N. 166 SENTENZA 20 - 27 giugno 2012

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Impiego pubblico - Incompatibilita'  -  Esercizio  della  professione
  forense - Reintroduzione del  divieto  per  i  dipendenti  pubblici
  part-time con orario fino al 50% di quello a tempo pieno - Eccepito
  difetto di  motivazione  sulla  non  manifesta  infondatezza  della
  questione - Reiezione. 
- Legge 25 novembre 2003, n. 339, artt. 1 e 2. 
- Costituzione, artt. 3, 4, 35 e 41. 
Impiego pubblico - Incompatibilita'  -  Esercizio  della  professione
  forense - Reintroduzione del  divieto  per  i  dipendenti  pubblici
  part-time con orario fino al 50% di quello a tempo pieno - Eccepito
  difetto di rilevanza della norma sospettata  di  illegittimita'  ai
  fini della definizione del giudizio principale - Reiezione. 
- Legge 25 novembre 2003, n. 339, artt. 1 e 2. 
- Costituzione, artt. 3, 4, 35 e 41. 
Impiego pubblico - Incompatibilita'  -  Esercizio  della  professione
  forense - Reintroduzione del  divieto  per  i  dipendenti  pubblici
  part-time con orario  fino  al  50%  di  quello  a  tempo  pieno  -
  Eccezione  delle  parti  private  di  erroneita'  del   presupposto
  interpretativo  per   omessa   interpretazione   costituzionalmente
  orientata - Reiezione. 
- Legge 25 novembre 2003, n. 339, artt. 1 e 2. 
- Costituzione, artt. 3, 4, 35 e 41. 
Impiego pubblico - Incompatibilita'  -  Esercizio  della  professione
  forense - Reintroduzione del  divieto  per  i  dipendenti  pubblici
  part-time con orario  fino  al  50%  di  quello  a  tempo  pieno  -
  Lamentata  lesione  del   legittimo   affidamento   fondato   sulla
  situazione  normativa  preesistente  -  Asserita   violazione   del
  principio di ragionevolezza, nonche' del diritto al lavoro e  della
  liberta' di iniziativa economica - Insussistenza -  Non  fondatezza
  delle questioni. 
- Legge 25 novembre 2003, n. 339, artt. 1 e 2. 
- Costituzione, artt. 3, 4, 35 e 41. 
(GU n.27 del 4-7-2012 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Alfonso QUARANTA; 
Giudici :Franco GALLO,  Luigi  MAZZELLA,  Gaetano  SILVESTRI,  Sabino
  CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe  FRIGO,
  Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,
  Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale degli articoli 1  e  2
della  legge  25  novembre  2003,  n.  339  (Norme  in   materia   di
incompatibilita'  dell'esercizio  della  professione  di   avvocato),
promossi dalla Corte di cassazione con  ordinanze  del  6  e  del  22
dicembre 2010, iscritte ai nn. 55 e 56 del registro ordinanze 2011  e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  15,  prima
serie speciale, dell'anno 2011. 
    Visti gli atti di costituzione di P. M., di F. F. ed altra  e  di
T. D., nonche' gli atti di intervento del  Presidente  del  Consiglio
dei ministri; 
    udito nell'udienza pubblica del 22 maggio 2012 e nella camera  di
consiglio del 23 maggio 2012 il Giudice relatore Luigi Mazzella; 
    uditi gli  avvocati  Maurizio  Perelli  per  se  medesimo,  Marco
Frigessi Di Rattalma per T. D., Flora de Caro per F. F.  ed  altra  e
l'avvocato dello Stato Tito Varrone per il Presidente  del  Consiglio
dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- La  Corte  di  cassazione,  sezioni  unite  civili,  con  due
ordinanze di identico contenuto del 6 dicembre 2010, iscritte ai  nn.
55 e 56 del  registro  ordinanze  2011,  ha  sollevato  questioni  di
legittimita' costituzionale, sia in relazione agli articoli 3, 4,  35
e 41 della  Costituzione,  sia  in  riferimento  al  parametro  della
ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3,  secondo  comma,  Cost.,
degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339  (Norme  in
materia  di  incompatibilita'  dell'esercizio  della  professione  di
avvocato). 
    L'art. 1 dispone che le norme contenute nell'art.  1,  commi  56,
56-bis e 57,  della  legge  23  dicembre  1996,  n.  662  (Misure  di
razionalizzazione  della   finanza   pubblica)   non   si   applicano
all'iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali «restano fermi i
limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n.
1578». Il successivo art. 2 impone agli avvocati dipendenti  pubblici
a tempo parziale che hanno ottenuto  l'iscrizione  sulla  base  della
normativa del 1996 di scegliere, nel termine  di  tre  anni,  fra  il
mantenimento del rapporto di pubblico impiego,  che  in  questo  caso
ritorna ad essere a tempo pieno (comma  2),  ovvero  il  mantenimento
dell'iscrizione all'albo degli avvocati, con  contestuale  cessazione
del rapporto di pubblico impiego (comma 3). In  questo  secondo  caso
l'ormai ex dipendente  conserva  per  cinque  anni  il  diritto  alla
riammissione (comma 4). L'art. 2, comma 1, inoltre, dispone  che,  in
caso di mancato  esercizio  dell'opzione  tra  libera  professione  e
pubblico impiego,  i  consigli  dell'ordine  territoriali  provvedano
d'ufficio alla cancellazione. 
