N. 208 ORDINANZA 18 - 24 luglio 2012

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Condanna per fatti di  bancarotta  -  Pene  accessorie
  dell'inabilitazione  all'esercizio   di   impresa   commerciale   e
  dell'incapacita' ad esercitare uffici  direttivi  presso  qualsiasi
  impresa per la durata di  dieci  anni  -  Asserita  violazione  del
  principio di eguaglianza per la rigidita'  della  prescrizione  che
  non consente alcuna modulazione da parte del  giudice  -  Questione
  gia'  dichiarata  inammissibile   perche'   l'addizione   normativa
  richiesta  non   costituisce   una   soluzione   costituzionalmente
  obbligata - Manifesta inammissibilita' della questione. 
- Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, art. 216, ultimo comma. 
- Costituzione, artt. 3 e 27, terzo comma. 
(GU n.31 del 1-8-2012 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Alfonso QUARANTA; 
Giudici :Franco GALLO,  Luigi  MAZZELLA,  Gaetano  SILVESTRI,  Sabino
  CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe  FRIGO,
  Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo  CAROSI,
  Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              ORDINANZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'articolo  216,
ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del
fallimento,   del   concordato    preventivo,    dell'amministrazione
controllata e della  liquidazione  coatta  amministrativa),  promosso
dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico  di  F.M.,
con ordinanza del 16 gennaio 2012, iscritta al  n.  38  del  registro
ordinanze 2012 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2012. 
    Udito nella camera di consiglio del  6  giugno  2012  il  Giudice
relatore Paolo Maria Napolitano. 
    Ritenuto che la Corte di cassazione  ha  sollevato  questione  di
legittimita' costituzionale - in riferimento agli articoli  3  e  27,
terzo comma, della Costituzione - dell'articolo  216,  ultimo  comma,
del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina  del  fallimento,
del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata  e  della
liquidazione coatta amministrativa), nella parte in cui prevede  che,
per ogni ipotesi di condanna per i fatti di bancarotta  previsti  nei
commi  precedenti  del  medesimo  articolo,  si  applichino  le  pene
accessorie   dell'inabilitazione    all'esercizio    di    un'impresa
commerciale e dell'incapacita' ad esercitare uffici direttivi  presso
qualsiasi impresa per la durata di dieci anni; 
    che la Corte rimettente premette, in fatto,  di  dover  giudicare
sul ricorso avverso una sentenza della Corte d'appello di Bologna che
aveva confermato la sentenza di condanna emessa in  primo  grado  dal
Tribunale di Forli' il 12 febbraio 2003 avverso due imputati ritenuti
responsabili di bancarotta fraudolenta per distrazione; 
    che uno dei motivi di impugnazione e'  relativo  alla  violazione
dell'art. 216 del r.d. n. 267 del 1942  e  dell'art.  37  del  codice
penale, per essere stata determinata in dieci anni  la  durata  della
pena  accessoria   dell'inabilitazione   all'esercizio   di   imprese
commerciali e dell'incapacita' all'esercizio di uffici  direttivi  in
qualsiasi  impresa,  laddove  detta  durata  avrebbe  dovuto   essere
limitata a quella della pena principale; 
    che, in punto di rilevanza, secondo la Corte  di  cassazione,  il
ricorso di uno dei due  ricorrenti  non  e'  definibile  prima  della
soluzione della questione di costituzionalita' dell'art. 216,  ultimo
comma, del r.d. n. 267 del 1942; 
    che la rimettente richiama le motivazioni dell'ordinanza  del  23
marzo 2011 con  la  quale  ha  gia'  ritenuto  di  sollevare  analoga
questione di costituzionalita'; 
    che in tale  ordinanza  si  faceva  riferimento  all'orientamento
seguito pressoche' costantemente dalla  medesima  Corte  in  tema  di
