N. 279 SENTENZA 9 ottobre - 22 novembre 2013

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Esecuzione  della  pena  -   Esecuzione   detentiva   -   Impedimenti
  all'effettiva espiazione e differimento  dell'esecuzione  -  Rinvio
  facoltativo nei  soli  casi  espressamente  contemplati  -  Mancata
  previsione dell'ipotesi in  cui  l'esecuzione  debba  svolgersi  in
  condizioni  contrarie  al  senso  di  umanita',  nella  specie   il
  sovraffollamento carcerario  -  Richiesta  di  intervento  additivo
  implicante scelte,  all'interno  di  una  pluralita'  di  soluzioni
  normative non costituzionalmente vincolate, di natura  sistemica  e
  strutturale  riservate  al  legislatore  -  Inammissibilita'  delle
  questioni - Monito al legislatore. 
- Codice penale, art. 147. 
- Costituzione, artt. 2, 3, 27, terzo  comma,  e  117,  primo  comma;
  convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, art.
  3. 
(GU n.48 del 27-11-2013 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Gaetano SILVESTRI; 
Giudici :Luigi MAZZELLA,  Sabino  CASSESE,  Giuseppe  TESAURO,  Paolo
  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe  FRIGO,  Alessandro  CRISCUOLO,  Paolo
  GROSSI, Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Sergio
  MATTARELLA, Mario Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,  Giuliano
  AMATO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'articolo 147  del
codice penale, promossi dal Tribunale di sorveglianza di Venezia  con
ordinanza del 18 febbraio 2013 e dal  Tribunale  di  sorveglianza  di
Milano con ordinanza del 18 marzo 2013, iscritte  rispettivamente  ai
nn. 67 e 82 del registro ordinanze 2013 e pubblicate  nella  Gazzetta
Ufficiale della  Repubblica  nn.  16  e  18,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2013. 
    Visti gli atti di  intervento  dell'Unione  delle  Camere  penali
italiane, dell'Associazione VOX-Osservatorio italiano sui  diritti  e
del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 9  ottobre  2013  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 18 febbraio 2013 (r.o. n. 67  del
2013), il Tribunale di  sorveglianza  di  Venezia  ha  sollevato,  in
riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo  comma,
della Costituzione, quest'ultimo in relazione  all'articolo  3  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (d'ora in avanti: CEDU), firmata a  Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  4  agosto
1955, n. 848, questione di legittimita' costituzionale  dell'articolo
147 del codice penale «nella parte in cui non prevede, oltre ai  casi
ivi  espressamente  contemplati,  l'ipotesi  di  rinvio   facoltativo
dell'esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in  condizioni
contrarie al senso di umanita'». 
    Il rimettente  riferisce  di  essere  investito  dell'istanza  di
rinvio  facoltativo  dell'esecuzione  della  pena  presentata  da  un
detenuto  e  rigettata  in   via   interinale   dal   magistrato   di
sorveglianza,  che  ne  aveva  quindi  rimesso  l'esame,   ai   sensi
dell'articolo 684 del codice di procedura  penale,  al  tribunale  di
sorveglianza.  L'istanza  era  motivata  non  gia'  con   riferimento
all'esistenza di una grave infermita' fisica del detenuto,  ma  sulla
base delle «condizioni di perenne sovraffollamento» in cui versava la
Casa circondariale di Padova: si metteva in  evidenza,  infatti,  una
situazione che, per il numero  dei  detenuti  ristretti  in  ciascuna
cella  (in  media,  da  nove  a  undici),  era   tale   da   influire
negativamente sulle  condizioni  psicofisiche,  sottolineandosi  come
l'esecuzione della pena  fosse  «certamente  contraria  al  senso  di
umanita' e avversa al principio rieducativo della pena ed al rispetto
della persona». 
    Riferisce ancora il Tribunale di  sorveglianza  di  Venezia  che,
nelle more, il detenuto era stato trasferito nella Casa di reclusione
di Padova, nella quale «permanevano e  permangono  le  condizioni  di
sovraffollamento lamentate nell'istanza»  risultanti  dagli  elementi
acquisiti in via  istruttoria,  che  segnalano  la  presenza  di  889
detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 369.  Il  detenuto
istante, oltre ad essere «appellante» in un procedimento per violenza
privata e violazione degli obblighi della sorveglianza speciale  (nel
cui  ambito  e'  sottoposto  alla  misura  cautelare  degli   arresti
domiciliari) e ad  essere  destinatario  della  misura  di  sicurezza
dell'assegnazione ad  una  casa  di  lavoro  (da  applicarsi,  previo
riesame  da  parte  del   magistrato   di   sorveglianza,   all'esito
dell'espiazione della pena), sta scontando una  pena  complessiva  di
due anni, otto mesi, sedici giorni di reclusione e sedici  giorni  di
arresto per vari  reati  (furto,  falsa  attestazione  sulla  propria
identita', guida in stato  di  ebbrezza,  violazione  degli  obblighi
della sorveglianza speciale, evasione), con fine pena  al  18  giugno
2015. 
    Per  il  titolo  definitivo,  riferisce   ancora   il   Tribunale
rimettente,  il  condannato  e'  stato  ristretto  presso   la   Casa
circondariale di Padova (dove dal 27 luglio 2012 al  13  agosto  2012
era stato detenuto in  custodia  cautelare)  dal  19  settembre  2012
all'11 gennaio 2013, venendo  ospitato,  per  la  maggior  parte  del
tempo, in una cella  di  mq.  24,58  e  con  un  numero  di  detenuti
mediamente pari a  nove-dieci;  successivamente  e'  stato  ristretto
presso la Casa di reclusione di Padova in una cella, divisa con altri
due detenuti, di mq. 9,09 e con bagno attiguo. La cella  presenta  le
misure "standard" fissate dal Ministero della salute per le camere da
letto di  abitazione  civile,  misure  adottate  dall'Amministrazione
penitenziaria  quale  parametro  di  riferimento  delle   camere   di
pernottamento benche', peraltro, «ivi si  svolga  l'intera  vita  del
detenuto». 
    Osserva dunque il giudice a quo  che  lo  spazio  a  disposizione
dell'istante presso la casa circondariale e' stato di mq. 2,43 (per 9
giorni) e di mq. 2,58 (per 122 giorni),  mentre  presso  la  casa  di
reclusione e' stato di mq. 3,03 (per 33 giorni).  I  primi  due  dati
risultano inferiori al limite minimo considerato "vitale" dalla Corte
europea dei diritti dell'uomo (sentenza 16 luglio 2009,  Sulejmanovic
contro Italia; sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani  contro  Italia),
mentre il terzo risulta superiore di cmq. 3, ma si  deve  considerare
la  riduzione  dello  spazio  effettivamente  utilizzabile  derivante
dall'ingombro costituito dal mobilio, fattore incidente sullo  spazio
vitale secondo la Corte di Strasburgo: sottratta l'area  occupata  da
tale ingombro, lo spazio a disposizione del detenuto presso  la  casa
di reclusione si riduce a mq.  2,85,  «nettamente  al  di  sotto  del
limite "vitale" di 3 mq. come stabilito dalla Corte europea». 
    Sebbene, sottolinea il Tribunale di sorveglianza di  Venezia,  il
criterio indicato dal secondo Rapporto generale del  13  aprile  1991
del Comitato  per  la  prevenzione  della  tortura  e  delle  pene  o
trattamenti disumani o degradanti sia di almeno mq.  7,  inteso  come
superficie minima "desiderabile" per una  cella  di  detenzione,  «la
Corte di Strasburgo ha ritenuto che il  parametro  dei  3  mq.  debba
essere ritenuto il minimo consentito al di sotto del quale si avrebbe
violazione "flagrante" dell'art. 3 della Convenzione  e  dunque,  per
cio'   solo,   "trattamento   disumano   e   degradante",   e    cio'
indipendentemente  dalle  altre   condizioni   di   vita   detentiva»
(concernenti, in particolare, le ore d'aria disponibili o le  ore  di
socialita', l'apertura delle porte della cella, la quantita' di  luce
e  aria  dalle  finestre,  il  regime  trattamentale   effettivamente
praticato in istituto). 