    1.1.- Riferisce la  Corte  rimettente  che  i  ricorrenti,  tutti
pubblici dipendenti a tempo parziale, erano stati iscritti  nell'albo
degli avvocati in virtu' della disposizione di cui all'art. 1,  comma
56, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, che consentiva tale  doppia
attivita'; che a  seguito  dell'entrata  in  vigore  della  legge  25
novembre 2003, n. 339, di modifica  della  precedente,  essi  avevano
manifestato la loro intenzione di continuare a mantenere il  rapporto
di pubblico impiego, esercitando nel contempo anche la professione di
avvocato; che  i  consigli  dell'ordine  territoriali,  ritenendo  la
sussistenza  della   incompatibilita',   ne   avevano   ordinato   la
cancellazione dai rispettivi albi, con decisioni  poi  impugnate  con
esito negativo davanti al Consiglio nazionale forense; che avverso le
separate pronunce di questo i soccombenti  avevano  proposto  singoli
ricorsi per cassazione affidati a numerosi motivi. 
    Secondo il giudice a quo, la disposizione riguarda  senza  dubbio
la situazione di coloro i quali, come gli attuali ricorrenti, avevano
ottenuto l'iscrizione all'albo degli  avvocati  successivamente  alla
data di entrata in vigore della  legge  23  dicembre  1996,  n.  662,
passata indenne al vaglio della Corte costituzionale (sentenza n. 189
del 2001), e risultavano ancora iscritti. 
    A  giudizio  della  Corte  rimettente,  il  dato  normativo   non
autorizza una interpretazione diversa da quella imposta dal testo con
una formula sufficientemente  chiara,  cui  si  erano  uniformate  le
decisioni impugnate. Donde la rilevanza delle questioni. 
    1.2.-  Ritenuta  la  manifesta   infondatezza   delle   questioni
concernenti l'asserita violazione  della  normativa  comunitaria  con
riferimento, in  particolare,  ai  principi  di  eguaglianza,  libera
prestazione di servizi, tutela della concorrenza, diritti  quesiti  e
ragionevolezza, la Corte di cassazione  si  sofferma  sul  denunciato
contrasto delle disposizioni in esame con i  parametri  di  cui  agli
artt. 3, 4, 35 e 41 Cost. 
    In particolare,  la  Corte  rimettente  sospetta  che  sia  stato
violato il legittimo affidamento riposto dai  soggetti  che  gia'  si
trovavano nello stato di avvocati  e  dipendenti  pubblici  part-time
nella possibilita' di proseguire nel tempo nel mantenimento  di  tale
duplice stato. 
    La lesione prospettata sarebbe resa evidente dalla  vanificazione
della scelta compiuta dai predetti soggetti sulla base di una precisa
previsione normativa (a suo  tempo  ritenuta  legittima  dalla  Corte
costituzionale),  frutto  di  un  indirizzo  legislativo  di  riforma
chiaramente  e  logicamente  di  lungo  termine.  Donde  gli  effetti
pregiudizievoli per chi, come loro, aveva fatto sicuro e giustificato
affidamento di mantenere nel tempo la  nuova  situazione  lavorativa;
effettuato   investimenti   per   iniziare   la    nuova    attivita'
professionale; modificato  il  proprio  stile  di  vita;  sacrificato
possibili miglioramenti nella carriera di pubblico dipendente. 
    In questa prospettiva, la deroga temporale prevista  dall'art.  2
della legge n. 339 del 2003 in ordine  all'efficacia  del  regime  di
incompatibilita' (con la concessione di un termine di  tre  anni  per
esercitare l'opzione imposta tra pubblico impiego ed esercizio  della
professione forense e con  la  possibilita',  nel  secondo  caso,  di
riammissione in servizio nei successivi  cinque  anni),  sarebbe,  in
se', insufficiente, atteso che  la  tutela  dei  pubblici  dipendenti
iscritti all'albo degli avvocati sarebbe circoscritta ad un  limitato
periodo, decorso il quale sarebbe destinato a riespandersi il divieto
gia' rimosso da una precedente legge. 
    1.3.- Nel giudizio iscritto al n. 55 del 2011 si  sono  costituti
gli avvocati M. P., F. F. e L. C., nonche' D. T., con atti depositati
rispettivamente l'11, il 19 ed il 21 aprile 2011. 
    1.3.1.- Gli avvocati M. P. e D. T. chiedono in via principale che
la  Corte  costituzionale  rigetti  le  questioni   di   legittimita'
prospettate  dal  giudice  rimettente,   in   quanto   manifestamente
infondate  per  l'erroneita'  del   presupposto   interpretativo   di
partenza.  A  loro  avviso,  infatti,  secondo  una   interpretazione
costituzionalmente  orientata  da   preferire   a   quella   adottata
nell'ordinanza di rimessione, la legge n. 339 del 2003  non  sancisce
alcuna incompatibilita' all'esercizio della professione forense per i
dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a part-time  ridotto  (non
superiore  al  50%  dell'orario  ordinario  di  lavoro)  che  vennero
iscritti negli albi forensi ex art. 1, commi  56  e  seguenti,  della
legge n. 662  del  1996,  ma  introduce  solamente,  per  il  periodo
successivo alla sua entrata in vigore, un  divieto  d'iscrizione  nei
predetti albi per ulteriori dipendenti pubblici a tempo parziale come
sopra ridotto. 
