N. 293 SENTENZA 2 - 6 dicembre 2013

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Misure cautelari  -  Durata  massima  -  Deducibilita',  in  sede  di
  riesame, della  retrodatazione  della  decorrenza  dei  termini  di
  durata  massima  della  misura  cautelare,  prevista  nei  casi  di
  "contestazione a catena" - Subordinazione anche alla condizione che
  tutti  gli  elementi  per   la   retrodatazione   stessa   emergano
  dall'ordinanza cautelare impugnata - Principio di diritto formulato
  dalle Sezioni unite della Corte di  cassazione  quale  giudice  del
  rinvio, vincolante per il giudice a quo - Disparita' di trattamento
  tra i ricorrenti al tribunale del  riesame  in  dipendenza  di  una
  circostanza estrinseca  e  casuale,  quale  la  maggiore  o  minore
  ricchezza delle indicazioni contenute nel provvedimento  coercitivo
  - Illegittimita' costituzionale interpretativa  -  Assorbimento  di
  ulteriori censure. 
- Codice di procedura penale, art. 309. 
- Costituzione, art. 3, primo comma  (artt.  13,  quinto  comma,  24,
  secondo comma, 25, primo comma, 111,  terzo  comma,  e  117,  primo
  comma). 
(GU n.50 del 11-12-2013 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Gaetano SILVESTRI; 
Giudici :Luigi MAZZELLA,  Sabino  CASSESE,  Giuseppe  TESAURO,  Paolo
  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe  FRIGO,  Alessandro  CRISCUOLO,  Paolo
  GROSSI, Giorgio  LATTANZI,  Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Sergio
  MATTARELLA, Mario Rosario  MORELLI,  Giancarlo  CORAGGIO,  Giuliano
  AMATO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  309  del
codice di procedura penale, in relazione all'art. 297, comma  3,  del
medesimo codice, promosso dal Tribunale di Bologna  nel  procedimento
penale a carico di P.G. con ordinanza del 22 dicembre 2012,  iscritta
al n. 54 del registro ordinanze  2013  e  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale della Repubblica n. 12,  prima  serie  speciale,  dell'anno
2013. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 9  ottobre  2013  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza depositata il 22 dicembre 2012, il Tribunale di
Bologna  ha  sollevato  questione  di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 309 del codice di procedura penale, in  relazione  all'art.
297, comma 3, del medesimo codice,  nella  parte  in  cui  -  secondo
l'interpretazione  offerta  dalle  Sezioni  unite  della   Corte   di
cassazione, vincolante per il giudice a quo  in  quanto  giudice  del
rinvio  -  «subordina  la   deducibilita'   della   questione   della
retrodatazione dell'ordinanza cautelare, in sede  di  riesame,  anche
alla condizione che tutti gli elementi per la  retrodatazione  stessa
emergano dall'ordinanza riesaminata», prospettandone il contrasto con
gli artt. 3, primo comma, 13, quinto comma, 24,  secondo  comma,  25,
primo  comma,  111,  terzo  comma,  e   117,   primo   comma,   della
Costituzione. 
    Il rimettente riferisce che, con ordinanza del 6  novembre  2011,
il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rimini  aveva
applicato la misura della custodia cautelare in carcere  (in  seguito
sostituita con gli arresti domiciliari) ad una persona sottoposta  ad
indagini  per  due  reati  di   cessione   continuata   di   sostanze
stupefacenti. 
    A seguito di richiesta di riesame del difensore - che aveva posto
espressamente e prioritariamente tale questione  -  il  Tribunale  di
Bologna, con ordinanza del 14  novembre  2011,  aveva  dichiarato  la
perdita  di  efficacia  della  misura  e  ordinato   la   liberazione
dell'indagato,  ritenendo  ravvisabile   un'ipotesi   di   cosiddetta
"contestazione a catena". Dagli atti  a  disposizione  del  Tribunale
emergeva,  infatti,  che   l'indagato   era   stato   precedentemente
sottoposto  a  custodia  cautelare  in  carcere,   in   un   separato
procedimento, con ordinanza  del  24  luglio  2010,  per  delitti  in
materia di stupefacenti commessi  quello  stesso  giorno,  e  che  il
pubblico ministero, prima di detta data, era gia'  a  conoscenza  dei
fatti per i quali sarebbe  stata  poi  emessa  l'ordinanza  cautelare
impugnata (e, amplius, degli «elementi per disporre la coercizione»),
stante l'avvenuta ricezione - rispettivamente, il 1° marzo  e  il  1°
giugno 2010 -  delle  informative  di  polizia  giudiziaria  ad  essi
relative. I fatti contestati con le due ordinanze dovevano  ritenersi
inoltre avvinti da connessione qualificata, in quanto riconducibili a
un medesimo disegno criminoso, segnato dalla finalita'  dell'indagato
di reperire mezzi economici  per  far  fronte  al  proprio  stato  di
tossicodipendenza. Peraltro, anche a voler escludere il vincolo della
continuazione,  il  risultato  non  sarebbe  cambiato,   giacche'   i
procedimenti nel cui ambito erano state  adottate  le  due  ordinanze
cautelari pendevano entrambi  davanti  all'autorita'  giudiziaria  di
Rimini, onde la loro mancata riunione era ascrivibile  a  una  scelta
del pubblico ministero. Ai sensi dell'art. 297, comma 3,  cod.  proc.
pen., i termini di durata massima della custodia  cautelare  dovevano
essere pertanto  retrodatati,  facendoli  decorrere  dal  momento  di
esecuzione della prima ordinanza cautelare: con la conseguenza che il
termine annuale previsto per la fase delle indagini preliminari (art.
