N. 163 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 novembre 2023

Ordinanza  del  20  novembre  2023  del  Tribunale  di  Catania   nel
procedimento civile promosso da C. A. contro E. Srl. 
 
Lavoro - Licenziamento - Disciplina del contratto di lavoro  a  tempo
  indeterminato a tutele crescenti - Licenziamento  per  giustificato
  motivo e giusta causa - Ipotesi in  cui  il  fatto  contestato  sia
  punibile, in base alla  contrattazione  collettiva  applicabile  al
  rapporto, solo con sanzioni di natura conservativa - Riconoscimento
  al giudice della possibilita' di annullare il licenziamento, con le
  conseguenze gia' previste per l'ipotesi di insussistenza del  fatto
  contestato - Omessa previsione. 
- Decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in materia di
  contratto di lavoro a tempo indeterminato a  tutele  crescenti,  in
  attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), art. 3, comma 2. 
(GU n.1 del 3-1-2024 )
 
                       IL TRIBUNALE DI CATANIA 
                           Sezione lavoro 
 
    in composizione monocratica, in funzione di giudice  del  lavoro,
nella persona del magistrato ordinario  dott.  Mario  Fiorentino,  ha
pronunciato  la  seguente  ordinanza   di   rimessione   alla   Corte
costituzionale (articoli 134 Cost. e 23 legge 11 marzo 1953,  n.  87)
emessa nella causa civile iscritta al n. 4365/2023 avente ad oggetto:
licenziamento per giusta causa, con domanda di reintegra ex  art.  3,
comma 2, decreto legislativo n. 23/2015; 
    promossa  da:  C.  A.  ,  cod.  fisc.  ...,  con  il   patrocinio
dell'Avv.to Romano Gaetano, elettivamente domiciliato come  in  atti;
ricorrente; 
    contro: E. S.r.l., cod. fisc. ..., con il patrocinio degli Avv.ti
Fazio Salvatore e Di Lallo Alessandro, elettivamente domiciliata come
in atti; resistente. 
1. Premessa. 
    La parte ricorrente in epigrafe indicata, con ricorso  depositato
il 17 aprile 2023, ha impugnato il  licenziamento  per  giusta  causa
intimatole  il  ...  da  E.  S.r.l,  chiedendo,  in  via  principale,
l'annullamento dello stesso ai sensi dell'art. 3,  comma  2,  decreto
legislativo 4 marzo 2015, n. 23, con conseguente reintegra nel  posto
di  lavoro  e  risarcimento  del  danno,  e,  in   via   subordinata,
l'accertamento  dell'insussistenza  della  giusta  causa   ai   sensi
dell'art. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 cit.,  con  condanna
del datore  di  lavoro  -  previa  dichiarazione  di  estinzione  del
rapporto - al risarcimento del danno, da  determinarsi  tenuto  conto
della pronunzia della Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194. 
    In ulteriore subordine, ha chiesto  la  condanna  del  datore  di
lavoro al risarcimento  del  danno  ai  sensi  dell'art.  4,  decreto
legislativo n. 23/2015 cit. 
    Allega di essere stata addetta  alla  movimentazione  merci,  per
circa venti anni, presso  il  deposito  della  ...  (azienda  che  la
ricorrente qualifica come «spin off» del  marchio  ...)  e  di  avere
svolto tali mansioni alle dipendenze delle diverse imprese  che,  nel
tempo, si sono succedute negli appalti affidati dalla stessa ... (tra
cui, dal ... e fino all'agosto del ..., la Cooperativa ... e, dal ...
al ..., l'odierna convenuta). 
    Allega,  inoltre,  di   rivestire   da   tempo   la   carica   di
rappresentante sindacale aziendale (R.S.A.) dell'organizzazione ... e
di non esser stata  sottoposta  ad  alcun  procedimento  disciplinare
nell'arco della propria ventennale attivita' di addetta  al  deposito
di ... . 
    Deduce che,  in  data  ...,  il  datore  di  lavoro  procedeva  a
formularle una contestazione disciplinare, addebitandole tre  eventi:
1) in data ... si assentava per motivi di salute (con  prognosi  fino
al ...), giustificando tali assenze con certificato medico emesso  in
data ..., certificazione che secondo l'azienda non  poteva  ritenersi
valida in quanto  retroattiva;  2)  in  data  ...  non  rientrava  in
servizio ne', secondo l'azienda, dava tempestiva  informazione  della
prosecuzione dello stato di malattia, che,  sempre  secondo  la  tesi
datoriale, veniva comunicato solo il ...; 3) in data ..., in costanza
dello stato di malattia (con prognosi fino al ...), si presentava sul
luogo  di  lavoro  verso  le  ore  ...  e,  dopo  le   procedure   di
identificazione,  accedeva  presso  gli  uffici   direzionali   della
committente (...) accompagnato dal collega ..., intrattenendosi  fino
alle ore ..., per poi allontanarsi a bordo di uno scooter guidato dal
..., con cio', secondo l'azienda, ponendo un comportamento  idoneo  a
pregiudicare il  suo  stato  di  salute  ed  espressione  di  un  uso
strumentale dell'istituto della malattia. 
    Evidenzia di aver prontamente reso le proprie giustificazioni nel
corso dell'audizione svoltasi il ...,  ma  che  queste  non  venivano
accolte dal datore di lavoro, il quale intimava il  licenziamento  in
data ... per giusta causa. 
    Deduce  l'infondatezza  dei  fatti   oggetto   di   contestazione
disciplinare e chiede, in via principale, che il licenziamento  venga
annullato ai sensi dell'art.  3,  comma  2,  decreto  legislativo  n.
23/2015. 
    Si e' costituita  la  controparte  la  quale,  nel  rimarcare  la
gravita' dei fatti addebitati alla parte lavoratrice, ha  chiesto  il
rigetto del ricorso. 
    Tenuto conto dei rischi di causa, evidenziati nell'ordinanza  del
3 luglio 2023, veniva formulata  proposta  transattiva  ex  art.  420
c.p.c., la quale non veniva accolta dalle parti.  La  causa,  quindi,
veniva istruita per mezzo di prove orali e documentali. 
    All'udienza del 25 ottobre 2023, sostituita con  il  deposito  di
note ex art. 127-ter c.p.c., le parti insistevano per  l'accoglimento
delle proprie conclusioni. 
    Cio' posto, avendo il  ricorrente  insistito  per  l'accoglimento
della domanda di reintegra, ai sensi dell'art. 3,  comma  2,  decreto
legislativo n. 23/2015, si ritiene che  la  causa  non  possa  essere
decisa senza il giudizio di costituzionalita' che si richiede,  posto
che, come si vedra' di  seguito,  solo  ove  la  norma  in  questione
venisse reputata parzialmente illegittima, sarebbe  riconoscibile  la
tutela invocata in via  principale,  potendosi,  in  caso  contrario,
accogliere solo la domanda subordinata, ex art. 3, comma  1,  decreto
legislativo n. 23/2015, con dichiarazione di estinzione del  rapporto
e riconoscimento di una tutela esclusivamente economica. 
2. Rilevanza 
    2.1. Premessa. 
    Va, innanzitutto, osservato come non sono state sollevate,  dalla
convenuta, eccezioni  processuali  o  di  merito  che  consentano  la
definizione del giudizio, indipendentemente dalla questione che viene
sollevata con il presente provvedimento. 
    2.2. Disamina dei fatti. 
    Al fine di evidenziare la rilevanza della questione, appare utile
ricostruire i fatti di causa. All'esito, si  potra'  constatare  che,
dei tre fatti in contestazione, solo due appaiono assumere un rilievo
disciplinare; che questi si  collocano  nell'ambito  di  una  vicenda
unitaria (lo stato di malattia iniziato il ... e conclusosi il ...) e
sono punibili,  in  ragione  del  CCNL  applicato  dalle  parti,  con
sanzioni di tipo conservativo. 
    Come anticipato, la contestazione disciplinare del ..., su cui si
basa l'atto di recesso, individua tre fatti (docc. 4, 6, ibidem). 
    In primo luogo, essa muove dalle assenze  integrate  dalla  parte
ricorrente il ... per motivi di malattia. 