    In  via  gradata,   le   suddette   parti   private   eccepiscono
l'inammissibilita' delle questioni  prospettate  dal  rimettente  per
mancanza di rilevanza. Cio', in quanto il giudice a quo  non  avrebbe
preventivamente  verificato  la  praticabilita'  di   una   ulteriore
interpretazione del quadro normativo  e,  segnatamente,  non  avrebbe
riconosciuto l'operativita' nei loro riguardi dell'art. 14-bis  della
legge 4 febbraio 2005, n. 11  (Norme  generali  sulla  partecipazione
dell'Italia  al  processo  normativo  dell'Unione  europea  e   sulle
procedure di esecuzione degli obblighi comunitari). Alla  stregua  di
tale  disposizione,  istitutiva  di  un  divieto  di  discriminazione
cosiddetta  "al  contrario",  l'avvocato  "stabilito"  e   l'avvocato
"integrato" non potrebbero essere dipendenti,  titolari  d'impiego  o
ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello  Stato  italiano,
delle Province  italiane,  dei  Comuni  italiani,  delle  istituzioni
pubbliche di beneficenza  italiane,  della  Banca  d'Italia,  nemmeno
part-time,  perche'  tenuti  a  rispettare   l'art.   3   del   regio
decreto-legge  27  novembre  1933,   n.   1578   (Ordinamento   delle
professioni  di  avvocato  e  procuratore),  ma   potrebbero   essere
dipendenti di corrispondenti istituzioni pubbliche nello Stato membro
di acquisizione  della  qualifica  professionale  di  avvocato.  Tale
discriminazione "alla  rovescia"  in  tema  di  incompatibilita'  non
sarebbe piu' consentita  nei  confronti  degli  avvocati  italiani  e
imporrebbe che "non trovi applicazione" la disposizione  della  legge
n. 339 del 2003,  in  base  alla  quale  i  ricorrenti  nel  giudizio
principale erano stati cancellati dall'albo. 
    In  ulteriore  subordine,  secondo  i  succitati  ricorrenti  nel
giudizio  a  quo,  la  Corte   costituzionale   dovrebbe   dichiarare
illegittime le disposizioni di legge in esame in riferimento a  tutti
i parametri di costituzionalita' prospettati dal giudice  rimettente.
Difatti, gli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost. impedirebbero  al  legislatore
di  reintrodurre  una  incompatibilita'  per   i   "vecchi   avvocati
part-time", travolgendo  il  loro  sedimentato  affidamento  in  quel
ragionevole e coerente sistema prefigurato dal regime previgente. 
    1.3.2.- Anche gli avvocati F. F. e L. C. hanno insistito  per  la
declaratoria d'illegittimita' costituzionale  della  disposizione  di
legge in esame per contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost., sulla
base  di  considerazioni  largamente  coincidenti  con  quelle  sopra
richiamate. 
    1.4.- Con atti depositati il 26 aprile  2010  e'  intervenuto  in
entrambi  i  giudizi  il  Presidente  del  Consiglio  dei   ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, instando
per la  dichiarazione  di  inammissibilita'  e/o  infondatezza  delle
questioni in esame. 
    1.4.1.- Quanto ai parametri tratti dagli artt. 4, 35 e 41  Cost.,
rileva  preliminarmente  la  difesa  dello  Stato   il   difetto   di
motivazione delle ragioni per le quali le norme  censurate  sarebbero
contrarie alla Costituzione in riferimento ad essi. Osserva, inoltre,
che, in caso di ritenuta  ammissibilita'  delle  suddette  questioni,
l'enunciazione della relativa non fondatezza sarebbe gia'  ricavabile
dalla sentenza n. 390 del 2006. 
    1.4.2.- La difesa dello Stato premette che la scelta di escludere
la professione forense dal novero di quelle accessibili ai dipendenti
part-time  rientra  nella   discrezionalita'   del   legislatore   di
conformare secondo certe modalita' lo  svolgimento  del  rapporto  di
pubblico impiego. Scelta gia' ritenuta dalla Corte costituzionale non
manifestamente irragionevole (sentenza n. 390 del 2006). 
    Secondo  l'Avvocatura   generale   dello   Stato,   inoltre,   la
disposizione censurata sarebbe conforme alla  Costituzione  anche  in
relazione al principio della  tutela  dell'affidamento.  Difatti,  il
legislatore, mediante la disciplina transitoria dettata  dall'art.  2
della legge n. 339 del 2003, avrebbe  dato  effettiva  considerazione
alla  posizione  differenziata  di  coloro  che  avevano  scelto   la
professione  forense  sulla  base  della  legge  n.  662  del   1996,
concedendo loro una duplice opzione entro un termine sufficientemente
ampio al fine di ovviare agli  effetti  pregiudizievoli  della  norma
indicati dall'ordinanza di rimessione. 
    1.5.- Con  memorie  depositate  in  prossimita'  dell'udienza  le
difese  dei  ricorrenti  nel  giudizio  a  quo   hanno   ribadito   e
ulteriormente sviluppato le argomentazioni gia' svolte negli atti  di
costituzione a sostegno delle conclusioni ivi rassegnate. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Con  due  ordinanze  di  identico  contenuto,  la  Corte  di
cassazione,  sezioni  unite  civili,  ha   sollevato   questioni   di
legittimita' costituzionale, sia in relazione agli articoli 3, 4,  35
e 41 della  Costituzione,  sia  in  riferimento  al  parametro  della
ragionevolezza intrinseca  di  cui  all'articolo  3,  secondo  comma,
Cost., degli articoli 1 e 2 della legge  25  novembre  2003,  n.  339
(Norme  in   materia   di   incompatibilita'   dell'esercizio   della
professione di avvocato). 
