N. 29 SENTENZA 24 - 25 febbraio 2014

Giudizio su conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. 
 
Reati ministeriali - Procedimento penale  a  carico  di  ex  ministro
  della giustizia per i reati di diffamazione ed  ingiuria  aggravati
  dall'uso del mezzo televisivo ai danni di un senatore. 
- Deliberazione del Senato della Repubblica del 22 luglio 2009  (doc.
  XVI, n. 2). 
-   
(GU n.11 del 5-3-2014 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Gaetano SILVESTRI; 
Giudici :Luigi MAZZELLA, Giuseppe TESAURO,  Paolo  Maria  NAPOLITANO,
  Giuseppe  FRIGO,  Alessandro  CRISCUOLO,  Paolo   GROSSI,   Giorgio
  LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta  CARTABIA,  Sergio  MATTARELLA,  Mario
  Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato
sorto a seguito della deliberazione del Senato della  Repubblica  del
22 luglio 2009 (doc. XVI, n. 2), di  accoglimento  delle  conclusioni
della Giunta delle  elezioni  e  delle  immunita'  parlamentari,  che
dichiara il carattere ministeriale dei reati contestati  al  senatore
Roberto Castelli, Ministro  pro  tempore,  promosso  dalla  Corte  di
cassazione con ricorso notificato il 2 dicembre 2011,  depositato  in
cancelleria il 20 dicembre 2011 ed iscritto  al  n.  9  del  registro
conflitti tra poteri dello Stato 2011, fase di merito. 
    Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica; 
    udito nell'udienza pubblica  del  20  novembre  2013  il  Giudice
relatore Paolo Grossi; 
    udito l'avvocato Massimo Luciani per il Senato della Repubblica. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.-  Con  ordinanza-ricorso  del  5  maggio  2011,  la  Corte  di
cassazione ha sollevato conflitto di attribuzione  tra  poteri  dello
Stato in  relazione  alla  deliberazione  assunta  dal  Senato  della
Repubblica nella seduta del 22 luglio 2009 (doc. XVI, n. 2),  con  la
quale si  e'  dichiarato  il  carattere  ministeriale  dei  reati  di
ingiuria e diffamazione contestati al senatore  Roberto  Castelli  ai
danni dell'onorevole Oliviero Diliberto -  in  riferimento  a  talune
espressioni profferite dal primo nei confronti del secondo nel  corso
della trasmissione televisiva "Telecamere",  andata  in  onda  il  21
marzo 2004 -  e  la  sussistenza,  in  ordine  a  tali  reati,  delle
finalita' di cui all'art. 9, comma 3, della legge  costituzionale  16
gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli articoli  96,  134  e  135  della
Costituzione e della legge costituzionale 11  marzo  1953,  n.  1,  e
norme in materia di procedimenti per i reati di cui  all'articolo  96
della Costituzione). 
    Nelle conclusioni  del  provvedimento,  la  Corte  ricorrente  ha
chiesto dichiararsi che non  spettava  alla  Camera  di  appartenenza
deliberare, ai fini dell'esercizio della prerogativa di cui  all'art.
96 della Costituzione, che le frasi pronunciate dall'allora  ministro
della  giustizia  Roberto   Castelli   nel   corso   della   predetta
trasmissione - oggetto del procedimento penale in relazione al  quale
pende ricorso per cassazione - integravano  un  reato  avente  natura
ministeriale essendo commessi nell'esercizio delle funzioni. 
    In parte narrativa, la ricorrente riferisce  che  il  Procuratore
generale presso la Corte d'appello di Roma ha  proposto  ricorso  per
cassazione  avverso  la  sentenza  pronunciata  dal  Tribunale  della
medesima citta' il 6 novembre 2009, con  la  quale  il  sen.  Roberto
Castelli e' stato  assolto  dai  reati  di  ingiuria  e  diffamazione
commessi con il mezzo  televisivo  ai  danni  dell'on.  Diliberto  in
quanto  non  punibile,  trattandosi  di  opinioni  espresse  «per  il
perseguimento di  un  preminente  interesse  pubblico  nell'esercizio
della funzione di governo». 
    Ha rammentato la Corte che il pubblico ministero aveva  investito
il   Tribunale   dei   ministri   della   questione   relativa   alla
ministerialita' del reato contestato, trasmettendo gli atti ai  sensi
dell'art. 6 della legge costituzionale n. l del 1989;  ma  l'apposito
collegio aveva declinato la  propria  competenza  (ordinanza  del  13
dicembre 2004) ritenendo che i fatti integrassero un reato comune. 
    Il procedimento aveva subito, poi, una sospensione, in quanto era
emerso che il Senato, con deliberazione del  30  giugno  2004,  aveva
dichiarato l'insindacabilita', ex art. 68  Cost.,  delle  espressioni
usate  dal  sen.  Castelli,  affermando  poi  l'estensibilita'  della
delibera «tanto alla causa civile intentata dal Diliberto  quanto  al
procedimento  penale  vertente  sul  medesimo   oggetto».   Sollevato
conflitto di attribuzione  da  parte  del  Giudice  per  le  indagini
preliminari, il ricorso stesso era stato accolto da questa Corte  con
sentenza n. 304 del 2007. 
