita'   o
esperienza. 
    La  questione,  inoltre,  e'  non  manifestamente  infondata.  Si
richiamano, sul punto, tutte le considerazioni sopra gia' svolte, con
l'unica puntualizzazione che non pare  possibile  seguire  la  strada
dell'interpretazione costituzionalmente orientata. Come  gia'  visto,
l'unica  disposizione  che  in  quale  misura  delinea  un  orizzonte
temporale e' l'art. 282 CCII, ma trattasi di una norma in materia  di
esdebitazione e il termine triennale, se puo' certamente  fungere  da
(solo potenziale) limite massimo di apprensione dei redditi, non puo'
invece  rappresentare  un  intervallo  minimo  nel  corso  del  quale
necessariamente la procedura liquidatoria  deve  acquisire  le  quote
reddituali  del  debitore  sovraindebitato,  per  le   ragioni   gia'
ampiamente esposte. Non essendo quindi possibile desumere  in  chiave
interpretativa un termine minimo di durata in situazione siffatte,  e
non essendo ragionevole che la  durata  sia  di  volta  in  volta  (e
arbitrariamente) fissata dal  liquidatore  della  singola  procedura,
permane il dubbio di legittimita' costituzionale  di  una  disciplina
che, in concreto, puo' veder sacrificati completamente l'effettivita'
della tutela giurisdizionale del credito, il cui sacrificio  andrebbe
- per l'appunto - bilanciato da una  durata  minima  della  procedura
liquidatoria. 
    La disposizione oggetto del  dubbio  di  conformita'  al  dettato
costituzionale e' l'art. 142, comma 2,  del  decreto  legislativo  n.
14/2019,  che  cosi'  recita:  «sono  compresi   nella   liquidazione
giudiziale anche i'  beni  che  pervengono  al  debitore  durante  la
procedura, dedotte le  passivita'  incontrate  per  l'acquisto  e  la
conservazione  dei  beni  medesimi».  Come   gia'   accennato,   tale
disposizione risulta collocata nella  disciplina  della  liquidazione
giudiziale, ma e' assolutamente pacifico che essa trovi  applicazione
anche nella liquidazione controllata. L'art. 268,  comma  4,  lettera
b), CCII, infatti, esattamente come l'art. 14-ter, comma  6,  lettera
b) della legge n.  3/2012  per  la  liquidazione  del  patrimonio  ed
esattamente  come  l'art.  46  legge  fallimentare  (nella  procedura
fallimentare) e oggi l'art. 146 CCII (nella liquidazione  giudiziale)
sancisce l'esclusione dalla  procedura  della  sola  quota  parte  di
stipendio e pensione che oltrepassa il limite di mantenimento fissato
dal giudice, sicche' e' dato per presupposto che lo  stipendio  o  la
pensione che matura dopo l'apertura della  liquidazione  puo'  essere
acquisito alla procedura; acquisizione che non puo' che  avvenire  in
forza del meccanismo dettato dall'art. 142, comma 2, CCII. 
    Oggetto di censura  e'  il  fatto  che,  diversamente  da  quanto
previsto  antecedentemente  dall'art.  14-undecies  della  legge   n.
3/2012, non venga previsto un limite  temporale  all'acquisizione  di
beni sopravvenuti dopo l'apertura della procedura. E'  ben  vero  che
l'art. 272,  comma  2,  CCII  affida  al  liquidatore  il  potere  di
stabilire  la  durata  della   procedura   («entro   novanta   giorni
dall'apertura della liquidazione controllata il liquidatore  completa
l'inventario dei beni del debitore e redige un programma in ordine  a
tempi e  modalita'  della  liquidazione  [...]»),  ma  e'  del  tutto
evidente che una simile disposizione ben si attaglia alle fattispecie
nelle quali nel patrimonio del debitore si trovano asset suscettibili
di dismissione le cui  tempistiche  vengono  per  l'appunto  previste
dall'organo liquidatorio, e non gia' alle fattispecie nelle quali non
c'e' alcuna attivita' liquidatoria da porre in essere ma la procedura
rimane aperta al solo scopo di apprendere  quote  di  retribuzione  o
pensione. In un caso  consimile,  la  durata  della  procedura  viene
individuata dal liquidatore in maniera del tutto arbitraria,  a  meno
che - ed e' questo il punto - non sia posto un limite legislativo  al
tempo massimo entro il quale l'acquisizione di stipendio  e  pensione
risulta consentita, esattamente come in passato accadeva sulla scorta
dell'art. 14-undecies della legge n. 3/2012. 
    Passando ai parametri del giudizio, e  quindi  alle  disposizioni
della Costituzione che si ritengono violate, vengono in interesse sia
l'art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, sia l'art.  24
Cost., sotto il profilo dell'effettivita' del diritto di difesa. 
