N. 36 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 gennaio 2024

Ordinanza  del  18  gennaio  2024  della  Corte  di  cassazione   nel
procedimento civile promosso da Irene Uberti contro Cristian Durelli,
Massimiliano Durelli e Sonia Durelli . 
 
Famiglia - Impresa familiare - Diritti e  tutele  del  familiare  che
  presta in modo  continuativo  la  sua  attivita'  di  lavoro  nella
  famiglia o nell'impresa familiare - Ambito soggettivo -  Inclusione
  nel novero dei familiari anche del convivente more uxorio -  Omessa
  previsione. 
- Codice civile, art. 230-bis. 
(GU n.12 del 20-3-2024 )
 
                    LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        sezioni unite civili 
 
    Composta dagli ill.mi sigg.ri Magistrati: 
        Pasquale D'Ascola Presidente aggiunto; 
        Ettore Cirillo Presidente di Sezione; 
        Adriano Piergiovanni Patti consigliere; 
        Maria Margherita Leone consigliere; 
        Alberto Giusti consigliere; 
        Francesco Maria Cirillo, consigliere; 
        Antonio Pietro Lamorgese, consigliere; 
        Roberta Crucitti, consigliere; 
        Caterina Marotta, consigliere. 
    Ordinanza interlocutoria sul ricorso 19315/2018 proposto da: 
        Uberti Irene, elettivamente domiciliata in Roma,  via  Boezio
14,   presso   lo   studio   dell'avvocato   Marsili    Feliciangeli,
rappresentata   e   difesa   dall'avvocato   Ciarrocchi    Nazzareno;
ricorrente; 
    contro Durelli Cristian,  Durelli  Massimiliano,  Durelli  Sonia,
elettivamente domiciliati in Roma, via  Paolo  Frisi  24,  presso  lo
studio dell'avvocato Rizzica Cecilia che li rappresenta e  difende  -
controricorrenti; 
    avverso la sentenza n. 520/2017 della Corte D'Appello di  Ancona,
depositata il 11/04/2018. 
    Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza  del
24/10/2023 dal consigliere Marotta Caterina; 
    udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale Roberto Mucci, che ha concluso per il rigetto del ricorso; 
    uditi gli avvocati Nazzareno Ciarrocchi e Cecilia Rizzica. 
 
                            Rilevato che 
 
    1. La Corte d'appello  di  Ancona  confermava  la  decisione  del
Tribunale di Fermo, che aveva  respinto  la  domanda  proposta  dalla
sig.ra Irene Uberti nei confronti dei figli-eredi  del  sig.  Ernesto
Durelli,  volta  ad  accertare  l'esistenza  dell'impresa   familiare
relativa all'azienda agricola "Il Poggio  del  Belvedere  di  Durelli
Ernesto" nel periodo dal 2004 al 28.11.2012,  data  del  decesso  del
sig. Ernesto Durelli, nonche' ad ottenere condanna  dei  coeredi  del
Durelli alla liquidazione della quota a lei spettante quale partecipe
all'impresa. 
    La ricorrente aveva  dedotto  di  aver  convissuto  con  il  sig.
Durelli - gia' sposato con altra donna - sin dall'anno 2000 dopo aver
intrapreso con lui, nel 1988, una relazione sentimentale. 
    La convivenza stabile, iniziata in localita'  Verdello,  era  poi
proseguita a Montefiore dell'Aso ove la coppia si era trasferita  nel
2008, avendo il Durelli acquistato un fondo rustico  al  quale  erano
via via susseguite altre acquisizioni e la costruzione di una cantina
per  la  produzione  del  vino  oltre  che  avviata  un'attivita'  di
ricezione turistica. 
    La Uberti aveva,  quindi,  dedotto  di  aver  prestato  attivita'
lavorativa in modo continuo nell'azienda del Durelli  denominata  "Il
Poggio del Belvedere di Durelli Ernesto", e cio' dal  2004  (anno  di
iscrizione del registro delle imprese) fino al 2012 (anno di  decesso
del Durelli). 
    Il  Tribunale  aveva  respinto  la  domanda  rilevando   che   il
riconoscimento della quota di partecipazione all'impresa familiare ex
art. 230 bis cod. civ. presuppone la sussistenza di  un  rapporto  di
coniugio o di parentela o affinita' a termini dell'art. 230 bis  cod.
civ. e ritenendo non applicabile detta disciplina alla convivenza. 
    Egualmente la Corte territoriale, per quanto qui rileva, riteneva
che l'art. 230 bis cod. civ. non trovasse applicazione nei  confronti
del  "convivente  di  fatto",   non   potendo   quest'ultimo   essere
considerato "familiare" ai sensi del comma 3 dell'art. 230  bis  cod.
civ. 
    Evidenziava che, in ogni  caso,  emergevano  plurime  circostanze
ostative alla  ipotizzata  partecipazione  all'impresa  familiare:  -
l'essere il sig. Ernesto Durelli rimasto fino alla morte  formalmente
legato in matrimonio  con  Maria  Enrica  Gritti;  -  l'essere  stato
stipulato, sia pure per un periodo piu' limitato  rispetto  a  quello
dedotto dalla ricorrente (dal 2004 al 2012), un contratto  di  lavoro
subordinato tra la sig. Uberti  e  l'azienda,  condizione  escludente
l'applicazione dell'art. 230 bis cod. civ., che espressamente prevede
una residualita' della disciplina dell'impresa  familiare  (comma  1:
«Salvo che non sia  configurabile  un  diverso  rapporto  [...]»);  -
l'essere risultata la sig.ra Irene Uberti regolarmente assunta presso
la Regione Lombardia. 
    Aggiungeva che non poteva trovare  applicazione  l'art.  230  ter
cod. civ., essendo il rapporto di convivenza cessato nel 2012,  ossia
prima dell'entrata in vigore della legge n. 76/2016 che ha esteso  ai
conviventi la disciplina dell'impresa familiare. 
    3. Avverso tale sentenza Irene Uberti  ha  proposto  ricorso  per
cassazione, affidato a tre motivi. 
    4. Cristian Durelli, Sonia Durelli e Massimiliano  Durelli  hanno
resistito con controricorso. 
    5. Il Collegio della Sezione Lavoro di questa Corte  ha,  quindi,
emesso l'ordinanza interlocutoria n. 2121/2023, depositata in data 24
gennaio 2023, con cui ha disposto  la  trasmissione  del  ricorso  al
Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite. 
    L'ordinanza, dopo aver richiamato l'orientamento di  legittimita'
secondo il quale presupposto per l'applicabilita' della disciplina in
materia di impresa familiare e' l'esistenza di una famiglia legittima
con la conseguenza che l'art. 230 bis cod. civ.  non  e'  applicabile
nel caso di mera convivenza,  ovvero  alla  famiglia  cosiddetta  "di
fatto",  trattandosi  di   norma   eccezionale,   insuscettibile   di
interpretazione analogica (cosi' Cass., 29 novembre 2004, n.  22405),
ha ritenuto che lo stesso fosse meritevole di una revisione alla luce
sia  degli  interventi  legislativi  e/o  per  via  giurisprudenziale
realizzanti  una  "apertura"  nei  confronti  della  convivenza  more
uxorio. 
    Ha cosi' richiamato la recente  introduzione  dell'art.  230  ter
cod. civ., ad opera dell'art. 1, comma  46,  della  legge  20  maggio
2016, n. 76 (c.d. legge Cirinna'), che ha previsto per il  convivente
di  fatto  che  presti  stabilmente  la  propria  opera   all'interno
dell'impresa dell'altro  convivente  una  partecipazione  agli  utili
dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con  essi  nonche'  agli
incrementi dell'azienda, salvo che tra i  conviventi  non  esista  un
rapporto di societa' o di lavoro subordinato. 
    Ha, inoltre, richiamato le pronunce  della  Corte  costituzionale
che hanno attribuito rilevanza  alla  convivenza  more  uxorio  nelle
ipotesi  in  cui  venga  in  considerazione  la  lesione  di  diritti
fondamentali come il diritto sociale all'abitazione (sentenza n.  559
del 1986 e n. 404 del 1988) ovvero il diritto alla  salute  (sentenza
n. 213 del 2016)  nonche'  quelle  che,  nel  settore  penale,  hanno
affermato che puo' beneficiare della scriminante di cui all'art. 384,
comma 1, cod. pen. anche il convivente more uxorio (sentenze n. 416 e
n. 8 del 1996; ordinanza n. 121 del 2004; sentenza n. 140 del 2009). 
    Considerata, poi, l'impossibilita' di applicare  retroattivamente
la disciplina del 2016 e dato atto dell'evoluzione che  si  e'  avuta
nella societa' con sempre maggiore diffusione della  convivenza  more
uxorio (di cui hanno tenuto conto sia il legislatore con  la  riforma
del 2016  sia  la  Corte  costituzionale)  ha  sottolineato  che  una
esclusione  del  convivente  che  per  lungo  tempo  abbia   lavorato
nell'impresa familiare dalla tutela di cui all'art. 230 bis cod. civ.
si porrebbe in contrasto non solo con  gli  artt.  2  e  3  Cost.  ma
soprattutto con la giurisprudenza della Corte EDU e  con  il  diritto
UE. 
    Ha richiamato Cass. Pen., Sez. Un., 17 marzo 2021, n. 10381  che,
in difformita' rispetto ai precedenti di legittimita' nel senso della
insuscettibilita' di una interpretazione estensiva  o  analogica,  ha
affermato che l'art. 384, comma primo, cod. pen., in quanto causa  di
esclusione della colpevolezza, e' applicabile analogicamente anche  a
chi abbia commesso uno dei  reati  ivi  indicati  per  esservi  stato
costretto dalla necessita' di salvare il convivente "more uxorio"  da
un grave e inevitabile nocumento nella liberta' o nell'onore. 
    Ha evidenziato che in detta pronuncia il Giudice di  legittimita'
ha precisato come la vita  dei  conviventi  di  fatto  rientri  nella
concezione di "vita familiare" ormai da tempo elaborata  dalla  Corte
EDU in sede di interpretazione dell'art. 8, par. 1, CEDU. 
    Ha sottolineato che la Corte EDU, pur avendo ricondotto la tutela
dei vincoli affettivi  discendenti  dalla  convivenza  di  fatto,  ha
tuttavia considerato legittima la limitazione  di  tale  diritto  (ad
esempio, in ragione dell'esigenza di tutelare gli interessi  connessi
all'amministrazione della giustizia penale) riconoscendo altresi'  la
possibilita' di bilanciamenti differenziati per le coppie  sposate  e
le convivenze di mero fatto, secondo la discrezionale valutazione del
legislatore. 
    Ha ritenuto percio' indispensabile un intervento nomofilattico al
fine di chiarire "se l'art. 230 bis, comma  terzo,  cod.  civ.  possa
essere evolutivamente interpretato (in considerazione  del  mutamento
dei costumi  nonche'  della  giurisprudenza  costituzionale  e  della
legislazione nazionale in materia di unioni civili tra persone  dello
stesso sesso) in chiave di esegesi orientata sia agli artt. 2, 3, 4 e
35 Cost. sia all'art. 8 CEDU come inteso dalla Corte  di  Strasburgo,
nel senso di prevedere  l'applicabilita'  della  relativa  disciplina
anche al convivente more uxorio, laddove la convivenza di  fatto  sia
caratterizzata da un grado accertato di  stabilita'",  questione  «di
massima di particolare importanza», da sottoporre alle Sezioni Unite. 
    6. Il Primo Presidente, in ragione della  particolare  importanza
della questione di massima, ha assegnato  la  controversia  a  queste
Sezioni unite. 
    7. Le parti hanno depositato memorie. 
 