    Tuttavia, disposto  il  rinvio  a  giudizio  del  sen.  Castelli,
quest'ultimo richiedeva al Presidente  del  Senato  della  Repubblica
(lettera del 30 ottobre 2008) che la vicenda venisse riesaminata alla
luce dell'art. 96 Cost., trattandosi di dichiarazioni  connesse  alla
funzione di Ministro della giustizia, all'epoca esercitata. Da qui la
deliberazione del 22 luglio 2009, con la quale l'Assemblea del Senato
accoglieva  le  conclusioni  della  Giunta  delle  elezioni  e  delle
immunita', dichiarando, appunto, il carattere ministeriale dei  reati
contestati  al  sen.  Castelli  quale  ministro  pro  tempore,  e  la
sussistenza, in ordine ai medesimi  reati,  della  finalita'  di  cui
all'art. 9, comma 3,  della  legge  costituzionale  n.  l  del  1989.
Conclusioni, queste, che il Tribunale faceva proprie, pronunciando la
sentenza avverso la  quale  il  Procuratore  generale  proponeva  poi
ricorso, denunciando «la violazione dell'art. 96 Cost.  in  relazione
alla corretta interpretazione della categoria del reato ministeriale;
la violazione della legge costituzionale n. l del 1989, in  relazione
alla   individuazione   dell'organo   cui   spetta    stabilire    la
ministerialita' dei reati;  la  erronea  applicazione  dell'art.  134
Cost.  sulla  individuazione  dell'organo  cui  e'  riconosciuta   la
competenza a dirimere i conflitti di attribuzione  tra  poteri  dello
Stato». 
    Alla  stregua  di  tale  composito  iter  processuale,  la  Corte
ricorrente  rileva  come  il  giudice  abbia  errato   nel   ritenere
applicabile, nella specie, la  guarentigia  dell'art.  96  Cost.,  in
quanto  devono  ritenersi   esclusi   dalla   categoria   dei   reati
ministeriali quelli per i quali sia ravvisabile soltanto un nesso  di
mera  occasionalita'  tra  la  condotta  illecita  del   ministro   e
l'esercizio delle funzioni, come chiaramente emergerebbe dallo stesso
tenore delle espressioni contestate al sen. Castelli. 
    La conseguenza diretta di cio', vale a dire l'annullamento  della
sentenza impugnata, comporta pero' - ad avviso della Corte ricorrente
- la necessita' di esaminare la  deliberazione  del  Senato  «con  la
quale e' stato parimenti dichiarato  il  carattere  ministeriale  dei
reati»: delibera sulla quale si e' poi fondata l'ulteriore  decisione
relativa all'applicazione della finalita' esimente prevista dall'art.
9, comma 3, della richiamata legge costituzionale n. l del 1989. 
    Si intende sostenere - sottolinea la Corte, in accoglimento della
richiesta del Procuratore generale  impugnante  -  che  nella  specie
verrebbe in considerazione il fatto che sarebbe  stata  «formalizzata
dal Senato una delibera di diniego  di  autorizzazione  a  procedere,
ossia di una condizione di  procedibilita'  del  processo  penale  in
corso, in assenza dei presupposti previsti dall'art. 96  Costituzione
per l'esercizio di tale prerogativa, dal momento che, in base a  tale
norma ed alla  disciplina  prevista  dalla  legge  costituzionale  n.
1/1989, non spettava all'Organo parlamentare la valutazione in ordine
alla natura ministeriale del reato, rimessa invece in modo  esclusivo
alla Autorita' giudiziaria». 
    Assunto, quest'ultimo, che sarebbe stato  avallato  non  soltanto
dalla giurisprudenza di legittimita', ma anche dalla sentenza n.  241
del 2009 della Corte costituzionale, ove si e' affermato che, qualora
il Tribunale dei ministri abbia espresso  la  propria  determinazione
escludendo la natura ministeriale del reato oggetto di  indagini,  la
Camera competente, nel dissenso, ha solo la possibilita' di sollevare
conflitto di attribuzione  tra  poteri,  assumendo  di  essere  stata
menomata dall'autorita' giudiziaria della prerogativa  riconosciutale
dall'art. 96 Cost. 
    Il Senato pertanto - conclude la Corte ricorrente - non aveva  il
potere di negare l'autorizzazione a procedere, ne' risulta  che  tale
aspetto sia stato in alcun modo considerato,  posto  che  dai  lavori
parlamentari emerge solo come  sia  stato  valutato  e  censurato  il
merito del provvedimento adottato dal Tribunale dei ministri. 
    Di questa deliberazione, dunque, si assume l'illegittimita' e  il
carattere invasivo per le attribuzioni del potere giudiziario, che la
stessa Corte reputa di dover rimuovere attraverso il  conflitto,  non
essendo necessario rimettere la questione al giudice  a  quo,  «posto
che il rinvio a quest'ultimo e' superfluo in ogni caso in  cui  possa
essere la Corte medesima a dare i provvedimenti necessari». 
    2.- Il ricorso e' stato dichiarato ammissibile con  ordinanza  n.
313 del 2011, ritualmente notificata. 