    Non sarebbe dunque  revocabile  in  dubbio  che  l'istante  «stia
subendo ed abbia subito per tutto il periodo della detenzione fino ad
oggi un trattamento "disumano e  degradante"»,  sicche'  verrebbe  in
rilievo la compatibilita' della sua detenzione con i principi di  non
disumanita' della pena e di rispetto  della  dignita'  della  persona
detenuta, principi sottesi all'applicazione proprio dell'istituto del
differimento della pena che viene invocato dall'interessato. 
    La norma impugnata sarebbe inerente al giudizio a quo, in  quanto
«il  richiedente  invoca  la  sospensione  della  pena  proprio   per
l'aspetto di una sua ineseguibilita'  a  causa  delle  condizioni  di
intollerabile  restrizione  alla   quale   e'   sottoposto   per   il
sovraffollamento  dell'istituto»,  e   la   questione   riguarderebbe
l'ambito di applicazione della norma censurata, che avrebbe incidenza
attuale, e non meramente eventuale, nel procedimento principale. 
    Sempre  a  proposito   della   rilevanza   della   questione   di
legittimita' costituzionale, il rimettente riferisce che  all'istante
non potrebbe essere applicata la  misura  dell'esecuzione  presso  il
domicilio della pena detentiva a norma dell'art.  1  della  legge  26
novembre 2010, n. 199 (Disposizioni relative all'esecuzione presso il
domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto  mesi),  come
modificato dall'art. 3 del decreto-legge 22  dicembre  2011,  n.  211
(Interventi  urgenti  per  il  contrasto  della  tensione   detentiva
determinata dal  sovraffollamento  delle  carceri),  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 17 febbraio  2012,  n.  9,  in  quanto  il
residuo della pena sarebbe superiore a diciotto mesi e il  condannato
e' stato dichiarato delinquente abituale. La  preclusione,  derivante
dall'applicazione,  nelle  condanne  in  esecuzione,  della  recidiva
reiterata, sarebbe inoltre ostativa alla concessione della detenzione
domiciliare ai sensi dell'art. 47-ter, comma 1-bis,  della  legge  26
luglio  1975,  n.  354  (Norme   sull'ordinamento   penitenziario   e
sull'esecuzione delle misure privative e limitative della liberta') e
della semiliberta' se non dopo l'espiazione  di  due  terzi  di  pena
(art.  50-bis  dell'ordinamento  penitenziario).   Sarebbe,   invece,
astrattamente concedibile al condannato la misura dell'affidamento in
prova al servizio sociale (peraltro non richiesta  dall'interessato),
ma, sottolinea il rimettente, essa richiede «l'apprezzamento in fatto
di  un  percorso  rieducativo  per  il   tramite   di   una   congrua
osservazione»   ovvero,   anche   senza   osservazione,   «presuppone
un'idoneita'  a  prevenire  il  pericolo  di  commissione  di  reati,
allorquando il comportamento serbato dopo la  commissione  del  reato
sia tale da consentire un giudizio favorevole». Analogamente preclusa
dall'art.  30-quater,   comma   1,   lettera   a),   dell'ordinamento
penitenziario sarebbe la concedibilita' di permessi premio. 
    Pertanto, non resterebbe che ricorrere alla  norma  di  chiusura,
invocata   dall'istante,   costituita    dal    rinvio    facoltativo
dell'esecuzione della pena, non soggetto a  preclusioni  ex  lege  ed
espressivo del principio  costituzionale  di  non  disumanita'  della
pena. Tuttavia, osserva il Tribunale di sorveglianza di Venezia, tale
istituto e' riservato ai soli casi previsti, da ritenersi  tassativi,
in  cui  «piu'  evidente  appare  il  contrasto  tra   il   carattere
obbligatorio ed irrefragabile dell'esecuzione di una pena detentiva e
il principio di legalita' della stessa cui e' speculare il divieto di
trattamenti  inumani»  di  cui  all'art.  27,  terzo   comma,   Cost.
Discenderebbe da tale principio l'esigenza che il soggetto non  venga
sottoposto ad una pena piu' grave di quella  irrogata,  esigenza  che
risulterebbe contraddetta  se,  per  particolari  condizioni  fisiche
individuate dalla legge, la carcerazione  incidesse  non  solo  sulla
liberta', ma anche sull'integrita' personale. Il Tribunale rimettente
dovrebbe dare applicazione al principio di non disumanita' della pena
in un caso in  cui,  pur  ricorrendo  i  parametri  in  fatto  di  un
trattamento disumano e degradante,  cosi'  come  verificati  in  casi
analoghi dalla costante giurisprudenza  della  Corte  di  Strasburgo,
sarebbe precluso il ricorso all'istituto di  cui  all'art.  147  cod.
pen. poiche', non lamentando il detenuto una grave infermita' fisica,
tale  ipotesi  non  sarebbe  ricompresa  tra  quelle   tassativamente
previste  dalla  norma.  Se  integrato  dalla   pronuncia   richiesta
attraverso l'incidente di  legittimita'  costituzionale,  l'art.  147
cod.  pen.,  anche  in  quanto  "norma  di  chiusura"  del   sistema,
costituirebbe  «l'unico  strumento  di  effettiva  tutela   in   sede
giurisdizionale al fine  di  ricondurre  nell'alveo  della  legalita'
costituzionale  l'esecuzione  della  pena  a  fronte  di   condizioni
detentive che si risolvono in trattamenti disumani e degradanti». 
    Osserva inoltre il rimettente che, da  un  lato,  il  trattamento
inumano non potrebbe tollerare una sua indebita  protrazione  e  che,
dall'altro, pur attribuendo  alla  magistratura  di  sorveglianza  la
funzione di tutela dei  diritti  dei  detenuti  in  sede  di  reclamo
giurisdizionale, il  sistema  sarebbe  comunque  privo  di  qualsiasi
«meccanismo di esecuzione forzata, finendo dunque per  generare  quei
fenomeni di ineffettivita' della tutela che  sono  la  negazione  del
concetto stesso di giurisdizione». D'altra parte,  anche  ipotizzando
che, in accoglimento del ricorso del condannato che invochi la tutela
del proprio diritto all'esecuzione  di  una  pena  non  disumana,  il
magistrato di sorveglianza ordini  il  trasferimento  del  ricorrente
presso una stanza detentiva non sovraffollata, sarebbe  evidente  che
«rendendo conforme al senso di  umanita'  l'esecuzione  penale  nella
cella ad quam, cio' avrebbe comportato la disumanita' dell'esecuzione
della pena nella cella a qua, nella  quale  subito  l'Amministrazione
avrebbe  allocato  altro  detenuto  per  far  posto   al   ricorrente
vittorioso nella prima, e cosi'  via:  poiche'  appartiene  al  fatto
notorio  la  circostanza  che  la  capienza  (sia  regolamentare  sia
tollerabile) degli  istituti  di  pena  italiani  e'  di  gran  lunga
inferiore rispetto alla  grandezza  delle  effettive  presenze,  tale
strumento di tutela sarebbe comunque rimasto inefficace». 
    Prevedendo il  rinvio  facoltativo  dell'esecuzione  della  pena,
l'art.  147  cod.  pen.  affiderebbe   la   decisione   al   prudente
apprezzamento del tribunale  di  sorveglianza,  che,  per  un  verso,
potrebbe  negare  il  rinvio  stesso  qualora  sussista  un  concreto
pericolo di commissione di  delitti  e,  per  altro  verso,  potrebbe
invece applicare la detenzione  domiciliare  "in  surroga",  a  norma
dell'art.  47-ter,  comma  1-ter,   dell'ordinamento   penitenziario:
sarebbe  percio'  rimesso  all'autorita'  giudiziaria   il   «congruo
bilanciamento degli interessi da un lato  di  non  disumanita'  della
pena e dall'altro di difesa sociale», che,  in  casi  di  particolare
pericolosita'  del  condannato,  potrebbe  impedire  il  differimento
dell'esecuzione. 
