N. 119 SENTENZA 7 - 10 maggio 2012

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Previdenza pubblica - Soggetti nominati direttore generale, direttore
  amministrativo  e  direttore  sanitario  di  azienda  sanitaria   -
  Indennita' premio di servizio - Modalita' di calcolo  -  Interventi
  di  G.D.P.  e  della  Federazione  italiana  aziende  sanitarie   e
  ospedaliere (FIASO) - Soggetti estranei al  giudizio  principale  e
  carenti  della  qualita'  di  terzi  portatori  di   un   interesse
  qualificato immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto
  nel giudizio - Inammissibilita' degli interventi. 
- D.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, art. 3,  commi  2  e  3;  d.lgs.  30
  dicembre 1992, n. 502, art. 3-bis, comma  11;  legge   30  novembre
  1998, n. 419, art. 2, comma 1, lett. t). 
- Costituzione, art. 3. 
Previdenza pubblica - Soggetti nominati direttore generale, direttore
  amministrativo  e  direttore  sanitario  di  azienda  sanitaria   -
  Indennita' premio di servizio - Modalita'  di  calcolo  -  Asserita
  irragionevole differenza di trattamento previdenziale a  favore  di
  una categoria di soggetti, rispetto alla  generalita'  degli  altri
  dipendenti  pubblici  -  Insussistenza  -  Non   fondatezza   della
  questione. 
- D.lgs. 19 giugno 1999, n. 229, artt. 3, commi  2  e  3;  d.lgs.  30
  dicembre 1992, n. 502, art. 3-bis, comma  11;  legge   30  novembre
  1998, n. 419, art. 2, comma 1, lett. t). 
- Costituzione, art. 3. 
(GU n.20 del 16-5-2012 )
  


				 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 

 
composta dai signori: 
Presidente:Alfonso QUARANTA; 
Giudici :Franco GALLO,  Luigi  MAZZELLA,  Gaetano  SILVESTRI,  Sabino
  CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe  FRIGO,
  Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,
  Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, 
      
ha pronunciato la seguente 


				 
                              Sentenza 

 
nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'articolo 3, commi  2
e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n.  229  (Norme  per  la
razionalizzazione  del  Servizio   sanitario   nazionale,   a   norma
dell'articolo 1 della legge 30  novembre  1998,  n.  419),  dell'art.
3-bis, comma 11, del decreto legislativo 30  dicembre  1992,  n.  502
(Riordino  della   disciplina   in   materia   sanitaria,   a   norma
dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell'art.  2,
comma 1, lettera t), della legge 30 novembre 1998, n. 419 (Delega  al
Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario  nazionale  e
per l'adozione di un testo  unico  in  materia  di  organizzazione  e
funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al  decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n.  502),  promosso  dal  Tribunale  di
Monza nel procedimento vertente tra F.R. e INPDAP, con ordinanza  del
26 gennaio 2011, iscritta al n.  237  del  registro  ordinanze  2011,
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  48,  prima
serie speciale, dell'anno 2011. 
    Visti gli atti di costituzione di F.R. e dell'INPS, successore ex
lege dell'INPDAP, nonche' gli atti di intervento di  G.D.P.  e  della
Federazione italiana delle aziende sanitarie e ospedaliere (FIASO); 
    udito nell'udienza pubblica del 3 aprile 2012 il Giudice relatore
Gaetano Silvestri; 
    uditi gli avvocati Rosaria  Russo  Valentini  per  F.R.  e  Dario
Marinuzzi per l'INPS. 