    3.- Nell'atto  di  costituzione  in  giudizio,  il  Senato  della
Repubblica  ha  chiesto  di  dichiarare  il  ricorso  «improcedibile,
inammissibile,  irricevibile  e   improponibile»   o   comunque,   in
subordine, di disporne il rigetto. 
    Dopo ampia narrativa in fatto, il Senato deduce, preliminarmente,
l'inammissibilita' del  ricorso  per  difetto  di  motivazione  della
censura dedotta, in quanto  viene  lamentato  il  carattere  invasivo
della deliberazione impugnata senza esposizione delle ragioni ne' del
parametro alla stregua del quale sussisterebbe la legittimazione  del
ricorrente. Ne' si motiva per sorreggere l'interpretazione  dell'art.
96 Cost.  considerata  preferibile,  essendosi  soltanto  evocata  la
sentenza della Corte costituzionale n. 241 del 2009, senza dimostrare
che la corretta lettura di tale sentenza sia quella  postulata  dalla
Corte ricorrente. 
    Non sarebbe, poi, chiarito il vulnus lamentato, restando  incerto
se si censuri l'invasione del potere di qualificare come ministeriale
il reato o il superamento dei  confini  del  potere  parlamentare  di
concessione  dell'autorizzazione  a  procedere  in  caso   di   reato
ministeriale. 
    Non verrebbe,  inoltre,  formalmente  impugnato  alcun  atto  ne'
richiesto l'annullamento  di  alcunche':  si  formulerebbe,  infatti,
un'astratta richiesta di pronuncia,  sollecitandosi  uno  "specifico"
vaglio della predetta delibera del Senato; d'altra parte, sarebbe  la
stessa struttura dell'atto introduttivo  a  qualificare  il  medesimo
piu' come una statuizione utile al processo che come un vero  ricorso
per conflitto, visto anche il petitum enunciato. 
    Il  ricorso,  infine,  sarebbe  inammissibile  per   carenza   di
motivazione circa la sussistenza di un interesse concreto ed  attuale
a ricorrere. Si sottolinea, infatti, che la Corte di cassazione «puo'
promuovere il conflitto solo  quando  si  prospetti  un  annullamento
senza rinvio della sentenza  gravata»,  perche'  altrimenti  titolare
«dell'interesse ad agire nel giudizio per conflitto sarebbe  solo  il
giudice del rinvio». Posto che nella specie  il  giudizio  di  rinvio
parrebbe indispensabile, solo  il  giudice  del  rinvio  risulterebbe
«legittimato ad apprezzare  in  concreto  la  necessita'  o  meno  di
promuovere il conflitto di  attribuzione  tra  poteri  dello  Stato».
Comunque, sarebbe stato onere della ricorrente motivare sul punto. 
    Nel merito, si osserva  come  la  Corte  ricorrente  contesti  in
radice la spettanza al Parlamento  del  potere  di  qualificare  come
ministeriali determinati reati, pretendendo che  tale  qualificazione
spetti in via esclusiva alla autorita' giudiziaria.  Peraltro,  nella
specie, la natura ministeriale dei reati - che in se' non rileva  sul
piano del conflitto - sarebbe certa,  come  risulta  dalla  relazione
della Giunta, ampiamente riprodotta. 
    Rievocata, poi, diffusamente la sequenza normativa che disciplina
il procedimento in materia di  reati  ministeriali,  si  ritiene  che
erroneamente  la  ricorrente   adotti   il   seguente   schema:   «i)
determinazione del Tribunale dei ministri  di  qualificare  un  certo
reato come non ministeriale; ii) eventuale ricorso per  conflitto  di
attribuzione della Camera competente». 
    Tale  tesi  sarebbe   scorretta,   alla   luce   di   un'adeguata
interpretazione della sentenza della Corte costituzionale n. 241  del
2009, posto che, da un lato, la proposizione del  conflitto  e'  solo
una delle strade a disposizione; mentre, d'altro canto, e' la  stessa
pronuncia a precisare che alla  Camera  competente  non  puo'  essere
sottratta una propria autonoma valutazione sulla natura  ministeriale
o non dei reati oggetto di indagine. 
    Si osserva, poi, che, alla luce dei principi posti a  base  della
riforma costituzionale sui reati ministeriali, ove il sindacato sulla
natura del reato spettasse solo alla autorita' giudiziaria,  verrebbe
meno  da  parte  delle  Camere  lo  scrutinio  dei  presupposti   per
esercitare il potere di autorizzazione. 
    Sottolineata  la   problematica   della   cosiddetta   "giustizia
politica" - e della importanza di individuare il  "nesso  funzionale"
che correla gli atti alle funzioni -, si osserva che  qualificare  il
fatto significa «decidere tanto quale sia il procedimento da seguire,
quanto se le garanzie costituzionali possano essere applicate». 
    Non sarebbe, poi, pertinente invocare, come fa la ricorrente,  la
sentenza n. 10130 del 3-11 marzo  2011  della  sesta  sezione  penale
della  Corte  di  cassazione,  ove   furono   peraltro   erroneamente
interpretati il diritto vigente e la  giurisprudenza  costituzionale,
in quanto nella stessa  compaiono  affermazioni  che  la  difesa  del
Senato contesta,  dovendosi  escludere  un  monopolio  dell'autorita'
giudiziaria nella qualificazione del fatto come reato ministeriale. 