303, comma 1, lettera a, numero 3, cod. proc.  pen.)  risultava  gia'
interamente  decorso  nel  momento  in  cui  era  stato   emesso   il
provvedimento coercitivo riesaminato. 
    A seguito del ricorso del pubblico ministero contro la decisione,
la quarta Sezione penale della Corte  di  cassazione  -  rilevata  la
sussistenza  di  un  contrasto  giurisprudenziale  in   ordine   alla
deducibilita' delle "contestazioni  a  catena"  nel  procedimento  di
riesame  -  aveva  investito  della  questione  le   Sezioni   unite,
rimettendo ad esse il ricorso. 
    Le Sezioni unite, con la  sentenza  19  luglio  2012-20  novembre
2012, n.  45246,  avevano  annullato  l'ordinanza  del  Tribunale  di
Bologna, rinviando gli atti al medesimo Tribunale per un nuovo  esame
che facesse applicazione del principio di diritto - enunciato in sede
di composizione del contrasto - in forza  del  quale,  «nel  caso  di
contestazione a  catena,  la  questione  della  retrodatazione  della
decorrenza del termine di  custodia  cautelare  puo'  essere  dedotta
anche in sede di riesame solo se ricorrono congiuntamente le seguenti
condizioni: a) se per effetto della  retrodatazione  il  termine  sia
interamente  scaduto  al  momento   della   emissione   del   secondo
provvedimento  cautelare;  b)  se   tutti   gli   elementi   per   la
retrodatazione risultino dall'ordinanza cautelare». 
    Cio'   premesso,   il   Tribunale   felsineo,   reinvestito   del
procedimento di riesame quale giudice del rinvio, rileva  come,  alla
stregua della regula iuris enunciata dalle Sezioni unite - vincolante
in tale fase del giudizio, ai sensi  dell'art.  627,  comma  3,  cod.
proc.  pen.  -  gli  sarebbe  preclusa  l'applicazione  dell'istituto
considerato. Nel caso di specie sussisterebbe, infatti, solo la prima
delle due condizioni dianzi indicate, essendo il termine di fase gia'
completamente decorso, per effetto della retrodatazione, alla data di
adozione  del  provvedimento   coercitivo   di   cui   discute.   Non
ricorrerebbe, di contro, la seconda condizione, giacche' gli elementi
rivelatori  della  "contestazione   a   catena"   non   emergerebbero
dall'ordinanza  cautelare  impugnata,  la  quale   non   reca   alcun
riferimento al primo procedimento e alla  misura  cautelare  in  esso
applicata, ne' da' conto del momento nel  quale  i  fatti  contestati
all'indagato con l'ordinanza stessa avrebbero potuto  essere  desunti
dagli  atti,  in   termini   di   gravita'   indiziaria,   ad   opera
dell'autorita' giudiziaria procedente. 
    Il giudice a quo ritiene, tuttavia, che -  con  riguardo  a  tale
seconda  condizione  limitativa  -  l'interpretazione  offerta  dalle
Sezioni unite alla disposizione combinata degli artt. 297, comma 3, e
309 cod. proc. pen. contrasti con plurimi parametri costituzionali. 
    La regula iuris censurata violerebbe, anzitutto, l'art. 3,  primo
comma, Cost.,  determinando  una  disparita'  di  trattamento  tra  i
ricorrenti al  tribunale  del  riesame  in  dipendenza  di  un  fatto
«estrinseco» e  «casuale».  Alla  sua  stregua,  infatti,  potrebbero
beneficiare  della  retrodatazione  solo  coloro  che  fossero  stati
assoggettati alla misura coercitiva sulla base  di  un'ordinanza  che
rechi tutte le indicazioni necessarie per  valutare  l'applicabilita'
dell'istituto in questione. 
    Tale disparita'  di  trattamento  non  potrebbe  essere,  d'altro
canto, giustificata con gli argomenti addotti dalle Sezioni  unite  a
sostegno della soluzione interpretativa  prescelta.  In  particolare,
detta sperequazione non sarebbe legittimata  ne'  dalla  mancanza  di
poteri istruttori da parte del tribunale del riesame,  la  quale  non
esclude che quest'ultimo possa comunque disporre, a  prescindere  dal
tenore  dell'ordinanza  impugnata,  di  tutti  gli  elementi  per  la
retrodatazione,  ricavandoli  dagli  atti  trasmessi   dall'autorita'
procedente o prodotti dalle parti ai sensi dell'art. 309, commi  5  e
9, cod. proc. pen.; ne' dalla ristrettezza dei tempi della  procedura
di riesame, la quale non impedisce  che  al  relativo  giudice  siano
ordinariamente  affidate  questioni  di  altra  natura,   spesso   di
particolare  complessita'  e  delicatezza;  ne'  dal  rischio  di  un
«contraddittorio  monco»,  giacche'  la  pubblica  accusa  -   parte,
ancorche' non necessaria,  della  procedura  di  riesame  -  potrebbe
sempre valutare se  intervenirvi,  inviando  memorie  o  presenziando
all'udienza,  al  fine  di   contrastare   eventuali   prospettazioni
infondate del ricorrente in punto di "contestazioni a  catena";  ne',
infine, dal timore che la decisione sia assunta sulla  base  di  dati
documentali incompleti.  Il  tribunale,  ove  non  ritenga  di  poter
ricavare dagli atti a sua disposizione  tutti  gli  elementi  per  la
retrodatazione, potrebbe sempre rigettare la richiesta di riesame:  e
cio',  senza  pregiudizio  per  l'interessato,  il  quale   -   anche
nell'ipotesi di formazione del "giudicato cautelare" su  quella  base
conoscitiva - conserverebbe la possibilita' di ottenere una pronuncia
favorevole in sede di richiesta di revoca della  misura,  tramite  la
produzione degli ulteriori elementi occorrenti. 