				 
                          Ritenuto in fatto 

 
    1. - Con ordinanza del 26 gennaio 2011, il  Tribunale  di  Monza,
sezione lavoro, ha sollevato, in  riferimento  all'articolo  3  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  3,
commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999,  n.  229  (Norme
per la razionalizzazione del Servizio sanitario  nazionale,  a  norma
dell'articolo 1 della legge 30  novembre  1998,  n.  419),  dell'art.
3-bis, comma 11, del decreto legislativo 30  dicembre  1992,  n.  502
(Riordino  della   disciplina   in   materia   sanitaria,   a   norma
dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell'art.  2,
comma 1, lettera t), della legge 30 novembre 1998, n. 419 (Delega  al
Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario  nazionale  e
per l'adozione di un testo  unico  in  materia  di  organizzazione  e
funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al  decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 502). 
    La   normativa   censurata   ha   disciplinato   il   trattamento
assistenziale e  previdenziale  dei  dipendenti  pubblici  e  privati
nominati direttore generale di  unita'  sanitarie  locali  e  aziende
ospedaliere,   prevedendo   che   i   contributi   previdenziali    e
assistenziali  -  da  versarsi  da  parte   dall'amministrazione   di
appartenenza del dipendente collocato in aspettativa senza assegni  -
sono computati sul trattamento economico corrisposto  per  l'incarico
conferito,  con  conseguente  aumento  della  base  di  calcolo   dei
trattamenti di fine servizio dovuti in caso di collocamento a  riposo
del dipendente. 
    1.1. - Il rimettente riferisce  che  il  giudizio  principale  e'
stato introdotto dal ricorso proposto nei confronti dell'INPDAP da un
lavoratore, gia' dipendente  del  servizio  sanitario  nazionale  dal
1971, collocato in aspettativa nel 2004 per  svolgere  l'incarico  di
direttore generale dell'Azienda USL di Bologna. Tale situazione si e'
protratta fino al 2008, data del  pensionamento  del  ricorrente,  il
quale ha ricevuto l'indennita' premio  di  servizio,  prevista  dalla
legge 8 marzo 1968, n. 152 (Nuove norme in materia previdenziale  per
il personale degli Enti  locali),  non  sulla  base  del  trattamento
economico percepito negli ultimi dodici mesi di lavoro, bensi'  sulla
cosiddetta retribuzione virtuale, cioe' sul trattamento in  atto  nel
2004,  prima   del   collocamento   in   aspettativa   concesso   per
l'espletamento dell'incarico di direttore generale. 
    Il ricorrente  chiede  dunque  l'accertamento  del  diritto  alla
diversa liquidazione dell'indennita' premio di servizio e la condanna
dell'INPDAP al pagamento della differenza. 
    Riferisce ancora il giudice a quo che l'INPDAP si e' costituto ed
ha  chiesto  il  rigetto  del  ricorso,   proponendo   eccezione   di
illegittimita'  costituzionale  della  normativa   in   oggetto   per
contrasto con l'art. 3 Cost. 
    1.2. - Su queste premesse in fatto, il  rimettente  osserva  come
oggetto della controversia sia l'inclusione, nella  base  di  calcolo
dell'indennita' premio di fine servizio, della retribuzione percepita
dal ricorrente mentre ricopriva l'incarico di direttore  generale  di
USL. 
    E' richiamata la disciplina dell'indennita' premio  di  servizio,
prevista negli artt. 4 e 11, quinto comma, della  legge  n.  152  del
1968,   i   quali   prevedono,   rispettivamente,   che   la   misura
dell'indennita'  in  questione  e'  «pari  a  un  quindicesimo  della
retribuzione contributiva degli ultimi dodici  mesi,  considerata  in
ragione dell'80 per cento ai sensi del successivo art. 11,  per  ogni
anno di iscrizione all'Istituto. Le frazioni superiori a sei mesi  si
computano per anno intero; quelle pari o inferiori sono  trascurate»,
e che «la retribuzione contributiva e' costituita dallo  stipendio  o
salario  comprensivo  degli  aumenti  periodici,  della   tredicesima
mensilita' e del valore degli assegni in natura, spettanti per  legge
o  regolamento  e  formanti  parte  integrante  ed  essenziale  dello
stipendio stesso». 
    Secondo il giudice a quo,  nel  contesto  in  esame  non  sarebbe
rilevante tanto «la natura  retributiva  o  meno  dell'indennita'  in
questione [...] quanto il fatto  che  essa  faccia  parte  integrante
della  "retribuzione  contributiva"  sulla  quale  va  effettuato  il
calcolo ai fini della determinazione della indennita' premio di  fine
servizio». 
    Ancora  a  proposito  della   nozione   di   retribuzione   annua
contributiva, il rimettente evidenzia come - in  base  agli  artt.  4
della legge n. 152 del 1968 e  30,  comma  3,  del  decreto-legge  28
febbraio 1983, n. 55 (Provvedimenti  urgenti  per  il  settore  della
finanza locale  per  l'anno  1983),  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1 della legge 26 aprile 1983, n. 131 -  essa  comprenda  la
somma degli emolumenti fissi e continuativi dovuti come remunerazione
dell'attivita' lavorativa e, tra questi,  l'indennita'  per  mansioni
superiori,   «stante   la   sua   fissita',    predeterminazione    e
continuativita', in  quanto  collegata  ad  incarico  che,  ancorche'
temporaneo, si protrae nel tempo e, peraltro, come nella  fattispecie
fino alla cessazione del servizio del dipendente interessato». 
    Il giudice a quo sottolinea come il  dibattito  giurisprudenziale
intorno alla nozione di «stipendio annuo complessivo»,  rilevante  in
ambito contributivo, sia stato definito dalla sentenza  n.  3673  del
1997  delle  Sezioni  unite  della  Corte  di  cassazione  in   senso
restrittivo, analogamente  a  quanto  avvenuto  nella  giurisprudenza
amministrativa (sono richiamate le sentenze del Consiglio di Stato n.
1121 del 1998 e n. 121 del 1985). La giurisprudenza  di  legittimita'
ha quindi costantemente escluso dalla base di computo del trattamento
di fine servizio indennita' di varia natura,  che  pure  costituivano
parte fissa del trattamento retributivo (sono richiamate le  sentenze
n. 19377 del 2007, n. 19427 del 2006, n. 16634 del 2004, n. 15906 del
2004 e n. 9901 del 2003). 
    Peraltro, prosegue il rimettente, la Corte di  cassazione  si  e'
diversamente espressa proprio con riguardo  alla  disciplina  oggetto
dell'odierna questione (e' richiamata la sentenza n. 12325 del 2008),
riconoscendo che la disposizione contenuta nell'art. 3-bis, comma 11,
del  d.lgs.  n.  502  del  1992,  ha  previsto  che   i   contribuiti
previdenziali  ed  assistenziali  siano  calcolati  sul   trattamento
economico percepito per l'incarico  di  direttore  generale  di  USL,
cosi' modificando il precedente regime, contenuto nell'abrogato  art.
3, comma 8, del d.lgs. n. 502  del  1992,  che  assumeva  a  base  di
calcolo lo stipendio del dipendente pubblico. 
    1.3. - Il giudice a quo da' atto che l'art. 3, commi 2 e  3,  del
d.lgs. n. 229 del 1999, modificativo della disciplina nel senso sopra
indicato, e' gia' stato sottoposto a scrutinio di  costituzionalita',
in riferimento all'art. 76 Cost., e che la Corte costituzionale,  con
la sentenza n. 351 del 2010, ha dichiarato la relativa questione  non
fondata. 
    Residuerebbe  tuttavia,  secondo  il  rimettente,  il  dubbio  di
conformita' della normativa  indicata  all'art.  3  Cost.,  sotto  il
profilo della  manifesta  irragionevolezza  di  una  disciplina  che,
«nell'ambito dei dipendenti pubblici non soggetti a t.f.r., introduce
per una ristretta categoria di essi, vale a  dire  i  dipendenti  che
hanno assunto temporaneamente l'incarico di direttori generali di USL
con contratto di lavoro autonomo e, per questo, sono stati  posti  in
aspettativa [...], un computo del  trattamento  previdenziale  (nella
specie l'indennita' premio di servizio di cui alla legge n.  152  del
1968)  piu'  vantaggioso  nella  base  di  calcolo  (o   retribuzione
contributiva) rispetto a quello della generalita'». 
    La manifesta irragionevolezza segnerebbe anche la diversita'  del
trattamento di fine rapporto determinata all'interno della  ristretta
categoria dei dipendenti pubblici che abbiano rivestito l'incarico di
direttore generale di  USL:  il  computo  dell'indennita'  premio  di
servizio su una base di calcolo piu' cospicua  avviene  soltanto  per
coloro che contestualmente cessino dall'incarico dirigenziale  e  dal
rapporto di pubblico impiego, non anche per coloro i quali riprendano
servizio presso l'amministrazione di provenienza, una  volta  cessato
l'incarico. 
    1.4. - Quanto alla prima disparita' di  trattamento  prospettata,
il  rimettente  osserva  come,  per  la  generalita'  dei  dipendenti