                           Considerato che 
 
Sintesi del ricorso. 
    1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta l'omesso esame di un
fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra  le  parti,
in relazione all'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. 
    Sostiene che il rapporto  di  lavoro  con  la  Regione  Lombardia
(iniziato nel 1989 e proseguito con contratto di lavoro al 100%  fino
al 31.12.2020,  e  poi,  a  partire  dal  01.01.2012,  con  contratto
part-time  verticale  al  50%)   non   abbia   influito   sulla   sua
partecipazione  all'azienda,  profusa  sia  nell'intrattenimento   di
rapporti esterni con i vari enti (Comune,  Provincia,  Regione,  Asur
ecc.), clienti, fornitori, professionisti  e  nell'organizzazione  di
eventi promozionali e nella creazione e sviluppo  dell'azienda  sotto
il profilo della  costituzione  della  rete  commerciale,  sia  nella
diretta attivita' nei campi (nei periodi  di  raccolta  delle  uve  e
delle olive) insieme con i braccianti che in precedenza aveva assunto
e selezionato. 
    Assume, inoltre, che il rapporto di lavoro subordinato intrapreso
per brevi periodi  con  l'azienda  agricola  del  Durelli  sia  stato
simulato ai soli fini assicurativi e, pertanto,  lo  stesso  dovrebbe
essere letto nella prospettiva delle condizioni familiari in  cui  si
e' svolto. 
    2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la  violazione  e
falsa applicazione dell'art. 230 bis cod. civ., in relazione all'art.
360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. 
    Deduce che la Corte territoriale ha statuito erroneamente laddove
non ha considerato le  mutate  sensibilita'  sociali  in  materia  di
convivenza,  oltre  che   le   aperture   della   giurisprudenza   di
legittimita'  e  della   giurisprudenza   costituzionale   verso   il
convivente more uxorio; in  tal  senso,  secondo  la  ricorrente,  la
disciplina dell'impresa familiare dovrebbe trovare applicazione anche
in mancanza di una norma rivolta espressamente al convivente, in base
ad una lettura costituzionalmente orientata dell'art.  230  bis  cod.
civ. 
    3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la  violazione  degli
artt. 230 bis e 230 ter cod. civ. e dell'art. 11 delle Preleggi. 
    Sostiene che, in ambito civile, il principio di  irretroattivita'
non e' presidiato da  una  norma  costituzionale  e,  pertanto,  puo'
essere derogato purche' cio' risponda a criterio di ragionevolezza  e
di maggior giustizia. 
    4. La Corte ritiene, per le ragioni che di seguito si andranno ad
esporre,  che  sia  rilevante  e  non  manifestamente  infondata   la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 230 bis cod.  civ.
(per violazione dei sopra ricordati artt. 2, 3, 4,  35  e  36  Cost.,
nonche' l'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali  dell'U.E.,  ed
ancora 8 e 12 CEDU), nella parte in cui non prevede  che  si  intenda
come  familiare   anche   il   convivente   more   uxorio,   premessa
logico-funzionale  cui  accede   l'estensione,   in   via   derivata,
dell'illegittimita' costituzionale anche dell'art. 230 ter cod.  civ.
che applica al convivente di fatto che presti stabilmente la  propria
opera  dell'impresa  dell'altro  convivente  una   tutela   inferiore
rispetto a quella prevista per il familiare. 
 
                           Sulla rilevanza 
 
    5. Come si evince dal primo motivo di ricorso sopra sintetizzato,
sul presupposto della inapplicabilita' ratione temporis  al  caso  di
specie  dell'art.  230  ter  cod.  civ.  e  della  impossibilita'  di
un'applicazione estensiva dell'art. 230 bis cod. civ. (nel  senso  di
estendere al convivente di fatto la medesima tutela prevista  per  il
familiare), e' stato del tutto pretermesso (verosimilmente proprio in
ragione  del  condizionamento   derivante   dalla   ratio   decidendi
costituita  dall'impossibilita'  di  qualificare   la   Uberti   come
familiare ai sensi dell'art. 230 bis cod. civ.) ogni accertamento  in
concreto  circa  l'effettivita'  e  la  continuativita'  dell'apporto
lavorativo della predetta  nell'impresa  familiare,  apporto  che  si
assume   determinativo   dell'accrescimento    della    produttivita'
dell'impresa. 
    La rilevanza della questione di legittimita'  costituzionale  non
e' esclusa dagli ulteriori elementi indicati dalla Corte territoriale
( a) l'esistenza di un formale  rapporto  di  coniugio  del  titolare
dell'impresa; b) l'aver avuto, la ricorrente, un rapporto  di  lavoro
subordinato, ancorche' per un periodo limitato; c) l'avere in  corso,
la ricorrente, un rapporto  di  lavoro  con  la  Regione  Lombardia),
dovendosi ricordare che l'art.  230  bis  al  comma  3  qualifica  la
partecipazione  del  convivente  familiare   quale   "collaborazione"
all'attivita' economica. Non e'  dunque  richiesto  alcun  "esercizio
congiuntivo"  e  non  e'  richiesta  l'esclusivita'  (il  che   rende
compatibile,  in  linea  teorica,  tale  collaborazione   con   altra
attivita' di lavoro dipendente eventualmente in essere). Non  occorre
la  necessaria  osservanza  di  orari  predeterminati,  al  fine   di
contribuire all'accrescimento  della  produttivita'  dell'impresa  in
ragione del lavoro apportato;  neppure  l'attivita'  lavorativa  deve
essere prevalente rispetto ad altre  attivita',  essendo  compatibile
con lavori ulteriori.  E'  stato  chiarito  dalla  giurisprudenza  di
legittimita' che la continuita' dell'apporto richiesto dall'art.  230
bis  cod.  civ.  per   la   configurabilita'   della   partecipazione
all'impresa familiare non esige  la  continuita'  della  presenza  in
azienda, richiedendo  invece  soltanto  la  continuita'  dell'apporto
(Cass. n. 13849/2002), cosi' che detta continuita' appare,  in  linea
di  principio,  del   tutto   compatibile   con   altre   occupazioni
professionali e non, purche' in concreto le modalita' di  svolgimento
delle varie attivita' concorrenti risultino tra loro conciliabili, di
tal che la contemporanea dedizione ad interessi di natura diversa non
incide in maniera  aprioristica  nemmeno  sulla  misura  dell'apporto
qualitativo  e  quantitativo  del  singolo  partecipante  all'impresa
familiare. 
    L'argomento fondante la decisione  della  Corte  territoriale  e'
quello, sopra evidenziato, del limite costituito  dall'impossibilita'
di applicare tanto l'art. 230 bis cod. civ.  quanto  l'art.  230  ter
cod.  civ.  ed  e'  su  questo  che  si  incentrano  i  sospetti   di
incostituzionalita' che si andranno ad esporre. 
    La rilevanza, del resto, deve essere  valutata  in  relazione  al
nesso  di  pregiudizialita'  tra   la   decisione   sul   dubbio   di
costituzionalita' e l'applicazione della norma di cui si dubita. 
    Tale nesso, nello specifico, sicuramente sussiste. 
    La decisione sul ricorso di Irene  Uberti  dipende,  dunque,  dal
suddetto limite relativo all'art. 230 bis cod. civ. (pacifico essendo
che non possa applicarsi ratione temporis l'art. 230 ter cod.  civ.),
di qui la rilevanza del dubbio di illegittimita'  costituzionale,  in
quanto   se   la   disposizione   sospettata    venisse    dichiarata
costituzionalmente illegittima nella parte in  cui  non  include  nel
novero dei familiari il convivente more uxorio si determinerebbe, con
valutazione prima facie di fondatezza del primo motivo di ricorso, la
necessita' di quell'accertamento in punto di fatto  (pretermesso  dal
giudice  di  merito)  circa  l'effettivita'  e   la   continuativita'
dell'apporto  lavorativo  della  predetta   nell'impresa   familiare,
apporto che, come detto, si assume  determinativo  dell'accrescimento
della produttivita' dell'impresa. 
 