    2.- I due giudizi, di identico oggetto, possono essere riuniti  e
decisi con unica sentenza. 
    3.- L'art. 1 della legge censurata prevede che  «Le  disposizioni
di cui all'articolo 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre
1996, n.  662,  non  si  applicano  all'iscrizione  agli  albi  degli
avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti  di  cui  al
regio decreto-legge  27  novembre  1933,  n.  1578,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 22  gennaio  1934,  n.  36,  e  successive
modificazioni». 
    In particolare, l'art. 1 della legge 23  dicembre  1996,  n.  662
(Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) recita al  comma
56: «Le disposizioni di cui all'articolo 58,  comma  1,  del  decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29,  e  successive  modificazioni  ed
integrazioni [Incompatibilita', cumulo di impieghi e incarichi per  i
dipendenti  pubblici],  nonche'  le  disposizioni  di  legge   e   di
regolamento che vietano l'iscrizione in  albi  professionali  non  si
applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con  rapporto
di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non  superiore
al 50 per cento di quella a tempo pieno». E prosegue al comma 56-bis:
«Sono abrogate le disposizioni che vietano  l'iscrizione  ad  albi  e
l'esercizio di attivita' professionali per i soggetti di cui al comma
56. Restano ferme le altre disposizioni in materia di  requisiti  per
l'iscrizione ad albi professionali e per l'esercizio  delle  relative
attivita'. Ai dipendenti pubblici iscritti ad  albi  professionali  e
che esercitino attivita' professionale non possono  essere  conferiti
incarichi professionali dalle amministrazioni pubbliche;  gli  stessi
dipendenti non possono assumere il patrocinio in  controversie  nelle
quali sia parte una pubblica amministrazione». 
    Cio' significa che la legge censurata -  diversamente  da  quanto
precedentemente previsto dall'art. 1, commi 56 e 56-bis, della  legge
n. 662 del 1996 - non consente  piu'  l'esercizio  della  professione
forense ai dipendenti pubblici part-time con orario fino  al  50%  di
quello a tempo pieno. Per coloro i quali,  gia'  pubblici  dipendenti
(part-time), avevano ottenuto l'iscrizione dopo la data di entrata in
vigore della legge n. 662 del 1996, l'art. 2  della  legge  censurata
pone  la  seguente  disciplina  transitoria:  a)   opzione   per   il
mantenimento del  rapporto  d'impiego,  da  comunicare  al  consiglio
dell'ordine d'iscrizione entro trentasei mesi, pena la  cancellazione
dall'albo, con diritto alla reintegrazione nel rapporto di  lavoro  a
tempo pieno; b) opzione, entro lo stesso termine, per  la  cessazione
del rapporto d'impiego  e  conseguente  mantenimento  dell'iscrizione
all'albo degli avvocati, salva  la  conservazione  per  un  ulteriore
quinquennio del diritto alla riammissione in servizio a  tempo  pieno
entro tre mesi dalla richiesta. 
    La Corte rimettente denuncia il vulnus a suo dire  inferto  dalla
legge censurata al legittimo affidamento, riposto  dai  soggetti  che
gia'  si  trovavano  nello  stato  di   avvocati   part-time,   nella
possibilita' di proseguire nel tempo nel mantenimento di detto stato,
sospettando che l'assetto degli  interessi  in  questione  sia  stato
realizzato  dalla  normativa   in   esame   sacrificando   situazioni
soggettive ormai consumatesi.  In  tal  modo,  l'affidamento  fondato
sulla situazione normativa preesistente sarebbe stato  a  suo  avviso
arbitrariamente  frustrato,   con   violazione   del   principio   di
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.,  nonche',  in  ragione  degli
interessi nella specie coinvolti, degli  artt.  4,  35  e  41  Cost.,
relativi alle garanzie  del  lavoro  e  della  liberta'  d'iniziativa
economica. 
    4.- Va, innanzitutto, sgomberato il campo dai profili preliminari
d'inammissibilita' o infondatezza delle questioni  prospettati  dalle
difese dello Stato e delle parti private. 
    4.1.-   L'Avvocatura   generale   dello   Stato    ha    eccepito
l'inammissibilita' delle questioni sollevate in relazione agli  artt.
4, 35 e 41  Cost.  per  difetto  di  motivazione,  in  punto  di  non
manifesta infondatezza. 
    Il rilievo, tuttavia, non e'  esatto,  perche'  una  motivazione,
ancorche' stringata, puo' esservi nondimeno rinvenuta. 
    A ben vedere, inoltre, nel ragionamento della Corte rimettente  i
suddetti parametri servono piu' che  altro  ad  evocare  il  sostrato
degli   interessi   costituzionalmente   protetti   coinvolti   dalla
denunciata lesione - per asserita irragionevolezza ex  art.  3  Cost.
dell'intervento di modifica legislativa in oggetto  -  del  legittimo
affidamento  suscitato  nei  ricorrenti  nel  giudizio  a  quo  dalla
situazione normativa preesistente. 
    Pertanto, anche alla luce di una  considerazione  sostanzialmente
integrata dei vizi denunciati  dalla  Corte  rimettente,  l'eccezione
d'inammissibilita' dev'essere disattesa. 