pubblici non soggetti a trattamento di fine rapporto, la retribuzione
contributiva sia rigorosamente circoscritta agli emolumenti percepiti
nell'ultimo  anno  di   servizio,   in   stretta   correlazione   con
l'inquadramento del dipendente, senza che abbiano alcun  rilievo  gli
emolumenti correlati alle mansioni o agli incarichi di volta in volta
assegnati, anche se  svolti  per  un  lungo  periodo,  «con  o  senza
aspettativa dal rapporto di pubblico impiego». 
    L'unica eccezione sarebbe costituita proprio dalla categoria  dei
dipendenti pubblici nominati direttore generale di USL, per  i  quali
il censurato art. 3-bis, comma 11, del d.lgs. n. 502 del 1992 prevede
che  la  retribuzione   contributiva   non   sia   quella   virtuale,
corrispondente  agli  emolumenti  che   gli   interessati   avrebbero
percepito nell'ultimo anno di servizio,  qualora  non  fossero  stati
posti in aspettativa,  bensi'  il  compenso  significativamente  piu'
cospicuo percepito «nell'ultimo anno  in  qualita'  non  di  pubblici
dipendenti ma di lavoratori autonomi incaricati di direzione generale
delle USL». 
    A proposito della seconda disparita' di trattamento, il giudice a
quo ribadisce quanto gia' evidenziato a proposito del  vantaggio  che
si  determina  soltanto  per  il  dipendente   pubblico   che   cessi
contestualmente  sia  dall'incarico  di  direzione  di  USL  sia  dal
rapporto di pubblico impiego, con la conseguenza che  gli  emolumenti
percepiti nell'ultimo anno di attivita',  prima  del  collocamento  a
riposo, costituiscono retribuzione  contributiva  e  quindi  base  di
calcolo dell'indennita' premio di servizio. 
    1.5.   -   Con   riferimento   al   precedente    scrutinio    di
costituzionalita' della normativa oggetto di censura,  il  rimettente
evidenzia come «l'affermata conformita' della disciplina al principio
di ragionevolezza esaminata dalla Corte  costituzionale  al  punto  4
della pronuncia n. 351 del 2010, presenta punti  di  rilevanza  sotto
altro profilo, vale a dire per la fiscalita'  generale,  sulla  quale
sostanzialmente si regge il bilancio  dell'Istituto,  e  pone  quindi
l'altra questione ossia quella di tenuta rispetto al principio di cui
all'art. 3 Cost., alla luce dei  continui  interventi  da  parte  del
legislatore volti sia al contenimento della spesa pubblica, anche nel
settore previdenziale, che ad una razionalizzazione delle  risorse  a
fini retributivi» (e' richiamato il d.P.R. 5 ottobre 2010, n. 195,  -
Regolamento recante determinazione dei limiti massimi del trattamento
economico onnicomprensivo a  carico  della  finanza  pubblica  per  i
rapporti di lavoro dipendente o autonomo). 
    Il giudice a quo sottolinea, infine, come la Corte costituzionale
abbia piu' volte riconosciuto che,  in  un  contesto  di  progressivo
deterioramento della finanza pubblica, si pone la necessita'  di  una
piu' adeguata ponderazione dell'interesse collettivo al  contenimento
della spesa pubblica, e che detto interesse non si pone in  contrasto
con l'art. 38 Cost., il quale «di per se' non esclude la possibilita'
di un intervento legislativo che, per una  inderogabile  esigenza  di
contenimento della spesa pubblica, riduca in  maniera  definitiva  un
trattamento pensionistico in precedenza spettante»  (sono  richiamate
le sentenze n. 361 del 1996, n. 240 del 1994, n. 119 del 1991, n. 822
e n. 220 del 1988). 
    Il rimettente invoca dunque un intervento che, come  accaduto  in
altre occasioni (e' richiamata la sentenza  n.  316  del  2010  della
Corte costituzionale),  individui  «il  punto  di  bilanciamento  tra
principi di uguale rango costituzionale, ossia quello di cui all'art.
38 Cost. e quello della solidarieta' sociale ex art. 3 Cost., sotteso
alle esigenze di  contenimento  della  spesa  pubblica  e  di  tenuta
finanziaria del sistema previdenziale». 
    2. - Con atto depositato il 1° dicembre 2011 si e' costituito nel
giudizio incidentale F.R., ricorrente nel procedimento principale, ed
ha chiesto il rigetto della questione,  riservandosi  di  argomentare
con separata memoria. 
    2.1. - Nella  memoria  depositata  il  1°  marzo  2012  la  parte
ricorrente  richiama  la  vicenda  sottostante  il  giudizio  a  quo,
precisando di avere prestato servizio come  dipendente  del  Servizio
sanitario  nazionale  a  far  tempo  dal  1971,  di  essere  divenuto
dirigente amministrativo di ruolo  presso  l'Azienda  ospedaliera  di
Lecco nel 1996, di avere quindi  ricoperto  l'incarico  di  direttore
generale dell'USL prima di Reggio Emilia e poi  di  Bologna  fino  al
pensionamento, avvenuto nel 2008, versando  all'INPDAP  i  contributi
sulla retribuzione percepita come direttore generale. 
    Dopo il collocamento a riposo, prosegue il  ricorrente,  l'INPDAP
ha riconosciuto il trattamento pensionistico assumendo nella base  di
calcolo  anche  la  retribuzione  percepita  e   "contribuita"   come
direttore generale, mentre per il calcolo dell'indennita'  premio  di
fine servizio, ex art. 4 della legge n. 152 del 1968,  l'Istituto  ha
considerato la retribuzione cosiddetta  virtuale,  cioe'  quella  che
sarebbe stata percepita se il ricorrente non avesse mai  lasciato  il
suo posto di dirigente amministrativo a tempo indeterminato. 
    La  difesa  della  parte  privata  segnala   l'erroneita'   della
valutazione,  in  considerazione  del  fatto  che  la  posizione  del
dirigente amministrativo e' data dalle funzioni svolte  in  concreto,
non in ragione del posto di ruolo  ma  per  effetto  di  incarichi  a
termine, per i  quali  sono  corrisposte  specifiche  indennita'  che
dipendono da tale concreto esercizio,  come  previsto  dall'art.  19,
comma 2, del  decreto  legislativo  30  marzo  2001,  n.  165  (Norme
generali  sull'ordinamento   del   lavoro   alle   dipendenze   delle
amministrazioni pubbliche)  e  dall'allegato  n.  3  al  CCNL  del  3
novembre 2005, per  la  dirigenza  medica  e  per  quella  sanitaria,
tecnica e amministrativa delle  aree  III  e  IV  di  contrattazione.
Evidentemente, prosegue la stessa  difesa,  a  partire  dal  1996  il
ricorrente non ha potuto ricevere  alcun  incarico  perche'  svolgeva
l'incarico di direttore generale di USL. 
    Il  criterio  adottato   dall'INPDAP   per   la   quantificazione
dell'indennita'  premio  di  fine   servizio   sarebbe   in   realta'
artificioso, come del resto acclarato anche dalla  giurisprudenza  di
legittimita' (sono richiamate le ordinanze della Corte di  cassazione
n. n. 18225 e 17944 del 2011). 
    2.2. - Con riguardo  al  merito  delle  questioni  sollevate  dal
Tribunale di Monza, la parte ricorrente richiama la sentenza  n.  351
del 2010 della Corte costituzionale, che ha gia' deciso  sul  quesito
se, ai fini del calcolo ex  art.  4  della  legge  n.  152  del  1968
dell'indennita' premio di servizio del direttore generale di USL, che
sia pubblico dipendente in aspettativa, debba essere  considerata  la
retribuzione  effettivamente   percepita   oppure   la   retribuzione
"ipotetica", che il soggetto avrebbe percepito qualora fosse  rimasto
in servizio nella qualita'  di  impiegato  amministrativo.  La  Corte
avrebbe ritenuto che la base di calcolo debba essere costituita dalla
retribuzione effettivamente percepita,  e  cio'  implica  che  quella
retribuzione dovrebbe essere considerata «retribuzione contributiva». 
    La normativa in materia, che in passato  poteva  suscitare  dubbi
interpretativi, e' stata modificata nel senso indicato in  attuazione
della delega contenuta nell'art. 2, comma 1, lettera t), della  legge
n. 419 del 1998. 
    Nel giudizio di  legittimita'  costituzionale,  definito  con  la
sentenza n. 351 del 2010, l'art. 3, commi 2 e 3, del  d.lgs.  n.  229
del 1999 era censurato in  riferimento  all'art.  76  Cost.,  per  un
presunto eccesso di delega, sul presupposto che la legge n.  419  del
1998  si  limitasse  a  chiedere  l'equiparazione   del   trattamento
assistenziale e previdenziale  spettante  ai  lavoratori  dipendenti,
pubblici e privati, i quali fossero nominati  direttori  generali  di
USL. 
    La Corte costituzionale ha invece ritenuto che l'obiettivo  della
equiparazione    del    trattamento    previdenziale     richiedesse,
preliminarmente, l'individuazione di una base  di  calcolo  valida  a
fronte di qualsiasi provenienza del  lavoratore  incaricato,  con  la
precisazione che «sarebbe stato, peraltro, in contraddizione  con  la
ratio della delega, se la omologazione dei trattamenti  previdenziali
si  fosse  limitata  ad  estendere,  puramente  e  semplicemente,  il