                  Sulla non manifesta infondatezza 
 
    6.  L'art.  230  bis  cod.  civ.  -  Impresa  familiare  -  cosi'
testualmente prevede: 
        «Salvo  che  sia  configurabile  un  diverso   rapporto,   il
familiare che presta in modo continuativo la sua attivita' di  lavoro
nella famiglia o nell'impresa familiare ha  diritto  al  mantenimento
secondo la condizione patrimoniale della famiglia  e  partecipa  agli
utili dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con  essi  nonche'
agli incrementi dell'azienda,  anche  in  ordine  all'avviamento,  in
proporzione alla quantita' e alla qualita' del  lavoro  prestato.  Le
decisioni  concernenti  l'impiego  degli  utili  e  degli  incrementi
nonche' quelle inerenti alla gestione straordinaria,  agli  indirizzi
produttivi  e  alla  cessazione   dell'impresa   sono   adottate,   a
maggioranza, dai familiari che partecipano  alla  impresa  stessa.  I
familiari partecipanti all'impresa che non hanno la  piena  capacita'
di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la  potesta'  su
di essi. 
    Il  lavoro  della  donna  e'  considerato  equivalente  a  quello
dell'uomo. 
    Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende  come
familiare il coniuge, i parenti entro  il  terzo  grado,  gli  affini
entro il secondo; per impresa familiare  quella  cui  collaborano  il
coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo. 
    Il  diritto  di  partecipazione  di  cui  al   primo   comma   e'
intrasferibile, salvo  che  il  trasferimento  avvenga  a  favore  di
familiari indicati nel comma  precedente  col  consenso  di  tutti  i
partecipi. Esso puo' essere liquidato in danaro alla cessazione,  per
qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresi' in caso di
alienazione  dell'azienda.  Il  pagamento  puo'  avvenire   in   piu'
annualita', determinate, in difetto di accordo, dal giudice. 
    In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell'azienda i
partecipi  di  cui  al  primo  comma  hanno  diritto  di   prelazione
sull'azienda. Si applica,  nei  limiti  in  cui  e'  compatibile,  la
disposizione dell'art. 732. 
    Le comunioni  tacite  familiari  nell'esercizio  dell'agricoltura
sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme.» 
    La disposizione e' stata introdotta nel  nostro  ordinamento  con
l'art. 89 della fondamentale legge di riforma del 19 maggio 1975,  n.
151,   al   termine   di   una   lunga   evoluzione   dottrinale    e
giurisprudenziale della comunione tacita familiare, disciplinata  per
il settore agricolo dall'art. 2140 cod. civ. previgente, al  fine  di
conferire una tutela minima a quei rapporti di lavoro comune  che  si
svolgono nell'ambito di aggregati familiari e che non possono contare
su  piu'  specifiche  discipline  di  protezione  (vuoi   in   ambito
lavorativo, vuoi in quello societario). 
    La norma codicistica, il cui fondamento viene non solo ricondotto
all'art. 29 Cost., ma ancor prima agli artt. 35 e 36 Cost., ha inteso
superare quella presunzione di gratuita'  che  in  precedenza  spesso
veniva richiamata per qualificare le prestazioni in ambito familiare,
vuoi  in   ragione   di   una   generica   "causa   affectionis   vel
benevolentiae", vuoi in ragione di un  contratto  atipico  di  lavoro
gratuito, cosi' da ritenere che le stesse non  fossero  in  grado  di
generare pretese ed obblighi  giuridicamente  vincolanti,  azionabili
nei  confronti  del  familiare   imprenditore,   beneficiario   delle
prestazioni medesime. 
    7.  Nell'interpretazione   giurisprudenziale   di   legittimita',
l'impresa  familiare  mira  a  disciplinare  situazioni  di   apporto
lavorativo  all'impresa  del  congiunto  che,  pur  connotate   dalla
continuita',   non   siano    riconducibili    all'archetipo    della
subordinazione e a confinare in un'area limitata il  lavoro  gratuito
(Cass. 15 giugno 2020, n. 11533). In plurime pronunce si  sono  posti
in rilievo aspetti dell'impresa familiare rilevanti sotto il  profilo
ricostruttivo  della  fattispecie:  quali,  la   natura   individuale
dell'impresa familiare (Cass. 18  gennaio  2005,  n.  874;  Cass.  15
aprile 2004, n. 7223; Cass. 6 marzo  1999,  n.  1917)  ed  il  regime
fiscale dei redditi dei familiari collaboratori (definito di  lavoro,
e non assimilabile quindi ad un reddito di impresa: Cass. 2  dicembre
2008, n. 28558; Cass. 20 dicembre 2019, n. 34222). 
    Innanzitutto,  l'incipit   della   norma   prefigura   l'istituto
dell'impresa familiare come autonomo, di carattere speciale  (ma  non
eccezionale) e di natura residuale rispetto ad  ogni  altro  rapporto
negoziale  eventualmente  configurabile.  Sul   carattere   residuale
dell'art. 230 bis cod. civ. si e' espressa, recentemente, anche Cass.
15 giugno 2020 n. 11533: "L'impresa familiare ha carattere residuale,
come emerge anche dalla clausola di salvaguardia contenuta  nell'art.
230 bis cod. civ., sicche' mira a disciplinare situazioni di  apporto
lavorativo  all'impresa  del  congiunto  che,  pur  connotate   dalla
continuita',   non   siano    riconducibili    all'archetipo    della
subordinazione e a confinare in un'area limitata il lavoro gratuito". 
    Una parte della dottrina (oggi  minoritaria)  ha  ricostruito  la
fattispecie  in  forma  di  impresa  collettiva  o  associativa,  con
riconoscimento di taluni diritti partecipativi in capo  al  familiare
dell'imprenditore;  sempre  secondo   questa   visione,   all'impresa
familiare sarebbero applicabili in via analogica talune  disposizioni
societarie. 
    In senso contrario si e' replicato che nell'istituto  e'  assente
qualunque affectio societatis, mancando i  conferimenti  e  una  base
statutaria o contrattuale. 
    8. Il legislatore  ha  voluto  assicurare  diritti  e  tutele  ai
familiari che collaborano nell'impresa di  famiglia  in  mancanza  di
altra forma giuridica di protezione (si veda Cass., Sez.  Un.,  sent.
n. 23676 del 6 novembre 2014,  con  la  quale  si  e'  affermato  che
l'esercizio dell'impresa familiare e' incompatibile con la disciplina
societaria "attesa non solo l'assenza nell'art. 230 bis cod. civ.  di
ogni previsione in tal senso, ma, soprattutto,  l'irriducibilita'  ad
una qualsiasi tipologia societaria della  specifica  regolamentazione
patrimoniale ivi prevista in ordine alla partecipazione del familiare
agli utili ed ai beni acquistati con essi,  nonche'  agli  incrementi
dell'azienda, che sono determinati in proporzione alla  quantita'  ed
alla  qualita'  del   lavoro   prestato   e   non   alla   quota   di
partecipazione"). 
    Si  tratta  di  diritti  importanti  che   sono   sia   di   tipo
partecipativo sia di tipo economico-patrimoniale. La natura di questi
ultimi e' quella dei diritti di credito e in relazione  ai  quali  il
soggetto   obbligato   deve   essere   individuato   nel    familiare
imprenditore. Fra questi viene in considerazione, in primo luogo,  il
diritto al mantenimento, che ha per oggetto la  somministrazione  dei
beni necessari a soddisfare le normali esigenze di  vita  dell'avente
diritto, da intendersi non quali mezzi strettamente indispensabili  o
idonei ad assicurare i bisogni primari, "alimentari", bensi' di mezzi
in grado di assicurare al familiare una esistenza libera e dignitosa.
Trattasi di diritto che prescinde dal  buon  andamento  dell'azienda,
che ove si verifichi potra' altresi' determinare il  diritto  ad  una
quota degli utili e degli incrementi dell'azienda. 
    In secondo luogo, la norma prevede che le  decisioni  di  cui  al
comma primo dell'art. 230 bis cod. civ. (riguardanti cioe'  l'impiego
degli utili e degli incrementi, il compimento  di  atti  di  gestione
straordinari, indirizzi produttivi e  cessazione  dell'impresa)  sono
adottate a maggioranza dai familiari che partecipano all'impresa;  la
norma si riferisce, senza operare distinzioni, sia ai  familiari  che
prestano la loro attivita' nell'impresa sia a quelli che  collaborano
nella famiglia e la maggioranza si computa  "per  teste"  e  non  per
quote: in altri termini ogni familiare dispone di un voto, senza  che
al riguardo  assuma  rilievo  la  quantita'  e  qualita'  del  lavoro
prestato. Invero, il  diritto  di  partecipazione  del  familiare  e'
espressamente definito dal comma 4 come "intrasferibile" - se non  ad
un altro familiare e con il consenso unanime di tutti i  partecipanti
all'impresa economica - nascendo la norma per assicurare il carattere
strettamente personale e rigidamente familiare dell'impresa  adiuvata
dalla collaborazione  collettiva  dei  familiari,  cosi'  da  evitare
l'ingresso di terzi estranei. 
    9.   Secondo   l'opinione   prevalente,   i    presupposti    per
l'applicazione della disciplina di cui all'art.  230  bis  cod.  civ.
sono costituiti da: a) l'esistenza di una impresa  individuale  (art.
2082 cod. civ.); b) la prestazione lavorativa  svolta  nell'interesse
dell'impresa medesima dal familiare, con  carattere  di  continuita',
ossia con costanza e regolarita', escludendosi tuttavia che la stessa
debba  essere  necessariamente  esclusiva;  c)  in  alternativa,   la
prestazione di lavoro nella famiglia  ma  senza  che  possa  assumere
rilevanza la mera attivita' domestica, essendo necessario che vi  sia
un collegamento causale e funzionale con l'attivita' di impresa. 
    10. Questione controversa attiene all'individuazione  dell'ambito
soggettivo  della  norma;  la  disposizione  individua   i   soggetti
tutelati, delimitando la cerchia  dei  familiari  in  relazione  alla
famiglia fondata sul matrimonio. Ed infatti  l'istituto  dell'impresa
familiare, di cui all'art. 230 bis,  e'  previsto  esclusivamente  in
favore del coniuge. 
    11. Innanzitutto, al  fine  di  ritenere  che  nell'ambito  della
cerchia dei familiari debba essere  ricompreso  anche  il  convivente
more uxorio, occorre chiedersi, da un punto  di  vista  metodologico,
se, nel caso, debba discutersi di 'analogia'  o  di  'interpretazione
estensiva'. 
    Come e' noto, l'interpretazione estensiva non amplia il contenuto
effettivo della norma, ma impedisce che fattispecie ad essa  soggette
si sottraggano alla sua disciplina  per  un  ingiustificato  rispetto
della lettera. 
    Con l'analogia si applica la conseguenza  giuridica  prevista  da
una norma ad una fattispecie concreta riconducibile a  casi  diversi,
ma simili in maniera rilevante  alle  circostanze  contemplate  dalla
norma. Il criterio per mezzo del quale  si  stabilisce  la  rilevanza
della somiglianza e' generalmente indicato nella ratio legis. 
    Nel nostro caso  si  tratterebbe  di  affermare,  attraverso  una
interpretazione estensiva, che e' ricompresa nella disciplina di  cui
all'art. 230 bis cod. civ. e nella  nozione  di  familiare  anche  la
convivenza more uxorio. 
    Sulla possibilita' di applicare  estensivamente  l'art.  230  bis
cod. civ. anche al convivente more uxorio, la dottrina si e' a  lungo
interrogata sia ante riforma del 2016 sia post riforma del 2016. 
    Prima della l.  n.  76/2016,  la  rilevanza  del  fenomeno  della
convivenza  stabile  aveva  indotto  una  parte  della   dottrina   a
prospettare la possibilita' di applicare in via analogica (melius  in
via di interpretazione estensiva) la  tutela  offerta  dall'art.  230
bis. 
    Tuttavia,    un    nutrito    ventaglio     di     pronunciamenti
giurisprudenziali aveva affermato l'inestensibilita' della disciplina
legislativa al  convivente,  sulla  base  del  rilievo  che  elemento
saliente  dell'impresa  familiare  e  della  sua  disciplina  non  e'
l'apporto lavorativo, che e' ravvisabile  in  qualunque  rapporto  di
lavoro, ne' i legami affettivi, ma la  famiglia  in  senso  chiaro  e
tipico individuata nei piu' stretti congiunti. 
    Gia' Cass. 2 maggio 1994, n. 4204 aveva evidenziato che:  "L'art.
230 bis cod. civ., che disciplina  l'impresa  familiare,  costituisce
norma eccezionale, in quanto si pone  come  eccezione  rispetto  alle
norme generali in tema  di  prestazioni  lavorative  ed  e'  pertanto
insuscettibile di interpretazione analogica. Deve peraltro  ritenersi
manifestamente infondata la questione di costituzionalita'  dell'art.
230 bis nella parte in cui esclude dall'ambito dei soggetti  tutelati
il convivente more uxorio, posto che elemento  saliente  dell'impresa
familiare e' la famiglia  legittima,  individuata  nei  piu'  stretti
congiunti, e che un'equiparazione fra coniuge e convivente si pone in
contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei
coniugi conseguenze  perenni  ed  ineludibili  (quale  il  dovere  di
mantenimento o di alimenti al coniuge, che  persiste  anche  dopo  il
divorzio),  mentre  la  convivenza  e'  una   situazione   di   fatto
caratterizzata dalla precarieta' e dalla revocabilita' unilaterale ad
nutum". 
    Il concetto era stato ribadito da  Cass.  29  novembre  2004,  n.
22405 secondo cui "presupposto per l'applicabilita' della  disciplina
in materia di  impresa  familiare  e'  l'esistenza  di  una  famiglia
legittima e, pertanto, l'art. 230 bis cod. civ.  non  e'  applicabile
nel caso di mera convivenza,  ovvero  alla  famiglia  cosiddetta  'di