    La norma risultante dalla interpretazione  censurata  violerebbe,
altresi', l'art. 13, quinto comma,  Cost.,  che  demanda  alla  legge
ordinaria  di  stabilire  i  limiti   massimi   della   «carcerazione
preventiva». La disposizione di cui all'art. 297, comma 3, cod. proc.
pen. integrerebbe, infatti, le  previsioni  dei  termini  massimi  di
custodia cautelare recate dall'art.  303  cod.  proc.  pen.:  con  la
conseguenza che negare al tribunale la possibilita' di apprezzare, in
sede di riesame,  l'avvenuta  perenzione  di  tali  termini  gia'  al
momento dell'adozione del provvedimento  impugnato  comporterebbe  la
dilatazione  dei  termini  stessi  al  di  la'  dei  «tempi  tecnici»
necessari  per   constatarne   l'avvenuto   superamento,   rimettendo
l'accertamento ad altra sede, nella quale la decisione  interverrebbe
«in un tempo non predeterminabile a priori». 
    Sarebbero violati, ancora, gli artt. 24, secondo  comma,  e  111,
terzo comma, Cost., giacche'  l'impossibilita',  per  l'indagato,  di
avvalersi di tutti gli atti disponibili al fine  di  far  constare  i
vizi  genetici  del  provvedimento   restrittivo,   nell'ambito   del
procedimento specificamente previsto per la verifica  di  tali  vizi,
menomerebbe le sue  facolta'  difensive  e  il  diritto  ad  ottenere
«l'acquisizione di ogni [...] mezzo di prova a suo favore». 
    Il principio di diritto denunciato  contrasterebbe,  ancora,  con
l'art. 25, primo comma, Cost., distogliendo l'interessato dal giudice
naturale precostituito per legge. Nel caso in cui gli elementi per la
retrodatazione  non  emergessero  integralmente  e   irrefutabilmente
dall'ordinanza cautelare impugnata, la cognizione del tema  verrebbe,
infatti, sottratta al giudice investito  dalla  legge  del  controllo
immediato sulla legittimita' delle misure cautelari,  e  affidata  ad
altro organo (il giudice che procede, tramite istanza di revoca della
misura ai sensi dell'art. 306 cod. proc. pen.,  e,  solo  in  seconda
battuta  e  in  via  eventuale,  il  tribunale  chiamato  a  decidere
sull'appello de libertate a norma dell'art. 310 cod. proc. pen.). 
    Da ultimo, la regula  iuris  sottoposta  a  scrutinio  violerebbe
l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 5, paragrafo 4,
della Convenzione per la salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848, secondo il quale
«ogni persona privata della liberta' con un arresto o una  detenzione
ha il diritto di presentare  un  ricorso  davanti  ad  un  tribunale,
affinche'  decida  in  breve  tempo  sulla  legittimita'  della   sua
detenzione  e  ordini  la  sua  liberazione  se  la   detenzione   e'
illegittima».  Alla  luce  della  giurisprudenza   della   Corte   di
Strasburgo, infatti, il controllo sulla «legittimita'»  della  misura
restrittiva dovrebbe essere inteso in senso ampio, comprensivo  anche
delle condizioni procedurali: laddove, per converso, il dictum  delle
Sezioni unite impedirebbe al tribunale del riesame di esercitare tale
verifica  sul  versante  della  retrodatazione,  nell'ambito  di  una
procedura rapida e di immediato esito liberatorio. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura   generale   dello   Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. 
    Ad avviso  della  difesa  dello  Stato,  non  vi  sarebbe  alcuna
violazione  dell'art.  3,  primo  comma,  Cost.:  la  disparita'   di
trattamento  prospettata   dal   rimettente   non   sarebbe   infatti
irragionevole, «ove si consideri  la  peculiarita'  del  giudizio  di
riesame - il cui oggetto esclusivo e' costituito  dai  vizi  genetici
dell'ordinanza  applicativa  della  misura  cautelare  e   non   puo'
riguardare i vizi sopravvenuti -, connotato  da  speditezza  e  dalla
mancanza di poteri istruttori in capo al giudice del riesame». 
    Ugualmente  insussistente  sarebbe   la   denunciata   violazione
dell'art. 13, quinto comma, Cost.  Il  rispetto  dei  limiti  massimi
della  custodia  cautelare,  legislativamente   fissati,   resterebbe
comunque garantito, a chi lamenti di  essere  stato  sottoposto  alla
misura cautelare a termini di fase gia'  scaduti  per  effetto  della
retrodatazione, dalla possibilita' di chiedere,  ai  sensi  dell'art.
299 cod. proc. pen., l'immediata revoca della misura: richiesta sulla
quale il giudice e' tenuto a pronunciarsi entro  cinque  giorni,  con
decisione che, se di rigetto, e' appellabile ai sensi  dell'art.  310
cod. proc. pen. 
    La fruibilita' di tale rimedio escluderebbe anche il  prospettato
contrasto con gli artt. 24, secondo comma, e 117, primo comma, Cost. 