    Non viene contestata l'omessa o intempestiva comunicazione  dello
stato  di   malattia   o   dell'assenza,   ma   l'inidoneita'   della
certificazione medica a giustificarla, in quanto redatta in data  ...
(con decorrenza dal ... e prognosi fino al ...), anziche' ... . 
    Non vi sono elementi per ritenere che  il  medico  curante  abbia
rilasciato un'attestazione falsa o che il  lavoratore  abbia  abusato
dell'istituto della malattia, tanto piu' che, pochi giorni  dopo,  in
due distinte circostanze, l'... e il ..., i medici di controllo  Inps
hanno confermato la prognosi indicata  dal  medico  curante  nei  due
certificati telematici del ... e  del  ...,  trovando  il  ricorrente
presso il proprio domicilio (docc. 9 e 11, fasc. ricorrente). 
    In  mancanza  di  elementi  oggettivi  di  segno  contrario,   la
circostanza  che  il   medico   abbia   rilasciato   il   certificato
retroattivamente puo' considerarsi  prova  del  suo  impedimento  nei
giorni precedenti e  della  conoscenza  dello  stato  patologico  del
lavoratore. 
    Quest'ultimo, tuttavia,  non  allega  ne'  dimostra  in  giudizio
quanto genericamente dedotto in sede  di  audizione  orale  (doc.  5,
fasc. ricorrente), e  cioe'  di  essere  stato  impossibilitato,  per
motivi  di  salute,  a  recarsi  presso  presidi   alternativi   (es.
continuita'    assistenziale,    ospedale,    etc.)    per    fornire
tempestivamente  una  giustificazione  sostitutiva,   tenuto   conto,
peraltro, che la natura della patologia documentata e  dichiarata  in
giudizio non gli  precludeva  di  uscire  da  casa  (doc.  10,  fasc.
ricorrente), eventualmente accompagnato da un familiare (v. stato  di
famiglia ricorrente, doc. 17). 
    Tale  fattispecie  va,  dunque,  ricondotta   nell'ambito   della
giustificazione tardiva (come del resto sostenuto dalla stessa difesa
del ricorrente) e  non  dell'assenza  ingiustificata,  posto  che  il
certificato e' stato redatto in  prossimita'  dell'evento  (solo  due
giorni dopo)  e  la  prognosi  e'  stata  confermata  dal  medico  di
controllo dell'INPS in data (v. docc.  9  e  11,  cit.,  fasc.  parte
ricorrente). 
    In merito, per un caso  del  tutto  analogo,  puo'  essere  utile
richiamare l'indirizzo espresso dalla suprema Corte, secondo  cui  la
trasmissione del certificato oltre il termine contrattuale  configura
la  meno  grave  ipotesi  della  giustificazione  tardiva  (in  luogo
dell'assenza   ingiustificata),   che   si   verifica    quando    la
giustificazione e'  prossima  all'evento  e  non  del  tutto  assente
(Cassazione civile sez. lav., 10 novembre 2022, n. 33134). 
    Trova, pertanto, applicazione l'art. 47  del  CCNL  di  categoria
(Pulizie, servizi integrati,  multiservizi),  pacificamente  recepito
dal datore di lavoro (doc. 19, fasc. parte ricorrente; v.  ivi  anche
proposta di  assunzione,  in  doc.  3;  v.  inoltre  allegazioni  del
ricorso, non oggetto, sul punto, di contestazione), il quale  prevede
la  sanzione  dell'ammonizione  scritta  o  della   multa   o   della
sospensione laddove il lavoratore non giustifichi l'assenza entro  il
giorno successivo a quello dell'inizio dell'assenza stessa  salvo  il
caso di impedimento giustificato. 
    L'art. 47 del CCNL prevede, inoltre,  che  «L'ammonizione  verra'
applicata per le mancanze di minor rilievo; la multa e la sospensione
per quelle di maggior rilievo». 
    Nel caso di specie, il ritardo e' di un solo giorno, sicche' puo'
ritenersi che la violazione integrata sia di  modesta  entita',  come
tale da giustificare la  piu'  tenue  tra  le  sanzioni  conservative
contemplate dal CCNL, ovverosia l'ammonizione scritta. 
    Il secondo episodio contestato a parte  lavoratrice  riguarda  il
rispetto delle modalita' richieste  dal  CCNL  per  la  comunicazione
della prosecuzione dello stato di malattia. 
    Si obietta a parte ricorrente che, in data ...,  «sarebbe  dovuto
rientrare al lavoro per svolgere il turno assegnatoLe ( ... ), ma non
si presentava ne' dava notizie di se'  a  parte  datoriale.  Solo  il
giorno ... .  ella  comunicava  la  prosecuzione  del  suo  stato  di
malattia,  inviando  alla  Direzione  aziendale  un  certificato   di
continuazione rilasciato il giorno con prognosi a tutto il ...». 
    Parte ricorrente ha dichiarato, in sede  di  giustificazioni,  di
aver cercato di preavvisare il legale rappresentante dell'azienda nei
giorni precedenti, in merito alla probabile continuazione dello stato
di malattia,  e  che,  non  riuscendovi,  contattava  il  giorno  ...
(intorno alle ore ...) il proprio collega di lavoro,  tale  ...,  per
chiedergli di avvisare il preposto di turno. 
    Dagli atti risulta che il certificato telematico di  malattia  e'
stato redatto in data ... ed e' stato inviato in azienda il ... . 
    Dall'istruttoria  orale  e'  emerso  che  parte   ricorrente   ha
contattato il proprio collega ... , per avvisare  della  prosecuzione
dello stato di malattia, dopo l'inizio del turno, verso  le  ore  ...
(v. testimonianza del ..., verbale di udienza del 15 settembre 2023). 
    L'art. 51 del CCNL, come modificato  dall'accordo  del  9  luglio
2021, per quanto rileva, prevede che  «L'assenza  per  malattia  deve
essere comunicata, salvo il caso di giustificato  impedimento,  prima
dell'inizio dell'orario di lavoro nella giornata in cui  si  verifica
l'assenza, ai rappresentanti  aziendali  a  tale  scopo  designati  e
comunicati dalla direzione aziendale. 
    L'eventuale prosecuzione dello stato di inidoneita'  al  servizio
deve essere comunicata all'impresa entro il normale orario di  lavoro
del giorno che precede quello in cui  il  lavoratore  avrebbe  dovuto
riprendere servizio e deve essere attestato con le modalita'  di  cui
ai successivi commi. 
    A far data dal 13 settembre 2011  i  datori  di  lavoro  dovranno
acquisire l'attestato di inidoneita'  al  lavoro  solo  attraverso  i
servizi on line messi a  disposizione  dall'Inps;  il  lavoratore  e'
esonerato dall'invio dell'attestato, fermo restando  l'obbligo  dello
stesso di comunicare tempestivamente l'assenza per malattia al datore
di lavoro secondo i due commi precedenti. 
    Il  lavoratore  fornira'  all'azienda  il  numero  di  protocollo
identificativo del certificato inviato dal medico in via telematica. 
    E' fatto salvo quanto stabilito in materia dalle  leggi  e  dagli
accordi a livello interconfederale.». 
    Nel caso di specie, anche non volendo considerare la norma di cui
il difensore  di  parte  ricorrente  ha  chiesto  la  disapplicazione
(quella che richiede che il preavviso sia dato il giorno  precedente,
evidentemente anche se  in  assenza  di  certificazione  medica),  il
ritardo  nella  comunicazione  della  prosecuzione  dello  stato   di
malattia  appare  comunque  integrato,  potendo   parte   lavoratrice
avvisare il preposto ben prima dell'inizio  del  turno  e  non  dopo,
tanto piu' che il turno di lavoro iniziava alle ore ... e che, a tale
ora, era stata sicuramente redatta  anche  la  certificazione  medica
telematica. 
    Parte ricorrente, dunque, essendo certa della prosecuzione  dello
stato di malattia nella giornata del ..., avrebbe  potuto  comunicare
tale circostanza ben in anticipo rispetto alle ore ..., e  dunque  in
orario antecedente a quello di inizio del turno, onde  consentire  al
datore di lavoro di poter prendere le opportune misure organizzative. 
    E cio' anche  considerando  che  i  tentativi  di  contattare  il
rappresentante  legale,  nei  giorni  precedenti,  secondo  la  parte
ricorrente, non erano andati a buon fine. 