    Secondo il Tribunale di sorveglianza di Venezia, se la  norma  in
questione consentisse il differimento della pena per  ineseguibilita'
di  quest'ultima  a   causa   delle   condizioni   di   intollerabile
sovraffollamento, tali  da  comportare  un  trattamento  «disumano  e
degradante», il differimento stesso non sarebbe precluso, nel caso di
specie, dal divieto di cui al comma quarto dell'art. 147  cod.  pen.,
non  potendosi  ritenere  concreto  il  pericolo  di  commissione  di
delitti. L'applicazione della norma sarebbe, invece,  impedita  dalla
mancata previsione di un'ipotesi di un «rinvio  facoltativo,  rimesso
alla  prudente  valutazione  dell'autorita'  giudiziaria,   allorche'
ricorrano gli estremi di un trattamento disumano  e  degradante  come
definito dalla giurisprudenza europea sopra richiamata». 
    Ritiene dunque il  rimettente  non  manifestamente  infondata  la
questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.  147  cod.  pen.
«nella parte in cui non prevede,  oltre  alle  ipotesi  espressamente
indicate,  da  ritenersi  tassative,  anche   il   caso   di   rinvio
dell'esecuzione della pena  quando  quest'ultima  debba  avvenire  in
condizioni contrarie al principio di umanita'» sancito dall'art.  27,
terzo comma, Cost. e dall'art. 117, primo comma, Cost.  in  relazione
all'art. 3 della CEDU, cosi' come interpretato  dalla  Corte  europea
dei diritti dell'uomo, che ha individuato i parametri di «vivibilita'
minima»  alla  luce  dei  quali   una   detenzione   puo'   definirsi
«trattamento inumano  o  degradante».  Ad  avviso  del  Tribunale  di
sorveglianza di Venezia l'attribuzione  del  pieno  valore  giuridico
alla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e  l'adesione
della stessa Unione alla CEDU determinerebbero  un  «vincolo  diretto
negli ordinamenti interni al rispetto della dignita'  e  dei  diritti
delle persone», vincolo che consentirebbe  ai  giudici  nazionali  di
invocare  le  norme  sovranazionali  come  ulteriori   parametri   di
riferimento quando si faccia questione di  diritti  fondamentali;  le
norme interposte diventerebbero, a loro volta, canone di valutazione,
entrando  a  far  parte  di  uno  dei  termini  della  questione   di
costituzionalita'. Nella parte  in  cui  non  puo'  essere  applicato
all'ipotesi presa in considerazione, l'art. 147 cod. pen. sarebbe  in
contrasto con il principio inviolabile della dignita' della  persona,
che la Repubblica in ogni caso garantisce a norma dell'art. 2 Cost. e
che a sua volta e' presupposto dell'art. 27 Cost. 
    Il rimettente esclude  la  praticabilita'  di  un'interpretazione
costituzionalmente   conforme,   in   quanto   la   norma   censurata
prevederebbe  casi  tassativi  di  univoca  interpretazione   e   non
estensibili in via analogica. In particolare, la  norma  non  sarebbe
applicabile oltre l'ipotesi della «grave infermita' fisica»  prevista
dall'art. 147, comma 1, numero 2), cod. pen., comunemente intesa come
«una situazione di grave compromissione dell'organismo comportante  o
un serio pericolo per la vita del condannato ovvero  la  probabilita'
di altre  rilevanti  conseguenze  dannose»;  inoltre,  sottolinea  il
Tribunale  di  sorveglianza  di  Venezia,  la  serieta'  del   quadro
patologico sarebbe da intendere  in  senso  particolarmente  rigoroso
alla  luce  del  principio  di  indefettibilita'  della  pena  e  del
principio  di  uguaglianza,  mentre   ulteriore   requisito   sarebbe
rappresentato dall'esigenza che la malattia  necessiti  di  cure  non
facilmente attuabili  nello  stato  detentivo.  Inoltre,  secondo  la
giurisprudenza  di  legittimita',  eventuali   disturbi   di   natura
psichica, che non  si  traducano  in  concreto  in  grave  infermita'
fisica,  non  sarebbero  idonei  a   giustificare   il   differimento
dell'esecuzione della pena.  Pertanto,  non  sarebbe  possibile  «ne'
ampliare in via analogica le ipotesi di differimento della  pena  ne'
estendere il concetto di "grave infermita' fisica" fino al  punto  di
ricomprendervi  i  casi   di   una   compromissione   dell'integrita'
psico-fisica della persona detenuta che sia conseguenza  non  di  uno
stato patologico ma di una condizione di detenzione "inumana" perche'
al di sotto dei parametri minimi di spazio disponibile indicati dalla
Corte europea». 
    Osserva inoltre il rimettente che la pronuncia additiva richiesta
sarebbe "a  rime  obbligate",  in  quanto  la  soluzione  prospettata
(prevedere il rinvio della  pena  nei  casi  di  trattamento  inumano
accertato secondo i parametri della CEDU) non sarebbe  solo  una  tra
quelle astrattamente ipotizzabili: infatti, soltanto  la  sospensione
dell'esecuzione della pena detentiva (eventualmente anche nelle forme
della detenzione domiciliare "in  surroga"),  rimessa  -  come  negli
altri casi di rinvio  facoltativo  -  alla  decisione  dell'autorita'
giudiziaria, sarebbe  in  grado  di  ristabilire  una  condizione  di
legalita' dell'esecuzione della pena nel caso concreto, laddove «tale
effetto non potrebbe direttamente avere, ad esempio, un  qualsivoglia
provvedimento a  carattere  indulgenziale  o  deflativo,  questo  si'
riservato al legislatore, di portata generale e  applicabile  in  una
pluralita' di casi». 
    Richiamata la sentenza della Corte di Strasburgo 8 gennaio  2013,
Torreggiani contro Italia e gli obblighi dalla stessa discendenti, il
Tribunale di sorveglianza di Venezia ritiene che la  norma  censurata
sia in contrasto con l'art. 27 Cost. sotto  il  duplice  profilo  del
divieto di trattamenti contrari al senso di umanita' e del  finalismo
rieducativo.  Il  primo  profilo  sarebbe  comunque  prevalente   sul
secondo, poiche' la  pena  non  puo'  consistere  in  un  trattamento
contrario al senso di umanita', laddove essa, allo stesso tempo, deve
tendere  alla  rieducazione  del  condannato:  pertanto,  mentre   la
finalita' rieducativa rimarrebbe nell'ambito del  «dover  essere»,  e
quindi su un piano esclusivamente  finalistico,  la  non  disumanita'
atterrebbe al suo essere medesimo, sicche' la  pena  inumana  sarebbe
«non pena» e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i  casi  di
esecuzione in condizioni talmente  degradanti  da  non  garantire  il
rispetto  della  dignita'  del  condannato.  L'accertamento  di  tali
condizioni dovrebbe essere svolto sulla base dell'art. 3 della  CEDU,
come interpretato dalla Corte di Strasburgo, che ritiene integrato il
carattere disumano e degradante del trattamento penitenziario laddove
alla persona detenuta  sia  riservato  uno  spazio  nella  camera  di
detenzione  inferiore  o  pari  a  mq.  3,  indipendentemente   dalle
condizioni di vita comunque garantite in istituto (numero  delle  ore
d'aria e di apertura delle porte, attivita' scolastiche o lavorative,
possibilita' di svolgere attivita' di svago in locali comuni). 