trattamento preesistente, fonte di disparita' - dovuta  alle  diverse
carriere e status dei soggetti - anche ai dipendenti privati». 
    Ancora e' richiamata l'affermazione della  sentenza  n.  351  del
2010, secondo cui  «l'individuazione  della  base  di  calcolo  nella
contribuzione  goduta   per   l'incarico   di   direttore   generale,
amministrativo e sanitario di azienda sanitaria,  e  non  invece  sul
compenso  "virtuale"   legato   all'ultima   prestazione   lavorativa
effettuata  presso  l'ente  di  provenienza,  e'  stata  operata  dal
legislatore  delegato  scegliendo  uno  dei   mezzi   possibili   per
realizzare quell'unificazione delle tutele  imposta  dalla  legge  di
delega». 
    A parere della  difesa  del  ricorrente,  la  motivazione  citata
renderebbe  evidente  che   la   Corte   si   e'   gia'   pronunciata
sull'applicazione del principio di uguaglianza alla materia in esame,
ritenendo che l'equiparazione dei lavoratori provenienti dal  settore
pubblico e dal settore privato fosse individuabile proprio  nel  dato
di realta' della retribuzione effettivamente percepita in qualita' di
direttore generale  di  USL  da  quanti  sono  chiamati  a  ricoprire
l'incarico, e sulla quale tutti versano i contributi che l'INPDAP,  a
sua volta, percepisce. 
    2.3.  -  La  difesa  della  parte  privata  esamina  le   censure
prospettate dal giudice a quo, secondo cui i dipendenti pubblici  che
hanno assunto l'incarico temporaneo  di  direttore  generale  di  USL
sarebbero favoriti rispetto alla generalita' degli  altri  dipendenti
pubblici, e tra di essi sarebbero favoriti soltanto coloro  i  quali,
dopo la conclusione dell'incarico, vanno in quiescenza, senza tornare
al posto di ruolo. In contrario si osserva che i pubblici  dipendenti
nominati direttore generale di USL sono pochi, raggiungono vertici di
particolare  responsabilita'  e  prestigio,  ed  hanno  una   diversa
retribuzione, cui corrisponde anche una diversa contribuzione.  Essi,
dunque, non si trovano  nelle  stesse  condizioni  dei  colleghi  che
rimangono negli  ordinari  ruoli  dei  dipendenti  pubblici,  e  cio'
giustificherebbe la diversita' del trattamento. 
    Inoltre, la norma che consente di  assumere  a  base  di  calcolo
dell'indennita'   premio   di   servizio   «un   quindicesimo   della
retribuzione contributiva degli ultimi dodici mesi  [...]»,  e  cioe'
l'art. 4  della  legge  n.  152  del  1968,  trova  applicazione  nei
confronti di tutti i dipendenti pubblici degli enti locali, e percio'
anche di coloro i quali siano stati nominati  direttore  generale  di
asl. Sarebbe dunque questa norma a produrre l'effetto  lamentato  dal
rimettente, e non il censurato art. 3-bis, comma 11,  del  d.lgs.  n.
502 del 1992, con il quale il legislatore  si  sarebbe  limitato,  in
ossequio al principio  di  uguaglianza,  a  garantire  l'applicazione
della norma stessa anche in favore dei dipendenti chiamati a svolgere
l'incarico di direttori generale, amministrativo e sanitario di USL. 
    In tutto il settore del lavoro pubblico, infatti, la retribuzione
contributiva presa a base  di  calcolo  ai  fini  della  liquidazione
dell'indennita' premio di servizio  e'  quella  degli  ultimi  dodici
mesi, e del resto, come previsto dall'art. 19 del d.lgs. n.  165  del
2001,  gli  incarichi  dirigenziali  e  la  conseguente  retribuzione
superiore sono per definizione «a termine». 
    In questa diversa prospettiva, i profili  di  incostituzionalita'
prospettati  dal  rimettente  potrebbero  al   piu'   riguardare   la
disciplina contenuta nella legge n. 152 del 1968. 
    3. - Con atto depositato il 31 ottobre 2011, si e' costituito nel
giudizio incidentale l'INPDAP, gia' resistente nel giudizio a quo, ed
ha concluso  per  l'accoglimento  della  questione,  riservandosi  di
argomentare con successiva memoria. 
    3.1. - In data 5 marzo 2012 ha  depositato  memoria  l'INPS,  nel
frattempo succeduto ex lege all'INPDAP  ai  sensi  dell'art.  21  del
decreto-legge 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni  urgenti  per  la
crescita,  l'equita'  e  il  consolidamento  dei   conti   pubblici),
convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della  legge  22
dicembre 2011, n. 214. 
    L'Istituto, dopo  aver  ripercorso  i  termini  essenziali  della
controversia e dell'ordinanza di rimessione, procede all'esame  della
questione osservando, innanzitutto, che la stessa sarebbe sicuramente
ammissibile. Le norme censurate sono state oggetto  di  scrutinio  di
costituzionalita', nella sentenza n. 351 del  2010,  con  riferimento
all'art. 76 Cost., e dunque  sotto  il  diverso  profilo  «di  natura
formale, di tecnica legislativa». 
    Le questioni odierne, che ripetono l'eccezione di  illegittimita'
costituzionale  sollevata  dal   medesimo   Istituto   nel   giudizio
principale, sarebbero del tutto diverse,  richiedendo  di  verificare
«se le  nuove  disposizioni,  nella  parte  in  cui  introducono  una
disciplina di favore per  una  sola  e  ristrettissima  categoria  di
lavoratori rispetto alla intera platea dei dipendenti pubblici, siano
o non manifestamente irragionevoli, ovvero possano ritenersi conformi
o non all'art. 3 Cost.». 
    3.2.  -  Nel  merito,   dopo   aver   esaminato   la   disciplina
dell'indennita' premio di servizio, contenuta nella legge n. 152  del
1968, la difesa  dell'INPS  richiama  l'orientamento  costante  della
giurisprudenza di legittimita'  -  a  partire  dalla  sentenza  delle
Sezioni unite n. 3673 del 1997 -, secondo il quale l'ordinamento  non
conosce una nozione di retribuzione utile  onnicomprensiva,  ai  fini
del calcolo dell'indennita' premio di servizio, potendosi considerare
a tal fine soltanto gli emolumenti indicati  espressamente  dall'art.
11 della legge n. 152 del 1968. 
    Nella  medesima  direzione,  prosegue  l'Istituto,  la  Corte  di
cassazione ha precisato che  il  particolare  regime  di  favore  che
connota l'indennita' premio  di  fine  servizio,  pari  all'ultima  e
quindi piu' alta retribuzione annua, da moltiplicarsi per  tutti  gli
anni di lavoro, viene contemperato dalla ristretta valorizzazione dei
soli emolumenti previsti dalla legge come utili (sono  richiamate  le
sentenze n. 15906 del 2004 e n. 9901 del 2003). 
    Diversamente, le norme che disciplinano il  trattamento  di  fine
rapporto, ora spettante alla  generalita'  dei  dipendenti  pubblici,
assumono a riferimento «le retribuzioni via via percepite,  e  dunque
anche quelle piu' basse, nel corso della intera vita lavorativa». 
    Sarebbe   dunque   evidente,   secondo   la   difesa   dell'INPS,
l'ingiustificata disparita' di trattamento  che,  per  effetto  delle
norme censurate, si  realizzerebbe  nell'ambito  della  categoria  di
dipendenti  delle  pubbliche   amministrazioni   ancora   beneficiari
dell'indennita' premio di fine servizio. 
    In proposito andrebbe considerato che i dipendenti  del  comparto
enti locali i quali, in costanza di  rapporto  di  pubblico  impiego,
quindi senza essere collocati in aspettativa, svolgono «mere funzioni
dirigenziali» non hanno diritto, in sede di  calcolo  dell'indennita'
premio di servizio, al riconoscimento delle somme  percepite  per  le
funzioni dirigenziali, in quanto non previste dalla legge n. 152  del
1968 (sono richiamate sul punto la  sentenza  n.  10160  del  2001  e
nuovamente le sentenze n. 9901 del 2003 e  n.  3673  del  1997  della
Corte di cassazione), ne' ai compensi percepiti per  la  direzione  o
reggenza  di  fatto,  anch'essi  non  utili  ai  fini   del   calcolo
dell'indennita' premio di servizio  (e'  richiamata  la  sentenza  n.
15498 del 2008 della Corte di cassazione). 
    In  definitiva,  osserva  la   difesa   dell'INPS,   secondo   la
giurisprudenza di  legittimita'  non  e'  ammesso,  in  generale,  il
computo di  ogni  emolumento  o  aumento  retributivo  conseguito  in
prossimita' della cessazione del rapporto di lavoro,  ai  fini  della
liquidazione dell'indennita' premio di servizio. Da cio' la manifesta
irragionevolezza della norma contenuta nell'art. 3-bis, comma 11, del
d.lgs. n.  502  del  1992,  che,  invece,  consente  di  ottenere  la
liquidazione di detta indennita' «con il computo di tutti i  notevoli
emolumenti percepiti per lo svolgimento  dell'incarico  di  direzione
generale, solo ed esclusivamente a favore di colui che e' chiamato  a
dirigere una azienda sanitaria». 
    L'irragionevolezza emergerebbe in modo ancor piu' marcato ove  si
ponga mente al fatto che l'incarico di direttore generale di  USL  e'