bancarotta fraudolenta (rilevabile sin dalla sentenza della sezione V
del 16 ottobre 1973, n. 126018), secondo il quale la pena  accessoria
dell'inabilitazione all'esercizio  di  imprese  commerciali  ed  alla
incapacita' di esercitare uffici direttivi presso  qualsiasi  impresa
e' fissata inderogabilmente nella misura di dieci anni  e,  pertanto,
non trattandosi di pena indeterminata, la sua durata si sottrae  alla
disciplina disposta dall'art. 37 cod. pen.; 
    che, tuttavia, a fronte di  siffatta  lettura,  recenti  sentenze
(Corte di cassazione, sezione V  penale,  10  marzo  2010,  n.  9672;
sezione V penale, 31 marzo 2010, n.  23720)  hanno  ritenuto  che  la
immodificabilita' della sanzione accessoria contrasti con «il  "volto
costituzionale" dell'illecito penale», e  che  il  sistema  normativo
debba lasciare, comunque, adeguati spazi  alla  discrezionalita'  del
giudice, al fine di permettere l'adeguamento della risposta  punitiva
alle singole fattispecie concrete; 
    che, in tal senso, sarebbe illegittima una previsione  che  lasci
il  giudice  privo  di  sufficienti  margini   di   adattamento   del
trattamento sanzionatorio alle  peculiarita'  della  singola  ipotesi
concreta; 
    che  questo  secondo  indirizzo  ermeneutico   e'   ispirato   da
importanti pronunce della Corte costituzionale (ordinanze nn. 91 e  4
del 2008, n. 50 del 1980) nelle quali si e' detto  che  in  linea  di
principio «previsioni sanzionatorie rigide non  appaiono  in  armonia
con il "volto costituzionale" del sistema penale;  ed  il  dubbio  di
illegittimita' costituzionale potra' essere, caso per caso,  superato
a condizione che, per la natura dell'illecito sanzionatorio e per  la
misura della sanzione prevista, quest'ultima  appaia  ragionevolmente
"proporzionata"   rispetto   all'intera   gamma   di    comportamenti
riconducibili allo specifico tipo di reato»; 
    che, tuttavia, secondo la Corte rimettente, non sarebbe possibile
accedere ad un'interpretazione che superi il dato testuale  dell'art.
216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del 1942 e che, piuttosto,  spetti
alla  Corte  costituzionale   l'affermazione   della   illegittimita'
costituzionale della norma, quando essa sia interpretata in  aderenza
alla espressa volonta' legislativa; 
    che  la  durata  della  sanzione,  fissata  in  dieci  anni   dal
legislatore fallimentare, porrebbe dubbi di ragionevolezza, attesa la
rigidita' dispositiva della prescrizione penale, a fronte del variare
della situazione  concreta,  caratteristica  che  determinerebbe  una
sostanziale ingiustizia nel trattare allo  stesso  modo  condotte  di
rilievo penale tra loro differenti  e  difformemente  sanzionate  dal
legislatore mediante la pena principale; 
    che la Corte di cassazione si  riferisce,  in  particolare,  alla
ipotesi  di  «bancarotta  preferenziale»,  nonche'   alla   singolare
ampiezza dell'escursione  afflittiva  contemplata  dalle  circostanze
speciali di cui all'art. 219, primo e ultimo comma, del r.d.  n.  267
del 1942, e inoltre, evidenzia la  sproporzione  che  si  verrebbe  a
determinare  nei  riti  alternativi,  allorche'  la  pena  principale
risulti grandemente inferiore rispetto a quella accessoria, a cagione
della diminuzione premiale consentita o imposta dal legislatore; 
    che la norma censurata costituirebbe un esempio  della  negazione
del principio  del  «minore  sacrificio  necessario»  nella  risposta
punitiva dell'ordinamento  alla  violazione  penale,  quando  possano
sussistere agevoli parametri mediante cui modulare  la  stessa,  caso
per caso, cosi' tramutando  la  rigidita'  della  previsione  in  una
ingiustificata parificazione di situazioni tra loro diverse; 
    che, a parere della  Corte  di  cassazione,  la  sottrazione  del
giudizio ai consueti criteri dettati dagli artt. 132 e 133 cod.  pen.
urta con le previsioni costituzionali degli artt. 3 e 27 Cost. 