    Il lavoratore,  inoltre,  a  rigore,  avrebbe  dovuto  rivolgersi
direttamente al preposto aziendale, anziche'  contattare  il  proprio
collega di turno, e cio' in base alle stesse previsioni del CCNL. 
    La condotta integrata pertanto e' chiaramente rilevante sotto  il
profilo disciplinare e soggettivamente imputabile al lavoratore. 
    Va, cionondimeno, escluso, anche in questo caso, un intento della
parte di eludere i controlli aziendali, dato  che  la  certificazione
medica telematica veniva redatta tempestivamente  lo  stesso  ...,  e
dunque era da subito disponibile  al  datore  di  lavoro  tramite  il
portale  INPS  (come  prevede  l'art.  51  del  CCNL),   ed   inviata
tempestivamente il  successivo  giorno  ...,  nel  termine  richiesto
dall'art. 47 CCNL sopra esaminato. 
    Il lavoratore,  inoltre,  sebbene  in  ritardo  ed  irritualmente
(rivolgendosi  al  collega  di  turno,   anziche'   direttamente   al
preposto), comunicava cionondimeno, poco dopo l'inizio del turno,  la
circostanza di proseguire nella malattia. 
    Il fatto, pertanto, risulta  ridimensionato  rispetto  al  tenore
della contestazione disciplinare, laddove si imputa al lavoratore  di
non essersi presentato in azienda il giorno del ...  e  di  non  aver
dato notizia della prosecuzione dello stato di malattia,  se  non  il
giorno ... . 
    Il comportamento  integrato  assume,  dunque,  modesta  rilevanza
disciplinare, sempre ai sensi dell'art. 47 del CCNL, il quale,  oltre
a prevedere la sanzione dell'ammonizione scritta, della multa e della
sospensione, per i casi di assenza o abbandono del  posto  di  lavoro
senza   giustificato   motivo   o   di   ritardo   nell'invio   della
giustificazione  dell'assenza,  dispone  che  tali  provvedimenti  si
applichino anche  al  lavoratore  che  «in  altro  modo  trasgredisca
l'osservanza del presente contratto o commetta qualsiasi mancanza che
porti pregiudizio alla disciplina, alla morale,  all'igiene  ed  alla
sicurezza dell'appalto» (art. 47, lett. i). 
    Non ricorrono all'evidenza i presupposti  per  l'applicazione  di
misure piu' gravi, quali quelle contemplate dall'art. 48 del CCNL del
licenziamento con preavviso (irrogabile nei casi di: insubordinazione
nei confronti dei superiori, rissa sul  luogo  di  lavoro,  sensibile
danneggiamento  colposo,  assenze  ingiustificate  prolungate   oltre
quattro giorni consecutivi o assenze ripetute per  tre  volte  in  un
anno nel giorno seguente alle festivita' o alle ferie,  etc.)  ovvero
del  recesso  senza  preavviso  (irrogabile  nei   casi   di:   grave
insubordinazione, furto in azienda, abbandono del posto di lavoro  da
cui possa derivare pregiudizio alla incolumita' delle persone od alla
sicurezza  degli  impianti  o  comunque  compimento  di  azioni   che
implichino gli stessi pregiudizi, etc.). 
    Anche  in  questo  caso,  pertanto,  il  lavoratore  puo'  essere
ritenuto responsabile di una violazione del contratto (in specie, dei
termini e delle modalita' per comunicare la prosecuzione dello  stato
di malattia, di cui all'art. 51 del CCNL) che implica  l'adozione  di
una mera sanzione conservativa. 
    Si richiama, sul punto, Cass. sez. lav. 26 aprile 2022, n. 13063,
par. 8.2., che, sebbene con riguardo all'art. 18, comma 4,  St.  lav.
(legge n. 300/1970), ha ribadito che «e'  consentita  al  giudice  la
sussunzione della condotta addebitata al lavoratore  ed  in  concreto
accertata giudizialmente nella previsione  contrattuale  che  punisca
l'illecito con  sanzione  conservativa  anche  laddove  sia  espressa
attraverso clausole generali ed elastiche». 
    La terza vicenda oggetto di contestazione e' quella dell'episodio
del ...,  quando  parte  lavoratrice,  in  costanza  dello  stato  di
malattia (con prognosi fino al ... ),  si  presentava  sul  luogo  di
lavoro  «intorno  alle   ore   ...»   e,   dopo   le   procedure   di
identificazione,  accedeva  presso  gli  uffici   direzionali   della
committente (...) accompagnata dal  collega  ...,  intrattenendosi  -
secondo la contestazione datoriale -  fino  alle  ore  ...,  per  poi
allontanarsi a bordo  di  uno  scooter  guidato  dal  ...,  con  cio'
ponendo, secondo la convenuta, un comportamento idoneo a pregiudicare
il suo stato di salute. 
    Dall'istruttoria orale e dai documenti in  atti,  puo'  ritenersi
provato che parte ricorrente (gia' dipendente della coop. ...), nella
qualita' di R.S.A., si reco'  presso  gli  uffici  direzionali  della
committente ... per consegnare, insieme al ... (anch'egli  R.S.A,  ex
dipendente di altra cooperativa, la ...), alcuni documenti  necessari
per la determinazione delle spettanze residue  dei  lavoratori  delle
societa' precedentemente affidatarie degli appalti ( ...  ),  che  la
committente si era impegnata ad anticipare (e che,  in  parte,  aveva
anticipato,  v.  memoria  di   costituzione   e   chiarimenti   parte
ricorrente,   verbale   udienza   23   giugno   2023),   a    seguito
dell'inadempimento delle imprese affidatarie. 
    Dalla mail inviata  dal  dirigente  della  ...  in  data  ...  al
responsabile sindacale della sigla ... di  Catania  (doc.  13,  fasc.
parte ricorrente), si evince  chiaramente  che  ...,  a  seguito  del
mancato pagamento delle retribuzioni dei lavoratori delle cooperative
originariamente assegnatarie dell'appalto e del disagio rappresentato
dai sindacati, si era attivata per intervenire in surroga,  chiedendo
alle sigle sindacali di raccogliere la documentazione  necessaria  al
fine di poter elaborare le spettanze dovute («ultimi 3 cedolini  paga
maggio / giugno / luglio di ogni  singolo  lavoratore;  dichiarazione
dei 730 delle persone dalla quale si  evince  eventuale  rimborso  da
ricevere; 3. certificazione delle presenze del mese di  agosto  delle
persone che hanno lavorato in cantiere»). 
    Dalla mail  si  evince  anche  che  il  ...  incaricava  il  ...,
dipendente di ... con sede in ..., di ricostruire  «con  gli  RSU  le
presenze delle persone (se non abbiamo altra evidenza  in  magazzino)
con eventuali ore di straordinario e/o ferie godute». 
    Nel corso dell'istruttoria orale (v. verbale di  udienza  del  15
settembre 2023), il ..., pur negando di avere convocato il ricorrente
e pur mostrando inizialmente qualche reticenza, ha poi confermato che
questi si reco' da  lui  insieme  al  ...  per  fornire  i  documenti
attestanti le presenze  dei  lavoratori  delle  imprese  cessate,  in
quanto nella qualita' di capo deposito il ...  aveva  il  compito  di
ricostruire il numero dei dipendenti addetti a tali societa', al fine
di consentire la  ricostruzione  delle  spettanze  ancora  dovute  ai
lavoratori. 
    Il teste ha inoltre confermato di  aver  inviato  il  numero  dei
dipendenti, come cosi' ricostruito, al proprio superiore. 
    Secondo la contestazione disciplinare, la visita  del  ricorrente
duro' dalle ore ... alle ore ... 
    Dall'ascolto dei file audio della conversazione intercorsa tra il
... e parte ricorrente pochi giorni dopo  l'incontro,  il  ...  (cfr.
produzione file del 19  settembre  2023,  il  cui  contenuto  non  e'
oggetto di contestazione; v. note convenuta datate 9  ottobre  2023),
si trae conferma del fatto che il ricorrente doveva  presentarsi  dal
... per fornire, quale rappresentante  sindacale,  la  documentazione
richiesta da ... (parte ricorrente: «si ... ero in malattia ... pero'
siccome per richiesta tua che dovevamo fare questi conti  ....infatti
io ero perplesso ...siccome ci voleva il rappresentante  sindacale...
sono venuto»;: «se tu mi chiamavi, mi dicevi, ... io devo venire,  ma
sono in malattia, io ti avrei detto, ... , non venire, che con ... me
la sarei sbrigata, ...non lo so se ...  e'  rappresentante,  ma  poco
importa, e' sempre una persona vicina a te...»). 