    Le norme  denunciate  non  sarebbero  incompatibili  neppure  con
l'art. 25, primo comma, Cost.,  posto  che  l'ordinamento  garantisce
comunque  all'accusato  che   intenda   far   valere   l'operativita'
dell'istituto della retrodatazione la possibilita' di  rivolgersi  ad
un giudice precostituito per legge, chiedendo l'acquisizione di  ogni
elemento di prova a suo  favore,  in  conformita'  al  principio  del
giusto processo, sancito dall'art. 111, terzo comma, Cost. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.-  Il  Tribunale   di   Bologna   dubita   della   legittimita'
costituzionale dell'art. 309  del  codice  di  procedura  penale,  in
relazione all'art. 297, comma 3, del medesimo codice, nella parte  in
cui - secondo l'interpretazione  datane  dalle  Sezioni  unite  della
Corte di cassazione, vincolante  per  il  giudice  a  quo  in  quanto
giudice del rinvio - subordina la deducibilita', in sede di  riesame,
della retrodatazione della decorrenza dei termini di  durata  massima
della  misura  cautelare,  prevista  nei  casi  di  "contestazione  a
catena",  anche  alla  condizione  che  tutti  gli  elementi  per  la
retrodatazione stessa emergano dall'ordinanza cautelare impugnata. 
    Ad avviso del giudice a quo, le norme denunciate violerebbero, in
tale interpretazione, l'art.  3,  primo  comma,  della  Costituzione,
determinando una  disparita'  di  trattamento  tra  i  ricorrenti  al
tribunale del riesame in dipendenza di una circostanza «estrinsec[a]»
e «casuale», quale la maggiore o minore ricchezza  delle  indicazioni
contenute nel provvedimento coercitivo. 
    Sarebbe violato, altresi', l'art. 13, quinto  comma,  Cost.,  che
demanda alla legge ordinaria di  stabilire  i  limiti  massimi  della
«carcerazione preventiva». L'impossibilita' di accertare in  sede  di
riesame  che  i  termini  di  custodia  cautelare  erano  interamente
scaduti,  per  effetto  della   retrodatazione,   gia'   al   momento
dell'adozione del provvedimento restrittivo, implicherebbe,  infatti,
la dilatazione dei termini stessi oltre i «tempi  tecnici»  necessari
per constatarne il superamento. 
    Impedendo, inoltre, all'indagato di  utilizzare  tutti  gli  atti
disponibili, anche diversi dall'ordinanza impugnata, al fine  di  far
valere nel procedimento di riesame il  predetto  vizio  genetico  del
titolo cautelare, la regula iuris censurata lederebbe gli  artt.  24,
secondo  comma,  e  111,  terzo   comma,   Cost.,   che   sanciscono,
rispettivamente, l'inviolabilita' del diritto di difesa e il  diritto
dell'accusato di ottenere «l'acquisizione  di  ogni  [...]  mezzo  di
prova a suo favore». 
    Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite si porrebbe
in contrasto anche con l'art. 25, primo comma, Cost. Nel caso in  cui
gli elementi per la retrodatazione non  emergessero  integralmente  e
incontestabilmente dall'ordinanza cautelare, l'interessato  verrebbe,
infatti, distolto dal giudice naturale precostituito dalla legge  per
il controllo immediato sulla legittimita' delle misure  coercitive  e
costretto a sottoporre la questione ad altro giudice (il giudice  che
procede, tramite proposizione di istanza di revoca della  misura,  e,
solo in via successiva  ed  eventuale,  il  giudice  dell'appello  de
libertate). 
    Risulterebbe violato, infine, l'art. 117, primo comma, Cost.,  in
relazione  all'art.  5,  paragrafo  4,  della  Convenzione   per   la
salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la
legge 4 agosto 1955, n. 848, che riconosce ad  ogni  persona  privata
della liberta' il diritto ad ottenere «in breve tempo»  la  decisione
di un tribunale circa la legittimita' della sua detenzione. 
    2.- In via preliminare, va  ribadito  il  costante  indirizzo  di
questa Corte, secondo il quale il giudice del rinvio e'  abilitato  a
sollevare   dubbi   di   legittimita'   costituzionale    concernenti
l'interpretazione della norma,  quale  risultante  dal  principio  di
diritto enunciato  dalla  Corte  di  cassazione  nella  pronuncia  di
annullamento. Da un lato, infatti, detta norma deve  ricevere  ancora
applicazione nell'ambito del giudizio di rinvio, onde non  si  e'  al
cospetto di un rapporto "esaurito"; dall'altro,  la  proposizione  di
una  simile  questione  di  legittimita'  costituzionale  rappresenta
l'unico mezzo a disposizione del giudice del rinvio per contestare la
regula iuris che sarebbe costretto altrimenti ad applicare, in  forza
dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen. (ex plurimis, sentenze n. 197
del 2010, n. 58 del 1995 e n. 257 del 1994). 
    Resta pertanto irrilevante, nella presente sede,  l'interrogativo
se l'interpretazione sottoposta a scrutinio - del  tutto  innovativa,
come meglio si dira', rispetto al panorama  ermeneutico  anteriore  -
possa qualificarsi come «diritto vivente». Anche qualora, in  via  di
ipotesi, si rispondesse in senso negativo al  quesito,  non  verrebbe
comunque meno il vincolo di conformazione del giudice del  rinvio  al
principio di diritto, cosi' da consentirgli l'adozione  di  soluzioni
interpretative differenti da quella in esso  cristallizzata  (tra  le
molte, sentenze n. 305 del 2008, n. 78 del 2007 e n. 408 del 2005). 
    3.- Nel merito, la questione e' fondata, in riferimento  all'art.
3, primo comma, Cost. 