    D'altra parte, che  un  potere  di  qualificazione  debba  essere
riconosciuto anche alle Camere si deduce dal fatto  che  alle  stesse
spetta il potere di paralizzare l'azione giudiziaria  stabilendo  che
ricorrono le condizioni di cui  all'art.  9,  comma  3,  della  legge
costituzionale n. 1 del 1989. 
    Il tutto in linea  con  le  affermazioni  enunciate  dalla  Corte
costituzionale a proposito del potere valutativo delle  Camere  nella
sentenza n. 1150 del 1988, in  tema  di  applicazione  dell'art.  68,
primo comma, Cost. 
    In luogo del procedimento ipotizzato dalla Cassazione - che corre
il rischio di  generare  un  conflitto  "impossibile"  (giacche'  «le
pronunce giurisdizionali non possono essere  censurate,  in  sede  di
conflitto, per errores in iudicando») -, il "modello"  offerto  dalla
richiamata sentenza n.  1150  del  1988  sarebbe  il  piu'  coerente,
«assumendo il vaglio  del  Giudice  costituzionale  la  sua  corretta
natura di controllo (nei limiti indicati dalla  l.  cost.  n.  1  del
1989) sul regolare esercizio del potere qualificatorio da  parte  del
soggetto titolare della guarentigia costituzionale». 
    4.- In prossimita' dell'udienza,  il  Senato  ha  depositato  una
memoria nella quale ha ulteriormente  sviluppato  le  deduzioni  gia'
articolate nell'atto di costituzione. 
    A proposito della inammissibilita' del ricorso, si  osserva  che,
tenuto conto della "prognosi" (prospettata dalla  stessa  ricorrente)
dell'esito del giudizio  rescindente  in  caso  di  accoglimento  del
ricorso per conflitto, l'autorita' competente  a  dichiarare  in  via
definitiva la volonta' del relativo potere dovrebbe essere il giudice
della fase rescissoria. Solo il giudice del rinvio, infatti,  sarebbe
stato legittimato ad apprezzare la lesivita' o  meno  della  delibera
del Senato e, quindi, ad esprimere un interesse al ricorso in termini
di concretezza ed attualita'. 
    Nella specie, inoltre, non sarebbe stato indicato alcun parametro
di costituzionalita': il richiamo all'art. 96 Cost. sarebbe privo  di
motivazione in riferimento al merito dell'atto impugnato, limitandosi
la ricorrente a contestare piuttosto le affermazioni  della  sentenza
gravata. 
    Resterebbe  oscura  anche  la  indicazione   del   petitum,   non
risultando chiarito  l'esatto  profilo  della  lesione  lamentata;  e
neppure  risulterebbe  formalmente  impugnato  alcun  atto   ne'   si
chiederebbe l'annullamento di alcunche': al  ricorso,  peraltro,  non
risulta allegato il resoconto stenografico della  seduta  pomeridiana
del 22 luglio 2009, allorche', con il compimento delle operazioni  di
voto e la proclamazione del risultato, si perfeziono' l'atto  ora  in
contestazione. 
    Quanto al merito, si rievoca la sentenza di questa Corte  n.  304
del 2007, nella quale, pur escludendosi che i medesimi  fatti  -  ora
oggetto  del  conflitto  -  fossero  coperti  dalla  garanzia   della
insindacabilita' di cui all'art. 68, primo comma, Cost., tuttavia  si
osservo' che le condotte in questione erano  state  poste  in  essere
nell'esercizio delle attribuzioni di ministro:  circostanza,  questa,
che non potrebbe dunque piu' formare oggetto di contestazione. 
    Si sottolinea,  poi,  che  la  delibera  relativa  al  preminente
interesse pubblico potrebbe formare oggetto di un controllo  soltanto
"esterno"  da  parte  di  questa  Corte,   essendo   frutto   di   un
apprezzamento «insindacabile», se congruamente motivato.  Motivazione
che, nella specie, parrebbe del tutto adeguata. 
    Si insiste, inoltre - anche al lume di principi  affermati  dalla
Corte costituzionale nelle sentenze n. 87 e n. 88 del  2012,  pur  se
relative a fattispecie diverse - sulla legittimazione del  Senato  ad
adottare la deliberazione oggetto del  conflitto:  essa  non  sarebbe
funzionale all'attivazione della speciale procedura di cui alla legge
costituzionale n. 1 del 1989 e della legge  5  giugno  1989,  n.  219
(Nuove norme in tema  di  reati  ministeriali  e  di  reati  previsti
dall'articolo 90 della Costituzione), «bensi'  all'asseverazione  del
peculiare pubblico interesse sotteso  all'azione  del  ministro».  Vi
sarebbe,  dunque,  «una  valutazione  della  ministerialita'  che  e'
strettamente  ancillare  alla  declaratoria  della  sussistenza   del
"preminente  interesse  pubblico  nell'esercizio  della  funzione  di
Governo"». 