    4.2.- Alcune delle parti private sostengono, in  limine,  che  la
Corte rimettente  avrebbe  dovuto  decidere  il  ricorso  senza  fare
applicazione dell'art. 2 della  legge  n.  339  del  2003.  Rilevano,
infatti,  che,  diversamente  dagli  avvocati  italiani,   i   legali
"stabiliti" e  "integrati",  pur  non  potendo  lavorare  in  Italia,
neppure part-time,  alle  dipendenze  ovvero  in  veste  di  titolari
d'impiego o ufficio retribuito a  carico  del  bilancio  dello  Stato
italiano (come pure delle Province  italiane,  dei  Comuni  italiani,
delle istituzioni pubbliche di beneficenza  italiane  o  della  Banca
d'Italia),  perche'  tenuti  a  rispettare   l'art.   3   del   regio
decreto-legge  27  novembre  1933,   n.   1578   (Ordinamento   delle
professioni  di  avvocato  e  procuratore),  potrebbero,   nondimeno,
rimanere dipendenti delle corrispondenti istituzioni pubbliche  dello
Stato  membro  di  acquisizione  della  qualifica  professionale.  Si
verificherebbe, in tal modo, una discriminazione  "al  contrario"  in
tema d'incompatibilita'.  Discriminazione  che,  ai  sensi  dell'art.
14-bis della legge 4 febbraio  2005,  n.  11  (Norme  generali  sulla
partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'Unione  europea
e sulle procedure  di  esecuzione  degli  obblighi  comunitari),  non
sarebbe piu' ammessa nei confronti degli avvocati  italiani  (in  tal
senso, appunto, "alla rovescia"), si' da  imporre  l'inapplicabilita'
della disposizione della legge n. 339 del 2003  in  base  alla  quale
tutti  i  ricorrenti  nel  giudizio  a  quo  erano  stati  cancellati
dall'albo. Donde  l'inammissibilita'  delle  proposte  questioni  per
difetto di rilevanza della norma sospettata d'illegittimita' ai  fini
della definizione del giudizio principale. 
    L'eccezione dev'essere rigettata. 
    Difatti, secondo quanto ritenuto da questa Corte (sentenza n. 390
del 2006), la normativa  nazionale  di  recepimento  della  direttiva
intesa ad  agevolare  l'esercizio  permanente  della  professione  di
avvocato in uno Stato membro diverso da quello di acquisizione  della
qualifica professionale prevede  espressamente  che  tutte  le  norme
sulle incompatibilita' si applicano anche all'avvocato "stabilito"  o
"integrato", ivi comprese, riguardo ai contratti di lavoro  con  enti
corrispondenti nello Stato di origine, le eccezioni di  cui  all'art.
3, quarto comma, del r.d.l. n. 1578 del 1933 (art. 5,  comma  2,  del
d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, recante  «Attuazione  della  direttiva
98/5/CE volta a facilitare l'esercizio permanente  della  professione
di avvocato in uno Stato membro diverso da quello  in  cui  e'  stata
acquisita la qualifica professionale»). 
    Cio' non potrebbe essere altrimenti,  atteso  che  la  disciplina
delle incompatibilita' in tema di ordinamento  professionale  forense
(art. 3 del r.d.l. n. 1578 del 1933) - secondo il diritto vivente che
ne  risulta  dalla  giurisprudenza  di  legittimita'   -   dev'essere
interpretata  con  estremo  rigore,  in  coerenza  con  la  ratio  di
garantire  l'autonomo  e   indipendente   svolgimento   del   mandato
professionale.  Sicche',  ai  fini   dell'incompatibilita'   tra   la
professione di avvocato ed ogni impiego retribuito, non  rilevano  la
natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro, bensi'  la  sua
relativa stabilita'  e,  quando  non  si  tratti  di  prestazioni  di
carattere scientifico o letterario, la sua  remunerazione  in  misura
predeterminata,   in   ragione   della   continuita'   del   rapporto
professionale (Corte di cassazione, sezioni unite civili,  24  giugno
2009, n. 14810). 
    D'altro canto, la  Corte  di  giustizia  dell'Unione  europea  ha
desunto, altresi', dall'art. 8  della  direttiva  16  febbraio  1998,
98/5/CE (Direttiva del Parlamento europeo e  del  Consiglio  volta  a
facilitare l'esercizio permanente della professione  di  avvocato  in
uno Stato membro diverso da quello in  cui  e'  stata  acquistata  la
qualifica) che lo Stato membro ospitante possa imporre agli  avvocati
ivi iscritti, che siano impiegati (vuoi a tempo pieno, vuoi  a  tempo
parziale) presso un altro avvocato,  un'associazione  o  societa'  di
avvocati oppure un'impresa pubblica  o  privata,  talune  restrizioni
all'esercizio concomitante  della  professione  forense  e  di  detto
impiego. E per  "impresa  pubblica"  -  secondo  la  sua  consolidata
giurisprudenza   -    deve    intendersi    ogni    ente    integrato
nell'amministrazione  pubblica  esercente  attivita'   di   carattere
economico e non rientrante nell'esercizio di prerogative dei pubblici
poteri. Fermo restando che il diritto dell'Unione, invece,  non  vale
per gli impieghi che comportino una partecipazione  all'esercizio  di
pubblici  poteri  e  presuppongano,   quindi,   l'esistenza   di   un
particolare rapporto con lo Stato.  Muovendo  da  tali  premesse,  la
Corte di Lussemburgo e' giunta alla conclusione che la legge  n.  339
del 2003, non risultando applicabile esclusivamente agli avvocati  di
origine italiana, non produca  in  tal  modo  alcuna  discriminazione
"alla rovescia" (Corte  di  giustizia  dell'Unione  europea,  sezione
quinta, 2 dicembre  2010,  in  causa  C-225/2009,  Jakubowska  contro
Maneggia, punto 63). 