    Non  appare,  peraltro,  rilevante  stabilire  se  fu  il  ...  a
convocare direttamente il ricorrente - come sostenuto in ricorso,  ma
negato dal teste - ovvero se convoco' solo il ... ,  essendo  chiaro,
dal tenore delle conversazioni intercorse, che il  ricorrente  doveva
essere presente  per  consegnare  i  documenti  quale  rappresentante
sindacale (ex dipendente dell'impresa ...) e che per tale  scopo  ivi
si reco' insieme al ... (ex dipendente dell'impresa ...). 
    Orbene, va premesso il fatto che tale visita  fu  effettuata  dal
lavoratore al di fuori degli orari di reperibilita' fissati dall'art.
51 del CCNL (secondo cui «il lavoratore assente e' tenuto a  trovarsi
nel proprio domicilio disponibile per le visite  di  controllo  nelle
fasce orarie previste dalle norme vigenti e  precisamente  dalle  ore
10,00 alle ore 12,00 e dalle ore 17,00 alle 19,00»), obbligo  la  cui
violazione difatti non viene contestata dall'azienda convenuta. 
    Quest'ultima, invero,  nella  lettera  di  licenziamento  rimarca
specificamente la circostanza  che  «Ella  facendosi  trasportare  in
scooter, si e' esposto in maniera sconsiderata al rischio  potenziale
di   compromissione   o   aggravamento   dello   stato   di   salute,
contravvenendo   ulteriormente   a   quanto   previsto    dal    CCNL
applicato...». 
    Cionondimeno, non vi e' alcuna specifica allegazione e prova  che
«il trasporto in scooter» del ricorrente abbia potuto pregiudicare il
suo stato di  salute,  in  relazione  alla  sua  patologia  (paziente
affetto da crisi  di  panico  e  claustrofobia,  con  indicazioni  di
recarsi  in  luoghi  aperti  in  caso  di  crisi,  doc.   10,   fasc.
ricorrente), per la quale  non  sussistono  prescrizioni  del  medico
volte a precludergli di utilizzare i comuni mezzi  di  trasporto,  in
specie come mero passeggero (come nel caso in scrutinio), o di uscire
di casa. 
    Le stesse valutazioni possono riguardare l'evento della visita in
azienda (per quanto la  motivazione  del  licenziamento  si  incentri
specificamente solo sul trasporto in scooter), durata  poco  piu'  di
un'ora e per la consegna di alcuni documenti. 
    Non appare, inoltre, possibile porre in discussione la buona fede
del ricorrente, che, in un momento di oggettiva tensione  determinata
dal ritardo dei pagamenti e dei  rimborsi  fiscali  (come  si  evince
peraltro dalla mail prodotta  in  doc.  13  e  sopra  citata),  quale
R.S.A., riteneva di recarsi in azienda al solo scopo  di  fornire  al
dipendente incaricato dalla  committente  i  dati  necessari  per  la
determinazione del pagamento di quanto ancora spettante ai lavoratori
della  Coop.  ...  (tra  cui,  tra  gli  altri,  vi  era  lo   stesso
ricorrente), per poi andare via prima  che  ricorresse  l'obbligo  di
reperibilita' domiciliare di cui all'art. 51 del CCNL. 
    Il comportamento tenuto  dal  dipendente,  pertanto,  appare  del
tutto scevro da abusi e non in grado di poter incidere  negativamente
sul proprio stato di salute, prova del resto  del  tutto  mancante  e
neppure oggetto di specifiche allegazioni o deduzioni (donde anche la
superfluita' di ogni ulteriore accertamento specialistico da disporre
d'ufficio, mezzo C.T.U.). 
    Non sussiste, inoltre, alcuna volonta' del dipendente di  abusare
dell'istituto  della  malattia  o  di  contravvenire  agli   obblighi
derivanti dal rapporto di lavoro. 
    Sul punto, la suprema Corte, addirittura nelle ipotesi in cui  il
dipendente in stato  di  malattia  abbia  espletato  altra  attivita'
lavorativa, ha evidenziato che «Il datore di lavoro che  licenzia  il
lavoratore, non puo' limitarsi a fornire la prova che  il  lavoratore
abbia svolto in costanza di malattia  altra  attivita',  perche'  non
sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente
di prestare altra attivita', anche a  favore  di  terzi,  durante  la
malattia, sicche' essa non costituisce,  di  per  se',  inadempimento
degli obblighi imposti al prestatore d'opera. Il  datore  di  lavoro,
quindi,  deve  anche  provare,  in   relazione   alla   contestazione
disciplinare, o che la malattia era simulata ovvero  che  la  diversa
attivita' posta in essere dal dipendente fosse potenzialmente  idonea
a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio» (Cass.  civ.  Sez.
lavoro, 26 aprile 2022, n. 13063). 
    Il fatto  contestato,  relativo  all'episodio  del  ...,  appare,
dunque, insussistente sotto il profilo disciplinare e, pertanto,  non
in grado di poter giustificare l'adozione di alcuna sanzione. 
    Come evidenziato, i fatti di cui alla  lettera  di  contestazione
mossa alla parte ricorrente possono giustificare, al piu', l'adozione
di due sanzioni conservative. 
    Parte ricorrente chiede, in via  principale,  l'annullamento  del
licenziamento, con le conseguenze  di  legge  previste  dall'art.  3,
comma 2,  decreto  legislativo  n.  23/2015,  quali  innanzitutto  la
reintegra nel posto di lavoro. 
    Ritiene, tuttavia, questo ufficio che tale richiesta possa essere
accolta solo ove l'art. 3, comma 2, decreto  legislativo  n.  23/2015
venisse reputato parzialmente illegittimo  nella  parte  in  cui  non
prevede che il giudice  possa  annullare  il  licenziamento,  con  le
conseguenze di legge gia' previste per l'ipotesi di insussistenza del
fatto, laddove il fatto contestato sia punibile dal CCNL di categoria
con sanzioni di natura conservativa. 
    2.3. Analisi normativa. 
    E' pacifica tra le parti l'applicazione del regime  normativo  di
cui al decreto legislativo n. 23/2015, per essere stato il ricorrente
assunto, senza periodo di prova, il ..., con contratto  di  lavoro  a
tempo indeterminato, con la qualifica di facchino addetto al  settore
movimento merci, mansioni svolte fino alla data del recesso  del  ...
(docc. 3 e 15, fasc. parte ricorrente). 
    L'art. 1, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 prevede che
«Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai,  impiegati  o
quadri,  assunti  con  contratto  di  lavoro  subordinato   a   tempo
indeterminato a  decorrere  dalla  data  di  entrata  in  vigore  del
presente decreto, il regime  di  tutela  nel  caso  di  licenziamento
illegittimo e' disciplinato dalle disposizioni  di  cui  al  presente
decreto». 
    Non ricorre l'ipotesi, nemmeno prospettata dal ricorrente,  della
continuita' del rapporto gia' intrattenuto con ..., precedente datore
di lavoro. 
    Ne' viene in alcun modo  allegata  o  richiesta  l'applicabilita'
dell'art. 18 St. lav. (legge n.  300/1970)  in  forza  di  previsioni
convenzionali che non risultano neppure citate o allegate. 
    Per converso, non viene eccepita  l'insussistenza  del  requisito
dimensionale di cui all'articolo 18, ottavo e nono comma, della legge
n. 300 del 1970, che, ai sensi dell'art.  9  decreto  legislativo  n.
23/2015, precluderebbe l'applicabilita' dell'art. 3, comma 2, decreto
legislativo n. 23/2015. 
    Dalla visura camerale in atti, risulta  che,  alla  data  del  31
dicembre 2022,  la  convenuta  dichiarava  una  media  di  circa  170
dipendenti,   sicche'   il   requisito   dimensionale,   oltre    che
incontestato, appare anche suffragato documentalmente (doc. 18, fasc.
ricorrente). 