    La norma censurata sarebbe anche in  contrasto  con  l'art.  117,
primo comma, Cost., che impone al legislatore il rispetto dei vincoli
derivanti   dall'ordinamento    comunitario    e    dagli    obblighi
internazionali, e con gli artt. 2 e 3 Cost., dovendosi  intendere  la
dignita' umana quale diritto inviolabile, «presupposto  dello  stesso
articolo 27 Cost.». 
    La norma censurata sarebbe inoltre in  contrasto  con  l'art.  27
Cost. sotto il profilo della finalita' rieducativa  della  pena,  che
non potrebbe mai dispiegarsi in condizioni di «inumanita'», in quanto
«la restrizione in spazi angusti, a ridosso di altri  corpi,  produce
invalidazione di tutta la persona e quindi  deresponsabilizzazione  e
rimozione del senso  di  colpa  non  inducendo  nel  condannato  quel
significativo processo modificativo che,  attraverso  il  trattamento
individualizzato, consente l'instaurazione di  una  normale  vita  di
relazione». 
    Infine, dopo aver segnalato una pronuncia  della  Corte  federale
della California, confermata dalla Corte suprema degli Stati Uniti, e
una della Corte costituzionale tedesca, il rimettente osserva,  sotto
il  profilo   della   razionalita'   giuridica   e   della   coerenza
costituzionale, come «non siano mancati  precedenti  anche  in  altri
ordinamenti - non sospettabili di  insensibilita'  alle  esigenze  di
sicurezza - in cui si sia fatta applicazione proprio dello  strumento
del differimento o della sospensione della pena per ricondurre ad una
situazione  di  legalita'  l'esecuzione  della  pena   detentiva   in
situazioni di palese violazione del divieto di "pene crudeli"». 
    2.- E' intervenuto nel giudizio di legittimita' costituzionale il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che  la  questione
sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. 
    Il  differimento  dell'esecuzione  della   pena   sarebbe   stato
richiesto «per ragioni che nulla hanno di giuridico ma esclusivamente
per una  circostanza  di  fatto  e  transitoria,  cioe'  un  presunto
temporaneo "sovraffollamento" della cella» nella quale il richiedente
«era recluso al momento dell'istanza». Prive di riscontri oggettivi e
certi, le circostanze esposte sarebbero  suscettibili  di  «mutamento
nel tempo e di elaborazioni  meramente  discrezionali  da  parte  del
soggetto interessato e dell'Organo giudicante», laddove le condizioni
cui l'art.  147  cod.  pen.  ricollega  il  differimento  facoltativo
dell'esecuzione sarebbero, al contrario, «ben precise  e  connesse  a
fattori esattamente definiti ed apprezzabili  dall'Organo  giudicante
con precisi riferimenti agli  interessi  da  ponderare»:  il  rilievo
impedirebbe «di fondare  un  giudizio  di  costituzionalita'  su  una
disposizione perfettamente in linea con i precetti costituzionali  di
riferimento». Gli  inconvenienti  lamentati  dall'istante,  peraltro,
sarebbero superabili «con mezzi adeguati al sistema,  cioe'  con  una
diversa disciplina amministrativa della organizzazione  dell'istituto
di pena, di competenza dell'Autorita'  prepostavi  ed  estranea  alla
potesta' giurisdizionale del Tribunale di Sorveglianza». 
    La questione  sarebbe  comunque  infondata,  in  quanto  la  mera
circostanza del momentaneo collocamento nella cella di un  numero  di
detenuti ritenuto eccessivo rispetto a quello ottimale non violerebbe
ne'  i  parametri  costituzionali  posti  a  tutela  della  dignita',
dell'uguaglianza e della liberta' dei cittadini (dato che l'evenienza
della carcerazione in seguito a condanna  inflitta  all'esito  di  un
giusto processo non contrasterebbe con alcuno dei parametri evocati),
ne' il principio della finalita' rieducativa della pena (connesso  ad
altri fattori, quali il  lavoro  in  carcere  o,  nei  casi  ammessi,
all'esterno), ne' i valori di cui all'art. 3 CEDU (che avrebbero «una
caratterizzazione  di  respiro  generale»  e  non  potrebbero   dirsi
automaticamente    compromessi    «dalla    situazione    contingente
dell'istituto carcerario preso in  considerazione  dall'ordinanza  di
rimessione e,  comunque,  da  problemi  limitati  al  caso  peculiare
oggetto del giudizio a quo»). 
    L'Avvocatura  dello  Stato  osserva  infine  che   la   questione
sollevata dal Tribunale di sorveglianza di  Venezia  potrebbe  essere
risolta attraverso  un'interpretazione  costituzionalmente  orientata
della  norma  censurata.  Il   rimettente   non   avrebbe   esaminato
criticamente gli  orientamenti  giurisprudenziali  che  impedirebbero
l'applicazione al caso di specie dell'art. 147 cod. pen.:  una  volta
astratti dal singolo caso in giudizio, i principi  generali  indicati
dalla  giurisprudenza  potrebbero  orientare  il   giudicante   verso
un'interpretazione del combinato disposto degli artt. 147 e 148  cod.
pen. tale da consentire il rispetto dei precetti della CEDU  e  della
Costituzione, rendendo cosi' non necessaria l'invocata  pronuncia  di
illegittimita' costituzionale. 
    Per l'ipotesi che l'intervento sollecitato dal  rimettente  fosse
ritenuto ammissibile e sufficiente ad assicurare in via  generale  il
rispetto dell'art. 3 della CEDU, l'Avvocatura dello Stato segnala  la
non definitivita' della sentenza della  Corte  di  Strasburgo  dell'8
gennaio 2013 e riferisce che sarebbe in stato di avanzata  esecuzione
il "piano carceri" varato dal Governo per adeguare e ammodernare  gli
istituti di pena. 
    3.- Ha proposto atto di intervento - depositato fuori termine  il
17 settembre 2013 - l'Unione delle Camere penali italiane.  Invocando
a sostegno della tempestivita' dell'intervento l'art. 10 delle  norme
integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale e, quanto
alla legittimazione soggettiva, la  disciplina  di  cui  all'art.  27
della legge 7 dicembre 2000, n. 383 (Disciplina delle associazioni di
promozione sociale), l'Unione delle Camere penali italiane ha chiesto
l'accoglimento  della  questione   di   legittimita'   costituzionale
sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Venezia,  richiamando,  in
tal senso, pronunce della Corte costituzionale e della Corte  europea
dei diritti dell'uomo. 
    4.- Con ordinanza depositata il 18 marzo 2013  (r.o.  n.  82  del
2013), il Tribunale  di  sorveglianza  di  Milano  ha  sollevato,  in
riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo  comma,
della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 3 della  CEDU,
questione di legittimita' costituzionale dell'articolo 147 cod.  pen.
«nella parte in cui non prevede,  oltre  ai  casi  ivi  espressamente
contemplati, l'ipotesi di rinvio  facoltativo  dell'esecuzione  della
pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso  di
umanita'». 
    Il  rimettente  e'  stato  investito   dell'istanza   di   rinvio
facoltativo dell'esecuzione della pena presentata da un detenuto, che
lamentava lo svolgimento della sua reclusione con modalita'  disumane
equiparabili  a  tortura;  l'istanza  era  stata  rigettata  in   via
interinale dal  magistrato  di  sorveglianza,  che  ne  aveva  quindi
rimesso  l'esame  al  tribunale  di  sorveglianza.  Il  detenuto  sta
scontando la pena di quindici anni di reclusione (di cui  residua  la
pena di dodici anni, sette mesi e dieci giorni) irrogata a seguito di
condanna per i delitti di associazione di tipo mafioso, sequestro  di
persona, detenzione  e  porto  abusivo  di  armi;  lo  spazio  a  sua
disposizione nella cella, che divide con altri due reclusi, e' pari a
circa mq. 3,30,  di  poco  superiore  al  limite  minimo  considerato
"vitale"  dalla  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei   diritti
dell'uomo (sentenza  16  luglio  2009,  Sulejmanovic  contro  Italia;
sentenza 8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia), dovendosi  pero'
considerare che tale spazio e' in parte occupato  da  vario  mobilio;
pertanto, lo spazio disponibile per il  detenuto  e'  di  gran  lunga
inferiore ai mq. 3. Ritiene, dunque, il Tribunale di sorveglianza  di
Milano che «il detenuto  stia  subendo  un  trattamento  "disumano  e
degradante"», sicche' si pone «una questione di compatibilita'  della
sua detenzione con i principi di non  disumanita'  della  pena  e  di
rispetto   della   dignita'   della    persona    detenuta    sottesi
all'applicazione proprio dell'istituto del  differimento  della  pena
che viene invocato dall'interessato». 