    La  precipua  finalita'   della   disciplina   delle   cosiddette
"contestazioni a catena" -  istituto  di  origine  giurisprudenziale,
attualmente regolato dall'art. 297, comma 3, cod.  proc.  pen.  -  e'
quella di evitare che la rigorosa predeterminazione  dei  termini  di
durata massima delle misure cautelari possa essere elusa  tramite  la
diluizione nel tempo di due  o  piu'  provvedimenti  restrittivi  nei
confronti della stessa persona. Il nucleo di disvalore  del  fenomeno
risiede, piu' in particolare - come gia' rilevato da questa  Corte  -
«nell'impedimento, ad esso conseguente, al contemporaneo decorso  dei
termini relativi  a  plurimi  titoli  custodiali  nei  confronti  del
medesimo soggetto. Il "ritardo" nell'adozione della seconda ordinanza
cautelare non vale, ovviamente, a  prolungare  i  termini  di  durata
massima della prima misura - essendo gli  stessi  predeterminati  per
legge, ai sensi dell'art. 303 cod. proc. pen. -  ma,  in  difetto  di
adeguati correttivi, avrebbe l'effetto di  espandere  la  restrizione
complessiva  della  liberta'  personale  dell'imputato,  tramite   il
"cumulo materiale" - totale  o  parziale  -  dei  periodi  custodiali
afferenti a ciascun reato. Cio', col risultato di porre l'interessato
in situazione deteriore  rispetto  a  chi,  versando  nella  medesima
situazione  sostanziale,  venga  invece  raggiunto  da  provvedimenti
cautelari coevi,  e  di  rendere,  al  tempo  stesso,  aggirabile  la
predeterminazione legale dei termini di durata massima delle  misure,
imposta dall'art. 13, quinto  comma,  Cost.»  (sentenza  n.  233  del
2011). 
    Il meccanismo di garanzia,  prefigurato  a  favore  dell'accusato
contro   la   suddetta   evenienza,   consiste   segnatamente   nella
retrodatazione della decorrenza del termine  della  misura  cautelare
applicata  "tardivamente".  In  presenza,  cioe',  delle   condizioni
legislativamente   previste   per   la   configurabilita'   di    una
"contestazione  a  catena",  il  termine  relativo  alla  seconda  (o
all'ulteriore) ordinanza cautelare si considera iniziato alla data di
esecuzione del primo provvedimento. Tale meccanismo puo'  comportare,
in fatto, che i termini di durata massima della misura  piu'  recente
risultino gia' "virtualmente" scaduti  alla  data  di  emissione  del
provvedimento che la dispone. 
    4.- Per lungo tempo, la giurisprudenza di legittimita'  e'  stata
unanime  nel  ritenere  che  la  verifica  delle  condizioni  per  la
retrodatazione esulasse dalla cognizione del  giudice  investito  del
procedimento incidentale di riesame delle  ordinanze  che  dispongono
misure coercitive (art. 309  cod.  proc.  pen.).  Tale  indirizzo  si
collocava nell'alveo del piu'  generale  orientamento  interpretativo
secondo cui il riesame - quale impugnazione de libertate a  carattere
pienamente devolutivo - sarebbe finalizzato alla  verifica  dei  soli
requisiti di validita',  formali  e  sostanziali,  del  provvedimento
cautelare impugnato: validita' non  intaccata  dal  meccanismo  della
retrodatazione, il quale  incide  sul  diverso  piano  dell'efficacia
della misura coercitiva  disposta,  modificando  la  decorrenza  e  i
criteri di computo della relativa durata massima. Al  pari  di  altri
eventi  produttivi  dell'inefficacia  di  detta  misura,  connessi  a
vicende autonome e temporalmente  successive  rispetto  all'ordinanza
cautelare  -  quali,  ad  esempio,  l'omissione,  la   tardivita'   o
l'invalidita' dell'interrogatorio previsto dall'art. 294  cod.  proc.
pen.  -  la  retrodatazione  avrebbe  dovuto  essere   fatta   valere
dall'interessato in altro  modo:  e,  cioe',  proponendo  istanza  di
revoca della misura al giudice che procede, ai  sensi  dell'art.  306
cod.  proc.  pen.,  salvo  poi  impugnare  con  appello   l'eventuale
decisione negativa di quest'ultimo (art. 310 cod. proc. pen.). 
    A  partire  dal  2010   e',   peraltro,   emerso   un   indirizzo
giurisprudenziale   di   diverso   segno,   secondo   il   quale   la
retrodatazione sarebbe deducibile  in  sede  di  riesame,  quantomeno
allorche', per effetto di essa,  i  termini  massimi  risultino  gia'
spirati alla data di adozione dell'ordinanza impugnata. 
    Del contrasto sono state quindi investite le Sezioni unite  della
Corte di cassazione, che  lo  hanno  composto  con  due  sentenze  di
identico tenore, emesse e depositate lo stesso giorno, la prima delle
quali  e'  la  pronuncia  di  annullamento  con  rinvio  che  vincola
l'odierno rimettente (Cass., sez. un.,  19  luglio  2012-20  novembre
2012, n. 45246 e n. 45247). 