svolto in regime di aspettativa e con contratto di  lavoro  autonomo,
ancorche'  coordinato  con  i  fini  dell'ente  di  appartenenza  (e'
richiama la sentenza n. 3882 del 1998 delle Sezioni unite della Corte
di cassazione). 
    3.3. - La  normativa  censurata  risulterebbe  illegittima  anche
sotto l'ulteriore e diverso profilo, pure prospettato dal rimettente,
della ingiustificata  disparita'  di  trattamento  all'interno  della
stessa  categoria  di  dipendenti  pubblici   chiamati   a   svolgere
l'incarico di  direttore  generale  di  asl.  Tra  costoro,  infatti,
sarebbero privilegiati, ai fini  della  liquidazione  dell'indennita'
premio di servizio, soltanto quei lavoratori che decidono  di  andare
in pensione senza riprendere la precedente attivita': in tal caso  la
retribuzione  dell'ultimo  anno  di   attivita',   sulla   quale   e'
parametrata  l'indennita'  premio  di  servizio,  coincide  con   gli
emolumenti percepiti per l'incarico di direttore generale. 
    Nel diverso caso in cui il lavoratore riprenda l'attivita' presso
l'ente locale di appartenenza, al momento del collocamento  a  riposo
percepira' una indennita' premio di  servizio  nettamente  inferiore,
perche' parametrata alla retribuzione che avra' percepito in qualita'
di dipendente pubblico nell'ultimo anno di attivita'. 
    A parere della difesa dell'INPS «tale differenziazione non appare
sostenibile, non solo  perche'  e'  legata  ad  un  evento  futuro  e
incerto, ovvero la scelta [...] di rientrare o non in  servizio  alle
dipendenze dell'ente locale, ma anche e soprattutto perche', in  modo
assolutamente irragionevole, non consente di commisurare  la  entita'
totale della prestazione previdenziale alla qualita' ed  alla  durata
della intera attivita' svolta». 
    Per questi motivi, l'Istituto ritiene  non  condivisibile  quanto
affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 351  del  2010
(punto 5 del Considerato in diritto), e cioe' che «il  pensionamento,
e quindi il diritto alla  indennita'  di  cui  sopra  del  lavoratore
pubblico  dipendente  in  costanza  dell'incarico  esterno   e'   una
evenienza di fatto, che determina coerenti conseguenze giuridiche  ed
economiche,  mentre  diversa  e'  la  situazione   di   chi   rientri
nell'amministrazione di provenienza una volta  cessato  dall'incarico
cui ugualmente si applica l'art. 4 della legge n. 152 del  1968».  Il
pensionamento, secondo la difesa dell'INPS, non puo'  essere  ridotto
ad una mera evenienza di fatto. 
    Nella specie, poi, per  i  dipendenti  pubblici  che  al  termine
dell'incarico dirigenziale in esame  non  hanno  raggiunto  i  limiti
massimi anagrafici e contributivi, il pensionamento e'  il  risultato
di una scelta di mera convenienza, che troverebbe causa proprio nella
disciplina introdotta dal censurato art. 3-bis, comma 11, del  d.lgs.
n. 502 del 1992. 
    L'effetto premiale che consegue alla  cessazione  anticipata  dal
servizio, peraltro,  costituirebbe  un  deterrente,  per  i  soggetti
dotati  di  esperienza  e  professionalita'  tali  da  aver   assunto
incarichi  di  dirigenza  delle   aziende   sanitarie,   a   prestare
ulteriormente la propria  esperienza  lavorativa  al  servizio  delle
amministrazioni di provenienza. 
    3.4.  -  La   difesa   dell'INPS   osserva   ulteriormente   come
l'ingiustificata  disparita'   di   trattamento,   introdotta   dalla
normativa censurata, risulti «inaccettabile  anche  alla  luce  della
recentissima normativa previdenziale, tutta orientata nella direzione
del contenimento della spesa». 
    Sono  richiamati,  tra  gli  altri,  gli  interventi  legislativi
finalizzati  al  differimento  dei  termini  per  il  pagamento   dei
trattamenti  di  fine  servizio  (art.  1,  commi  22   e   23,   del
decreto-legge 13 agosto  2011,  n.  138,  recante  «Ulteriori  misure
urgenti per  la  stabilizzazione  finanziaria  e  per  lo  sviluppo»,
convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma  1,  della
legge 14 settembre  2011,  n.  148),  che  vanno  ad  aggiungersi  ai
precedenti, aventi ad oggetto le modalita'  di  liquidazione  rateale
dell'indennita' premio di servizio (art. 12, commi  da  7  a  9,  del
decreto-legge 31 maggio 2010,  n.  78,  recante  «Misure  urgenti  in
materia  di   stabilizzazione   finanziaria   e   di   competitivita'
economica», convertito, con  modificazioni,  dall'art.  1,  comma  1,
della legge 30 luglio 2010, n. 122). 
    3.5.  -  Conclusivamente,  la  difesa  dell'Istituto  segnala  la
disparita' di trattamento che, per effetto delle norme censurate,  si
realizzerebbe a  favore  della  ristretta  categoria  dei  dipendenti
pubblici   indicati   e   richiama    numerose    disposizioni    che
disciplinerebbero fattispecie in tutto analoghe a quella in esame, di
aspettativa  dei  dipendenti   pubblici   e   privati,   in   termini
diametralmente opposti a quelli previsti nelle norme censurate. 
    In particolare, l'INPS segnala che, con l'art. 1, comma  32,  del
d.l. n. 138 del 2011, il legislatore ha aggiunto  il  periodo  finale
all'art. 19, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, prevedendo che, per
la liquidazione del trattamento di fine servizio  dei  funzionari  ai
quali  e'  stato  attribuito  un  incarico   dirigenziale,   l'ultimo
stipendio va individuato nell'ultima retribuzione percepita prima del
conferimento dell'incarico dirigenziale avente durata inferiore a tre
anni. 
    Ancora, in tema di calcolo della retribuzione annua pensionabile,
l'Istituto cita l'art.  40  della  legge  4  novembre  2010,  n.  183
(Deleghe   al   Governo   in   materia   di   lavori   usuranti,   di
riorganizzazione di enti, di  congedi,  aspettative  e  permessi,  di
ammortizzatori  sociali,  di  servizi  per  l'impiego,  di  incentivi
all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile,  nonche'
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni  in  tema  di  lavoro
pubblico e di controversie di lavoro), il quale stabilisce,  ai  fini
della contribuzione figurativa per aspettative  e  permessi,  che  il
valore retributivo da attribuire per ciascuna  settimana  ai  periodi
riconosciuti figurativamente, ai fini del calcolo della  retribuzione
annua pensionabile, e' pari all'importo  della  normale  retribuzione
che  sarebbe  spettata  al  lavoratore,  in   caso   di   prestazione
lavorativa, nel mese in cui si colloca l'evento. 
    E' poi richiamato l'art. 8, ottavo comma, della legge  23  aprile
1981, n. 155 (Adeguamento delle strutture e delle  procedure  per  la
liquidazione  urgente  delle  pensioni  e  per   i   trattamenti   di
disoccupazione,  e  misure  urgenti  in   materia   previdenziale   e
pensionistica),  secondo  il  quale,  ai  lavoratori   collocati   in
aspettativa ai sensi dell'art. 31 della legge 20 maggio 1970, n.  300
(Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei  lavoratori,  della
liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro  e
norme sul collocamento), le retribuzioni da riconoscere ai  fini  del
calcolo della  pensione  sono  commisurate  alla  retribuzione  della
categoria e qualifica  professionale  posseduta  dall'interessato  al
momento del collocamento in aspettativa, adeguate in  relazione  alla
dinamica salariale e di carriera della stessa categoria e qualifica. 
    Le predette  disposizioni  renderebbero  evidente  che  le  norme
oggetto dell'odierno scrutinio contengono una disciplina,  del  tutto
eccentrica  ed  irragionevole,  del  trattamento  previdenziale   dei
dipendenti pubblici del  comparto  enti  locali,  nominati  direttori
generali di USL. 
    4. - Con atto depositato in data 29 novembre 2011, e' intervenuto
nel giudizio incidentale G.D.P. per sostenere le ragioni del  rigetto
delle  questioni.  L'interesse  all'intervento   risiederebbe   nella
qualita' di parte, che l'interveniente riveste, in  un  giudizio  nel
quale  l'INPDAP  ha  chiesto  che  siano   sollevate   questioni   di
legittimita' costituzionale in tutto analoghe alle odierne. 
    L'interveniente G.D.P. ha depositato, in data  9  febbraio  2012,
memoria  illustrativa  nella  quale   ribadisce   le   argomentazioni
sviluppate nell'atto di intervento. 
    5. - Con atto depositato il 1° dicembre 2011, e' intervenuta  nel
giudizio incidentale la Federazione italiana delle aziende  sanitarie
e ospedaliere (FIASO) per sostenere  le  ragioni  del  rigetto  delle
questioni. 
    L'interveniente F.I.A.S.O. ha depositato, in data 1°  marzo  2012
memoria illustrativa nella quale sono svolti argomenti per dimostrare
la non fondatezza delle predette questioni. 