    Riferisce ancora il rimettente che, in considerazione  dei  reati
commessi   (ostativi   ai   sensi   dell'art.   4-bis,    comma    1,
dell'ordinamento penitenziario, della loro  gravita'  e  del  lontano
fine pena), al condannato non potrebbe, allo stato,  essere  concessa
alcuna delle misure previste per esigenze meramente o prevalentemente
deflattive (come, ad esempio, l'esecuzione presso il domicilio  della
pena detentiva ex art. 1 della legge n. 199  del  2010  e  successive
modificazioni) o  per  scopi  di  umanizzazione  o  rieducativi,  che
possano comportare  la  sottrazione  del  condannato  a  carcerazioni
degradanti (ad esempio, i permessi premio a  norma  dell'art.  30-ter
dell'ordinamento penitenziario), sicche' non resterebbe che ricorrere
al   rinvio   facoltativo   dell'esecuzione   della   pena   invocato
dall'istante. 
    Il Tribunale di sorveglianza di  Milano  propone  poi,  anche  in
ordine   alla   non   manifesta   infondatezza    della    questione,
argomentazioni analoghe a quelle svolte dall'ordinanza del  Tribunale
di sorveglianza  di  Venezia  n.  67  del  2013,  sottolineando,  con
riferimento all'art. 3 della CEDU, come si tratti di  «una  norma  di
jus cogens, che non prevede alcun  tipo  di  eccezione  o  deroga  in
quanto accorda al diritto di non essere sottoposti a tortura o a pene
o trattamenti inumani  o  degradanti  una  protezione  assoluta,  non
suscettibile di deroga, neppure in caso di guerra o qualora  sussista
un pericolo pubblico per la nazione o in caso di lotta al  terrorismo
o al crimine organizzato» (art. 15, comma 2, della CEDU). 
    Il rimettente, inoltre, richiama per un verso l'art. 32  Cost.  e
la definizione di  "salute"  delineata  dall'Organizzazione  mondiale
della sanita' e, per altro verso, la sentenza n. 113 del 2011, con la
quale  la  Corte  costituzionale   ha   dichiarato   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 630 cod. proc. pen., nella parte in cui  non
prevede un diverso caso di revisione della  sentenza  o  del  decreto
penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del  processo,
quando cio' sia necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della
CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte  europea
dei diritti dell'uomo. 
    Osserva, ancora, il rimettente che gli impedimenti  all'effettiva
espiazione della pena previsti  dall'ordinamento  sarebbero  solo  di
carattere individuale, riguardando la persona del detenuto e  non  le
condizioni in cui la pena stessa viene  eseguita,  laddove  in  altri
ordinamenti si sarebbe fatta applicazione proprio dello strumento del
differimento o della sospensione per ricondurre a una  situazione  di
legalita' l'esecuzione in  palese  violazione  del  divieto  di  pene
crudeli: il sistema, ampiamente collaudato in Paesi del Nord  Europa,
«pone il principio inderogabile del limite massimo di capienza  degli
istituti penitenziari», essendo  prevista  «la  possibilita',  per  i
reati meno gravi e sulla base di una normativa molto  stringente,  di
evitare la detenzione vera e propria fino a quando si crea  un  posto
negli istituti penitenziari». 
    5.- E' intervenuto nel giudizio di legittimita' costituzionale il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,  chiedendo,  sulla  base  di
argomentazioni analoghe a quelle svolte con riferimento all'ordinanza
del Tribunale di sorveglianza di Venezia  n.  67  del  2013,  che  la
questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. 
    6.- Ha proposto atto di intervento - depositato fuori termine  il
29  luglio  2013  -  l'Associazione  VOX-Osservatorio  italiano   sui
diritti, che, richiamando  contributi  dottrinali  e  pronunce  della
Corte costituzionale e della Corte europea dei diritti dell'uomo,  ha
chiesto l'accoglimento della questione di legittimita' costituzionale
sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Milano. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con due ordinanze analoghe, il Tribunale di  sorveglianza  di
Venezia e il Tribunale di sorveglianza di Milano hanno sollevato,  in
riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo  comma,
della Costituzione, quest'ultimo in relazione  all'articolo  3  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (d'ora in avanti: CEDU), firmata a  Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  4  agosto
1955, n. 848, questione di legittimita' costituzionale  dell'articolo
147 del codice penale «nella parte in cui non prevede, oltre ai  casi
ivi  espressamente  contemplati,  l'ipotesi  di  rinvio   facoltativo
dell'esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in  condizioni
contrarie al senso di umanita'». 
    Escludendo in tale caso il differimento dell'esecuzione, la norma
impugnata, secondo i giudici rimettenti, violerebbe l'art. 27,  terzo
comma, Cost. sotto due aspetti: in primo  luogo  con  riferimento  al
divieto di trattamenti contrari al senso  di  umanita',  trattamenti,
quelli oggetto delle ordinanze di rimessione, cosi' qualificabili  in
base all'art. 3 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei
diritti dell'uomo, che ritiene  integrato  il  carattere  disumano  e
degradante laddove alla persona detenuta  sia  riservato  uno  spazio
nella  camera   di   detenzione   inferiore   o   pari   a   mq.   3,
indipendentemente  dalle  condizioni  di  vita   comunque   garantite
nell'istituto penitenziario; in secondo luogo  con  riferimento  alla
finalita'  rieducativa  della  pena,  finalita'  compromessa  qualora
l'esecuzione carceraria si  svolga  in  condizioni  di  "inumanita'",
perche' «la restrizione in spazi angusti, a ridosso di  altri  corpi,
produce   invalidazione   di    tutta    la    persona    e    quindi
deresponsabilizzazione e rimozione del senso di colpa  non  inducendo
nel  condannato  quel  significativo   processo   modificativo   che,
attraverso il trattamento individualizzato, consente  l'instaurazione
di una normale vita di relazione». 
    La norma censurata, inoltre, sarebbe in contrasto con l'art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 3 della  CEDU,  cosi'  come
interpretato dalla  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo,  che  ha
individuato i parametri di «vivibilita'  minima»,  al  di  sotto  dei
quali  una  detenzione  puo'   definirsi   «trattamento   inumano   o
degradante». 
    Infine, l'art. 147 cod. pen., per un verso, violerebbe gli  artt.
2 e 3 Cost., dovendosi intendere  la  dignita'  umana  quale  diritto
inviolabile, «presupposto dello stesso articolo  27  Cost.»,  e,  per
altro verso, anche alla luce dell'esperienza  di  altri  ordinamenti,
minerebbe la razionalita' giuridica e la coerenza costituzionale  del
sistema a causa dell'assenza  dello  «strumento  del  differimento  o
della sospensione della pena per  ricondurre  ad  una  situazione  di
legalita' l'esecuzione della pena detentiva in situazioni  di  palese
violazione del divieto di "pene crudeli"». 