    Le Sezioni unite hanno adottato una  soluzione  "di  compromesso"
tra le tesi confliggenti, priva di riscontro,  come  gia'  accennato,
nel panorama interpretativo  pregresso.  Secondo  il  supremo  organo
della  nomofilachia,  l'orientamento  tradizionale  e  maggioritario,
inteso ad escludere la competenza del giudice del  riesame,  dovrebbe
essere tenuto fermo nei casi in cui  l'inefficacia  conseguente  alla
retrodatazione sia sopravvenuta rispetto alla data di  emissione  del
provvedimento coercitivo. A conclusioni parzialmente diverse dovrebbe
invece pervenirsi quando, a seguito della retrodatazione, il  termine
risulti interamente  decorso  gia'  al  momento  dell'adozione  della
misura, in maniera tale da determinare una inefficacia originaria del
titolo cautelare. Le  ragioni  che  imporrebbero  di  riconoscere  la
competenza  del  tribunale  del  riesame  in  una  simile   evenienza
sarebbero, peraltro, di diverso ordine rispetto a quelle  prospettate
dalle pronunce espressive dell'indirizzo minoritario e piu'  recente,
basate  su  un  supposto   collegamento   tra   deducibilita'   della
retrodatazione in sede di riesame e configurabilita'  delle  esigenze
cautelari (collegamento in realta' insussistente, giacche' l'avvenuto
decorso del termine massimo della custodia non comporta, di per  se',
il venir meno del periculum  libertatis).  Nella  direzione  indicata
militerebbero piuttosto la collocazione costituzionale del valore  in
gioco -  la  liberta'  personale  -  e  il  favore,  emergente  dalla
normativa sovranazionale, per le opzioni che  assicurino  il  massimo
tasso di rapidita'  delle  decisioni  sulla  legalita'  delle  misure
cautelari  e  sulla  liberazione  della  persona  in   vinculis.   In
particolare, secondo le Sezioni unite, costituirebbe «dovere di  ogni
giudice investito del problema cautelare quello di tutelare nella sua
massima estensione la liberta' personale, protetta come bene primario
dalla  Costituzione  (art.  13)  e  dalle  norme  delle   convenzioni
internazionali che sanciscono il diritto di ogni  persona  sottoposta
ad arresto o detenzione a ricorrere al giudice  per  ottenere  "entro
brevi termini" (art. 5, comma  4,  Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo) o "senza indugio" (art. 9, comma 4,  Patto  internazionale
sui diritti civili e politici), una decisione sulla  legalita'  della
misura e sulla liberazione». 
    Anche nell'ipotesi considerata (termine gia'  scaduto  alla  data
del  provvedimento  coercitivo  impugnato),  la  deducibilita'  della
retrodatazione in sede di riesame  non  sarebbe  peraltro  piena,  ma
rimarrebbe  soggetta  ad  una  ulteriore  condizione  limitativa.  Al
riguardo,  occorrerebbe  infatti  tener  conto,  da  un  lato,  delle
particolari caratteristiche della procedura incidentale  di  riesame,
«che non prevede l'esercizio di poteri istruttori, incompatibili  con
la speditezza del procedimento [...] e  che  si  basa  esclusivamente
sugli elementi emergenti dagli atti trasmessi dal pubblico  ministero
e  su  quelli   eventualmente   addotti   dalle   parti   nel   corso
dell'udienza»;  dall'altro,   della   «notevole   complessita'»   che
l'accertamento delle condizioni per la retrodatazione e' suscettibile
di assumere. I presupposti ai quali e'  subordinata,  a  seconda  dei
casi, la configurabilita' di una "contestazione a catena" -  avvenuta
emissione di plurime ordinanze che dispongono la medesima misura «per
uno stesso fatto, benche' diversamente circostanziato o qualificato»,
ovvero per  fatti  avvinti  da  connessione  cosiddetta  qualificata;
desumibilita'  «dagli  atti»,  in  termini  di  gravita'  del  quadro
indiziario, dei fatti oggetto della seconda  ordinanza  prima  di  un
determinato momento  -  potrebbero  rendere  in  effetti  necessarie,
specie in talune  ipotesi,  verifiche  particolarmente  penetranti  e
porre problemi di non agevole soluzione. 
    Da cio' le Sezioni unite hanno desunto che «soltanto nel caso  in
cui   dalla   stessa   ordinanza   impugnata   emergano    in    modo
incontrovertibile e completo gli elementi utili e  necessari  per  la
decisione  e'  possibile  dare  spazio  ai   principi   di   economia
processuale e di rapida definizione del giudizio in vista della  piu'
ampia  tutela  del   bene   primario   della   liberta'   personale»,
riconoscendo al tribunale del riesame il potere  di  pronunciarsi  in
materia. In ogni altro caso,  per  contro,  «la  mancanza  di  poteri
istruttori del giudice del riesame e le esigenze  di  speditezza  del
procedimento incidentale de libertate devono  condurre  ad  escludere
una  pronuncia  dello  stesso  giudice,  la  quale,   se   favorevole
all'indagato, potrebbe basarsi sulla  sola  prospettazione  difensiva
non sufficientemente verificata nel piu' ampio contraddittorio e  con
la completezza degli elementi di fatto e  documentali  utili  per  la
decisione; se sfavorevole all'indagato, potrebbe essere suggerita  da
una superficiale e non completa disamina di tutti i  dati  rilevanti,
non rimediabile in sede di legittimita', in considerazione dei limiti
del relativo sindacato, con  le  negative  conseguenze  correlate  al
prodursi del c.d. giudicato cautelare». 
    Di qui, conclusivamente, l'enunciazione del principio di  diritto
per cui, «nel caso di contestazione  a  catena,  la  questione  della
retrodatazione della decorrenza del  termine  di  custodia  cautelare
puo' essere dedotta anche  in  sede  di  riesame  solo  se  ricorrono
congiuntamente le  seguenti  condizioni:  a)  se  per  effetto  della
retrodatazione il termine sia interamente scaduto  al  momento  della
emissione del  secondo  provvedimento  cautelare;  b)  se  tutti  gli
elementi per la retrodatazione risultino dall'ordinanza cautelare». 