    4.3.- Le medesime parti private denunciano, inoltre, l'erroneita'
del  presupposto  interpretativo  adottato  dalla  Corte  rimettente,
desumendone la non fondatezza delle questioni proposte alla  luce  di
un'interpretazione  in  tesi   costituzionalmente   orientata   della
normativa censurata. A loro avviso, infatti, la legge n. 339 del 2003
dovrebbe essere letta nel senso che coloro i quali,  gia'  dipendenti
pubblici a tempo pieno, avessero trasformato il rapporto di lavoro in
part-time, e quindi ottenuto l'iscrizione all'albo  in  virtu'  della
legge n. 662 del 1996, avrebbero  potuto  continuare  a  svolgere  la
professione e mantenere il rapporto  di  impiego  a  tempo  parziale,
dichiarando di voler  "approfittare"  dell'opportunita'  offerta  dal
comma 1 dell'art. 2 della legge censurata entro trentasei mesi  dalla
data della sua entrata in vigore. In tale cornice,  la  cancellazione
di cui all'ultimo  periodo  della  previsione  in  discorso  dovrebbe
essere  intesa  alla  stregua  di  una  sanzione   per   la   mancata
collaborazione alla realizzazione delle condizioni necessarie per  un
serio controllo, da parte dei consigli degli ordini  degli  avvocati,
sul  rispetto  dei  limiti  all'attivita'  forense   degli   avvocati
part-time posti dalla legge n. 662 del 1996. 
    L'assunto non puo' essere condiviso. 
    Invero, il significato letterale e sistematico della formulazione
della novella non consente altra ricostruzione esegetica che quella -
coerente con il reintrodotto  divieto  di  svolgimento  contemporaneo
delle due attivita' - dell'imposizione di una scelta per l'una o  per
l'altra, da esprimere entro  un  determinato  periodo,  a  quanti  si
fossero  trovati  nella  condizione,  ora  non  piu'  consentita,  di
pubblici dipendenti (part-time) e di avvocati.  Percio',  in  accordo
con quanto ritenuto in proposito  dalla  Corte  rimettente,  il  dato
normativo e' assolutamente  chiaro  nel  prescrivere  l'esercizio  di
un'opzione (tra l'esercizio esclusivo della professione forense e  la
prestazione di lavoro pubblico a tempo pieno) a tutti coloro i  quali
(come i ricorrenti nel giudizio principale) avessero  ottenuto  nella
posizione di dipendenti pubblici  (part-time)  l'iscrizione  all'albo
degli avvocati, con beneficio di una  fase  di  transizione  per  una
migliore ponderazione della scelta definitiva. 
    5.- Le questioni non sono fondate. 
    5.1.- Questa Corte ha gia' dato risposta  negativa  ai  dubbi  di
legittimita' costituzionale della normativa in oggetto  (sentenza  n.
390 del 2006), con riguardo agli artt. 4  e  35  Cost.  Ha,  infatti,
statuito che essi, nel garantire il diritto al lavoro,  ne  rimettono
l'attuazione, quanto ai tempi e ai modi,  alla  discrezionalita'  del
legislatore, che,  nella  specie,  non  puo'  dirsi  avere  malamente
esercitato il suo potere. Tant'e' che nemmeno il diritto dell'Unione,
segnatamente rispetto ai profili di limitazione all'accesso al lavoro
in astratto ravvisabili nella disciplina oggetto di censura, e' stato
giudicato di ostacolo ad una  normativa  nazionale  (come  quella  in
oggetto, appunto) che preclude l'esercizio della professione  forense
ai dipendenti pubblici  a  tempo  parziale.  E  cio',  in  quanto  un
siffatto divieto «rientra  nelle  regole  di  cui  all'art.  8  della
direttiva 98/5, almeno nei limiti in cui [...]  concerne  l'esercizio
concomitante  della  professione  forense  e  di  un  impiego  presso
un'impresa pubblica»  (Corte  di  giustizia  UE,  sezione  quinta,  2
dicembre 2010, in causa C-225/2009, punto 60). 
    5.2.- Anche in relazione all'asserito  contrasto  con  l'art.  41
Cost., questa Corte  ne  ha  escluso  la  sussistenza.  I  dipendenti
pubblici (come rimarca la stessa  Corte  rimettente  a  motivo  della
ritenuta manifesta infondatezza delle questioni relative alla dedotta
violazione   del   diritto   comunitario)   «non   svolgono   servizi
configuranti un'attivita' economica e  la  loro  attivita'  non  puo'
essere considerata come quella di un'impresa». Sicche', la  legge  n.
339 del 2003 incide non tanto sulle modalita' di organizzazione della
professione  forense  in   termini   rispettosi   dei   principi   di
concorrenza, quanto sul modo di  svolgere  il  servizio  presso  enti
pubblici,  ai  fini  del  soddisfacimento   dell'interesse   generale
all'esecuzione della prestazione di lavoro pubblico secondo canoni di
imparzialita' e buon andamento, oltre che ad  un  corretto  esercizio
della professione legale. 