    Risulta, pertanto, astrattamente applicabile l'art. 3,  comma  2,
decreto legislativo n. 23/2015. 
    Tale norma, per quanto rileva nella presente  sede,  dispone  che
«Esclusivamente  nelle  ipotesi  di  licenziamento  per  giustificato
motivo  soggettivo  o  per  giusta  causa  in  cui  sia  direttamente
dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato
al lavoratore, rispetto alla quale resta  estranea  ogni  valutazione
circa la  sproporzione  del  licenziamento,  il  giudice  annulla  il
licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione  del
lavoratore nel posto di lavoro...». 
    La Corte di  cassazione,  nel  fornire  un'interpretazione  della
disposizione, ha espresso il principio secondo  cui  «Ai  fini  della
pronuncia di cui  al  d.lgs.  n.  23  del  2015,  art.  3,  comma  2,
l'insussistenza  del  fatto  materiale  contestato   al   lavoratore,
rispetto  alla  quale  resta  estranea  ogni  valutazione  circa   la
sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in  cui
il fatto non si sia verificato nella sua materialita', ma anche tutte
le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo
disciplinare» (Cassazione civile sez. lav., 8 maggio 2019, n. 12174). 
    Tale indirizzo e' stato ribadito anche di recente  dalla  suprema
Corte,  la  quale  ha  rimarcato  che  «l'insussistenza   del   fatto
contestato comprende anche l'ipotesi del fatto sussistente  ma  privo
del carattere di illiceita' o rilevanza giuridica, e quindi il  fatto
sostanzialmente inapprezzabile sotto il profilo  disciplinare,  oltre
che il fatto non imputabile al lavoratore (v. Cass. n. 20540/2015, n.
18418/2016, n. 13383/2017, n. 13799/2017, n. 11322/2018);  e  che  la
nozione di insussistenza del fatto contestato comprende non  soltanto
i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua  materialita',
ma anche tutte le ipotesi in cui il  fatto,  materialmente  accaduto,
non abbia rilievo disciplinare o quanto al profilo  oggettivo  ovvero
quanto al profilo soggettivo della imputabilita'  della  condotta  al
dipendente (Cass. n. 10019/2016, n. 29062/2017)» (Cass. sez. lav.  27
luglio 2023, n. 22881). 
    Laddove, dunque, il fatto o i fatti  addebitati  abbiano  rilievo
disciplinare e  siano  soggettivamente  imputabili,  per  quanto  non
idonei a  sorreggere  l'atto  di  recesso  in  ragione  delle  stesse
previsioni della CCNL di categoria, non  sembra  possibile  applicare
l'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015, ma l'art. 3, comma
1, del medesimo decreto (1) . 
    L'inciso utilizzato dall'art. 3, comma 2, decreto legislativo  n.
23/2015 «rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la
sproporzione del  licenziamento»,  non  sembra  lasciare  particolari
dubbi nel ritenere che il legislatore abbia escluso dalle ipotesi  di
reintegra ogni caso in cui l'insussistenza del fatto  possa  derivare
da un giudizio di sproporzione, sia che questa discenda  da  un'opera
di valutazione dei fatti operata dal  giudice,  sia  che  derivi  dal
«giudizio  di  proporzionalita'   eseguito   dalle   parti   sociali»
attraverso la previsione del contratto collettivo  (sul  concetto  di
sproporzione, sebbene con  riguardo  a  fattispecie  assoggettata  al
regime di cui all'art. 18, comma 4, legge  n.  300/1970,  Cass.  sez.
lav. 26 aprile 2022, n. 13063, par. 8.2.). 
    Nel caso di specie, quindi, non appare possibile, in  assenza  di
una declaratoria di incostituzionalita', accordare  la  tutela  della
reintegra richiesta in via principale, posto che  solo  l'ultimo  dei
tre fatti in contestazione puo' reputarsi  insussistente,  in  quanto
privo di rilevanza giuridica. 
    I primi due, per quanto di modesta gravita' e punibili  solo  con
sanzioni  di  carattere  conservativo,   sono   invece   sussistenti,
imputabili al lavoratore ed hanno rilevanza disciplinare. 
    2.4. Interpretazioni costituzionalmente orientate. 
    Il  dato  normativo  scolpito  dall'art.  3,  comma  2,   decreto
legislativo n. 23/2015 appare chiaro,  sotto  il  profilo  letterale,
esso  escludendo  la  tutela  reintegratoria  laddove  il  fatto  sia
sussistente ed abbia rilevanza disciplinare. 
    Tale sembra, fino  ad  oggi,  anche  l'indirizzo  espresso  dalla
suprema Corte. 
    Del resto, quando il legislatore ha inteso riconoscere la  tutela
reintegratoria   rispetto   a   condotte   punibili   con    sanzioni
conservative, lo ha fatto espressamente, come nel caso dell'art.  18,
comma 4,  legge  n.  300/1970,  nella  formulazione  successiva  alle
modifiche introdotte dalla legge n. 92/2012. 
    Anche la previsione dell'art. 3, comma 1, decreto legislativo  n.
23/2015, conferma tale ricostruzione. 
    La collocazione sistematica della tutela  economica,  all'interno
del comma 1 della disposizione, nonche'  il  tenore  letterale  della
medesima («salvo  quanto  disposto  dal  comma  2...»),  conducono  a
ritenere  che  il  legislatore  delegato  ha  prospettato  la  tutela
economica come rimedio generale anche nelle ipotesi di  licenziamento
disciplinare,  prevedendo  la  tutela  reintegratoria,   per   quanto
riguarda i licenziamenti disciplinari che non  siano  anche  nulli  o
discriminatori, solo in caso di insussistenza del fatto. 
    Non appare possibile applicare il principio di cui  all'art.  12,
legge n. 604/1966, recante  «norme  sui  licenziamenti  individuali»,
secondo cui «Sono fatte salve le disposizioni di contratti collettivi
e accordi sindacali che contengano per la materia disciplinata  dalla
presente legge, condizioni piu' favorevoli ai prestatori di  lavoro»,
atteso che l'art. 1, comma 1, decreto legislativo  n.  23/2015,  come
visto, prevede espressamente  che,  per  i  lavoratori  assunti  dopo
l'entrata in vigore del decreto, «il regime di  tutela  nel  caso  di
licenziamento illegittimo e' disciplinato dalle disposizioni  di  cui
al presente decreto». 
    Non si ignorano di certo  i  tentativi  della  giurisprudenza  di
merito di fornire altre interpretazioni (Trib. Roma,  sez.  lav.,  15
maggio 2019, n. 4661), ma questi ultimi appaiono isolati e  non  sono
sorretti,  allo  stato,  da   alcuna   pronunzia   del   giudice   di
legittimita', quindi non appaiono  in  grado  di  costituire  diritto
vivente,  alla   stregua   degli   stessi   criteri   indentificativi
individuati, nel tempo, dalla Corte costituzionale. 
    Per  tali  motivi,  non  sembrano  percorribili   interpretazioni
costituzionalmente orientate della disposizione impugnata. 
3. Non manifesta infondatezza 
    La  giurisprudenza   costituzionale   ha   evidenziato   che   il
legislatore, nelle ipotesi  di  licenziamento,  ben  puo'  prevedere,
nell'esercizio della sua discrezionalita', un  meccanismo  di  tutela
anche solo risarcitorio monetario,  purche'  un  tale  meccanismo  si
articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza (da  ultimo  C.
cost. n. 194/2018; n. 59/2021). 
    E' stato pure  affermato  il  diritto  del  lavoratore,  tutelato
dall'art.  4   della   Costituzione,   di   non   essere   estromesso
irragionevolmente dal posto di lavoro cosi' come  il  diritto  a  non
subire un licenziamento arbitrario (C. cost. n. 60/1991; n. 541/2000,
analiticamente richiamate da C. cost. n. 194/2018 cit.),  sussistendo
l'interesse del lavoratore «alla continuita' del vincolo  negoziale»,
determinando,  l'atto  di  recesso,  in  specie   se   arbitrario   o
irragionevole,  «una  vicenda  traumatica,  che   vede   direttamente
implicata la persona del lavoratore» (C. cost. n. 59/2021). 