fatto',  trattandosi  di   norma   eccezionale,   insuscettibile   di
interpretazione analogica". 
    In realta' una certa inversione di tendenza si e' avuta con Cass.
15 marzo 2006, n. 5632 che, al punto 2.1,  ha  cosi'  affermato:  "In
diritto va ribadito quanto gia' affermato da questa Corte  (Cass.  19
dicembre 1994, n. 10927) secondo cui un'attivita' lavorativa  che  si
svolga nell'ambito della convivenza  more  uxorio  non  e'  di  norma
riconducibile ad un rapporto di subordinazione  onerosa  (cfr.  anche
Cass. 4 gennaio 1995, n. 70,  che  parla  ancora  di  presunzione  di
gratuita'), mentre e' semmai possibile inquadrare il rapporto  stesso
nell'ipotesi  della  comunione  tacita   familiare   come   delineata
dall'art. 230 bis c.c.; principio che puo' estendersi anche alla vera
e  propria  impresa  familiare  atteso  che  la  famiglia  di   fatto
costituisce una formazione sociale atipica a rilevanza costituzionale
ex art. 2 Cost. (cfr. Corte cost. 18 novembre 1986  n.  237).  Questa
Corte (Cass. 18 ottobre 2005 n. 20157) ha piu' recentemente affermato
che il carattere residuale dell'impresa familiare,  quale  risultante
dall'incipit della disposizione  che  l'ha  introdotta  in  occasione
della  riforma  del  diritto  di  famiglia  («Salvo   che   non   sia
configurabile un diverso rapporto ...»), mira proprio a coprire tutte
quelle situazioni di apporto lavorativo  all'impresa  del  congiunto,
parente entro il terzo grado o affine entro il secondo grado, che non
rientrino nell'archetipo del rapporto di lavoro subordinato o per  le
quali  non  sia  raggiunta  la  prova  dei  connotati  tipici   della
subordinazione, con  l'effetto  di  confinare  in  un'area  ben  piu'
limitata  quella  del  lavoro  familiare   gratuito.   Sicche',   ove
un'attivita' lavorativa sia stata svolta nell'ambito dell'impresa  ed
un  corrispettivo  sia  stato  erogato   dal   titolare,   occorrera'
distinguere la fattispecie del  lavoro  subordinato  e  quella  della
compartecipazione all'impresa familiare, senza che possa  piu'  avere
ingresso alcuna  causa  gratuita  della  prestazione  lavorativa  per
ragioni di solidarieta' familiare. Principio questo che  puo'  essere
esteso anche alla famiglia di fatto  consistente  in  una  convivenza
more uxorio ove la prestazione lavorativa sia resa  nel  contesto  di
un'impresa familiare. Ma al di fuori di questa ipotesi la prestazione
lavorativa resa nell'ambito di  una  convivenza  more  uxorio  rimane
tuttora  riconducibile  ai  vincoli  di  fatto  di  solidarieta'   ed
affettivita' che di norma sono alternativi ai vincoli  tipici  di  un
rapporto a prestazioni corrispettive qual e' il  rapporto  di  lavoro
subordinato, anche se in principio non puo' escludersi del  tutto  la
configurabilita'  di  quest'ultimo,  cosi'   come   e'   ipotizzatale
l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra coniugi (Cass. 9
agosto 1996, n. 7378)". In tale decisione, dunque, pur pervenendo,  i
Giudici di legittimita', ad una soluzione in linea con l'orientamento
dominante in punto di presunzione di gratuita' della prestazione  del
convivente di fatto che puo' essere vinta dalla prova  dell'esistenza
di un rapporto di lavoro subordinato,  tuttavia  si  e'  evidenziata,
ancorche' in via incidentale,  la  possibilita'  di  un  rapporto  di
impresa familiare anche nell'ambito della famiglia di fatto. 
    12. E'  quindi  intervenuta  la  legge  20  maggio  2016,  n.  76
("Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso
e disciplina delle convivenze"),  che  si  e'  posta  l'obiettivo  di
riconoscere la convivenza di fatto tra due persone, sia eterosessuali
che omosessuali, che non sono sposate e  che  potranno  eventualmente
stipulare un contratto di convivenza per regolare le  loro  questioni
patrimoniali. L'art. 1, comma 36, di  tale  legge  dispone  che:  «si
intendono per «conviventi di fatto»  due  persone  maggiorenni  unite
stabilmente da legami affettivi di coppia e di  reciproca  assistenza
morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinita'
o adozione, da matrimonio o da un'unione civile».  Tale  disposizione
rivela come la legge n. 76 non si occupi di  regolamentare  tutte  le
ipotesi comunemente ritenute in ambito sociale di «famiglia di fatto»
o di «convivenza more uxorio», in quanto, richiedendo la presenza  di
dati presupposti, finisce per limitare il suo ambito applicativo. 
    13. In tale contesto, per quanto qui rileva, e' stato  introdotto
l'art.  230  ter  cod.  civ.  ("Diritti  del  convivente")   aggiunto
dall'art. 1, comma 46, della suddetta l. n. 76/2016 secondo il quale: 
        «Il convivente di fatto che  presti  stabilmente  la  propria
opera  all'interno  dell'impresa  dell'altro  convivente  spetta  una
partecipazione  agli  utili  dell'impresa  familiare   ed   ai   beni
acquistati con essi nonche' agli incrementi  dell'azienda,  anche  in
ordine all'avviamento, commisurata al lavoro prestato. Il diritto  di
partecipazione non spetta qualora tra i conviventi esista un rapporto
di societa' o di lavoro subordinato». 
    Inoltre, in virtu' dell'art. 1, comma 20, l. n.  76/2016,  l'art.
230 bis cod. civ. e' applicabile anche  all'unione  civile  («20.  Al
solo fine di assicurare l'effettivita' della tutela dei diritti e  il
pieno adempimento degli obblighi  derivanti  dall'unione  civile  tra
persone dello stesso sesso, le disposizioni  che  si  riferiscono  al
matrimonio  e  le  disposizioni  contenenti  le   parole   «coniuge»,
«coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli
atti aventi forza  di  legge,  nei  regolamenti  nonche'  negli  atti
amministrativi e nei contratti  collettivi,  si  applicano  anche  ad
ognuna delle parti dell'unione civile tra persone dello stesso sesso.
La disposizione di cui al periodo  precedente  non  si  applica  alle
norme del codice civile non richiamate espressamente  nella  presente
legge, nonche' alle disposizioni di cui alla legge 4 maggio 1983,  n.
184. Resta fermo quanto previsto e consentito in materia di  adozione
dalle norme vigenti»). 
    La scelta del legislatore e' stata, dunque,  duplice:  a)  si  e'
valutato di  applicare  le  parole  «coniuge»,  «coniugi»  o  termini
equivalenti anche  ad  ognuna  delle  parti  dell'unione  civile  tra
persone  dello  stesso,  cosi'  che,  di  conseguenza,  tali  persone
rientrano, ora, nel novero dei familiari come delineato dall'art. 230
bis comma 3 con l'applicazione delle medesime tutele (art,  1,  comma
20, l. n.  76/2016);  b)  si  e'  delineata  una  disciplina  diversa
rispetto a quella del  familiare  e,  come  piu'  avanti  si  vedra',
caratterizzata da una minor tutela - per il convivente stabile  (art.
230 ter). 
    14. Tanto premesso, e'  evidentemente  preliminare  la  questione
dell'interpretazione retroattiva dell'art. 230 ter cod. civ. 
    Si era posta analoga questione con riguardo all'art. 230 bis cod.
civ., risolta dalla giurisprudenza in senso negativo. 
    Cosi',  si  erano  espresse  nel  senso  dell'esclusione  di  una
efficacia retroattiva dell'art. 230 bis cod.  civ.,  in  mancanza  di
espressa previsione, Cass. 6 aprile 1990, n. 2909; Cass.  21  ottobre
1992, n. 11500 ed ancora la piu' recente  Cass.  2  aprile  2013,  n.
7981. 
    Egualmente deve escludersi l'efficacia retroattiva dell'art.  230
ter cod. civ. che non  puo'  essere  applicato  alla  specie  per  il
principio d'irretroattivita' enunciato dall'art. 11 disp. prelim.  al
codice civile, essendo, le  situazioni  giuridiche  fatte  valere  in
causa, ormai definitivamente compiute sotto il regime anteriore  alla
riforma del 2016 (il Durelli e' deceduto nel 2012). 
    15. Potrebbe, invero, ritenersi che l'art. 230 ter cod. civ.  sia
una  norma  non  costitutiva   di   nuovi   diritti   precedentemente
sconosciuti all'ordinamento ma ricognitiva di principi gia' acquisiti
al  panorama  giuridico  vigente.  Si  potrebbe  sostenere   che   il
legislatore del 2016 si e' solo limitato a riconoscere un'esigenza di
tutela gia' presente all'interno del tessuto sociale del nostro Paese
ben prima del 2016 ed  a  formalizzarla  mediante  l'introduzione  di
un'apposita disciplina (tutela  minimale),  senza  creare  una  nuova
posizione giuridica prima  non  oggetto  di  tutela.  A  sostegno  si
potrebbe richiamare la sentenza della Corte EDU del 21 luglio 2015  -
Ricorsi nn. 18766/11 e 36030/11 - Oliari e altri vs Italia, par. 173:
"In relazione ai  principi  generali  menzionati  nel  paragrafo  161
supra, la Corte osserva che dall'esame  di  cui  sopra  del  contesto
interno emerge l'esistenza di un conflitto tra la realta' sociale dei
ricorrenti che prevalentemente vivono in  Italia  la  loro  relazione
apertamente,  e  la  legislazione  che  non   fornisce   loro   alcun
riconoscimento ufficiale sul territorio. Secondo la  Corte  l'obbligo
di prevedere il riconoscimento e la tutela delle unioni  omosessuali,
consentendo in tal modo alla legge di rispecchiare le  realta'  delle
situazioni dei ricorrenti, non comporterebbe alcun particolare  onere
per lo Stato italiano di tipo legislativo, amministrativo o di  altro
tipo.  Inoltre,  tale  legislazione  risponderebbe  a   un'importante
esigenza sociale, come ha osservato l'ARCD, le statistiche  nazionali
ufficiali indicano che, soltanto nell'Italia centrale, vi e' circa un
milione di omosessuali  (o  di  bisessuali)".  Cosi'  il  legislatore
potrebbe aver previsto una norma ricognitiva, piu'  che  dispositiva,
di principi desunti dall'intero sistema ordinamentale che, in  questo
senso, non costituirebbero una nuova disciplina, ma delimiterebbero i
contorni di  una  precedente,  applicabile  analogicamente  nei  suoi
profili essenziali. 
    In quest'ottica, l'art. 230 ter cod. civ. andrebbe a dettare  non
tanto la nuova disciplina per il convivente che  lavora  nell'impresa
dell'altro convivente, quanto la  cornice  edittale  entro  la  quale
adattare la disciplina del 230 bis cod. civ. al familiare  di  fatto.
In altra vicenda, in materia di  assegno  divorzile,  il  Giudice  di
legittimita' (Cass. 4 maggio 2022, n. 14151) ha cosi' affermato:  "il
comma 36 dell'articolo 1 [della legge 20 maggio 2016, n. 76,  n.d.r.]
- com'e' ovvio non  direttamente  applicabile  alla  controversia  in
esame, ma che desta nondimeno interesse anche con riguardo  ad  essa,
perche'  evidentemente  volto  non  ad  introdurre   una   innovativa
definizione di convivenza, bensi' a fotografare  l'atteggiarsi  della
nozione giuridica nel costume sociale - definisce conviventi di fatto
«due persone maggiorenni unite stabilmente  da  legami  affettivi  di
coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da
rapporti di parentela, affinita'  o  adozione,  da  matrimonio  o  da
un'unione civile»,  ponendo  cosi'  l'accento  sull'esistenza  di  un
legame affettivo stabile, volto alla reciproca  assistenza  morale  e
materiale, che pare essere l'unico requisito  essenziale  perche'  si
possa configurare una convivenza  di  fatto.  Sembra  dunque  che  il
legislatore abbia in tal modo inteso  mantener  fermo  il  tratto  di
atipicita' e polimorfia che connota la  convivenza  more  uxorio,  la
quale conserva il carattere del fatto giuridico in cui si  evidenzino
la presenza di stabili legami  affettivi  di  coppia  e  l'assunzione
spontanea di reciproci obblighi di  assistenza  morale  e  materiale,
omettendo  deliberatamente  di  avventurarsi  in  un   tentativo   di
ricondurre la nozione ad elementi individuatori  oggettivizzati,  ivi
compresa la coabitazione, troppo puntuali". 
    Con i  suddetti  criteri  si  potrebbe  affermare  che  la  nuova
disposizione, in definitiva, individua il minimo  di  tutela  cui  il
legislatore e' obbligato. 
    Tale opzione ermeneutica, che  consentirebbe  di  ricavare  dalla
disposizione  del  2016  uno  'statuto  protettivo'   (limitato)   da
riconoscere anche al convivente ex art. 230 bis cod. civ.,  di  certo
porrebbe tale norma al riparo da profili di incostituzionalita' ma si
risolverebbe, di fatto, nell'attribuzione all'art. 230 ter cod.  civ.
di una portata retroattiva in violazione della  regola  ordinaria  di
cui all'art. 11 delle preleggi secondo la quale la legge non  dispone
che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo. 
    Cio' non consente, ad avviso del Collegio, di  prescindere  dalla
necessita' (qui avvertita) di una  diretta  valutazione  del  Giudice
delle leggi. 
    Ed infatti non si tratta, come nel caso  dell'assegno  divorzile,
di estendere al convivente di fatto la stessa  tutela  delle  persone
legate da matrimonio, ma di individuare ex post  una  tutela  minima,
differenziata (v. infra), riconoscibile a tale convivente di fatto. 
    14. La  questione  che  si  pone  e',  dunque,  tutta  incentrata
sull'art. 230 bis cod. civ. anche se l'introduzione dell'art. 230 ter
cod. civ. rileva sotto due aspetti: certamente  la  norma  introdotta
nel 2016 e' significativa di una estensione delle  tutele  in  favore
del convivente di fatto con cio' superando il dibattito esistente  in
giurisprudenza e  in  dottrina  circa  l'applicabilita'  dell'impresa