    5.3.-  Neppure  v'e'  lesione  dell'affidamento  con  riferimento
all'art. 3 Cost. 
    5.3.1.- Questa Corte aveva ritenuto non fondate le  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi  56  e  56-bis,  della
legge n. 662 del 1996, ossia della normativa favorevole  al  "cumulo"
dell'impiego  pubblico  ad  orario  ridotto  con  l'esercizio   della
professione legale, in relazione, tra gli altri parametri, all'art. 3
Cost., e  proprio  sotto  il  profilo  della  "assoluta  mancanza  di
ragionevolezza e logicita'" delle denunciate disposizioni, in quanto,
secondo la ricostruzione della disciplina allora offerta dalla Corte,
le esigenze  di  contenimento  della  spesa  pubblica  (cui  non  era
insensibile la normativa in esame)  non  andavano  a  detrimento  del
diritto di difesa, ne' dei principi d'imparzialita' e buon  andamento
dell'amministrazione (sentenza n. 189 del 2001). 
    Successivamente, pero', questa Corte, investita  delle  questioni
di    legittimita'    della    nuova    normativa    (sostanzialmente
ripristinatoria del divieto di esercizio della professione forense  a
carico dei dipendenti pubblici, ancorche' part-time), ha ritenuto non
(manifestamente) irragionevole quest'ultima opzione  legislativa.  Il
fatto  che  l'esercizio  dell'attivita'  professionale  da  parte  di
pubblici dipendenti (a tempo parziale ridotto  entro  il  50%)  fosse
stato in precedenza  giudicato  non  assolutamente  irragionevole  ed
illogico   non   poteva   inibire   al   legislatore,    nella    sua
discrezionalita',  di  reintrodurre  per  i   medesimi   il   divieto
d'iscrizione agli albi degli avvocati. Sicche', il divieto de quo  e'
stato ritenuto coerente «con  la  caratteristica  -  peculiare  della
professione forense (tra quelle  il  cui  esercizio  e'  condizionato
all'iscrizione  in  un  albo)  -dell'incompatibilita'  con  qualsiasi
"impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di  opera
di  assistenza  o  consulenza  legale,  che   non   abbia   carattere
scientifico o letterario" (art. 3 del r.d.l.  27  novembre  1933,  n.
1578,  recante  "Ordinamento  delle   professioni   di   avvocato   e
procuratore")» (sentenza n. 390 del 2006). 
    La questione e'  rimasta,  nondimeno,  aperta  per  i  dipendenti
pubblici part-time i quali, sulla base delle regole "permissive"  del
1996, avevano affiancato al rapporto  di  lavoro  pubblico  l'impegno
professionale forense. 
    Ad avviso della Corte rimettente, la legge censurata  -  malgrado
le disposizioni transitorie ivi contenute - urterebbe contro l'art. 3
Cost.,  violando  l'affidamento  consolidato  in  capo  ai   suddetti
soggetti nella possibilita'  di  continuare  per  sempre  a  svolgere
entrambe le  attivita',  tanto  da  far  acquisire  agli  stessi  «la
sicurezza della  permanenza  nel  tempo  dello  status  di  impiegato
pubblico part-time e di avvocato». 
    5.3.2.-  Il  dubbio   relativo   all'asserito   affidamento   dei
dipendenti pubblici part-time gia' legittimamente  iscritti  all'albo
degli avvocati e' privo di fondamento. 
    E' vero che nella giurisprudenza di questa Corte  il  valore  del
legittimo  affidamento  riposto  nella  sicurezza   giuridica   trova
copertura costituzionale nell'art. 3 Cost., ma, in base a principi da
essa  costantemente  ribaditi,  non  gia'  in  termini   assoluti   e
inderogabili. Da un lato, infatti, la fiducia  nella  permanenza  nel
tempo di un determinato assetto regolatorio  dev'essere  consolidata,
dall'altro,  l'intervento  normativo  incidente  su  di   esso   deve
risultare sproporzionato. Con la conseguenza che «non  e'  interdetto
al legislatore di emanare disposizioni le quali vengano a  modificare
in senso sfavorevole per i beneficiari la disciplina dei rapporti  di
durata, anche se  l'oggetto  di  questi  sia  costituito  da  diritti
soggettivi perfetti», unica condizione essendo «che tali disposizioni
non  trasmodino  in  un  regolamento  irrazionale,  frustrando,   con
riguardo a situazioni sostanziali  fondate  sulle  leggi  precedenti,
l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da  intendersi
quale elemento fondamentale dello Stato di diritto (sentenze  n.  302
del 2010, n. 236 e n. 206 del 2009» (ordinanza n. 31 del 2011). 
    Orbene, la normativa transitoria dettata dall'art. 2 della  legge
in  oggetto  ha  concesso  ai  dipendenti  pubblici  part-time,  gia'
iscritti all'albo degli avvocati, ai sensi  dell'art.  1,  commi  56,
56-bis e 57, della legge n. 662 del 1996, un primo periodo di  durata
triennale onde esercitare l'opzione per l'uno o per l'altro  percorso
professionale e, poi, ancora un altro di durata quinquennale (in caso
di espressa scelta, in prima battuta, della professione forense),  ai
fini dell'eventuale richiesta di rientro in servizio. 