    Al  fine  di  comprendere  in  che  termini  il  legislatore   e'
intervenuto nella materia, occorre  richiamare  la  legge  delega  10
dicembre 2014, n. 183, recante «Deleghe  al  Governo  in  materia  di
riforma degli ammortizzatori sociali, dei servizi  per  il  lavoro  e
delle  politiche  attive,  nonche'  in  materia  di  riordino   della
disciplina dei rapporti di lavoro e  dell'attivita'  ispettiva  e  di
tutela e conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di  lavoro»,
in forza della quale e' stato poi emanato, tra gli altri, il  decreto
legislativo n. 23/2015. 
    Viene in risalto, in particolare, l'art. 1, comma 7, della  legge
n. 183/2014, il  quale  ha  delegato  il  Governo  «ad  adottare,  su
proposta del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro sei
mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o piu'
decreti  legislativi,  di  cui  uno   recante   un   testo   organico
semplificato delle discipline  delle  tipologie  contrattuali  e  dei
rapporti di lavoro, nel rispetto  dei  seguenti  principi  e  criteri
direttivi, in coerenza con la regolazione dell'Unione  europea  e  le
convenzioni  internazionali...»  allo   scopo   «di   rafforzare   le
opportunita' di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro  che
sono in cerca di occupazione, nonche' di riordinare  i  contratti  di
lavoro vigenti per renderli  maggiormente  coerenti  con  le  attuali
esigenze del contesto occupazionale e produttivo e  di  rendere  piu'
efficiente l'attivita' ispettiva». 
    Nella specie, per quanto riguarda i  licenziamenti,  il  criterio
previsto dall'art. 1, comma 7, lettera c), ha demandato al Governo di
limitare il diritto alla reintegrazione  «ai  licenziamenti  nulli  e
discriminatori  e   a   specifiche   fattispecie   di   licenziamento
disciplinare ingiustificato». La legge delega, dunque, non  individua
nella tutela economica  l'unica  forma  di  garanzia  del  lavoratore
ingiustamente licenziato per motivi disciplinari,  prevedendo  invero
che la reintegrazione sia prevista, non  solo  nei  casi  piu'  gravi
(licenziamento nullo o discriminatorio), ma anche in altre ipotesi di
licenziamento  disciplinare  ingiustificato,   che   il   legislatore
delegato e' stato chiamato ad individuare specificamente («specifiche
fattispecie»). 
    Quest'ultimo, cionondimeno, con la previsione dell'art. 3,  comma
2, decreto legislativo  n.  23/2015,  ha  limitato  il  diritto  alla
reintegrazione alla sola  ipotesi  in  cui  il  fatto  materiale  sia
insussistente,  prevendo  tale  possibilita'  «Esclusivamente   nelle
ipotesi di licenziamento per giustificato  motivo  soggettivo  o  per
giusta  causa  in  cui  sia  direttamente  dimostrata   in   giudizio
l'insussistenza  del  fatto  materiale  contestato   al   lavoratore,
rispetto  alla  quale  resta  estranea  ogni  valutazione  circa   la
sproporzione del licenziamento». 
    Pur prendendo atto della giurisprudenza  di  legittimita',  sopra
richiamata, che ha ritenuto che la fattispecie dell'insussistenza del
fatto  comprende  «anche  tutte  le  ipotesi   in   cui   il   fatto,
materialmente accaduto, non abbia rilievo  disciplinare»  (Cassazione
civile sez. lav., 8 maggio  2019,  n.  12174),  rimane  il  dato  che
l'unica ipotesi per cui  possa  essere  accordata  la  reintegra  sia
quella  dell'insussistenza  del   fatto   (materiale   o   giuridico)
contestato. 
    Non possono essere ricomprese le ipotesi in  cui  il  fatto,  pur
disciplinarmente   rilevante,   e'   punibile,   in   ragione   della
contrattazione collettiva di  riferimento  applicata  dal  datore  di
lavoro, con una sanzione conservativa, anche di modesta entita'. 
    In tali casi, nonostante non ricorra alcuna delle ipotesi per cui
possa reputarsi compromesso il rapporto di  fiducia,  potra'  operare
solo la  tutela  economica  di  cui  all'art.  3,  comma  1,  decreto
legislativo n. 23/2015, la quale determinera', comunque, l'estinzione
del rapporto, senza che possa in alcun modo rilevare la volonta'  del
lavoratore di permanere in azienda. 
A) Possibile violazione degli articoli 2, 3, 4, 35, 36, 39, 41  della
Costituzione. 
    Tale  restrizione   conduce   a   dubitare   della   legittimita'
costituzionale dell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n.  23/2015,
innanzitutto, sotto il profilo della ragionevolezza, ex art. 3 Cost. 
    La norma, invero, senza un plausibile motivo, consente al  datore
di lavoro di giungere  all'estromissione  dal  posto  di  lavoro  del
proprio dipendente anche quando questi abbia commesso  infrazioni  di
modesta entita', che,  secondo  le  stesse  valutazioni  delle  parti
sociali e del CCNL di categoria, non possono compromettere il vincolo
fiduciario, potendo al piu' giustificare  l'irrogazione  di  sanzioni
conservative. 
    Cosi' facendo, la norma permette al datore di lavoro di  irrogare
al  lavoratore   un   recesso,   che   ancorche'   non   nullo,   ne'
discriminatorio,  risulta,  comunque,  arbitrario  ed  irragionevole,
perche' fondato  su  fatti  obiettivamente  inidonei  a  giustificare
l'estinzione del rapporto. 
    Essa, quindi, sembra vanificare, senza  reali  motivi,  il  ruolo
delle parti  sociali,  in  quanto  rende  prive  di  rilevanza  o  di
effettivi  rimedi  tutte  quelle  disposizioni  della  contrattazione
collettiva  che  hanno  cura  di  graduare  l'esercizio  del   potere
disciplinare, prevedendo analiticamente quando possa essere applicata
una sanzione conservativa e quando invece quella  espulsiva,  e  cio'
nonostante  la  rilevanza  normativa  e  giurisprudenziale   che   la
contrattazione collettiva ha assunto nel nostro ordinamento (ad  es.,
art. 12, legge  n.  604/1966;  art.  30,  comma  3,  della  legge  n.
183/2010; l'art. 18, comma 4,  legge  n.  300/1970;  art.  63,  comma
2-bis, decreto legislativo n. 165/2001; Cass.  sez.  lav.  26  aprile
2022, n. 13063, par. 8.1.) (2) 
    La norma impugnata conduce, senza un plausibile motivo, a violare
un principio immanente dell'ordinamento giuslavoristico, quale quello
della necessaria gradualita' delle sanzioni disciplinari ex art. 2106
c.c., di fatto consentendo al datore di lavoro  di  poterlo  eludere,
incorrendo in una mera  sanzione  di  tipo  economico  (quale  quella
prevista dall'art. 3,  comma  1,  decreto  legislativo  n.  23/2015),
rimedio tanto meno dissuasivo quanto piu' ampie saranno le  capacita'
finanziarie dell'impresa e, quindi, la sproporzione dei  rapporti  di
forza tra datore di lavoro e parte lavoratrice. 
    Viene cosi' leso, irragionevolmente, l'interesse  del  lavoratore
alla continuita' del rapporto, il suo  legittimo  affidamento  a  non
essere assoggettabile a  misure  espulsive,  al  di  fuori  dai  casi
previsti dal proprio  contratto  di  lavoro  e  dalla  contrattazione
collettiva  ivi  richiamata,   a   non   essere   vittima   di   atti
irragionevoli, spropositati e lesivi della sua dignita' (articoli  2,
4, 35, 36,  41  Cost.),  beni  giuridici  la  cui  incisione  non  e'
ristorabile per equivalente e, dunque, non  puo'  reputarsi  protetta
dalla mera tutela economica prevista dall'art. 3,  comma  1,  decreto
legislativo n. 23/2015. 
    Un ulteriore motivo  che  porta  a  dubitare  dell'illegittimita'
costituzionale della  norma  e'  quello  legato  alla  disparita'  di
trattamento che essa integra  tra  ipotesi  sostanzialmente  omogenee
(art. 3 Cost.). 