    Considerato che la Corte di  cassazione,  con  ordinanza  del  16
gennaio 2012, ha sollevato - in riferimento agli  articoli  3  e  27,
terzo  comma,  della  Costituzione  -   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'articolo 216, ultimo comma, del regio decreto  16
marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento,  del  concordato
preventivo, dell'amministrazione  controllata  e  della  liquidazione
coatta amministrativa), nella parte in  cui  prevede  che,  per  ogni
ipotesi di condanna per i fatti  di  bancarotta  previsti  nei  commi
precedenti del medesimo articolo, si applichino  le  pene  accessorie
dell'inabilitazione  all'esercizio  di   un'impresa   commerciale   e
dell'incapacita' ad  esercitare  uffici  direttivi  presso  qualsiasi
impresa per la durata di dieci anni; 
    che la questione sollevata dalla Corte  di  cassazione  si  fonda
sulla violazione degli artt. 3 e 27 Cost. perche' la rigidita'  della
prescrizione,  a  fronte  del  variare  della  situazione   concreta,
determinerebbe una sostanziale ingiustizia nel trattare  allo  stesso
modo condotte di rilievo penale tra loro differenti  e  difformemente
sanzionate dal legislatore mediante la pena principale; 
    che la questione e' inammissibile; 
    che analoga questione e' gia' stata dichiarata  inammissibile  da
questa Corte con la sentenza n. 134 del 2012; 
    che, in tale occasione,  si  era  evidenziato  che  la  questione
sollevata atteneva alla supposta non conformita' a Costituzione della
predeterminazione, nella misura  fissa  di  dieci  anni,  della  pena
accessoria   dell'inabilitazione    all'esercizio    di    un'impresa
commerciale  e  ad  esercitare  uffici  direttivi  presso   qualsiasi
impresa, di cui all'art. 216, ultimo comma, del r.d. n. 267 del  1942
per  il  delitto  di  bancarotta,  risultando,  in  tal   modo,   non
applicabile l'art. 37 cod. pen.; 
    che la rimettente, in definitiva, aveva chiesto di aggiungere  le
parole «fino a» all'ultimo comma dell'art. 216 del r.d.  n.  267  del
1942, al fine di rendere possibile l'applicazione dell'art.  37  cod.
pen.; 
    che, con  la  citata  sentenza,  si  era  ritenuta  la  questione
inammissibile perche' l'addizione normativa richiesta dai  giudici  a
quibus non costituiva una soluzione costituzionalmente obbligata, ma,
implicando scelte affidate  alla  discrezionalita'  del  legislatore,
eccedeva i poteri di intervento di questa Corte; 
    che,  nel  caso  in  esame,  non  risultando  addotti  profili  o
argomenti diversi o ulteriori rispetto a quelli gia'  valutati  nella
precedente pronuncia di inammissibilita', la  questione,  secondo  la
consolidata giurisprudenza di questa Corte,  deve  essere  dichiarata
manifestamente inammissibile. 
    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,  n.
87, e 9 delle norme integrative per  i  giudizi  davanti  alla  Corte
costituzionale. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara  la  manifesta  inammissibilita'  della   questione   di
legittimita' costituzionale  dell'articolo  216,  ultimo  comma,  del
regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del  fallimento,  del
concordato  preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e   della
liquidazione coatta amministrativa), sollevata - in riferimento  agli
articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione  -  dalla  Corte  di
cassazione con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 18 luglio 2012. 
 
                                F.to: 
                    Alfonso QUARANTA, Presidente 
                  Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore 
                   Gabriella MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 24 luglio 2012. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                       F.to: Gabriella MELATTI