familiare anche al convivente; i due articolati - art. 230 bis e art.
230 ter  -,  quanto  alle  tutele  previste  rispettivamente  per  il
familiare  e  il  convivente  di  fatto,   non   sono   perfettamente
coincidenti. 
    Il  legislatore  della  riforma  c.d.   Cirinna'   ha,   infatti,
attribuito al convivente una serie di diritti che pero' e'  inferiore
a quella riconosciuta al coniuge (e, per effetto dell'art.  1,  comma
20, l. n. 76/2016 anche alle parti  dell'unione  civile  tra  persone
dello stesso sesso); per il convivente, ad esempio, non e'  reiterata
la disposizione di cui al secondo periodo dell'art. 230 bis, comma 1:
«le decisioni concernenti l'impiego degli utili  e  degli  incrementi
nonche' quelle inerenti alla gestione straordinaria,  agli  indirizzi
produttivi  e  alla  cessazione   dell'impresa   sono   adottate,   a
maggioranza,  dai  familiari  che  partecipano  all'impresa  stessa».
Quindi la nuova norma, a differenza dell'art. 230 bis,  non  menziona
il diritto del partecipante al  mantenimento  secondo  la  condizione
patrimoniale della famiglia. 
    Ed allora, nell'ipotesi di applicazione estensiva  dell'art.  230
bis cod. civ., al convivente si verrebbe a determinare una situazione
nella quale per il periodo fino al  2016  si  riconosce  di  piu'  di
quello che il legislatore ha poi  previsto  come  tutela  minima.  Si
determinerebbe una disarmonia tra le due disposizioni. 
    16. La scelta legislativa del 2016  e'  evidentemente,  a  monte,
preclusiva  della  possibilita'  di  una  interpretazione   estensiva
dell'art. 230  bis  cod.  civ.  (cui  pure  farebbero  propendere  le
convergenti posizioni giurisprudenziali anche delle Corti  europee  -
v. piu' avanti - e tale da ricomprendere  nel  novero  dei  familiari
anche il convivente) che  dovrebbe  essere  'secca'  e  non  potrebbe
essere 'creativa' nel senso di una estensione nei limiti della tutela
minima prevista dal nuovo art. 230 ter cod. civ. (anche su questo  v.
piu' avanti). 
    E' del tutto evidente che la "causa" dell'intervento  legislativo
del 2016 sia stata quella di colmare  un  vulnus  di  tutela  proprio
dell'ordinamento   italiano,   consistente   nella   necessita'    di
salvaguardare  il  lavoro  prestato  dal   convivente   more   uxorio
all'interno dell'impresa familiare gestita dall'altro convivente.  E'
bene ricordare che tale necessita', lungi dal rappresentare  il  mero
frutto di una volonta' creatrice del legislatore, incarna l'esigenza,
preesistente nella realta' sociale rispetto a quella  normativa,  del
formale  riconoscimento  del  "fatto"  della  convivenza   come   una
posizione giuridica meritevole di tutela in quanto tale. 
    In aggiunta a cio', bisogna tenere altrettanto presente che  tale
riconoscimento, nella sua componente essenziale, non e' sottoposto ad
una mera scelta discrezionale del legislatore, ma costituisce un vero
e proprio obbligo di tutela imposto dalla lettura  sistematica  delle
norme costituzionali (artt. 2, 3, 4, 35 e 36), europee (art. 9  della
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea)  e  convenzionali
(art. 8 CEDU). Cio' in quanto, l'ipotesi in esame porta le  vesti  di
un diritto fondamentale, oggetto dell'obbligo di tutela,  individuato
dalla giurisprudenza europea nella garanzia del rispetto  della  vita
privata e familiare. 
    Appurata, dunque, l'esistenza di un nucleo essenziale  di  tutela
cui l'ordinamento e'  tenuto,  costituito  dal  riconoscimento  della
rilevanza giuridica della famiglia di fatto, il legislatore nazionale
rimane libero, nei limiti della ragionevolezza  e  dell'effettivita',
nella scelta della misura dell'intervento. In  altre  parole,  se  e'
vero che incombe su di esso un obbligo di tutela, e' altrettanto vero
che non e' identificabile un  obbligo,  per  cosi'  dire,  di  eguale
tutela tra la disciplina prevista  per  il  matrimonio  e  le  unioni
civili e la convivenza, residuando un margine di discrezionalita' per
il legislatore, in considerazione del peculiare sentire sociale della
collettivita' nazionale (in questo senso anche la gia'  citata  Corte
EDU, Oliari e altri vs Italia, par. 177: 
        "Per   quanto   riguarda   l'ampiezza    del    margine    di
discrezionalita', la Corte osserva che esso dipende da vari  fattori.
Benche' la Corte possa accettare che l'oggetto della  presente  causa
possa essere connesso  a  delicate  questioni  morali  o  etiche  che
permettono un maggiore margine  di  discrezionalita'  in  assenza  di
accordo tra gli Stati membri, essa osserva che il caso di specie  non
riguarda    alcuni    specifici    diritti    "supplementari"     (in
contrapposizione ai diritti fondamentali) che possono o  non  possono
sorgere da tale unione e che possono essere  oggetto  di  una  feroce
controversia alla  luce  della  loro  dimensione  sensibile.  A  tale
proposito la Corte ha gia' ritenuto che gli Stati godano di un  certo
margine di  discrezionalita'  per  quanto  riguarda  l'esatto  status
conferito da mezzi di riconoscimento alternativi e i  diritti  e  gli
obblighi conferiti da tale unione o da un'unione registrata (si  veda
Schalk e Kopf, sopra citata, §§ 108-09). In realta' il caso di specie
concerne unicamente l'esigenza generale di riconoscimento giuridico e
la tutela fondamentale dei ricorrenti in quanto  coppie  omosessuali.
La  Corte  considera   questi   ultimi   aspetti   dell'esistenza   e
dell'identita' dell'individuo cui si dovrebbe  applicare  il  margine
pertinente"). 
    Le  suddette  considerazioni  portano  ad   affermare   che   con
l'introduzione dell'art. 230  ter  cod.  civ.  il  legislatore  abbia
voluto non solo adempiere all'obbligo di  tutela  sopra  descritto  -
obbligo che, non sembri pleonastica  la  ripetizione,  trova  il  suo
fondamento nella preesistente realta' sociale,  come  rilevato  dalla
stessa  Corte  EDU  -  ma  anche  dettarne  i  limiti  e  i  confini,
individuando il minimo  essenziale  di  tutela  da  riconoscere  alle
famiglie di fatto,  in  contrapposizione  alle  piu'  ampie  garanzie
proprie delle famiglie  "di  diritto"  o  famiglie  "formali".  Cio',
dunque, con una tecnica  legislativa  "per  sottrazione",  nel  senso
della  previsione  di  una  disciplina  specifica  piu'  ristretta  e
leggera, meno garantistica, quindi, per la posizione  del  convivente
lavoratore rispetto a quella del familiare-lavoratore di cui all'art.
230 bis cod. civ. 
    17. Venendo alla questione di una estensione  dell'art.  230  bis
cod.  civ.  al  convivente  more  uxorio  in  termini   generali   (e
prescindendo per un momento dall'art. 230 ter) va  ricordato  che  la
giurisprudenza di legittimita', salvo per alcune aperture di  cui  si
e' detto (v. Cass. n. 5632/2016 cit. secondo cui l'art. 230 bis  cod.
civ. e' applicabile anche in presenza di una famiglia  di  fatto  che
costituisce   una   formazione   sociale    atipica    a    rilevanza
costituzionale) si e' espressa  in  senso  contrario  all'estensione.
Anche  la  giurisprudenza  di  merito  ha  escluso   l'applicabilita'
dell'art. 230 bis cod. civ. ma, superata la presunzione di  gratuita'
della prestazione, ha  aperto  all'applicazione,  in  via  residuale,
dell'art. 2041 cod. civ. 
    In dottrina le posizioni sono state piu' articolate. A fronte  di
posizioni in linea con la giurisprudenza restrittiva si  e'  ritenuto
che la collaborazione lavorativa prestata  gratuitamente  nell'ambito
di uno stabile rapporto affettivo di coppia trova la sua causa  nella
solidarieta' familiare con la conseguenza  che  anche  il  convivente
stabile ha titolo per partecipare all'impresa familiare. 
    Da parte  dei  fautori  dell'estensione  si  e'  valorizzato  che
l'impresa familiare rappresenta una  forma  generale  di  tutela  del
lavoro prestato per quello spirito di solidarieta' che intercorre nei
rapporti tra parenti e tra coniugi. 
    18. Una lettura estensiva dell'art. 230 bis cod.  civ.  non  puo'
ritenersi  preclusa  da  una  presunta   natura   eccezionale   della
disposizione, in considerazione del fatto che gia' Cass.,  Sez.  Un.,
n. 23676/2014 cit. aveva  riconosciuto  che  l'istituto  dell'impresa
familiare  ha  natura  autonoma  e   carattere   speciale   (ma   non
eccezionale),  nonche'  natura  residuale  rispetto  ad  ogni   altro
rapporto  negoziale  o  societario  eventualmente  configurabile   in
concreto.  Del  resto,  l'impresa  familiare  rappresenta  una  forma
generale  di  tutela  del  lavoro  prestato  per  quello  spirito  di
solidarieta' che intercorre nei rapporti tra parenti e tra coniugi. 
    Pur  nella   consapevolezza   di   un'insopprimibile   differenza
strutturale tra la condizione del coniuge e quella del  convivente  -
condizione, la prima, basata su di un  legame  che,  lungi  dall'aver
senso  solo  giuridico,  riflette  una   scelta,   un   impegno,   un
comportamento  e  dunque  momenti  del  rapporto  anche   socialmente
rilevanti e distintivi che il  legislatore  pone  a  base  di  scelte
legislative specifiche - se si individua la ratio dell'art.  230  bis
all'interno di un piu' generale  rifiuto  della  (sia  pur  presunta)
gratuita' della prestazione in una certa relazione sociale, di  vita,
di  affetti  e  di  solidarieta',  allora  questo  rifiuto   potrebbe
legittimamente trasferirsi a rapporti, diversi da quello di coniugio,
nei quali si ravvisino caratteri analoghi (non  solo  la  convivenza)
cosi' come ad essi si era estesa in passato quella presunzione, salvo
determinare quali diverse conseguenze derivino, secondo  i  principi,
da questo mutato presupposto. 
    In sostanza, se a fondamento della tutela enucleata dall'art. 230
bis cod. civ. si pone  la  prestazione  continuativa  del  familiare,
guardata come partecipazione ad  un  progetto  lavorativa  comune  al
gruppo e se si ravvisa il fulcro della disciplina nella tutela  della
persona che lavora, le obiezioni circa la sostanziale differenza  tra
posizioni di famiglia legittima e  famiglia  di  fatto  perdono  gran
parte  della  loro  forza  persuasiva,  considerato  che   i   valori
costituzionali di  riferimento  sono  quelli  della  dignita',  della
liberta' e dell'uguaglianza. Se l'art. 230 bis  e'  preordinato  alla
protezione del bene "lavoro" in ogni sua  forma,  allora  questo  non
muta la propria ontologia a seconda del soggetto che lo svolga. 
    Non si tratta di porre sullo stesso piano coniugio  e  convivenza
more uxorio ma di riconoscere un particolare  diritto  al  convivente
more uxorio e ripristinare ragionevolezza all'interno di un  istituto
che non puo' considerarsi eccezionale  quanto  piuttosto  avente  una
funzione residuale e suppletiva, essendo diretto  ad  apprestare  una
tutela minima e inderogabile a quei rapporti di lavoro comune che  si
svolgono negli aggregati familiari e che in passato  vedevano  alcuni
membri della comunita' familiare  esplicare  una  preziosa  attivita'
lavorativa, in forme molteplici, senza alcuna  garanzia  economica  e
giuridica, ma che invece ora sono tutelati. 
    D'altra parte, questa "polifunzionalita' di tutela"  dell'impresa
familiare, discendente dalla sua  ratio,  farebbe  il  paio  con  una
natura  negoziale  aperta  dell'istituto  cui  le  parti   potrebbero
ricorrere per il tramite dell'autonomia privata. In particolare,  pur
non rientrando  espressis  verbis  l'ipotesi  della  convivenza  more
uxorio nella disposizione in esame, essa potrebbe  comunque  trovarvi
accoglimento  attraverso  il  consenso   tacito   o   esplicito   dei
compartecipi,  inteso  quale  consenso  costitutivo  di  un  rapporto
societario  avente  come  contenuto  quello  dell'impresa   familiare
essendo, infatti, ammissibile che le parti  adottino  volontariamente
il modello di cooperazione e  di  solidarieta'  offerto  dall'impresa
familiare. Anche per questo verso l'istituto  dell'impresa  familiare
puo' risultare strumento per  realizzare,  in  mancanza  di  espressa
previsione legislativa, l'esigenza di una  piu'  adeguata  tutela  di
forme di lavoro. 
    In questa prospettiva non puo' non considerarsi l'evoluzione  che
si e' avuta nella societa' con la sempre  maggiore  diffusione  della
convivenza more uxorio, evoluzione di  cui  hanno  tenuto  conto,  in
ambito nazionale, sia la Corte costituzionale sia il legislatore  con
la citata legge n. 76/2016. Ed allora la  situazione  del  convivente
more uxorio che per lungo tempo abbia lavorato nell'impresa familiare
dell'altro  convivente  non  pare   integrare   alcuno   dei   motivi
eccezionali che possono  legittimare  una  differenziazione  rispetto
alle persone che vivono una  relazione  formalizzata  in  un  vincolo
giuridico - sia esso matrimonio o altro tipo di unione registrata - e
cosi' l'esclusione di ogni tutela pare porsi in  contrasto  non  solo
con gli artt.  2,  3,  4,  35  e  36  Cost.  ma  soprattutto  con  la
giurisprudenza della Corte EDU e con il diritto UE. 
    19. Argomenti a favore  dell'estensione  si  possono  ben  trarre
dalle pronunce della Corte costituzionale. 
    Gia' con la sentenza  n.  476  del  1987  la  Corte  cost.  aveva