    Entrambe le ordinanze, per motivare il contrasto con l'art.  117,
primo comma,  Cost.,  in  relazione  all'art.  3  della  CEDU,  fanno
riferimento alla sentenza della Corte europea dei diritti  dell'uomo,
8 gennaio 2013, Torreggiani contro Italia,  relativa  ai  ricorsi  di
sette detenuti che avevano lamentato di essere stati sottoposti a  un
trattamento inumano e degradante, per il sovraffollamento e per altre
condizioni di degrado delle celle nelle quali erano stati costretti a
vivere. 
    La Corte europea ha riscontrato che i ricorrenti, nel corso della
detenzione, avevano avuto a disposizione nelle loro celle uno  spazio
vitale individuale di tre metri quadrati, ulteriormente ridotto dalla
presenza  di  mobilio,  e  ha  ritenuto  che  la  carenza  di  spazio
costituisse «di per se'» un trattamento contrario  alla  Convenzione,
ulteriormente aggravato da altre  situazioni  ambientali  denunciate,
quali la  mancanza  di  acqua  calda  e  di  un'illuminazione  e  una
ventilazione sufficienti. Di qui la  conclusione  che  vi  era  stata
violazione dell'art. 3 della CEDU. 
    Nella sentenza  la  Corte  di  Strasburgo  ha  rilevato  che  «il
sovraffollamento carcerario in Italia non riguarda  esclusivamente  i
casi dei ricorrenti» e che, come dimostrano i  dati  statistici,  «la
violazione del diritto dei ricorrenti di  beneficiare  di  condizioni
detentive adeguate non e' la conseguenza di episodi isolati, ma  trae
origine da un problema sistemico risultante  da  un  malfunzionamento
cronico  proprio  del  sistema   penitenziario   italiano,   che   ha
interessato e puo' interessare ancora in  futuro  numerose  persone».
Considerata questa situazione, pur consapevole della  «necessita'  di
sforzi conseguenti e sostenuti sul lungo  periodo  per  risolvere  il
problema strutturale del sovraffollamento carcerario»,  la  Corte  ha
dichiarato  che  «stante  l'inviolabilita'   del   diritto   tutelato
dall'articolo 3 della Convenzione, lo Stato e' tenuto ad  organizzare
il suo sistema  penitenziario  in  modo  tale  che  la  dignita'  dei
detenuti sia rispettata», e che, quando non e' in grado di  garantire
a ciascun detenuto condizioni detentive  conformi  all'art.  3  della
CEDU, e' tenuto ad agire «in modo da ridurre  il  numero  di  persone
incarcerate, in particolare attraverso una maggiore  applicazione  di
misure punitive non privative della liberta' (...) e una riduzione al
minimo del ricorso alla custodia cautelare in carcere». 
    Cio' considerato, la Corte europea ha preso in considerazione  le
«vie di ricorso interne  da  adottare  per  far  fronte  al  problema
sistemico» emerso in seguito ai ricorsi,  e  ha  affermato  che,  «in
materia di condizioni detentive, i rimedi "preventivi"  e  quelli  di
natura  "compensativa"  devono  coesistere  in  modo  complementare».
Percio' «quando un ricorrente sia detenuto  in  condizioni  contrarie
all'articolo 3 della Convenzione, la migliore  riparazione  possibile
e' la rapida cessazione della violazione del  diritto  a  non  subire
trattamenti inumani e degradanti»; inoltre il ricorrente «deve potere
ottenere una riparazione per la violazione subita». 
    Posti tali principi, la Corte ha aggiunto  che  non  risponde  ai
canoni convenzionali il reclamo  al  magistrato  di  sorveglianza  ex
artt. 35 e 69 dell'ordinamento penitenziario, perche'  si  tratta  di
«un ricorso accessibile, ma non effettivo nella pratica, dato che non
consente di porre fine rapidamente alla  carcerazione  in  condizioni
contrarie all'articolo 3 della Convenzione». Pertanto, ha concluso la
Corte, entro un anno dalla data in cui la sentenza Torreggiani  sara'
diventata definitiva, «le autorita'  nazionali  devono  creare  senza
indugio un ricorso o una combinazione di ricorsi che abbiano  effetti
preventivi e compensativi e garantiscano  realmente  una  riparazione
effettiva  delle  violazioni   della   Convenzione   risultanti   dal
sovraffollamento carcerario in Italia». 
    2.- In considerazione dell'identita' delle questioni, deve essere
disposta la riunione dei giudizi, al fine di definirli  con  un'unica
pronuncia. 
    3.- Preliminarmente deve rilevarsi che  gli  atti  di  intervento
dell'Associazione VOX-Osservatorio italiano sui diritti e dell'Unione
delle Camere penali italiane sono stati depositati oltre  il  termine
stabilito dall'art. 4, comma 4, delle norme integrative per i giudizi
davanti alla Corte costituzionale e cio' determina l'inammissibilita'
di tali  interventi  (ordinanza  n.  150  del  2012).  Ne'  in  senso
contrario puo' invocarsi il termine di cui all'art.  10  delle  norme
integrative, richiamato dall'Unione  delle  Camere  penali  italiane,
perche' questo termine si  riferisce  al  mero  deposito  di  memorie
illustrative. 
    4.- L'Avvocatura generale dello Stato ha proposto  due  eccezioni
di inammissibilita'. 
    Con la prima si deduce, da un lato, che  le  circostanze  esposte
dai rimettenti sarebbero prive di riscontri oggettivi e  suscettibili
di «mutamento nel tempo e di elaborazioni meramente discrezionali  da
parte del soggetto interessato e dell'Organo giudicante», laddove  le
condizioni  cui  l'art.  147  cod.  pen.  ricollega  il  differimento
facoltativo dell'esecuzione  della  pena  sarebbero  «ben  precise  e
connesse a fattori esattamente definiti ed  apprezzabili  dall'Organo
giudicante con precisi riferimenti agli interessi da  ponderare»,  il
che impedirebbe «di fondare un giudizio di costituzionalita'  su  una
disposizione perfettamente in linea con i precetti costituzionali  di
riferimento»;  dall'altro,  che  «gli  inconvenienti  lamentati   dal
detenuto istante  [sarebbero]  perseguibili  con  mezzi  adeguati  al
sistema,  cioe'  con  una  diversa  disciplina  amministrativa  della
organizzazione dell'istituto di pena,  di  competenza  dell'Autorita'
prepostavi ed estranea alla potesta' giurisdizionale del Tribunale di
Sorveglianza». 
    L'eccezione non e' fondata. Le circostanze di fatto riferite  dai
giudici rimettenti sono state accertate anche  attraverso  specifiche
acquisizioni   istruttorie;   la   descrizione   di   esse   risponde
all'esigenza di delineare compiutamente le  fattispecie  oggetto  dei
giudizi a quibus e la loro riconducibilita'  al  tipo  di  condizioni
detentive che la Corte di Strasburgo  considera  lesive  dell'art.  3
della CEDU. L'asserzione, poi, che tali circostanze sono suscettibili
di mutamento nel tempo e  che  gli  «inconvenienti»  lamentati  dagli
istanti sono superabili con iniziative  organizzative  dell'Autorita'
competente non rileva ai fini  dell'ammissibilita'  delle  questioni,
che sono finalizzate all'introduzione di un rimedio "preventivo"  per
i casi in cui l'Amministrazione penitenziaria non  sia  in  grado  di
assicurare  condizioni  detentive  compatibili  con  il  divieto   di
trattamenti contrari al senso di umanita'. 
    L'Avvocatura dello Stato censura poi il mancato esame critico, da
parte  dei  rimettenti,  degli  orientamenti  giurisprudenziali   che
impedirebbero l'applicazione ai casi oggetto dei  giudizi  principali
della disciplina di cui all'art. 147 cod. pen. Anche questa eccezione
non e' fondata, in quanto i tribunali di sorveglianza di Venezia e di
Milano  hanno  escluso  la   praticabilita'   di   un'interpretazione
costituzionalmente conforme sulla base  di  una  ricostruzione  della
portata della norma censurata aderente al dato letterale e  in  linea
con le indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza di legittimita'. 