    5.- Le  censure  di  illegittimita'  costituzionale  dell'odierno
rimettente investono specificamente e in  via  esclusiva  la  seconda
condizione limitativa ora ricordata, che gli impedirebbe, nel caso di
specie, di misurarsi con la tematica in questione. Non e'  dunque  in
contestazione, in questa sede, la prima condizione, che  -  in  linea
con il carattere impugnatorio del mezzo - circoscrive  la  cognizione
del giudice del riesame all'ipotesi in cui la retrodatazione implichi
un "vizio" (lato sensu) originario del titolo  coercitivo,  a  fronte
del quale la misura  da  esso  disposta  non  avrebbe  dovuto  essere
applicata fin dall'inizio. 
    Cio' puntualizzato, occorre muovere dal rilievo che, alla stregua
della regula iuris censurata, l'esclusione della possibilita' di  far
valere la retrodatazione in sede di riesame -  come  conseguenza  del
fatto  che   i   relativi   presupposti   non   emergono   «in   modo
incontrovertibile e completo» dall'ordinanza impugnata - non comporta
la negazione di ogni meccanismo di salvaguardia dell'interessato,  ma
la fruibilita' del diverso strumento  rappresentato  dall'istanza  di
revoca della misura, con successiva possibilita'  di  appello  contro
l'eventuale decisione negativa. 
    In un vaglio comparativo, i due moduli di tutela -  richiesta  di
riesame e richiesta di revoca - presentano vantaggi e  svantaggi,  ma
non per questo sono equivalenti. Il  fondamentale  vantaggio  offerto
dal riesame e' la garanzia di una decisione in tempi assai  ristretti
da parte di un giudice, a composizione collegiale, diverso da  quello
che ha emesso il provvedimento  coercitivo.  L'iter  procedurale  del
riesame e' infatti sottoposto, in successione, a due brevi termini  a
carattere perentorio, il cui mancato rispetto implica la  perdita  di
efficacia del provvedimento impugnato (il primo,  di  cinque  giorni,
per la trasmissione degli atti al giudice del riesame; il secondo, di
dieci giorni dalla loro ricezione, per la decisione sul ricorso: art.
309, commi 5, 9 e 10, cod.  proc.  pen.).  La  decisione  e'  inoltre
demandata al tribunale, in composizione collegiale, che ha  sede  nel
capoluogo di distretto (art. 309, comma 7, cod. proc. pen.). 
    Si  tratta  di  una  garanzia  che  non  trova   un   equivalente
nell'istanza di revoca. Per la decisione su quest'ultima  -  affidata
al giudice che ha la disponibilita' del procedimento  principale,  il
quale puo' bene identificarsi nello stesso giudice monocratico che ha
emesso l'ordinanza applicativa della misura (normalmente, il  giudice
per le indagini preliminari) - e' previsto un termine si' piu'  breve
(cinque giorni), ma a  carattere  meramente  ordinatorio  (art.  299,
comma 3, cod. proc. pen.). Piu' ampio  (venti  giorni)  e  nuovamente
ordinatorio e', d'altra parte, il termine per la successiva decisione
del giudice collegiale, che l'interessato puo'  provocare  proponendo
appello contro l'eventuale provvedimento di rigetto  dell'istanza  di
revoca (art. 310, comma 2, ultimo periodo, cod. proc. pen.). 
    Sul fronte opposto, l'istanza  di  revoca  garantisce  un  doppio
grado  di  giudizio  di  merito  (giudice  che  procede   e   giudice
dell'eventuale appello cautelare), che l'interessato verrebbe  invece
a perdere ove sottoponga direttamente il tema della retrodatazione al
tribunale  del  riesame.  Nel   caso   di   decisione   negativa   di
quest'ultimo, egli potrebbe infatti impugnare la pronuncia  solo  per
vizi di legittimita', con ricorso per cassazione (art. 311 cod. proc.
pen.). 
    Non e', peraltro, contestabile che - come, del resto, chiaramente
traspare dallo stesso  tessuto  argomentativo  della  sentenza  delle
Sezioni unite - la possibilita' di rivolgersi al giudice del  riesame
si risolva, nel complesso, in  un  beneficio  per  l'interessato.  La
conclusione e' tanto piu' valida, d'altra parte, ove si  ritenga  che
lo strumento del riesame rappresenti una facolta' aggiuntiva,  e  non
gia' sostitutiva, rispetto all'istanza di revoca (nel senso che,  ove
l'interessato si astenga dal far valere la "contestazione  a  catena"
in sede di riesame, egli conserverebbe comunque  la  possibilita'  di
denunciare  l'inefficacia  originaria  della  misura  chiedendone  la
revoca al  giudice  che  procede):  lettura  che  appare  in  effetti
rispondente alla ricostruzione  operata  dalle  Sezioni  unite,  come
attesta la congiunzione «anche», presente nel  principio  di  diritto
dianzi riprodotto. 
    In ogni caso, e' evidente che  i  due  strumenti  di  tutela  non
possono essere considerati equivalenti. 