    La   deliberazione   dovrebbe,   quindi,   ritenersi   pienamente
legittima, non occorrendo che il  Senato  elevasse  alcun  conflitto:
essa e', peraltro, antecedente alla pronuncia del Tribunale di Roma e
il fatto che si fosse gia'  pronunciato  il  Tribunale  dei  ministri
rende diversa la presente vicenda da  quella  esaminata  dalla  Corte
costituzionale nelle sentenze n. 87 e n. 88 del  2012  (senza  dunque
che quei precedenti possano essere considerati «negativi»). 
    Per altro verso, la procedura speciale prevista dagli artt. 8 e 9
della legge costituzionale  n.  1  del  1989  -  non  invocati  dalla
ricorrente - non escluderebbe  che  la  deliberazione  di  preminente
interesse pubblico possa  essere  adottata  «nel  contesto  di  altro
itinerario  procedimentale»;  d'altra  parte,  un  raccordo  tra   la
contestata deliberazione del Senato  e  il  procedimento  innanzi  al
Tribunale dei  ministri  non  sarebbe  mancato,  tenuto  conto  delle
precisazioni offerte al riguardo nella proposta di delibera  avanzata
dalla Giunta. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- La Corte e' chiamata a giudicare sul ricorso per conflitto di
attribuzione tra poteri dello Stato - fase di merito - proposto dalla
Corte di cassazione contro il Senato della  Repubblica  in  relazione
alla deliberazione da questo assunta nella seduta  (pomeridiana)  del
22 luglio 2009 (doc. XVI, n. 2), con la quale e' stato dichiarato  il
carattere  ministeriale  dei  reati  di   ingiuria   e   diffamazione
contestati al  senatore  Roberto  Castelli  ai  danni  dell'onorevole
Oliviero Diliberto - in riferimento a talune  espressioni  profferite
dal primo nei confronti del  secondo  nel  corso  della  trasmissione
televisiva "Telecamere", andata in onda il  21  marzo  2004  -  e  la
sussistenza, in ordine a tali reati, delle finalita' di cui  all'art.
9, comma  3,  della  legge  costituzionale  16  gennaio  1989,  n.  1
(Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della  Costituzione  e  della
legge costituzionale 11 marzo 1953, n.  1,  e  norme  in  materia  di
procedimenti per i reati di cui all'articolo 96 della Costituzione). 
    Il Senato della Repubblica, costituendosi in giudizio, ha chiesto
di dichiarare il ricorso «improcedibile, inammissibile,  irricevibile
e improponibile» o comunque, in subordine, di disporne il rigetto. 
    Le ragioni delle parti sono state descritte  nella  narrativa  in
fatto. 
    2.- Le diverse  eccezioni  di  inammissibilita'  sollevate  dalla
difesa del Senato vanno preliminarmente  esaminate  e  devono  essere
tutte respinte. 
    Per quanto concerne, anzitutto, l'insistita  censura  secondo  la
quale la Corte di cassazione non sarebbe legittimata  a  proporre  il
conflitto (in quanto solo il giudice della fase  rescissoria  sarebbe
competente a dichiarare in via definitiva la  volonta'  del  relativo
potere, potendo solo quel giudice  apprezzare  la  lesivita'  o  meno
della  deliberazione  del  Senato  e  conseguentemente  esprimere  un
interesse  "concreto   ed   attuale"   al   ricorso),   essa   appare
inconsistente. 
    Il  giudice  di  legittimita'  e'  stato  del  tutto  ritualmente
investito a  seguito  di  ricorso  per  saltum  proposto  avverso  la
sentenza di proscioglimento pronunciata dal Tribunale di Roma proprio
in forza della  deliberazione  del  Senato,  che  ha  introdotto  nel
processo un diniego di autorizzazione. 
    La  devoluzione  ha,  dunque,  un   oggetto   squisitamente   (ed
esclusivamente) "rescindente", nel senso che  il  petitum  perseguito
dal ricorrente consiste,  appunto,  nella  rimozione,  attraverso  il
conflitto, della deliberazione che determina l'effetto preclusivo per
la regiudicanda:  l'interesse,  quindi,  della  Corte  di  cassazione
risulta "concreto ed attuale", tenuto conto  dell'oggetto  sul  quale
essa e' chiamata a pronunciarsi. 
    Quanto alla pretesa carenza di indicazione  del  parametro,  essa
appare fondata su un assunto contraddetto sia dal chiaro  riferimento
che il ricorrente svolge circa l'insussistenza  dei  presupposti  per
ritenere, nella  specie,  applicabile  la  guarentigia  dell'art.  96
Cost., sia dalla censura chiaramente rivolta alla delibera di diniego
della autorizzazione a procedere, di cui si assume l'illegittimita' e
il carattere lesivo per il potere giudiziario: con la conseguenza  di
evocare lo strumento del conflitto quale unico rimedio destinato alla
rimozione dell'atto invasivo. 
    Diversamente  da  come  prospettato,  l'atto  impugnato   appare,
quindi,  piu'  che   adeguatamente   individuato   ed   il   relativo
annullamento - la cui domanda, peraltro, non  e'  configurabile  come
condizione di ammissibilita' del ricorso - appare  consequenziale  al
petitum perseguito. 