    5.-  Le  questioni,  peraltro,  sono  per  una  diversa   ragione
inammissibili. 
    6.- La complessita' della situazione sottostante  alle  questioni
sollevate dai rimettenti impone  di  collocarle  nel  contesto  della
realta'  carceraria  italiana,  caratterizzata   da   condizioni   di
sovraffollamento che, nel suo messaggio alle  Camere  dell'8  ottobre
2013, il Presidente della Repubblica  ha  definito  intollerabili;  i
rimettenti muovono da questo contesto, sottolineando come  appartenga
al fatto notorio «la circostanza che la capienza  (sia  regolamentare
sia tollerabile) degli istituti di pena italiani  e'  di  gran  lunga
inferiore rispetto alla grandezza delle effettive presenze». 
    In termini analoghi si e' espressa, come si e'  visto,  la  Corte
europea dei diritti dell'uomo, che, con la sentenza 8  gennaio  2013,
Torreggiani contro Italia,  ha  rimarcato  come  il  sovraffollamento
carcerario in Italia abbia un «carattere strutturale e sistemico». 
    Queste valutazioni sono senz'altro condivisibili  alla  luce  dei
dati statistici, dai quali emerge un fenomeno che, pur con intensita'
diverse, sta investendo da tempo il sistema penitenziario italiano  e
ha  determinato  una  situazione  che  non   puo'   protrarsi,   data
l'attitudine  del  sovraffollamento  carcerario  a   pregiudicare   i
connotati costituzionalmente inderogabili dell'esecuzione penale e ad
incidere, comprimendolo, sul "residuo"  irriducibile  della  liberta'
personale del detenuto, gli uni e l'altro espressione  del  principio
personalistico posto a  fondamento  della  Costituzione  repubblicana
(sentenza n. 1 del 1969). 
    Il sovraffollamento pero' non  puo'  essere  contrastato  con  lo
strumento indicato dai rimettenti, che, se pure  potesse  riuscire  a
determinare  una  sensibile  diminuzione  del  numero  delle  persone
recluse in carcere, giungerebbe a questo risultato in  modo  casuale,
determinando disparita' di trattamento tra i  detenuti,  i  quali  si
vedrebbero o no differire l'esecuzione della pena in mancanza  di  un
criterio  idoneo  a  selezionare  chi  debba   ottenere   il   rinvio
dell'esecuzione  fino  al  raggiungimento  del  numero  dei   reclusi
compatibile con lo stato delle strutture carcerarie. L'obbiettivo dei
rimettenti del resto non e' quello  di  introdurre  nel  sistema  uno
strumento capace di porre termine al sovraffollamento carcerario,  ma
quello di apprestare una tutela per la persona che si trovi a  subire
un trattamento penale non conforme ai principi fissati dall'art.  27,
terzo comma, Cost. 
    Fermo rimanendo che non spetta a  questa  Corte  individuare  gli
indirizzi  di  politica  criminale  idonei  a  superare  il  problema
strutturale e sistemico del sovraffollamento carcerario,  non  ci  si
puo' esimere dal ricordare le indicazioni offerte al  riguardo  dalla
citata sentenza Torreggiani, laddove richiama le raccomandazioni  del
Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, che  invitano  al  piu'
ampio ricorso possibile alle misure alternative alla detenzione e  al
riorientamento della politica penale verso  il  minimo  ricorso  alla
carcerazione,  oltre  che  a  una  forte  riduzione  della   custodia
cautelare in carcere. E'  da  considerare  pero'  che  un  intervento
combinato  sui  sistemi  penale,   processuale   e   dell'ordinamento
penitenziario richiede del tempo mentre l'attuale situazione non puo'
protrarsi  ulteriormente  e  fa  apparire  necessaria  la   sollecita
introduzione di misure specificamente mirate a farla cessare. 
    7.- Cio' premesso per quanto riguarda, nei suoi aspetti generali,
la situazione di sovraffollamento carcerario, va considerato  che  il
suo  carattere  strutturale  e  sistemico  ha  indotto  la  Corte  di
Strasburgo a statuire, con la procedura della sentenza  pilota,  che,
entro il termine di un  anno  dalla  data  in  cui  la  decisione  e'
divenuta definitiva, le autorita' nazionali devono creare un  ricorso
o  una  combinazione  di  ricorsi  individuali  che  abbiano  effetti
"preventivi" (nel senso che devono determinare «la rapida  cessazione
della violazione del diritto  a  non  subire  trattamenti  inumani  e
degradanti»)  e  "compensativi",  e  garantiscano   una   riparazione
effettiva   delle    violazioni    della    CEDU    risultanti    dal
sovraffollamento. 
    La necessita' di introdurre un rimedio "preventivo" a tutela  del
detenuto che subisce condizioni di detenzione contrarie al  senso  di
umanita' sta anche alla base delle questioni sollevate dai  tribunali
di sorveglianza di Venezia e di Milano, rispetto alle quali  il  piu'
generale  problema  del  sovraffollamento  carcerario  rimane   sullo
sfondo. 
    I giudici rimettenti muovono dalla esigenza di «dare applicazione
al principio di non disumanita' della pena», cui sarebbe in grado  di
far  fronte  la  "norma   di   chiusura"   sul   rinvio   facoltativo
dell'esecuzione della pena, da  introdurre  attraverso  la  pronuncia
additiva richiesta a questa Corte. Tale norma costituirebbe  «l'unico
strumento di effettiva tutela in  sede  giurisdizionale  al  fine  di
ricondurre nell'alveo  della  legalita'  costituzionale  l'esecuzione
della pena», in presenza di condizioni detentive che si risolvano  in
trattamenti disumani e degradanti. 
    E' da aggiungere  che,  come  correttamente  rilevano  i  giudici
rimettenti, il divieto di adottare misure concretanti un  trattamento
contrario al senso di  umanita'  non  puo'  essere  disgiunto,  nella
ricostruzione della sua ratio e della sua  portata  applicativa,  dal
riferimento alla finalita' rieducativa (sentenza n. 376 del 1997): al
riguardo, questa Corte ha messo in luce il  contesto  «unitario,  non
dissociabile», nel quale vanno collocati  i  principi  delineati  dal
terzo comma dell'art. 27 Cost., in  quanto  logicamente  in  funzione
l'uno dell'altro, posto che, in particolare, «un  trattamento  penale
ispirato  a  criteri  di  umanita'  e'  necessario  presupposto   per
un'azione rieducativa del condannato» (sentenza n. 12 del 1966). 
    7.1.-  Lo  statuto  costituzionale  e  quello  convenzionale  del
divieto di trattamenti  contrari  al  senso  di  umanita'  confermano
l'esigenza che l'ordinamento appresti  i  necessari  rimedi  di  tipo
"preventivo" a tutela del  detenuto.  Questi  rimedi  possono  essere
innanzi tutto "interni" al sistema penitenziario, e  quindi  tali  da
comportare,  in  casi  come  quelli  oggetto   delle   ordinanze   di
rimessione, non gia' la sospensione dell'esecuzione carceraria  della
pena, ma, ad esempio, piu' semplicemente, lo spostamento del detenuto
in un'altra camera di detenzione o il suo trasferimento in  un  altro
istituto penitenziario. 
    Esiste  dunque,  in  primo  luogo,  uno  spazio  per   interventi
dell'amministrazione penitenziaria che devono essere indirizzati alla
salvaguardia, congiuntamente, del diritto a  non  subire  trattamenti
disumani  e  della  finalita'  rieducativa  della  pena,  perche'  il
contesto «non dissociabile» nel quale vanno collocati i due  principi
delineati dal terzo comma dell'art. 27 Cost. esclude l'ammissibilita'
di interventi che, allo scopo di porre  rimedio  a  una  lesione  del
primo, determinino una compromissione della seconda. 