    Cosi' come nell'ipotesi dell'insussistenza del fatto (materiale o
giuridico), anche nell'ipotesi della commissione di un fatto punibile
solo con una misura  conservativa,  non  si  manifesta  una  condotta
idonea a far venir meno il rapporto di fiducia tra le parti ovvero  a
giustificare la risoluzione del rapporto. 
    In tal caso, dunque, la fattispecie  del  fatto  disciplinarmente
rilevante, per  il  quale  sia  prevista  dal  CCNL  la  sola  misura
conservativa, e' assimilabile alla fattispecie dell'insussistenza del
fatto. 
    Entrambe non ledono il rapporto di fiducia e non costituiscono un
presupposto  che  possa  legittimare  l'estromissione  dal  posto  di
lavoro. 
    Cionondimeno, mentre nella prima  ipotesi,  l'art.  3,  comma  2,
decreto legislativo n. 23/2015, riconosce la  tutela  reintegratoria,
assicurando protezione all'interesse del lavoratore alla «continuita'
del rapporto», nel secondo caso questo non avviene. 
    Quanto  premesso,  oltre  ad  apparire   irragionevole   per   le
motivazioni gia' espresse,  sembra  anche  violare  il  principio  di
parita' di trattamento, in quanto vengono  diversamente  disciplinate
situazioni   sostanzialmente   assimilabili,   senza   che   sussista
un'effettiva giustificazione. Tale  discrimine,  peraltro,  non  puo'
reputarsi supportato neppure dalle  finalita'  e  dai  criteri  della
legge delega (sul punto, infra § 4). 
    La norma impugnata pone ulteriori dubbi  di  legittimita'  se  si
considera l'assetto complessivo che essa determina nei  rapporti  con
il datore di lavoro, essa provocando uno squilibrio irragionevole  ed
eccessivo in danno della posizione del lavoratore. 
    La  possibilita',  come  visto,  che  quest'ultimo  possa  essere
estromesso definitivamente dal posto di lavoro,  anche  a  fronte  di
infrazioni  disciplinari  di  modesta  entita',  appare  innanzitutto
lesiva  della  sua  dignita'.  Il  lavoratore,  invero,  deve   poter
esplicare la propria attivita' lavorativa  senza  temere  ingiuste  o
dannose ripercussioni, quale e' certamente quella di  essere  espulso
dal  proprio  ambiente  lavorativo,  pur  a  fronte   di   violazioni
disciplinari di scarsa entita'. 
    Il  regime  normativo  che  la  norma  delinea,  inoltre,  incide
negativamente sul terreno  delle  liberta'  che  il  lavoratore  deve
comunque avere, all'interno del posto di lavoro, per poter essere  in
grado, senza temere ingiuste conseguenze, di esplicare pienamente  le
proprie prerogative costituzionali e, ove ricorrano, sindacali. 
    Si pensi, a  titolo  meramente  esemplificativo,  al  diritto  di
critica (art. 21 Cost.) o di denunzia (art. 24 Cost.),  in  merito  a
questioni di primaria importanza, quali quelle  sulla  sicurezza  sul
lavoro ed al rispetto delle norme antinfortunistiche; al  diritto  di
sciopero (art. 40 Cost.); al  diritto  di  rivendicare  la  giusta  e
corretta retribuzione (art. 36 Cost.), etc.; al diritto di  esplicare
liberamente attivita' sindacale ovvero di aderire  ad  iniziative  di
medesima natura (articoli 39, 40 Cost.). 
    La   facilita',   che   la   norma   determina,   di   consentire
l'estromissione  dal  posto  di  lavoro,  non  puo'  che  riflettersi
negativamente  a  danno  anche  di  tali  prerogative,   ponendo   il
lavoratore in una posizione di smisurata soggezione  psicologica  nei
riguardi del proprio datore di lavoro. 
    Questo non puo' che indurre il lavoratore ad evitare conflitti di
ogni sorta, al fine di preservare il posto di lavoro, in specie nella
previsione  di  poter  incorrere,  nel  corso  della   propria   vita
lavorativa, in  modo  del  tutto  fisiologico,  in  qualche  mancanza
disciplinare, sia pure di minore gravita'. 
    In tali casi, infatti, il datore di lavoro, consapevole di  poter
subire solo una sanzione economica, potrebbe cogliere l'occasione per
estromettere il dipendente (c.d.  «scomodo»),  semplicemente  perche'
incline - magari anche solo in alcune fasi della sua vita  lavorativa
-  a  rivendicare  i  propri  diritti,  a  segnalare   le   eventuali
inadempienze aziendali o ad esercitare con pienezza i propri  diritti
sindacali. 
    La sussistenza del  fatto  disciplinarmente  rilevante,  infatti,
impedirebbe al lavoratore di accedere alla tutela  reintegratoria  in
forza dell'art. 3, comma 2, decreto legislativo n. 23/2015. 
    E', oltretutto, difficile, non  solo  sul  piano  probatorio,  ma
anche giuridico, poter sempre prospettare  o  dimostrare  l'eventuale
carattere  ritorsivo  dell'atto  di  recesso  ovvero  la  sua  natura
discriminatoria ai sensi dell'art. 15, legge  n.  300/1970  (ipotesi,
questa, che darebbe luogo alla nullita' del licenziamento,  ai  sensi
dell'art. 2  del  decreto  legislativo  n.  23/2015),  in  specie  in
presenza di un fatto disciplinarmente rilevante,  comunque,  commesso
dal lavoratore e che giustifica l'esercizio del  potere  disciplinare
(3) . 
    E tali difficolta' aumentano quando ricorra apprezzabile distanza
di tempo tra l'atto di recesso  e  l'integrazione  del  comportamento
«sgradito» al datore di lavoro, posto che in tali casi e' ancora piu'
arduo, per il lavoratore, dimostrare il nesso di causalita' tra i due
eventi. 
    La disposizione in scrutinio, quindi,  sembra  alterare  in  modo
irragionevole i rapporti tra impresa e parte lavoratrice,  provocando
un oggettivo squilibrio a danno della parte debole  del  rapporto,  e
cio' appare in contrasto non solo con l'art.  2  della  Cost.,  nella
misura in cui tale norma tutela l'individuo anche  all'interno  delle
formazioni sociali ove esso esplica la  sua  personalita',  ma  anche
rispetto a tutti quei parametri costituzionali, sopra menzionati, che
costituiscono  il  fondamento  delle  prerogative  democratiche   del
lavoratore (articoli 21, 24, 36, 39, 40 Cost.). 
Conclusioni (motivi sub A) 
    Quanto premesso, in conclusione, non puo' che portare a  dubitare
della  legittimita'  della  disposizione  impugnata,  alla  luce  dei
parametri di cui ai seguenti articoli: 3 Cost., per  irragionevolezza
e disparita'  di  trattamento;  2  Cost.,  perche'  irragionevolmente
lesiva della  dignita'  del  lavoratore,  nell'ambito  di  una  delle
formazione sociali ove questi esplica la propria personalita',  quale
e' il posto di lavoro; 4, 35,  36  Cost.,  perche'  irragionevolmente
lesiva dell'interesse del lavoratore alla continuita' del rapporto  e
del  diritto  di  non   subire   licenziamenti   arbitrari;   valore,
quest'ultimo, strettamente connesso all'esigenza, protetta  dall'art.
36 Cost., di  poter  condurre,  attraverso  la  giusta  retribuzione,
un'esistenza libera e dignitosa;  2,  3  Cost.  (ed  altri  parametri
connessi, quali l'art. 21, 24, 39, 40), poiche' la norma  provoca  un
irragionevole ed eccessivo squilibrio in danno  della  posizione  del
lavoratore, comprimendo, peraltro,  i  presupposti  per  il  pieno  e
libero esercizio delle prerogative lavorative e sindacali; 41  Cost.,
in  quanto  conduce  al  superamento  del  limite  previsto  da  tale
disposizione, secondo cui l'iniziativa privata non puo' svolgersi  in
modo da compromettere la dignita' della persona. 
    4: (segue):  B)  possibile  violazione  dell'art.  76  Cost.  per
eccesso di delega. 
    Si dubita, infine, dell'illegittimita' della  disposizione  anche
ai sensi dell'art. 76 Cost. per eccesso  di  delega,  alla  luce  dei
criteri  espressi  dalla  stessa  Corte  costituzionale  (da  ultimo,
sentenza n. 166/2023). 