    Per  cio'  che  concerne,  infine,  la   prospettata   ambiguita'
dell'oggetto del ricorso e la mancata allegazione del resoconto della
seduta  (pomeridiana)  relativa  alla  votazione  della  delibera  in
contestazione, basta rilevare il carattere  meramente  assertivo  del
primo  rilievo  e  l'inconferenza  del  secondo,   considerato   che,
trattandosi di resoconti parlamentari, era sufficiente  l'indicazione
dei relativi atti. 
    3.-  La  complessa  dinamica   delle   vicende,   processuali   e
procedimentali, che hanno contrassegnato il conflitto qui  sottoposto
a scrutinio deve essere succintamente rievocata, in quanto  rilevante
agli effetti del giudizio. 
    Come  anzitutto  emerge  dalla  esauriente  narrativa  in   fatto
contenuta nel ricorso, la Corte  di  cassazione  e'  stata  investita
dall'impugnazione del Procuratore generale della Repubblica presso la
Corte d'appello di Roma avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale
della medesima citta' il 6  novembre  2009,  con  la  quale  il  sen.
Castelli - a norma degli artt. 96 della Costituzione, 9  della  legge
costituzionale n. 1 del 1989 e 129 del codice di procedura  penale  -
e' stato assolto dai reati di ingiuria e di diffamazione commessi  in
danno  dell'on.  Diliberto,  «perche'  non  punibile  trattandosi  di
opinioni espresse per il perseguimento  di  un  preminente  interesse
politico nell'esercizio della funzione di governo». 
    Nell'ambito del procedimento penale (promosso su denuncia-querela
dell'on. Diliberto,  presentata  il  27  aprile  2004),  il  pubblico
ministero si era posto il problema della eventuale configurazione dei
fatti come ipotesi di reato ministeriale ed  aveva,  di  conseguenza,
provveduto ad investire della questione il  Tribunale  dei  ministri,
trasmettendo gli atti a norma dell'art. 6 della legge  costituzionale
n. 1 del 1989. 
    Il  Collegio  per  i  reati  ministeriali  aveva,  tuttavia,  con
ordinanza del 13 dicembre  2004,  declinato  la  propria  competenza,
ritenendo  che  le  espressioni  usate  dall'imputato   non   fossero
riconducibili all'esercizio della funzione di ministro. 
    Il procedimento aveva, poi,  subito  una  sospensione,  essendosi
appreso che il Senato, con deliberazione del 30  giugno  2004,  aveva
dichiarato l'insindacabilita', ai sensi dell'art.  68,  primo  comma,
Cost., delle espressioni usate  dal  sen.  Castelli,  successivamente
affermando - con deliberazione adottata dall'Assemblea il  18  maggio
2005 - l'applicabilita' della predetta delibera anche al procedimento
penale riguardante gli stessi fatti. 
    Promosso, quindi, conflitto  di  attribuzione  fra  poteri  dello
Stato da parte del Giudice per le indagini preliminari, questa Corte,
con sentenza n. 304 del 2007, ha accolto il ricorso, dichiarando  che
non  spettava  al  Senato   della   Repubblica   affermare   che   le
dichiarazioni del sen. Castelli,  oggetto  del  procedimento  penale,
costituissero  opinioni  espresse  da  un   membro   del   Parlamento
nell'esercizio delle proprie funzioni ai sensi  dell'art.  68,  primo
comma, Cost., e annullando la delibera impugnata. 
    Nel frangente, la Corte - nel reputare  priva  di  fondamento  la
tesi espressa dalla difesa del Senato, secondo la quale «in  caso  di
coincidenza della posizione di parlamentare con quella  di  ministro,
la garanzia di insindacabilita', di cui  all'art.  68,  primo  comma,
della Costituzione, dovrebbe coprire le  dichiarazioni  extra  moenia
del  parlamentare-ministro,  anche  se  non  ascrivibili  a  funzioni
parlamentari tipizzate, per il solo  fatto  di  essere  riferibili  o
connesse alla carica ministeriale e alla realizzazione dell'indirizzo
politico che con essa si manifesta» - ha avuto modo di  puntualizzare
come «il fatto che il parlamentare chiamato a ricoprire la carica  di
ministro si trovi in una condizione parlamentare particolare, per non
essere in grado di  svolgere  un'attivita'  parlamentare  piena,  non
consente di ritenere  comprese  nella  sfera  di  operativita'  della
garanzia   dell'insindacabilita'    condotte    poste    in    essere
nell'esercizio delle attribuzioni del ministro, stante  la  oggettiva
diversita' fra queste ultime, di per se' considerate, e  le  funzioni
parlamentari. La coincidenza, nella stessa persona,  della  posizione
di  parlamentare  e  di  ministro  non  giustifica  in   alcun   modo
l'applicazione   estensiva   al   ministro    della    garanzia    di
insindacabilita' di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione,
propria del parlamentare, quando questi esercita  funzioni  attinenti
alla carica di Governo». 
    Disposto, dunque, il rinvio a  giudizio  dell'imputato,  il  sen.
Castelli indirizzava il 30 ottobre 2008 una missiva al Presidente del
Senato, con la quale chiedeva  di  investire  la  Giunta  competente,
reputando applicabile alla situazione di specie l'art. 96 Cost.,  sul
presupposto che le  dichiarazioni  oggetto  del  procedimento  penale
fossero connesse all'esercizio delle sue funzioni di  Ministro  della
giustizia. 