    6.- In questa prospettiva, la regula iuris censurata  si  presta,
peraltro, a determinare disparita' di trattamento  tra  soggetti  che
versano in situazioni identiche in correlazione a  fattori  puramente
accidentali,  avulsi  dalla  ratio  degli  istituti  che  vengono  in
rilievo. A parita' di situazione, infatti, la fruibilita' del riesame
ai fini considerati  finisce  per  dipendere  dall'ampiezza  e  dalla
puntualita'  delle  indicazioni  contenute  nella   motivazione   del
provvedimento  coercitivo  che  il  soggetto  in   vinculis   intende
contestare. Il livello della tutela viene ad essere  determinato,  in
altre parole, dal maggiore o minore scrupolo con il quale il  giudice
della cautela assolve all'onere di motivare  l'ordinanza  restrittiva
e, prima ancora, dal fatto che egli sia o non sia a conoscenza  degli
elementi che impongono la retrodatazione. 
    Tale assetto non puo' essere giustificato, sul piano del rispetto
dell'art. 3, primo comma, Cost.,  con  le  considerazioni  addotte  a
sostegno della soluzione ermeneutica di cui si discute: ossia con  la
difficile "gestibilita'" di  una  tematica  complessa,  quale  quella
delle "contestazioni a catena", da parte di un giudice - il tribunale
del riesame - costretto a decidere in tempi brevissimi e senza fruire
di poteri istruttori, per di piu'  nell'ambito  di  una  procedura  a
contradditorio solo eventuale, con  il  conseguente  elevato  rischio
della formazione di giudicati cautelari fallaci. 
    Come nota il giudice a quo, le questioni sulle quali il tribunale
del riesame e' chiamato ordinariamente a pronunciarsi, ai fini  della
verifica dei requisiti di validita'  del  provvedimento  restrittivo,
possono risultare e sovente risultano - malgrado la ristrettezza  dei
tempi e la  mancanza  di  poteri  istruttori  -  non  meno  complesse
dell'accertamento della sussistenza di una "contestazione a catena". 
    Il carattere solo  eventuale  del  contraddittorio,  proprio  del
procedimento di riesame, appare d'altro canto  inconferente  ai  fini
che qui interessano. Il pubblico ministero  che  tema  prospettazioni
infondate della difesa in punto di "contestazioni a  catena"  puo'  -
pur senza esservi  tenuto  -  comunque  intervenire  in  udienza  per
contrastarle o far pervenire memorie,  allo  stesso  modo  di  quanto
avviene  per  qualsiasi  altra  deduzione  dell'indagato   intesa   a
contestare la legittimita' della misura applicata. 
    In aggiunta a cio', si deve poi  osservare  come,  in  base  alla
regula iuris in discussione, non  basti  neppure  -  per  legittimare
l'intervento del tribunale del riesame, ovviando  alle  allegate  sue
difficolta' nel misurarsi con la tematica - che la sussistenza di una
"contestazione a  catena"  risulti  «evidente»,  ma  occorra  che  la
dimostrazione piena e inconfutabile dell'inefficacia  originaria  del
titolo  cautelare  promani  da  una   singola   e   specifica   fonte
documentale, rappresentata dallo stesso provvedimento impugnato. 
    Come gia' accennato, il tribunale del riesame  dispone,  ai  fini
della sua  decisione,  sia  degli  atti  trasmessigli  dall'autorita'
giudiziaria procedente ai sensi dell'art. 309, comma  5,  cod.  proc.
pen., sia degli ulteriori elementi eventualmente addotti dalle  parti
nel corso dell'udienza, ai sensi del comma 9 del  medesimo  articolo.
Non  e'  certo  impossibile,  dunque,  che  le  condizioni   per   la
retrodatazione emergano in modo del  tutto  piano  da  fonti  diverse
dall'ordinanza  sottoposta  a  riesame.   Basti   pensare   al   caso
emblematico in cui la sussistenza di una "contestazione a catena"  si
desuma in termini inequivocabili, anziche' dall'ordinanza  impugnata,
dalla prima ordinanza cautelare  (la  quale  potrebbe  risultare,  ad
esempio, palesemente emessa per lo stesso  fatto  contestato  con  la
seconda). 
    La previsione di un trattamento differenziato - e meno favorevole
- per questa e consimili  ipotesi  risulta,  dunque,  inevitabilmente
lesiva del principio di eguaglianza. 
    7.-  L'art.  309  cod.  proc.  pen.  va   dichiarato,   pertanto,
costituzionalmente illegittimo, in quanto interpretato nel senso  che
la deducibilita', nel procedimento di riesame,  della  retrodatazione
della  decorrenza  dei  termini  di  durata  massima   delle   misure
cautelari, prevista dall'art. 297, comma  3,  cod.  proc.  pen.,  sia
subordinata - oltre  che  alla  condizione  che,  per  effetto  della
retrodatazione, il termine sia gia' scaduto al momento dell'emissione
dell'ordinanza cautelare impugnata - anche a  quella  che  tutti  gli
elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza. 
    Le censure riferite agli altri parametri restano assorbite. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 309 del codice
di  procedura  penale,  in  quanto  interpretato  nel  senso  che  la
deducibilita', nel  procedimento  di  riesame,  della  retrodatazione
della  decorrenza  dei  termini  di  durata  massima   delle   misure
cautelari, prevista dall'art. 297, comma 3, del medesimo codice,  sia
subordinata - oltre  che  alla  condizione  che,  per  effetto  della
retrodatazione, il termine sia gia' scaduto al momento dell'emissione
dell'ordinanza cautelare impugnata - anche a  quella  che  tutti  gli
elementi per la retrodatazione risultino da detta ordinanza. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 2 dicembre 2013. 
 
                                F.to: 
                    Gaetano SILVESTRI, Presidente 
                      Giuseppe FRIGO, Redattore 
                   Gabriella MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2013. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                       F.to: Gabriella MELATTI