ritenuto che l'istituto dell'impresa familiare e' stato introdotto in
vista della meritoria finalita' di dare  tutela  al  lavoro  comunque
prestato negli aggregati familiari. 
    Con la sentenza n. 138 del 2010 la Corte  cost.  si  e'  espressa
sulla  legittimita'  costituzionale  delle  disposizioni  del  codice
civile nella parte in cui non consentivano il matrimonio tra  persone
dello stesso sesso; la Corte ha stabilito che per formazione sociale,
rientrante nell'art. 2 Cost., deve intendersi ogni forma di comunita'
idonea a favorire lo sviluppo della persona nella vita di  relazione,
con valorizzazione di un modello  pluralistico;  in  particolare,  la
Corte ha riconosciuto l'unione omosessuale  come  stabile  convivenza
tra due persone dello stesso sesso, cui spetta il diritto  di  vivere
liberamente come coppia, con il riconoscimento giuridico e i connessi
diritti  e  doveri.  La  Corte  ha,   inoltre,   escluso   che   tale
riconoscimento dovesse  realizzarsi  tramite  una  equiparazione  tra
matrimonio e unione omosessuale,  attribuendo  alla  discrezionalita'
legislativa l'ambito applicativo del riconoscimento. 
    Con la sentenza n. 170 del 2014 la  Corte  cost.  ha  dichiarato,
riportandosi alla precedente  decisione  del  2010,  l'illegittimita'
costituzionale delle norme che non  prevedevano  la  possibilita'  di
mantenere in vita un rapporto di coppia  giuridicamente  regolato,  e
adeguatamente tutelato, nel caso di  sentenza  di  rettificazione  di
sesso  di  uno  dei  coniugi,  che  comporta  lo   scioglimento   del
matrimonio;  la  Corte  demanda  alla  discrezionalita'   legislativa
l'introduzione di una protezione giuridica diversa dal  matrimonio  e
sollecita un intervento tempestivo del Parlamento. 
    Con la successiva pronuncia n. 182 del 2020  la  Corte  cost.  ha
riconosciuto il  valore  giuridicamente  vincolante  e  sovraordinato
della Carta dei  diritti  fondamentali,  in  un  giudizio  di  rinvio
relativo  alla  previsione  del  permesso   di   soggiorno   UE   per
soggiornanti di lungo periodo quale requisito per  l'erogazione  agli
stranieri degli assegni di natalita' e di  maternita',  ribadendo  la
propria competenza a sindacare gli  eventuali  profili  di  contrasto
delle disposizioni nazionali con i  principi  enunciati  dalla  Carta
rilevando  che  la  Corte  non  puo'  esimersi  dal  valutare  se  la
disposizione nazionale censurata infranga, in pari tempo, i  principi
costituzionali e sovranazionali. 
    20. Non diversa e' stata la posizione che, nel tempo, ha  assunto
la Corte Europea dei Diritto dell'Uomo. Fin dalla sentenza Marckx  vs
Belgio (ricorso n. 683/74) del  13  giugno  1979,  la  Corte  EDU  ha
affermato che  "la  vita  familiare  comprende  anche  gli  interessi
materiali" ed ha esteso la nozione di vita familiare di cui  all'art.
8 anche alla famiglia non legittima che,  nel  caso  di  specie,  era
costituita da una madre e dalla figlia nata fuori dal  matrimonio.  E
cosi' nel caso Keegan vs Irlanda, sentenza  del  26  maggio  1994  ha
affermato che la nozione  di  famiglia  di  cui  all'art.  8  non  e'
limitata alle relazioni fondate sul matrimonio e puo' oltrepassare di
fatto  i  legami  familiari  quando  le  parti  convivono  fuori  dal
matrimonio (nella specie la legge irlandese sull'adozione  negava  al
padre naturale, convivente di fatto con  un'altra  donna  al  momento
della nascita del figlio, il diritto di prestare il proprio  consenso
all'affidamento del bambino da parte della madre).  Ancora  nel  caso
X., Y. e Z. vs Regno Unito, sentenza del 22  aprile  1997,  la  Corte
europea ha ribadito che la nozione di vita familiare non e'  limitata
alle coppie sposate e sottolineato che i  criteri  rilevanti  per  la
definizione sono la  convivenza  della  coppia,  la  lunghezza  della
relazione, la presenza di figli. Occorre quindi accertare l'esistenza
di una relazione effettiva (nel caso di specie, la Corte ha  ritenuto
si potesse parlare di "vita familiare" in relazione  alla  situazione
di convivenza tra un transessuale, la compagna e la figlia nata dalla
loro unione). Ancora, con la sentenza del 5 gennaio  2010,  nel  caso
Jaremowicz vs Polonia (ricorso n. 24023/03), la Corte dei diritti  ha
sottolineato le  affinita'  e  le  differenze  "strutturali"  tra  il
diritto a contrarre matrimonio  garantito  dall'art.  12  CEDU  e  il
diritto al rispetto della vita familiare di cui all'art. 8  CEDU;  le
differenze in particolare si riflettono sull'ampiezza  del  sindacato
che puo' operare in materia la stessa Corte: nel  caso  dell'art.  12
CEDU, infatti, il controllo  di  conformita'  alla  Convenzione  deve
limitarsi alla verifica dell'arbitrarieta' e sproporzionalita'  delle
scelte operate dagli Stati in virtu' del margine di apprezzamento che
la Convenzione riserva loro in materia (§ 50). Cosi' anche  nel  caso
Moretti e Benedetti vs Italia (ricorso n. 16318/07), sentenza del  27
aprile 2010,  la  Corte  europea  ha  ribadito  che  l'art.  8  trova
applicazione anche rispetto a legami familiari di fatto, in  presenza
di vincoli di natura affettiva (i ricorrenti si erano visti rigettare
la domanda di adozione di un neonato che, subito dopo la nascita, era
stato collocato provvisoriamente presso di loro, in quanto  la  madre
aveva rifiutato di riconoscerlo: la Corte europea  ha  osservato  che
l'art. 8 e' applicabile anche nei confronti dei  ricorrenti,  benche'
essi non abbiano  potesta'  genitoriale  sul  bambino,  perche'  tale
disposizione si applica  anche  ai  legami  familiari  di  fatto,  in
presenza di vincoli di natura affettiva). 
    La  famiglia  e'  considerata,   a   livello   di   normativa   e
giurisprudenza europea, sia nella sua versione tradizionale, composta
da due membri  di  sesso  diverso  uniti  in  matrimonio,  sia  nella
versione moderna costituita da coppie non  unite  in  matrimonio,  ma
semplicemente conviventi, siano esse di sesso diverso o dello  stesso
sesso e la convivenza qualifica il rapporto che lega i famigliari  di
fatto. Non si esige una disciplina dei differenti  modelli  familiari
identica  a   quella   del   matrimonio   ma   una   disciplina   non
discriminatoria (art. 14 della CEDU) che salvaguardi  e  rispetti  le
scelte familiari della persona. 
    Sempre la Corte EDU, Schalk and Kopf vs Austria, 24  giugno  2010
ha riconosciuto alle coppie  omo-affettive  il  diritto  al  rispetto
della vita familiare ex art. 8 CEDU, includendole  nella  definizione
di  "famiglia",  anche  in  base  ad  una  interpretazione  evolutiva
dell'art. 12 CEDU ("Diritto  al  matrimonio":  «A  partire  dall'eta'
minima per contrarre matrimonio, l'uomo e la donna hanno  il  diritto
di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali  che
regolano l'esercizio di tale diritto»)  e  in  relazione  all'art.  9
della Carta di Nizza  ("Diritto  di  sposarsi  e  di  costituire  una
famiglia": «Il diritto di sposarsi e il  diritto  di  costituire  una
famiglia  sono  garantiti  secondo  le   leggi   nazionali   che   ne
disciplinano l'esercizio»). 
    La Corte EDU, Grande chambre,  7  novembre  2013,  Vallianatos  e
altri vs Grecia ha statuito circa il diritto del singolo,  una  volta
instaurato il legame  di  coppia,  all'uguaglianza  con  il  partner,
tutelato non tanto in base  all'art.  5  del  Protocollo  n.  7  alla
Convenzione sulla parita' tra i coniugi quanto sul  fondamento  degli
artt. 8 e 14 CEDU e confermato la  non  necessaria  coabitazione  per
l'individuazione della famiglia di fatto. 
    Sempre Corte EDU, nella gia' citata Oliari e altri vs Italia,  21
luglio 2015 ha sancito la violazione dell'art. 8 CEDU  per  omissioni
del Governo  italiano,  ossia  per  non  aver  adempiuto  all'obbligo
positivo di assicurare alle coppie omo-affettive la disponibilita' di
uno specifico strumento/istituto  di  tutela  dei  propri  diritti  e
doveri,  nonostante  la  giurisprudenza  ne   avesse   ravvisato   la
necessita' di intervento. 
    21. Insomma, prendendo le mosse dai principi generali che vengono
in rilievo in questo particolare  settore,  che  coinvolge  tanto  la
materia della famiglia quanto quella del lavoro, sia la Corte EDU sia
la Corte costituzionale, pur  riconoscendo  la  discrezionalita'  del
legislatore nel  prevedere  diverse  soglie  di  tutela  dei  vincoli
discendenti dal matrimonio e dalla convivenza di fatto  in  relazione
alla necessita'  di  proteggere  i  controinteressi  in  gioco  hanno
tuttavia stigmatizzato che nessuna situazione espressiva della scelta
di un differente modello familiare  puo'  restare  priva  di  tutela.
Infatti, benche' la  Corte  EDU  riconduca  nella  sfera  applicativa
dell'art. 8 CEDU, nella parte in cui protegge la "vita familiare", la
tutela dei vincoli affettivi discendenti dalla convivenza  di  fatto,
tuttavia,  considera  legittima  la  limitazione  di  tale   diritto,
riconoscendo altresi' la possibilita' di bilanciamenti  differenziati
per le coppie sposate e le  convivenze  di  mero  fatto,  secondo  la
discrezionale valutazione del legislatore (cfr., Corte EDU, 3  aprile
2012, Van der Heijdel vs Netherlands). Ma di bilanciamento  deve  pur
sempre trattarsi. Non di indifferenza del legislatore. 
    22. Sul piano costituzionale va  ricordato  che,  l'art.  2  («La
Repubblica riconosce e garantisce i  diritti  inviolabili  dell'uomo,
sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge  la  sua
personalita', e richiede l'adempimento  dei  doveri  inderogabili  di
solidarieta'  politica,  economica  e  sociale»)   e'   pacificamente
considerato, soprattutto a partire dalla sopra citata sent.  138  del
2010 della Consulta, il referente costituzionale  della  famiglia  di
fatto. A titolo esemplificativo si pensi a Cass. 3  aprile  2015,  n.
6855 (conf. Cass. 8 febbraio 2016, n. 2466), la  quale  ha  affermato
che "l'instaurazione da parte del coniuge  divorziato  di  una  nuova
famiglia, ancorche' di fatto, rescindendo  ogni  connessione  con  il
tenore ed il modello di vita caratterizzanti  la  pregressa  fase  di
convivenza  matrimoniale,  fa  venire   definitivamente   meno   ogni
presupposto per la riconoscibilita' dell'assegno divorzile  a  carico
dell'altro coniuge, sicche' il relativo diritto non entra in stato di
quiescenza, ma resta definitivamente escluso. Infatti, la  formazione
di una famiglia di  fatto  -  costituzionalmente  tutelata  ai  sensi
dell'art. 2 Cost. come formazione sociale stabile e duratura  in  cui
si svolge la personalita' dell'individuo  -  e'  espressione  di  una
scelta esistenziale, libera e consapevole, che  si  caratterizza  per
l'assunzione piena del rischio di  una  cessazione  del  rapporto  e,
quindi,  esclude  ogni  residua  solidarieta'  post-matrimoniale  con
l'altro  coniuge,  il  quale  non  puo'  che  confidare  nell'esonero
definitivo da ogni obbligo". Si pensi ancora alla recentissima Cass.,
Sez. Un., 18 dicembre 2023, n. 35385 -  deliberata  il  26  settembre
2023 -, che, pur precisato che permane, nel nostro  ordinamento,  una
differenza fondamentale tra matrimonio e convivenza,  anche  dopo  la
disciplina della legge  n.  76/2016,  fondata  sulla  differenza  dei
modelli, dato che il matrimonio  e,  per  volonta'  del  legislatore,
l'unione civile, appartengono ai modelli c.d. «istituzionali», mentre
la convivenza di fatto, al contrario, e' un modello «familiare non  a
struttura istituzionale», tuttavia, ha evidenziato che  convivenza  e
matrimonio sono comunque modelli  familiari  dai  quali  scaturiscono
obblighi di solidarieta' morale e materiale, anche  a  seguito  della
cessazione dell'unione istituzionale e dell'unione  di  fatto  ed  ha
affermato che "ai fini dell'attribuzione e della quantificazione,  ai
sensi dell'art. 5, comma 6, l. n. 898/1970,  dell'assegno  divorzile,
avente     natura,      oltre      che      assistenziale,      anche
perequativo-compensativa, nei casi peculiari in cui il matrimonio  si
ricolleghi a una convivenza prematrimoniale della  coppia,  avente  i
connotati di stabilita' e continuita', in ragione di un  progetto  di
vita comune, dal  quale  discendano  anche  reciproche  contribuzioni
economiche, laddove emerga una relazione di continuita' tra  la  fase
«di fatto» di quella  medesima  unione  e  la  fase  «giuridica»  del
vincolo matrimoniale, va computato anche il periodo della  convivenza
prematrimoniale, ai fini della  necessaria  verifica  del  contributo
fornito dal richiedente l'assegno alla conduzione  familiare  e  alla
formazione del patrimonio comune e personale di ciascuno dei coniugi,
occorrendo    vagliare    l'esistenza,    durante    la    convivenza
prematrimoniale,  di  scelte  condivise  dalla  coppia  che   abbiano
conformato la vita  all'interno  del  matrimonio  e  cui  si  possano
ricollegare, con accertamento del relativo nesso causale, sacrifici o
rinunce,  in  particolare,  alla  vita  lavorativa/professionale  del
coniuge economicamente piu' debole, che  sia  risultato  incapace  di
garantirsi un mantenimento adeguato, successivamente al divorzio". 
    Ed allora, posto che la convivenza more  uxorio  e'  in  concreto