    A proposito, poi, della controversia civile vertente sugli stessi
fatti, questa Corte, con ordinanza n. 259  del  2011,  ha  dichiarato
inammissibile il ricorso per conflitto proposto dalla Corte d'appello
di Roma avverso la richiamata delibera di insindacabilita' ex art. 68
Cost. pronunciata dal Senato il 30  giugno  2004:  le  ragioni  delle
doglianze prospettate dalla Corte  ricorrente  risultavano,  infatti,
complessivamente gia' accolte con la ricordata sentenza  n.  304  del
2007, sia con riguardo alla spettanza del potere,  sia  con  riguardo
all'efficacia dell'atto reputato lesivo. Con la  conseguenza  che  la
competenza della autorita' giudiziaria a definire detta  controversia
risulta ormai cristallizzata e che il processo puo', dunque, giungere
alla   sua   naturale   conclusione:   e    la    vicenda    relativa
all'applicabilita' dell'art. 96 Cost. resta evidentemente  del  tutto
inconferente ai fini del contenzioso vertente sugli interessi civili,
ancorche' derivante dagli stessi fatti. 
    Nel processo penale, invece, su  istanza,  come  si  diceva,  del
diretto interessato e, dunque, omisso medio - vale a dire al di fuori
dello schema, come si dira' fra breve, dello speciale procedimento di
cui alla legge costituzionale n. 1 del 1989 e agli artt. 1 e seguenti
della legge n. 219 del 1989 ed omettendo di sollevare, se  del  caso,
conflitto costituzionale con l'autorita' giudiziaria procedente -  il
Senato  della  Repubblica  ha  deliberato  di   adottare   gli   atti
all'origine del conflitto qui all'esame. 
    4.- Il succedersi del contenzioso da cui e'  scaturito  l'attuale
conflitto propone, dunque, alcuni aspetti problematici sui  quali  e'
opportuno soffermarsi. 
    Non si puo', anzitutto, non constatare il ripetersi di successive
alternative "preclusive" all'esercizio della funzione giurisdizionale
che ha mosso le deliberazioni del Senato - tuttavia strutturalmente e
funzionalmente  divergenti   -   nell'ambito   delle   diverse   sedi
processuali  attivate:  mentre,  infatti,  in  un  primo  tempo,   le
affermazioni del sen. Castelli  (oggetto  di  giudizio  civile  e  di
giudizio  penale,  come  si  e'  ricordato)  sono  state  considerate
«opinioni espresse da un membro del Parlamento  nell'esercizio  delle
sue funzioni» (e percio' ricondotte nel perimetro dell'art. 68, primo
comma, della Costituzione), in un secondo momento, dopo  le  pronunce
contrarie adottate da questa Corte, le medesime sono  state,  invece,
configurate come costitutive  di  ipotesi  di  reato  a  cui  potesse
riconoscersi «il carattere della  ministerialita'»  nonche'  ritenute
«coperte dall'esimente di cui all'art. 9, comma 3, della legge  cost.
n. 1 del 1989». 
    E' appena il caso di ricordare che quest'ultima disposizione  non
sancisce, come invece l'art. 68 Cost.,  la  "insindacabilita'"  delle
opinioni espresse in  tutte  le  possibili  sedi  -  civile,  penale,
amministrativa,  disciplinare,  ecc.  -,  ma  assegna   all'Assemblea
competente il potere  di  negare,  «con  valutazione  insindacabile»,
l'autorizzazione a procedere. 
    Ma, al di la' di questa sorta di altalenante esercizio del potere
"qualificatorio" relativamente a un medesimo  fatto  -  che  potrebbe
assumere rilievo addirittura  dirimente,  ove  si  ritenesse  che  la
proposizione del conflitto in relazione  ad  una  specifica  condotta
asseritamente invasiva del potere di cui si  assume  la  menomazione,
una  volta  esercitata  la  vindicatio,  "consumi"  l'oggetto   della
pretesa, a prescindere dalla relativa "qualificazione"  -,  non  puo'
non assumere risalto, sotto un profilo ancor piu'  significativo,  la
gia' evidenziata circostanza di un iter procedimentale del tutto  sui
generis rispetto a  quello  configurato  dalla  richiamata  normativa
costituzionale e dalle stesse pronunce di questa Corte: il Senato  si
e', infatti, pronunciato - come  gia'  detto  -  sulla  base  di  una
semplice richiesta del sen. Castelli avanzata diversi  anni  dopo  la
pronuncia di incompetenza del Tribunale  dei  ministri  a  suo  tempo
investito dal pubblico ministero. 