    E' inoltre  necessario  che,  a  garanzia  della  preminenza  dei
principi costituzionali ai quali deve conformarsi l'esecuzione  della
pena, gli interventi dell'amministrazione  penitenziaria  si  trovino
inseriti in un contesto di effettiva tutela giurisdizionale. 
    Vengono in considerazione  al  riguardo  le  conclusioni  cui  e'
giunta la giurisprudenza di  questa  Corte  in  tema  di  tutela  dei
diritti del  detenuto:  per  un  verso,  infatti,  alle  disposizioni
impartite, nel corso del trattamento, dal magistrato di sorveglianza,
a norma dell'art. 69, comma  5,  dell'ordinamento  penitenziario,  e'
stata  riconosciuta  natura  di  «prescrizioni  od  ordini,  il   cui
carattere   vincolante   per   l'amministrazione   penitenziaria   e'
intrinseco alle finalita' di tutela che  la  norma  stessa  persegue»
(sentenza n. 266 del 2009); per altro verso, si e'  piu'  di  recente
affermato che «le decisioni del magistrato di sorveglianza,  rese  su
reclami proposti da detenuti a tutela di propri diritti e secondo  la
procedura contenziosa  di  cui  all'art.  14-ter  ord.  pen.,  devono
ricevere concreta  applicazione  e  non  possono  essere  private  di
effetti pratici da provvedimenti dell'Amministrazione penitenziaria o
di altre autorita'» (sentenza n. 135 del 2013). 
    Sono percio' superate le incertezze espresse, sia dalla Corte  di
Strasburgo, sia dai rimettenti, sull'effettivita' di tali  decisioni,
e dunque sulla loro capacita' di porre fine  a  condizioni  detentive
intollerabili; tuttavia, anche  per  dare  compiuta  attuazione  alle
prescrizioni della sentenza Torreggiani, il  legislatore,  per  porre
termine a residue ambiguita' dell'ordinamento penitenziario, dovrebbe
completare il sistema apprestando idonei strumenti esecutivi in  modo
da rendere certa l'ottemperanza dell'amministrazione  alle  decisioni
della magistratura di sorveglianza. 
    7.2.- Chiarito l'ambito entro  il  quale  situazioni  lesive  del
principio di umanita' della pena possono e devono  essere  affrontate
attraverso i rimedi "interni", occorre stabilire  se  questi  possano
essere sufficienti o se invece sia necessaria una norma  di  chiusura
per il caso in cui, a causa del sovraffollamento, questi  rimedi  non
siano in grado di  operare  efficacemente,  e  se  tale  norma,  come
prospettano i rimettenti, debba necessariamente prevedere  un  rinvio
dell'esecuzione della pena,  da  rendere  possibile  per  il  giudice
attraverso  la   dichiarazione   di   illegittimita'   costituzionale
dell'art. 147 cod. pen. 
    Come  ha   rilevato   fondatamente   la   sentenza   Torreggiani,
considerate le dimensioni strutturali del sovraffollamento carcerario
in Italia e' facile immaginare che  le  autorita'  penitenziarie  non
siano  sempre  in  grado  di  dare  esecuzione  alle  decisioni   dei
magistrati di sorveglianza  e  di  garantire  ai  reclusi  condizioni
detentive conformi  alla  CEDU.  Percio'  deve  riconoscersi  che  il
sovraffollamento carcerario puo' nella realta' assumere dimensioni  e
caratteristiche tali da tradursi in trattamenti contrari al senso  di
umanita'  e  da  rendere  al  tempo  stesso  impraticabili  i  rimedi
"interni" di cui si e' parlato. In questi  casi  occorre  un  rimedio
estremo, il quale, quando non sia altrimenti  possibile  mediante  le
ordinarie  misure  dell'ordinamento   penitenziario,   permetta   una
fuoriuscita  del  detenuto  dal  circuito  carcerario,  eventualmente
correlata all'applicazione nei suoi confronti di misure sanzionatorie
e di controllo non carcerarie. 
    8.-  Riconosciute,  dunque,  nei  limiti  indicati,   l'effettiva
sussistenza del vulnus denunciato dai rimettenti e la necessita'  che
l'ordinamento si doti di un rimedio idoneo a garantire la fuoriuscita
dal circuito carcerario del detenuto che sia costretto  a  vivere  in
condizioni contrarie al senso di umanita', le questioni sollevate dai
tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano risultano, tuttavia,
inammissibili per la pluralita' di soluzioni normative che potrebbero
essere adottate; pluralita' che fa escludere l'asserito carattere  "a
rime obbligate" dell'intervento  additivo  sull'art.  147  cod.  pen.
Oltre al mero  rinvio  dell'esecuzione  della  pena,  sono,  infatti,
ipotizzabili altri tipi di rimedi  "preventivi",  come,  ad  esempio,
quelli modellati sulle misure previste  dagli  artt.  47  e  seguenti
dell'ordinamento penitenziario, ad alcune delle  quali  si  e'  fatto
riferimento nel dibattito seguito alla sentenza  Torreggiani;  misure
che per  ovviare  alla  situazione  di  invivibilita'  derivante  dal
sovraffollamento carcerario potrebbero essere  adottate  dal  giudice
anche in mancanza delle  condizioni  oggi  tipicamente  previste.  In
particolare potrebbe ipotizzarsi un  ampio  ricorso  alla  detenzione
domiciliare, sempre che le  condizioni  personali  lo  consentano,  o
anche ad altre misure  di  carattere  sanzionatorio  e  di  controllo
diverse  da  quelle  attualmente  previste,  da   considerare   forme
alternative di esecuzione della pena. E' da ritenere infatti  che  lo
stesso condannato potrebbe preferire misure del genere  e  non  avere
interesse a un rinvio come quello  prospettato  dai  rimettenti,  che
potrebbe lasciare a lungo aperta la sua vicenda esecutiva. 
    D'altra  parte,  anche  a  seguire  l'impostazione  dei   giudici
rimettenti, potrebbe essere necessaria la definizione di  criteri  in
base ai quali individuare il detenuto o i detenuti nei cui  confronti
il rinvio puo' essere disposto, in modo da tenere anche  conto  delle
esigenze  di  "difesa  sociale",  richiamate   nelle   ordinanze   di
rimessione. 
    Da  vari  punti  di  vista,  dunque,  risulta  la  pluralita'  di
possibili configurazioni dello  strumento  normativo  occorrente  per
impedire che si protragga un trattamento detentivo contrario al senso
di umanita', in violazione degli artt. 27, terzo comma, e 117,  primo
comma, Cost., in relazione quest'ultimo all'art. 3 della  CEDU,  e  a
fronte  di  tale  pluralita',  il  «rispetto   della   priorita'   di
valutazione da parte del legislatore sulla congruita' dei  mezzi  per
raggiungere un fine costituzionalmente necessario»  (sentenza  n.  23
del  2013)  comporta  una  dichiarazione  di  inammissibilita'  delle
questioni. 
    Nel dichiarare l'inammissibilita'  «questa  Corte  deve  tuttavia
affermare  come  non  sarebbe   tollerabile   l'eccessivo   protrarsi
dell'inerzia legislativa in  ordine  al  grave  problema  individuato
nella presente pronuncia» (sentenza n. 23 del 2013). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1)  dichiara  inammissibili  gli   interventi   dell'Associazione
VOX-Osservatorio italiano sui  diritti  e  dell'Unione  delle  Camere
penali italiane; 
    2)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'articolo 147 del  codice  penale,  sollevate,  in
riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo  comma,
della Costituzione, quest'ultimo in relazione  all'articolo  3  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Tribunale di
sorveglianza di Venezia e dal Tribunale di  sorveglianza  di  Milano,
con le ordinanze indicate in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 ottobre 2013. 
 
                                F.to: 
                    Gaetano SILVESTRI, Presidente 
                     Giorgio LATTANZI, Redattore 
                   Gabriella MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2013. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                       F.to: Gabriella MELATTI