capace di corrispondere alle medesime esigenze di  realizzazione  dei
fondamentali bisogni affettivi della persona  allo  stesso  modo  del
rapporto coniugale, come appare incontestabile, l'indicazione che da'
l'art. 2 Cost. e', precisamente,  nel  senso  di  una  considerazione
unitaria delle due situazioni e non gia' differenziata.  Ed  in  tale
cornice si inserisce il contributo collaborativo di cui all'art.  230
bis cod. civ. che trova pur sempre causa nei vincoli di  solidarieta'
ed affettivita' esistenti, a prescindere dal legame formale. 
    L'irragionevole esclusione da parte della norma suddetta di  ogni
tutela, anche minima, nei confronti del convivente  di  fatto  rileva
anche con riguardo all'art. 3 della  Cost.  sotto  il  profilo  della
violazione del principio di  uguaglianza,  atteso  che,  per  effetto
dell'applicazione della disposizione censurata, si determina una vera
e propria discriminazione tra  soggetti  che  esplicano  la  medesima
attivita' in modo continuativo nell'impresa familiare. Ed infatti una
disparita' di trattamento fondata sulla (sola)  condizione  personale
(la qualita' di coniuge) a  fronte  di  una  sostanziale  equivalenza
nell'attivita' dell'impresa finisce per porre un ostacolo  di  ordine
economico all'uguaglianza dei cittadini. 
    Si pone, anche, la violazione dell'art. 4 Cost.  («La  Repubblica
riconosce a tutti i cittadini il diritto  al  lavoro  e  promuove  le
condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il
dovere di svolgere, secondo le  proprie  possibilita'  e  la  propria
scelta,  un'attivita'  o  una  funzione  che  concorra  al  progresso
materiale o spirituale della societa'») e dello stretto legame tra il
lavoro, che non e' fine in se' o mero strumento di guadagno, ma mezzo
di affermazione della personalita' del singolo oltre che garanzia  di
sviluppo delle capacita' umane e del loro impiego,  ed  i  valori  di
effettiva liberta' e dignita' di ogni persona. 
    Ne' va sottaciuta la violazione dell'art. 35, comma 1, Cost. («La
Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni») e
dell'art. 36, comma 1,  Cost.  («Il  lavoratore  ha  diritto  ad  una
retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita' del suo lavoro e
in ogni  caso  sufficiente  ad  assicurare  a  se'  e  alla  famiglia
un'esistenza libera e dignitosa»),  quali  baluardi  a  garanzia  del
lavoro e della retribuzione  considerato  che,  nello  specifico,  le
prestazioni lavorative rese nell'ambito di un rapporto di  convivenza
more  uxorio  e  mosse  dal  medesimo  spirito  di  solidarieta'  che
caratterizza il lavoro coniugale sono destinate a rimanere  prive  di
tutela e cosi' di quella tutela riconosciuta in presenza di un legame
formale. Cio' e' tanto piu' difficile da comprendere se si  considera
che anche i  rapporti  tra  coniugi  possono  modularsi  secondo  gli
strumenti di diritto comune, essendo l'impresa familiare un  istituto
a carattere meramente residuale. L'esigenza di far  ricorso  all'art.
230 bis cod. civ. nel caso della  convivenza  more  uxorio  si  pone,
dunque, negli stessi termini in  cui  si  pone  per  il  rapporto  di
coniugio: garantire la tutela del lavoro dal rischio che, non essendo
possibile fornire la prova specifica che sia stato prestato a  titolo
oneroso, possa essere  presuntivamente  ritenuto  prestato  a  titolo
gratuito. 
    Sul piano del diritto unionale va richiamato l'art. 9 della Carta
dei diritti fondamentali dell'U.E. («Il  diritto  di  sposarsi  e  il
diritto di costituire una famiglia sono garantiti  secondo  le  leggi
nazionali che ne disciplinano l'esercizio»), approvata dal Parlamento
europeo il 14 novembre 2000, formalmente proclamata a  Nizza  il  7-8
dicembre 2000 e divenuta giuridicamente vincolante (ex art.  6,  par.
1, TUE) a seguito dell'entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Con
tale  disposizione,  infatti,  il   "diritto   di   sposarsi"   viene
riconosciuto tra le liberta' fondamentali tutelate dal capo  secondo,
in modo disgiunto rispetto al  "diritto  di  fondare  una  famiglia",
cosi' realizzando una  significativa  apertura  nei  confronti  delle
famiglie  di  fatto,  in  quanto  la  meritevolezza  degli  interessi
perseguiti attraverso la scelta, del tutto  legittima,  di  convivere
senza matrimonio viene riconosciuta e  tutelata  anche  al  di  fuori
della presenza  di  vincoli  formali  nei  rapporti  familiari.  Come
evidenziato  anche  nell'ordinanza  interlocutoria,  al  tradizionale
favor per il matrimonio si sostituisce in tal modo la  pari  dignita'
di ogni forma di convivenza alla  quale  una  legislazione  nazionale
decida di dare la sua regolamentazione. 
    Infine,  va  ricordato  che  la  Convenzione   europea   per   la
salvaguardia dei diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali
(CEDU), dedica alla famiglia gli artt. 8, comma 1 («Ogni  persona  ha
diritto al rispetto della  propria  vita  privata  e  familiare,  del
proprio domicilio e della propria corrispondenza») e 12  («A  partire
dall'eta' minima per contrarre matrimonio, l'uomo e la donna hanno il
diritto di sposarsi e  di  fondare  una  famiglia  secondo  le  leggi
nazionali  che  regolano   l'esercizio   di   tale   diritto»),   che
rispettivamente sanciscono il diritto al rispetto della vita  privata
e familiare (oltre che del domicilio e  della  corrispondenza)  e  il
diritto di sposarsi e di costituire una famiglia. 
    I  giudici  di  Strasburgo,  come  gia'  sopra  accennato,  hanno
interpretato evolutivamente la nozione di  «vita  familiare»  di  cui
all'art. 8 CEDU, includendovi, oltre al rapporto di coniugio in senso
stretto, la parentela tra nonni e nipoti (sentenza 13 luglio 2000, n.
39221, Scozzari e Giunta vs Italia), zii e nipoti (sentenza 3  giugno
2004,  1°  sez.,  E.  Zampieri  vs  Italia)  purche'  venga   provata
l'esistenza di legami personali affettivi (come la coabitazione o  le
visite frequenti) ed anche la relazione di una coppia omosessuale (v.
la gia' ricordata sentenza del 24 giugno 2010,  prima  sezione,  caso
Schalk and Kopf vs Austria). Ed infatti ad avviso  della  consolidata
giurisprudenza della Corte EDU, in materia di  coppie  eterosessuali,
la nozione di  "famiglia"  in  base  a  questa  disposizione  non  e'
limitata alle relazioni basate  sul  matrimonio  e  puo'  comprendere
altri legami "familiari" di fatto, se le parti  convivono  fuori  dal
vincolo del matrimonio. 
    La Corte ha, peraltro, in questi casi, riconosciuto  generalmente
agli  Stati  contraenti  la  facolta'   di   accordare   una   tutela
diversificata alle coppie unite in matrimonio. 
    Piu' recentemente, tuttavia, la Corte,  pur  ribadendo  come  ne'
l'apertura del matrimonio alle coppie same-sex, ne' il riconoscimento
del  matrimonio  omosessuale   celebrato   all'estero   costituiscano
obblighi convenzionali, ha ritenuto  contraria  all'art.  8  CEDU  la
totale assenza di riconoscimento giuridico  dell'unione  omosessuale.
L'Italia e' stata, cosi', condannata, nel 2015 e nel  2017,  per  non
avere predisposto - prima dell'entrata in vigore della  citata  legge
di disciplina delle unioni civili 20  maggio  2016,  n.  76  -  alcun
quadro di tutela giuridica in favore delle coppie  di  persone  dello
stesso sesso, inibendo, di conseguenza, anche il riconoscimento delle
relazioni costituite all'estero - (cfr. sentenza Oliari  e  altri  vs
Italia cit.). 
    La stessa possibilita' di ingerenza  degli  Stati  nazionali  nei
diritti alla "vita familiare" delle coppie  sposate  o  di  fatto  e'
stata  circoscritta  dalla  necessaria  osservanza  dei  principi  di
legalita',  necessita'  e  proporzionalita',  elaborando  in   talune
circostanze dei veri e propri obblighi positivi volti alla promozione
dei suddetti diritti ed alla  protezione  da  attacchi  da  parte  di
soggetti privati (si veda sempre la gia' citata pronuncia della Corte
EDU,  21  luglio  2015,  Oliari  ed  altri  vs  Italia,   sulla   non
indispensabilita' della coabitazione ai fini della individuazione  di
una famiglia di fatto). 
    23. Tutte le considerazioni che precedono e la  circostanza  che,
in  tema  di  impresa  familiare,  irragionevole  e'  un  trattamento
differenziato del lavoro prestato dal convivente  rispetto  a  quello
del familiare,  deporrebbero  per  la  possibilita'  di  una  lettura
estensiva dell'art. 230 bis cod. civ. nel senso di un  riconoscimento
al convivente more  uxorio  degli  stessi  diritti  previsti  per  il
coniuge e cosi' sia per quelli economico-partecipativi sia per quelli
gestionali,   quale   insieme   di   necessaria   ed    indissolubile
applicazione. 
    Pero', come gia'  accennato,  cio'  determinerebbe  una  distonia
sistemica. 
    Una ritenuta possibilita' di includere nel novero  dei  familiari
di cui all'art. 230 bis  cod.  civ.  anche  il  convivente  di  fatto
determinerebbe un effetto pressappoco paradossale,  ossia  quello  di
fornire  tutela  ad  una  situazione   giuridica,   l'attivita'   del
convivente nell'impresa familiare, che fino al 2016 non solo non  era
tipizzata, ma per la giurisprudenza prevalente,  addirittura  esclusa
dall'alveo  applicativo  dell'art.  230  bis,   ma   soprattutto   si
accorderebbe al convivente,  ex  post,  alla  luce  di  un  raffronto
strutturale tra l'art. 230 bis e l'art. 230 ter, una tutela che,  per
i fatti antecedenti al 2016,  risulta  essere  superiore  rispetto  a
quella poi espressamente  prevista  dal  legislatore  con  la  l.  n.
76/2016 (non senza rilievi in termini di irragionevolezza -  che  qui
non sono approfondibili per non  essere  la  norma  indicata  ratione
temporis applicabile alla fattispecie in esame ma che vale la pena di
accennare  ai  fini  della  eventuale  illegittimita'  costituzionale
derivata ex art. 27 legge 11 marzo 1953, n. 87 - sol che si consideri
che il riconoscimento del mero diritto a partecipare agli  utili,  ai
beni e agli incrementi  non  pare  certo  idoneo  ad  assicurare  una
sufficiente tutela sul piano patrimoniale al  convivente  lavoratore,
il quale, in caso di  mancata  produzione  di  utili,  finirebbe  per
essere privato di ogni compenso per l'attivita' lavorativa  prestata,
in  contrasto  con  quella  stressa  prefigurazione  di   un   nucleo
essenziale di tutela cui, come detto, l'ordinamento e' tenuto,  oltre
che con il principio di parita' di trattamento del lavoro prestato). 
    24.  Ed  allora   va   posta   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 230 bis cod. civ. nella  parte  in  cui  non
include nel novero dei familiari anche il  convivente  di  fatto  per
violazione dei sopra ricordati artt. 2, 3, 4, 35 e 36 Cost.,  nonche'
dell'art. 9  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'U.E.,  ed
ancora, per il tramite dell'art. 117, comma 1 Cost., degli artt. 8  e
12 CEDU. 
    Le censure di incostituzionalita' si riverberano, in  termini  di
illegittimita' derivata, anche sull'art. 230 ter cod. civ. che,  come
detto, non ha riconosciuto al convivente di fatto  la  stessa  tutela
del coniuge/familiare ma una tutela differenziata ed inferiore. 
    25.   Conclusivamente,    essendo    non    percorribile,    data
l'insuperabilita' della lettera dell'art. 230 bis  cod.  civ.  e  gli
evidenziati  rischi  di  distonia  del  sistema,  la  strada  di  una
interpretazione  della  disposizione  qui  in  esame  conforme   alla
Costituzione ed  alla  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
europea  ne'  essendo  possibile  recepire  direttamente  i  principi
enunciati dalla Corte EDU, sopra richiamati, il Collegio ritiene  che
l'art. 230 bis cod. civ. disponendo, al primo comma che «il familiare
che presta in modo continuativo la  sua  attivita'  di  lavoro  nella
famiglia o nell'impresa familiare ha diritto al mantenimento  secondo
la condizione patrimoniale della  famiglia  e  partecipa  agli  utili
dell'impresa familiare ed ai beni acquistati con  essi  nonche'  agli
incrementi  dell'azienda,  anche   in   ordine   all'avviamento,   in
proporzione alla quantita' e alla qualita' del  lavoro  prestato»  ed
indicando, al terzo comma che «ai fini della disposizione di  cui  al
primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro  il
terzo grado, gli affini  entro  il  secondo;  per  impresa  familiare
quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro  il  terzo  grado,
gli   affini   entro   il   secondo»,   ponga   concreti   dubbi   di
costituzionalita' nella parte in  cui  non  include  nel  novero  dei
familiari il convivente more uxorio, per violazione degli artt. 2, 3,
4, 35 e 36 della Costituzione, nonche'  per  violazione  dell'art.  9
della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e  dell'art.
117, comma 1, Cost., novellato  dalla  legge  costituzionale  del  18
ottobre 2001 n. 3, in riferimento agli artt. 8 e 12 della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo. 
    26. Il giudizio deve essere pertanto sospeso e gli atti  rinviati
alla Corte costituzionale affinche' verifichi la fondatezza dei dubbi
di costituzionalita' in questa sede esposti.  
 