    Tale  disciplina  soddisfa  pienamente   i   requisiti   di   non
irragionevolezza della scelta normativa di carattere inderogabilmente
ostativo sottesa alla legge n. 339 del 2003.  Scelta  inevitabilmente
destinata a produrre effetti, proprio per la  sua  portata  generale,
anche   sulle   posizioni   dei   dipendenti    pubblici    part-time
legittimamente trovatisi ad esercitare in concomitanza la professione
di avvocati. Essi, infatti, anziche' cadere immediatamente  sotto  il
divieto, hanno potuto beneficiare di un termine di trentasei mesi per
esprimere la decisione dell'attivita' cui dedicarsi in futuro in  via
esclusiva (con diritto al tempo pieno  in  caso  di  opzione  per  il
mantenimento del rapporto d'impiego pubblico) e, nell'ipotesi di  una
prima manifestazione optativa  per  la  professione  forense,  di  un
ulteriore quinquennio per l'esercizio dello ius poenitendi,  tale  da
garantire loro il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno
(entro  tre  mesi  dalla  richiesta)  con  il   solo   limite   della
sospensione, nelle more, dell'anzianita'. 
    I  soggetti  in  esame,  a  fronte   di   un'interdizione   ormai
generalizzata all'esercizio contemporaneo delle due attivita',  hanno
avuto tutto il tempo per valutare presupposti e situazioni, personali
e familiari, idonei ad orientarne la scelta verso il mantenimento del
rapporto di lavoro pubblico piuttosto che verso l'esercizio esclusivo
della professione forense,  con  la  disponibilita'  di  uno  spatium
deliberandi supplementare nella direzione della piu' stabile  opzione
lavorativa alle dipendenze della pubblica amministrazione, in caso di
preferenza inizialmente manifestata per la piu'  rischiosa  attivita'
libero-professionale. 
    In conclusione, il descritto regime di tutela, lungi dal tradursi
in un regolamento irrazionale lesivo  dell'affidamento  maturato  dai
titolari  di  situazioni  sostanziali  legittimamente   sorte   sotto
l'impero della normativa previgente,  e'  da  ritenere  assolutamente
adeguato  a  contemperare  la  doverosa  applicazione   del   divieto
generalizzato  reintrodotto  dal  legislatore  per  l'avvenire   (con
effetto, altresi', sui rapporti di durata in corso) con  le  esigenze
organizzative di lavoro e di vita dei  dipendenti  pubblici  a  tempo
parziale, gia' ammessi dalla  legge  dell'epoca  all'esercizio  della
professione legale. 
    Peraltro, diversamente  opinando,  si  otterrebbe  il  risultato,
questo si' certamente irragionevole, di conservare  "ad  esaurimento"
una riserva  di  lavoratori  pubblici  part-time,  contemporaneamente
avvocati, all'interno  di  un  sistema  radicalmente  contrario  alla
coesistenza delle due figure lavorative nella stessa persona.  Ed  e'
proprio  per  evitare  simili  distorsioni  che   questa   Corte   ha
raccomandato  di  evitare  diversita'  di   trattamento   diffuse   e
indeterminate nel tempo,  «non  potendosi  lasciare  nell'ordinamento
"sine die" una duplicita' di discipline diverse e  parallele  per  le
stesse situazioni» (sentenza n. 378 del 1994). 
    Del resto, anche la Corte di giustizia - ancorche' nel quadro  di
una pronuncia d'irricevibilita' della specifica questione  -  non  ha
mancato di valorizzare incisivamente la disciplina transitoria  sopra
richiamata  rispetto  alla  prospettata   tensione   della   modifica
normativa in discorso  con  la  giurisprudenza  europea  relativa  ai
principi della tutela del legittimo affidamento e della certezza  del
diritto. Sia evidenziando «che l'entrata  in  vigore  di  tale  legge
[vale a dire della legge n. 339 del 2003] non pregiudica  il  diritto
di esercizio concomitante conferito [...]  dalla  legge  n.  662  del
1996, considerato peraltro che la legge n. 339 del 2003  instaura  un
periodo transitorio di tre anni al fine di evitare che il cambiamento
da essa introdotto sia immediato» (Corte  di  giustizia  UE,  sezione
quinta,  2  dicembre  2010,  in  causa  C-225/2009,  punto  43).  Sia
ribadendo  con  forza,  in   ordine   al   principio   della   tutela
dell'affidamento, la propria giurisprudenza costante secondo cui  gli
amministrati   non    possono    legittimamente    confidare    nella
«conservazione di una situazione esistente che puo' essere modificata
nell'ambito  del  potere  discrezionale  delle  autorita'   nazionali
(sentenza 10 settembre 2009, causa C-201/08,  Plantanol,  Racc.  pag.
I-8343, punto 53 e giurisprudenza ivi citata)» (punto 44). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339  (Norme  in
materia  di  incompatibilita'  dell'esercizio  della  professione  di
avvocato), sollevate, sia in relazione agli articoli 3, 4,  35  e  41
della  Costituzione,  sia   in   riferimento   al   parametro   della
ragionevolezza intrinseca di cui all'art. 3,  secondo  comma,  Cost.,
dalla Corte di Cassazione, sezioni unite  civili,  con  le  ordinanze
indicate in epigrafe. 
 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 20 giugno 2012. 
 
                                F.to: 
                    Alfonso QUARANTA, Presidente 
                      Luigi MAZZELLA, Redattore 
                   Gabriella MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2012. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                       F.to: Gabriella MELATTI