				 
                       Considerato in diritto 

 
    1. - Con ordinanza del 26 gennaio 2011, il  Tribunale  di  Monza,
sezione lavoro, ha sollevato, in  riferimento  all'articolo  3  della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  3,
commi 2 e 3, del decreto legislativo 19 giugno 1999,  n.  229  (Norme
per la razionalizzazione del Servizio sanitario  nazionale,  a  norma
dell'articolo 1 della legge 30  novembre  1998,  n.  419),  dell'art.
3-bis, comma 11, del decreto legislativo 30  dicembre  1992,  n.  502
(Riordino  della   disciplina   in   materia   sanitaria,   a   norma
dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell'art.  2,
comma 1, lettera t), della legge 30 novembre 1998, n. 419 (Delega  al
Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario  nazionale  e
per l'adozione di un testo  unico  in  materia  di  organizzazione  e
funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al  decreto
legislativo 30 dicembre 1992, n. 502). 
    2. - Preliminarmente, deve essere  dichiarata  l'inammissibilita'
degli interventi spiegati da G.D.P., parte  di  un  procedimento  nel
quale l'INPDAP ha proposto eccezione di  legittimita'  costituzionale
finalizzata al promovimento di questioni analoghe  a  quelle  oggetto
del presente giudizio, e dalla  Federazione  italiana  delle  aziende
sanitarie e ospedaliere (FIASO). 
    Si tratta, in entrambi i casi, di soggetti estranei  al  giudizio
principale e che  non  possono  risultare  direttamente  pregiudicati
dalla presente decisione. 
    Deve quindi essere ribadita la costante giurisprudenza di  questa
Corte,  secondo  cui  nel  giudizio  incidentale   sono   ammessi   a
partecipare - oltre che il Presidente del Consiglio dei  ministri  o,
nel caso si discuta di legge regionale, il  Presidente  della  Giunta
regionale - soltanto le parti del procedimento principale ed i  terzi
portatori di un interesse  qualificato,  immediatamente  inerente  al
rapporto  sostanziale  dedotto  nel  giudizio,  e  non  semplicemente
regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di  censura  (ex
plurimis, sentenze n. 304 del 2011 e n. 96 del 2008). 
    3. - La questione non e' fondata. 
    3.1 - E' utile ricostruire  l'evoluzione  del  quadro  normativo,
anche in rapporto alla sentenza n. 351 del 2010 di questa Corte. 
    L'art. 3 del d.lgs. n. 502 del 1992 prevede, sin  dal  suo  testo
originario,  che,  per  i  pubblici  dipendenti  nominati   direttori
generali, amministrativi o sanitari  di  unita'  sanitarie  locali  e
aziende ospedaliere, il periodo di aspettativa sia «utile ai fini del
trattamento di  quiescenza  e  di  previdenza  e  dell'anzianita'  di
servizio». 
    L'art. 2, comma 1, lettera t), della legge n.  419  del  1998  ha
delegato il Governo a «rendere omogenea la disciplina del trattamento
assistenziale  e  previdenziale  dei  soggetti   nominati   direttore
generale, direttore amministrativo e direttore sanitario di  azienda,
nell'ambito dei trattamenti assistenziali  e  previdenziali  previsti
dalla legislazione vigente,  prevedendo  altresi'  per  i  dipendenti
privati l'applicazione dell'art. 3, comma  8,  secondo  periodo,  del
decreto  legislativo  30  dicembre  1992,  n.   502,   e   successive
modificazioni». 
    In attuazione di detta delega legislativa, l'art. 3, comma 3, del
d.lgs. n. 229 del 1999, ha inserito, nel citato  d.lgs.  n.  502  del
1992, l'art. 3-bis, il quale,  al  comma  11,  nel  ribadire  che  il
periodo di aspettativa e' utile ai fini del trattamento di quiescenza
e di previdenza,  stabilisce:  «le  amministrazioni  di  appartenenza
provvedono ad effettuare il versamento dei contributi previdenziali e
assistenziali  comprensivi  delle  quote  a  carico  del  dipendente,
calcolati  sul  trattamento  economico  corrisposto  per   l'incarico
conferito nei limiti dei massimali di cui all'art. 3,  comma  7,  del
decreto legislativo 24  aprile  1997,  n.  181,  e  a  richiedere  il
rimborso  di  tutto  l'onere  da  esse   complessivamente   sostenuto
all'unita' sanitaria locale o all'azienda ospedaliera interessata, la
quale procede al recupero della quota a carico dell'interessato». 
    La disposizione sopra riportata e' stata oggetto di una questione
di legittimita' costituzionale, per presunta violazione dell'art.  76
Cost., definita da questa Corte, nel senso della non fondatezza,  con
sentenza n. 351 del 2010. 
    4. - Il giudice rimettente evoca  nel  presente  giudizio  -  nei
confronti della stessa disposizione gia' scrutinata nel  procedimento
conclusosi con la citata sentenza n. 351 del 2010 - l'art.  3  Cost.,
assumendo  che  la  norma  censurata  prevederebbe   un   trattamento
irragionevolmente  privilegiato  per  una  ristretta   categoria   di
«dipendenti pubblici non  soggetti  a  t.f.r.»  -  coloro  che  hanno
assunto temporaneamente l'incarico di direttori generali delle USL  -
per i quali il computo del trattamento previdenziale  (nella  specie,
l'indennita' premio di servizio) sarebbe piu' vantaggioso nella  base
di calcolo (o retribuzione  contributiva)  rispetto  a  quello  della
generalita' dei  dipendenti  pubblici.  La  norma  censurata  avrebbe
inoltre  favorito,  all'interno  di  tale   categoria,   coloro   che
contestualmente cessano dall'incarico di  direttore  generale  e  dal
rapporto di pubblico impiego, discriminando irragionevolmente  coloro
i quali, dopo la cessazione dell'incarico e  dell'aspettativa,  hanno
invece ripreso servizio presso le amministrazioni di provenienza. 
    Il giudice a quo rileva  che,  alla  stregua  della  legislazione
vigente e della giurisprudenza di legittimita',  per  la  generalita'
dei dipendenti  pubblici  non  soggetti  a  t.f.r.,  la  retribuzione
contributiva sarebbe rigorosamente limitata agli emolumenti percepiti
nell'ultimo   anno    di    servizio    in    stretta    correlazione
all'inquadramento, senza che abbiano  alcun  rilievo  gli  emolumenti
correlati alle mansioni o incarichi  di  volta  in  volta  assegnati,
anche se eventualmente svolti per un notevole periodo di tempo, con o
senza aspettativa dal rapporto di pubblico impiego. Lo stesso giudice
ritiene di poter superare quanto  affermato  da  questa  Corte  nella
sentenza n. 351 del 2010, relativa al profilo dell'eccesso di delega,
chiedendo che, nella definizione del presente giudizio, questa  Corte
stabilisca «il punto di bilanciamento tra principi  di  uguale  rango
costituzionale, ossia quello di cui all'art. 38 Cost. e quello  della
solidarieta' sociale  ex  art.  3  Cost.  sotteso  alle  esigenze  di
contenimento della spesa pubblica e di tenuta finanziaria del sistema
previdenziale». 
    5. - Le argomentazioni del rimettente sono prive  di  fondamento,
poiche'  la  norma  censurata  non   istituisce   una   irragionevole
differenza   di   trattamento   previdenziale   -   con   riferimento
all'indennita' premio di servizio - a  favore  di  una  categoria  di
soggetti, bensi' prevede una  base  di  calcolo  unitaria  per  tutti
coloro che si trovino ad esercitare determinate  funzioni  alla  fine
della loro carriera. Il punto  di  riferimento  non  sono  quindi  le
qualita' soggettive dei dipendenti presi  in  considerazione,  ma  le
funzioni di direttore generale, amministrativo o sanitario di USL. 
    5.1. - Come e' stato chiarito nella sentenza n. 351 del  2010  di
questa Corte, l'individuazione  della  retribuzione  contributiva  in
quella percepita nell'ultimo anno di esercizio  dell'incarico  prende
le mosse dalla delega legislativa contenuta nella legge  n.  419  del
1998, che perseguiva proprio l'obiettivo di eliminare  le  diversita'
di trattamento tra soggetti che avevano esercitato, nell'ultimo  anno
di attivita', le medesime funzioni,  ma  provenivano  da  carriere  e
settori diversi della  pubblica  amministrazione.  L'unificazione  di
trattamento cosi' ottenuta doveva essere resa  applicabile  anche  ai
dipendenti privati. Con l'attuazione  della  delega,  il  legislatore
delegato ha scelto uno dei possibili mezzi per realizzare l'obiettivo
indicato  nella  legge  di  delegazione,  partendo  da  un  dato,  la
retribuzione percepita per l'incarico, sicuramente comune a  tutti  i
dipendenti, pubblici e  privati.  Non  si  tratta  dell'unica  scelta
possibile, ma la stessa non puo'  essere  considerata  manifestamente
irragionevole dal momento che realizza una completa parificazione  di
tutti i soggetti, dipendenti pubblici e privati, che  si  trovino  ad
esercitare una certa funzione, quale  che  sia  l'amministrazione  di
provenienza o il lavoro svolto nel settore privato. 
    5.2. - Con riferimento alla presunta violazione del principio  di
uguaglianza, determinata dall'asserito trattamento  privilegiato  dei
soggetti  in  questione,  rispetto  alla  generalita'   degli   altri
dipendenti pubblici, si deve osservare che la situazione dei soggetti
chiamati a svolgere l'incarico di direttore generale,  amministrativo
o sanitario di USL non e'  identica  ne'  assimilabile  a  quella  di
coloro che tali funzioni  non  svolgono,  mentre  rimane  intatto  il
principio generale secondo cui l'indennita' dovuta al dipendente alla
fine della sua  vita  lavorativa  e'  sempre  commisurata  all'ultima
retribuzione annua percepita, calcolata in ragione  dell'ottanta  per
cento, divisa per quindici, se si tratta di dipendenti di enti locali
(art. 4 della legge 8 marzo 1968, n. 152,  recante  «Nuove  norme  in
materia previdenziale per il personale  degli  Enti  locali»)  o  per
dodici, se si tratta di dipendenti  civili  e  militari  dello  Stato
(art. 3 d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, recante  «Approvazione  del
testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore  dei
dipendenti civili  e  militari  dello  Stato»).  Non  trova  pertanto
riscontro nel diritto positivo l'affermazione della difesa dell'INPS,
che fa riferimento «alle norme che  disciplinano  il  trattamento  di
fine rapporto ora spettante alla  generalita'  dei  dipendenti  delle
pubbliche amministrazioni, pari alle retribuzioni via via  percepite,
e dunque anche [a] quelle piu'  basse,  nel  corso  dell'intera  vita
lavorativa». 
    A  tale  principio  si  deve  aggiungere  l'altro  -  chiaramente