    Viene a questo punto in discorso la sentenza n. 241 del  2009  di
questa Corte. Con tale pronuncia si  affermo'  che  non  spettava  al
Collegio per  i  reati  ministeriali  non  trasmettere  gli  atti  al
Procuratore della Repubblica (ed al Tribunale, poi, non rilevare tale
omissione) perche' questi desse  comunicazione  al  Presidente  della
Camera competente  (ai  sensi  dell'art.  8,  comma  4,  della  legge
costituzionale n. 1 del 1989)  del  provvedimento  con  il  quale  il
Collegio aveva escluso la  natura  ministeriale  dei  reati  ascritti
all'imputato, limitandosi  a  disporre  la  trasmissione  degli  atti
stessi all'autorita' giudiziaria competente. L'omessa comunicazione -
osservo' la Corte - determina, infatti, la compromissione del  potere
dell'organo  parlamentare  di  valutare   autonomamente   la   natura
ministeriale o meno dei reati oggetto  di  indagine  e  di  sollevare
conflitto di attribuzione tra poteri ove non condivida la valutazione
negativa  espressa  dal  Tribunale  dei  ministri,  con   conseguente
menomazione della sfera di  competenza  costituzionalmente  garantita
alla Camera  parlamentare  in  ordine  all'esercizio  del  potere  di
autorizzazione a procedere. 
    Ebbene, dagli atti parlamentari  (Senato  della  Repubblica,  XVI
legislatura, Giunte e Commissioni, resoconto sommario n. 169,  sedute
di martedi' 16 giugno 2009, pagina 9) emerge che,  nella  specie,  il
Presidente della Giunta - investita a  seguito  della  richiesta  del
senatore Castelli -, dopo aver riassunto i termini  della  questione,
comunicava essere a disposizione dei componenti di quell'organo varii
documenti, fra i quali «la lettera del Procuratore  della  Repubblica
presso il Tribunale ordinario di Roma circa il seguito dato  da  tale
ufficio all'ordinanza del Collegio per i reati ministeriali presso il
medesimo tribunale ordinario  del  13  dicembre  2004  -  nonche'  la
relativa  lettera  di  trasmissione  del  Presidente  del  Senato   -
rispettivamente del 15 e del 27 maggio 2009». 
    Risulta,  dunque,  che  la  Giunta   del   Senato   fosse   stata
esaurientemente informata dello stato del procedimento e  degli  atti
conseguenti  alla  deliberazione  del  Collegio   di   ritenere   non
ministeriali i reati ascritti al sen. Castelli:  con  la  conseguenza
che - a quel momento e proprio alla luce della richiamata sentenza n.
241 del 2009 - il suo unico potere di vindicatio sarebbe stato quello
di contestare, per conflitto costituzionale,  la  qualificazione  del
fatto  come  reato  non  ministeriale  da   parte   della   autorita'
giudiziaria procedente. A quel  punto,  sarebbe  stato  di  esclusiva
competenza della Corte  costituzionale  dirimere  il  contenzioso  ed
assegnare     definitivamente     la     corretta      qualificazione
(costituzionalmente   significativa)   dei    fatti    ascritti    al
parlamentare-ministro, agli effetti  della  correttezza  o  meno  del
procedimento adottato. 
    Se,  infatti,  il  potere  della  Camera  competente  di   negare
l'autorizzazione a procedere (reputando «che l'inquisito abbia  agito
per  la  tutela  di  un  interesse  dello  Stato   costituzionalmente
rilevante ovvero per il  perseguimento  di  un  preminente  interesse
pubblico  nell'esercizio  della   funzione   di   Governo»)   risulta
intrinsecamente collegato dalla legge costituzionale al fatto che  il
ministro "inquisito" sia chiamato a rispondere di un  reato  commesso
nell'esercizio delle proprie funzioni, a norma dell'art. 96 Cost., e'
del tutto evidente che  la  sussistenza  di  tale  connessione  debba
essere pregiudizialmente "accertata". Il che presuppone, a sua volta,
o che l'autorita' giudiziaria  abbia  positivamente  proceduto  nelle
forme  previste  per  i  reati  ministeriali  (cosa,  nella   specie,
dichiaratamente esclusa); o che la Camera competente abbia  attivato,
attraverso il rimedio del conflitto, il  meccanismo  di  accertamento
"costituzionale" devoluto a questa Corte (sentenza n. 88 del 2012). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara che non spettava al Senato della Repubblica  deliberare,
ai fini dell'esercizio della prerogativa di  cui  all'art.  96  della
Costituzione,  il  carattere  ministeriale  delle  ipotesi  di  reato
contestate al senatore Roberto Castelli, all'epoca dei fatti Ministro
della giustizia, per le frasi da questi pronunciate nel  corso  della
trasmissione televisiva "Telecamere", andata  in  onda  il  21  marzo
2004, nei confronti dell'onorevole Oliviero Diliberto e  oggetto  del
procedimento  penale  in  relazione  al  quale  pende   ricorso   per
cassazione nonche' deliberare la sussistenza, in ordine alle medesime
ipotesi di reato, della finalita' di cui all'art. 9, comma  3,  della
legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1 (Modifiche degli  articoli
96, 134 e 135 della Costituzione  e  della  legge  costituzionale  11
marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i  reati  di
cui all'articolo 96 della Costituzione),  sul  presupposto  che  egli
abbia agito per il perseguimento di un preminente interesse  pubblico
nell'esercizio della funzione di Governo. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2014. 
 
                                F.to: 
                    Gaetano SILVESTRI, Presidente 
                       Paolo GROSSI, Redattore 
                   Gabriella MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 25 febbraio 2014. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                       F.to: Gabriella MELATTI