                                P.Q.M. 
 
    La Corte, visti gli artt. 134 Cost. e  23  della legge  11  marzo
1953, n. 87, dichiara rilevante e non  manifestamente  infondata,  in
riferimento agli artt. 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione,  all'art.
9  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione  europea  ed
all'art. 117, comma 1, Cost., in riferimento agli artt. 8 e 12  della
Convenzione  europea  dei  diritti   dell'uomo,   la   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 230 bis  cod.  civ.  la'  dove,
disponendo, al primo comma che  «il  familiare  che  presta  in  modo
continuativo la sua attivita' di lavoro nella famiglia o nell'impresa
familiare  ha  diritto  al   mantenimento   secondo   la   condizione
patrimoniale della  famiglia  e  partecipa  agli  utili  dell'impresa
familiare ed ai beni acquistati  con  essi  nonche'  agli  incrementi
dell'azienda, anche in ordine  all'avviamento,  in  proporzione  alla
quantita' e alla qualita' del lavoro prestato» ed indicando, al terzo
comma che «ai fini della  disposizione  di  cui  al  primo  comma  si
intende come familiare il coniuge, i parenti entro  il  terzo  grado,
gli affini  entro  il  secondo;  per  impresa  familiare  quella  cui
collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo  grado,  gli  affini
entro il secondo», non include nel  novero  familiari  il  convivente
more uxorio. 
    Sospende il presente giudizio. 
    Ordina che, a cura della Cancelleria, la presente  ordinanza  sia
notificata  alle  parti  del  giudizio  di  cassazione,  al  pubblico
ministero presso questa Corte ed  al  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    ordina,  altresi',   che   l'ordinanza   venga   comunicata   dal
cancelliere ai presidenti delle due Camere  del  Parlamento;  dispone
l'immediata trasmissione degli atti, comprensivi della documentazione
attestante  il  perfezionamento  delle  prescritte  notificazioni   e
comunicazioni, alla Corte costituzionale. 
    Cosi' deciso in Roma, alla udienza pubblica in  data  24  ottobre
2023. 
 
                      Il Presidente: D'Ascola