enunciato  dalla  giurisprudenza  di  legittimita',  in   conformita'
all'indirizzo  di  questa  Corte  -  «di  tendenziale  corrispondenza
proporzionale  fra  entita'  della  retribuzione  ed  entita'   della
contribuzione,   atteso   che   l'opposta   opzione    interpretativa
determinerebbe un ulteriore squilibrio fra trattamento di  quiescenza
e indennita' premio di  servizio,  sebbene  la  stessa  abbia  natura
previdenziale» (ex plurimis, Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,
ordinanza n. 28510 del 2011). E' appena il caso di ricordare che tale
squilibrio e' concreto ed  attuale,  giacche'  l'ente  previdenziale,
interveniente nel presente giudizio, sin dal  1999  tiene  conto,  ai
fini  della  determinazione  del  trattamento  pensionistico,   degli
emolumenti  percepiti  per  gli  incarichi  di  direttore   generale,
amministrativo o sanitario di USL, ma ritiene di non dover  osservare
uguale criterio  per  la  determinazione  dell'indennita'  premio  di
servizio, pur  avendo  introitato,  dal  1999  ad  oggi,  la  maggior
contribuzione corrispondente agli emolumenti medesimi. 
    5.3. - Non e' condivisibile l'argomentazione della  difesa  INPS,
secondo cui la norma censurata introdurrebbe una deroga irragionevole
al principio generale, formulato da una consolidata giurisprudenza di
legittimita', in base al quale la retribuzione  contributiva  non  e'
onnicomprensiva, ma  e'  costituita,  per  i  dipendenti  degli  enti
locali, solo dagli emolumenti tassativamente indicati  dall'art.  11,
quinto comma, della legge n. 152 del  1968  (ex  plurimis,  Corte  di
cassazione, sezione lavoro, sentenza n. 16634 del 2004). 
    A prescindere dalla considerazione che la  stessa  giurisprudenza
di legittimita' ha ritenuto - proprio in relazione alla  disposizione
censurata nel presente giudizio -  compatibile  con  l'art.  4  della
legge n. 152 del 1968 il computo di aumenti retributivi conseguiti in
prossimita'  della  cessazione  del  rapporto  di  lavoro  (Corte  di
cassazione, sezione lavoro, sentenza n.  11925  del  2008),  si  deve
rilevare che la ratio della non onnicomprensivita' della retribuzione
contributiva deve essere rinvenuta nella  considerazione,  ricorrente
nella giurisprudenza di legittimita', che «intanto un  compenso  puo'
entrare a far parte della retribuzione-parametro sulla cui base viene
liquidata   l'indennita'   premio   di   servizio   in   quanto   sia
preventivamente incluso nel coacervo su cui devono essere  versati  i
contributi» (Corte di cassazione, Sezioni unite civili,  sentenza  n.
3673 del 1997). 
    Con riferimento al presente giudizio, si deve  porre  in  rilievo
che la norma censurata include gli emolumenti relativi agli incarichi
di direttore generale, amministrativo o sanitario di USL  tra  quelli
assoggettati  a  contribuzione  previdenziale,  in  coerenza  con  il
principio generale prima  richiamato,  in  base  al  quale  non  puo'
entrare nella base di calcolo per l'indennita' dovuta  al  dipendente
alla cessazione del rapporto di lavoro alcun emolumento che  non  sia
stato preventivamente assoggettato alla  detta  contribuzione.  Anche
sotto tale profilo, la disposizione censurata dal rimettente non puo'
essere ritenuta manifestamente irragionevole, salvo naturalmente ogni
possibile intervento del legislatore, volto  ad  individuare  criteri
diversi di computo, secondo scelte di politica  economica  e  sociale
non spettanti a questa Corte. 
    5.4.  -  Quanto  alla  presunta  posizione  di   svantaggio   dei
dipendenti che  rientrino  nelle  amministrazioni  di  provenienza  o
nell'impiego privato prima della  cessazione  del  loro  rapporto  di
lavoro, si deve in questa sede ribadire quanto gia'  osservato  nella
sentenza n. 351 del 2010, che si tratta cioe' di  «una  evenienza  di
fatto, che determina coerenti conseguenze giuridiche ed  economiche».
L'attuale sistema generale di liquidazione  dell'indennita'  di  fine
rapporto per tutti i dipendenti pubblici (dello Stato  o  degli  enti
locali)  fa  esclusivo  riferimento  all'ultima  retribuzione   annua
percepita. Che poi questa evenienza di fatto possa essere  frutto  di
un «calcolo di convenienza» del dipendente, come  osserva  la  difesa
dell'INPS, non  smentisce,  anzi  conferma,  il  precedente  assunto,
giacche' le scelte individuali, operate avvalendosi di una  normativa
generale, non sono effetto necessario  delle  norme,  ma  di  private
volizioni,  che  non  rilevano  ai  fini  della   valutazione   della
legittimita' costituzionale delle norme  stesse.  Contrastare  simili
eventualita' richiede, in ogni  caso,  l'introduzione  di  specifiche
discipline, che solo il legislatore puo' formulare. 
    5.5. - Proprio allo scopo di evitare che  calcoli  opportunistici
dei  singoli  soggetti   possano   determinare   effetti   iniqui   e
ingiustificatamente gravosi per la finanza pubblica, l'art. 19, comma
2, del decreto legislativo 30 marzo  2001,  n.  165  (Norme  generali
sull'ordinamento del lavoro  alle  dipendenze  delle  amministrazioni
pubbliche),  come  modificato  dal   comma   32   dell'art.   1   del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la
stabilizzazione finanziaria  e  per  lo  sviluppo),  convertito,  con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 14  settembre  2011,
n. 148, ha stabilito che «ai fini della liquidazione del  trattamento
di fine servizio, comunque denominato, [...], l'ultimo  stipendio  va
individuato nell'ultima retribuzione percepita prima del conferimento
dell'incarico avente  durata  inferiore  a  tre  anni».  Poiche'  gli
incarichi dirigenziali, secondo la medesima disposizione, non possono
durare meno di tre anni, salvo che coincidano  con  il  conseguimento
del limite di eta' per il collocamento a riposo dell'interessato,  si
deduce che il legislatore ha voluto evitare che il conferimento di un
incarico direttivo possa determinare un trattamento di fine  rapporto
correlato quantitativamente alla maggiore retribuzione percepita  dal
soggetto incaricato, ma  solo  nell'ipotesi  che  l'incarico  stesso,
eccezionalmente, sia di durata inferiore  a  tre  anni.  Viene  cosi'
neutralizzata l'efficacia sull'indennita' premio di fine rapporto  di
un incarico  di  troppo  breve  durata,  che  potrebbe  essere  stato
conferito e assunto solo o prevalentemente in vista  della  fruizione
di un maggior beneficio in  sede  di  determinazione  della  suddetta
indennita'. Dalla citata disposizione si deduce  pure,  a  contrario,
che nell'ipotesi di incarico avente normalmente una durata da  tre  a
cinque anni, il calcolo dell'indennita' viene effettuato  secondo  il
criterio generale previsto dalle norme  vigenti,  che  lo  agganciano
all'ultima retribuzione annua percepita. 
    Con riferimento alla fattispecie oggetto del  presente  giudizio,
si deve rilevare che l'art. 3-bis, comma 8, del  d.lgs.  n.  502  del
1992, prescrive che il rapporto di lavoro del direttore generale, del
direttore amministrativo e del direttore sanitario di USL e' regolato
da contratto di durata non inferiore a tre anni  e  non  superiore  a
cinque, rinnovabile. La cautela sottesa alla norma limitativa di  cui
al precedente  capoverso  e'  pertanto  pienamente  assicurata  dalla
legislazione in materia sanitaria. Anche sotto questo profilo non  si
riscontra  quindi  una  particolare   situazione   di   irragionevole
privilegio per i soggetti in questione, rispetto alla generalita' dei
dipendenti pubblici. 
    6. - Il giudice rimettente ritiene inoltre che «soltanto la Corte
Costituzionale, come in altre occasioni ha fatto (sentenza n. 316 del
2010) puo' stabilire il punto di bilanciamento tra principi di uguale
rango costituzionale, ossia quello di cui all'art. 38 Cost. e  quello
di solidarieta' sociale ex art. 3  Cost.  sotteso  alle  esigenze  di
contenimento della spesa pubblica e di tenuta finanziaria del sistema
previdenziale». 
    Il giudice  a  quo  chiede  a  questa  Corte  cio'  che  solo  il
legislatore puo' fare, nella ponderata considerazione  delle  risorse
disponibili e delle spese destinabili al soddisfacimento dei  diritti
assistenziali e previdenziali tutelati dall'art. 38 Cost.  Quanto  al
principio di solidarieta' sociale - riferito dal rimettente  all'art.
3  e  non  invece  all'art.  2  Cost.,  nel   quale   e'   menzionato
espressamente, e comunque sotteso allo stesso art. 38 Cost. (sentenza
n.  240  del  1994,  punto  6  del  Considerato  in  diritto)  -   la
finalizzazione  "sociale"  delle  somme   risultanti   dall'eventuale
accoglimento della odierna questione sarebbe  del  tutto  generica  e
rientrerebbe, in ogni caso, nell'ampio spettro di possibilita' che si
aprono dinanzi alle scelte politiche del Parlamento  e  del  Governo,
con il solo limite della non manifesta irragionevolezza. 
    Il rimettente cita  alcune  pronunce  di  questa  Corte,  che  si
riferiscono ad interventi legislativi volti a contemperare i  diritti
di cui all'art. 38 Cost. e le esigenze di  contenimento  della  spesa
pubblica. La giurisprudenza costituzionale costante e' nel senso  che
l'art.  38  Cost.  non  esclude  la  possibilita'  di  un  intervento
legislativo che, per una inderogabile esigenza di contenimento  della
spesa pubblica, riduca un trattamento previdenziale  prima  spettante
in base alla legge (ex plurimis, sentenze n. 316 del 2010, n. 361 del
1996, n. 240 del 1994, n. 119 del 1991, n. 822 del  1988),  fermo  il
controllo di ragionevolezza sulle singole norme  riduttive.  Si  deve
escludere, viceversa, che possa essere la stessa Corte costituzionale
a statuire siffatte riduzioni di spesa per l'attuazione di diritti ex
art. 38 Cost., in nome  di  un  generico  principio  di  solidarieta'
sociale, superando  e  addirittura  ponendosi  in  contrasto  con  le
determinazioni del  legislatore.  Solo  a  quest'ultimo  spettano  le
valutazioni di politica economica attinenti alle risorse  disponibili
nei diversi momenti  storici,  mentre  e'  compito  di  questa  Corte
vigilare sul rispetto del nucleo essenziale dei diritti fondamentali,
in ipotesi incisi da interventi riduttivi dello  stesso  legislatore.
Il rovesciamento di ruoli ipotizzato dal giudice rimettente  si  pone
in contrasto con il sistema costituzionale. 
      