    Prendendo le mosse da  quest'ultima  disposizione,  lo  scrivente
parte dal presupposto  -  ampiamente  argomentato  supra  -  che,  in
assenza di un limite di legge, e  non  potendo  mutuarsi  il  termine
triennale previsto per le finalita' dell'esdebitazione, la  procedura
nella quale non devono essere compiute attivita' di  liquidazione  in
senso proprio e che vede coinvolto un  debitore  sovraindebitato  che
percepisce una retribuzione o una pensione, dovrebbe chiudersi subito
o, per meglio dire,  rimanere  aperta  per  solo  tempo  strettamente
necessario a coprire le sue  spese  da  essa  stessa  prodotte.  Tale
lettura, tuttavia, presta il fianco ad abusi da parte del debitore il
quale avrebbe gioco facile a sottrarsi dall'esecuzione  presso  terzi
intentata nei  suoi  confronti  dai  creditori,  con  conseguente  ed
ingiustificabile compressione del diritto di agire di quest'ultimi. 
    Passando al  parametro  della  ragionevolezza,  sembra  possibile
tracciare un parallelo tra la disposizione oggetto di  censura  e  il
piu' volte richiamato art. 14-undecies della legge n. 3/2012 («i beni
sopravvenuti nei quattro anni successivi al deposito della domanda di
liquidazione di  cui  all'art.  14-ter  costituiscono  oggetto  della
stessa,  dedotte  le  passivita'  incontrate  per  l'acquisto  e   la
conservazione dei beni medesimi»). E' ben vero che tale  disposizione
e' stata abrogata  a  seguito  dell'entrata  in  vigore  del  decreto
legislativo n.  14/2019,  ma  rimane  pur  tuttavia  applicata  nelle
procedure di liquidazione del patrimonio apertesi prima  dell'avvento
del Codice. Ecco, pare a  questa  giudicante  irragionevole  che  una
procedura  di  liquidazione  a  vocazione  puramente  reddituale  che
coinvolga sempre il debitore sovraindebitato possa durare al  massimo
quattro anni sotto il vigore della legge  n.  3/2012,  mentre  invece
sotto il vigore del decreto legislativo n. 14/2019 non  possa  durare
piu' dello stretto necessario a coprire le spese prededucibili. 
    Infine, occorre delimitare il petitum. A questo  remittente  pare
impossibile che sia eliminato sic et simpliciter l'art. 142, comma 2,
del decreto legislativo n. 14/2019 dall'ordito normativo,  esprimendo
siffatta disposizione una regola che connota la procedure concorsuali
da tempo immemore e di sicura utilita'. I vizi  sopra  lamentati,  in
effetti, si verificano nella sola ipotesi di liquidazione controllata
«senza beni» e a etera vocazione reddituale, nella parte in  cui  non
prevede un orizzonte temporale di durata dell'apprensione delle quote
reddituali o pensionistiche del debitore sovraindebitato.  In  merito
alla determinazione del predetto orizzonte,  questo  giudicante,  ben
conscio che la Corte non puo' compiere interventi additivi  creativi,
dovendo esprimersi «a rime obbligate», ritiene che possa prendersi in
considerazione quello quadriennale,  trattandosi  dell'unico  termine
previsto dalla legge allo stesso scopo proprio  all'art.  14-undecies
della legge n. 3/2012. 
    Per completezza, viene fatto presente che  analoga  questione  di
legittimita' costituzionale e' sollevata da questo Tribunale con  tre
distinte ordinanze (nn. cronologici presso la Corte: 48, 49 e 117). 
 
                               P.Q.M. 
 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita' costituzionale  dell'art.  142,  comma  2,  del  decreto
legislativo  n.  14/2019,  per  come  applicabile  nell'ambito  della
liquidazione  controllata  del  sovraindebitato  disciplinata   dagli
articoli 268 e seguenti del medesimo decreto legislativo, nella parte
in cui, similmente a  quanto  previsto  dall'art.  14-undecies  della
legge n. 3/2012, non prevede un limite temporale all'acquisizione  di
beni sopravvenuti all'apertura della procedura concorsuale; 
    Sospende il procedimento a norma  dell'art.  23  della  legge  n.
87/1953 e dispone pertanto che i liquidatori cessino per  il  momento
di apprendere quote reddituali dal sig. L....; 
    Dispone  l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale; 
    Ordina che a cura della cancelleria  la  presente  ordinanza  sia
notificata alla  debitrice,  ai  liquidatori  (che  avranno  cura  di
trasmetterla  ai  ereditari)  ed  al  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri, nonche' che sia comunicata ai Presidenti delle  due  Camere
del Parlamento. 
        Arezzo, 7 agosto 2023 
 
                      Il giudice delegato: Pani