    Le finalita' perseguite dal legislatore delegante, come si desume
dall'art. 1, comma 7, legge n. 183/2010, erano quelle  di  rafforzare
le opportunita' di ingresso nel mondo del  lavoro,  di  riordinare  i
contratti di  lavoro,  per  renderli  maggiormente  coerenti  con  le
esigenze del contesto occupazionale e  produttivo,  di  rendere  piu'
efficiente l'attivita' ispettiva. 
    Lo scopo perseguito dal legislatore delegante  non  era,  dunque,
quello  di  limitare  oltremodo  il  diritto   alla   reintegra   nei
licenziamenti disciplinari. 
    Tale finalita'  non  si  ritrova  neppure  nei  criteri  all'uopo
specificamente previsti. 
    Viene, in risalto, in merito,  quello  contemplato  dall'art.  1,
comma 7, lettera c), il quale prevede di  limitare  il  diritto  alla
reintegrazione  «ai  licenziamenti  nulli  e   discriminatori   e   a
specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». 
    Come si vede, il criterio in esame, non  tende  a  precludere  la
tutela reintegratoria anche alle ipotesi  disciplinari  riconducibili
alle sanzioni conservative, ma  solo  a  limitare  tale  strumento  a
«specifiche fattispecie», che il legislatore delegato era chiamato ad
individuare. 
    Lo scopo perseguito dalla legge delega era verosimilmente  quello
di consentire al datore di  lavoro  di  avere  maggiore  certezza  in
ordine alle possibili conseguenze del recesso,  evitando  che  queste
ultime fossero imprevedibili e, dunque, potessero incidere  oltremodo
ed ex post nell'assetto degli interessi economici dell'impresa.  Cio'
appare confermato anche da quella parte della disposizione  dell'art.
1, comma 7, lettera c), legge delega n. 183/2014,  che  ribadisce  la
previsione, gia' espressa in altre (art. 6, legge n. 604/1966,  nella
formulazione successiva alla legge n. 183/2010),  di  «termini  certi
per l'impugnazione del licenziamento». 
    Nel caso di specie, il legislatore delegato sembra aver disatteso
i criteri della legge delega,  omettendo  di  individuare  il  novero
delle «specifiche fattispecie» che avrebbero potuto dare  luogo  alla
reintegrazione nei casi di  licenziamenti  disciplinari  e  limitando
tale istituto ad una  sola  ipotesi,  quella  dell'insussistenza  del
fatto. 
    Ma tale - estrema -  limitazione  non  appare  autorizzata  dalla
legge delega, ne' appare supportata dalle finalita'  ivi  perseguite,
essa urtando, peraltro, con il principio  di  necessaria  gradualita'
delle  sanzioni  disciplinari  ex  art.  2106   c.c.,   nonche'   con
l'interesse del lavoratore a non essere estromesso arbitrariamente  o
irragionevolmente dal posto di lavoro,  al  di  fuori  dalle  ipotesi
previste dalla contrattazione collettiva; valori - come visto  -  che
assumono rilevanza costituzionale (articoli 1, 2, 4, 35 Cost.). 
    Di tali principi, del  resto,  il  legislatore  ha  fatto  sempre
applicazione: si consideri l'art. 18 St. lav.  (legge  n.  300/1970),
che, pur dopo  le  modifiche  operate  dalla  legge  n.  92/2012,  ha
previsto  il  diritto  di  reintegra,  non  solo  nelle  ipotesi   di
insussistenza del fatto, ma anche  nelle  ipotesi  in  cui  il  fatto
risulti disciplinarmente rilevante  e  sanzionabile  con  una  misura
conservativa, in base alle previsioni della contrattazione collettiva
o del codice disciplinare. Si consideri, ancor prima, l'art. 12 della
legge n.  604/1966  (non  applicabile  al  caso  in  scrutinio,  come
evidenziato  sopra,  §  2.4.),  secondo  cui  «Sono  fatte  salve  le
disposizioni  di  contratti  collettivi  e  accordi   sindacali   che
contengano  per  la  materia  disciplinata  dalla   presente   legge,
condizioni piu' favorevoli ai prestatori di lavoro». 
    Analoga  disciplina,  come  anticipato,  sembra  prefigurare   il
criterio dell'art. 1, comma 7, lettera  c),  della  legge  delega  n.
183/2014, nella parte in cui non demanda al legislatore  delegato  di
ridurre ad un'unica fattispecie la tutela reintegratoria, ma solo  di
limitarla a specifiche ipotesi. 
    La drastica limitazione introdotta dal legislatore delegato  alla
sola ipotesi dell'insussistenza del fatto, ai  fini  della  reintegra
nel  posto  di  lavoro,  e  con  essa  l'esclusione  dall'ambito   di
operativita' di tale strumento dei casi in cui il fatto sia  punibile
con una sanzione conservativa, appare, pertanto, entrare il conflitto
anche con il parametro costituzionale dell'art. 76 Cost., esorbitando
dagli scopi e dai criteri previsti dalla legge delega. 

(1) Art. 3, comma 1, decreto legislativo n.  23/2015:  «Salvo  quanto
    disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato  che  non
    ricorrono gli estremi del licenziamento per  giustificato  motivo
    oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il
    giudice dichiara estinto il rapporto  di  lavoro  alla  data  del
    licenziamento e condanna il datore  di  lavoro  al  pagamento  di
    un'indennita' non assoggettata a contribuzione  previdenziale  di
    importo  pari  a  due  mensilita'  dell'ultima  retribuzione   di
    riferimento per il calcolo del trattamento di fine  rapporto  per
    ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a  sei  e
    non superiore a trentasei  mensilita'»  (disposizione  dichiarata
    parzialmente illegittima da C. cost. 194/2018). 

(2) Con riferimento a fattispecie sottoposta all'art. 18 St. lav., la
    giurisprudenza aveva affermato che «ove la  previsione  negoziale
    ricolleghi  ad  un   determinato   comportamento   giuridicamente
    rilevante solamente una  sanzione  conservativa...il  giudice  e'
    vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione
    di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (art.
    12, legge n. 604/1966)» (Cass.  sez.  lav.  26  aprile  2022,  n.
    13063, par. 8.1. cit.). Sull'inapplicabilita', al caso in  esame,
    dell'art. 12, legge n. 604/1966 (cfr. § 2.4). 

(3) In  materia  di  licenziamento   ritorsivo,   ad   es.,   secondo
    l'indirizzo espresso dalla suprema Corte, «Il licenziamento - per
    essere considerato  ritorsivo  -  deve  costituire  l'ingiusta  e
    arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del  lavoratore
    e proprio quest'ultimo ha l'onere di indicare e provare i profili
    specifici da cui desumere l'intento ritorsivo quale motivo  unico
    e determinante del recesso»  (Cassazione  civile  sez.  lav.,  17
    gennaio 2019, n. 1195) 
 
                               P.Q.M. 
 
    visti gli articoli 134 Cost. e 23 legge 11 marzo 1953, n. 87; 
    visti gli articoli 2, 3, 4, 35, 36, 39, 41, 76 Cost.; 
    ritenuto,  in   relazione   alle   suddette   disposizioni,   non
manifestamente infondate le questioni di legittimita'  costituzionale
relative all'art. 3, comma 2, decreto legislativo n.  23/2015,  nella
parte in cui non prevede (o non consente) che il giudice  annulli  il
licenziamento,  con  le  conseguenze  gia'  previste  per   l'ipotesi
dell'insussistenza del fatto (tra cui il diritto alla  reintegrazione
nel posto di lavoro), laddove  il  fatto  contestato,  in  base  alle
previsioni della contrattazione collettiva applicabile  al  rapporto,
sia punibile solo con sanzioni di natura conservativa; 
    ritenute le questioni rilevanti, per le  argomentazioni  indicate
in parte motiva; 
    Sospende il giudizio e  dispone  l'immediata  trasmissione  degli
atti alla Corte costituzionale; 
    Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza venga
notificata alle parti in causa e  al  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri e comunicata ai presidenti della Camera dei deputati  e  del
Senato della Repubblica. 
    Cosi' deciso, in Catania, 20 novembre 2023 
 
                  Il Giudice del lavoro: Fiorentino