				 
                          Per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 

 
    dichiara  inammissibili  gli  interventi  di   G.D.P.   e   della
Federazione italiana aziende sanitarie e ospedaliere (FIASO); 
    dichiara non fondata la questione di legittimita'  costituzionale
degli articoli 3, commi 2 e 3,  del  decreto  legislativo  19  giugno
1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del  Servizio  sanitario
nazionale, a norma dell'articolo 1 della legge 30 novembre  1998,  n.
419), dell'art. 3-bis, comma 11, del decreto legislativo 30  dicembre
1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma
dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell'art.  2,
comma 1, lettera t), della legge 30 novembre 1998, n. 419 (Delega  al
Governo per la razionalizzazione del Servizio sanitario  nazionale  e
per l'adozione di un testo  unico  in  materia  di  organizzazione  e
funzionamento del Servizio sanitario nazionale. Modifiche al  decreto
legislativo 30 dicembre 1992,  n.  502),  sollevata,  in  riferimento
all'art.  3  della  Costituzione,  dal  Tribunale   di   Monza,   con
l'ordinanza in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2012. 


				 
                                F.to: 
                    Alfonso QUARANTA, Presidente 
                    Gaetano SILVESTRI, Redattore 
                   Gabriella MELATTI, Cancelliere 

 
    Depositata in Cancelleria il 10 maggio 2012. 


				 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                       F.to: Gabriella MELATTI