N. 49 SENTENZA 14 gennaio - 26 marzo 2015

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reato di lottizzazione abusiva - Diritto vivente in base al quale  la
  sanzione della confisca urbanistica consegue non solo alla sentenza
  definitiva di condanna ma anche alla dichiarazione di  prescrizione
  del reato qualora la responsabilita' penale sia stata accertata  in
  tutti i suoi elementi - Sentenza della Corte  europea  dei  diritti
  dell'uomo 29 ottobre 2013, Varvara c.  Italia,  che  vieterebbe  la
  confisca dei beni quando non viene pronunciata una condanna per  il
  reato di lottizzazione abusiva - Effetti delle sentenze della Corte
  EDU nell'ordinamento interno. 
- D.P.R. 6 giugno  2001,  n.  380  (Testo  unico  delle  disposizioni
  legislative e regolamentari in materia edilizia -  Testo  A),  art.
  44, comma 2. 
-   
(GU n.13 del 1-4-2015 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Alessandro CRISCUOLO; 
Giudici  :Paolo  Maria  NAPOLITANO,  Giuseppe  FRIGO,  Paolo  GROSSI,
  Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA,  Sergio  MATTARELLA,
  Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,  Silvana
  SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 44, comma 2,
del d.P.R. 6 giugno 2001, n.  380  (Testo  unico  delle  disposizioni
legislative e regolamentari in materia edilizia - Testo A),  promossi
dal Tribunale ordinario di Teramo, in composizione  monocratica,  con
ordinanza del 17 gennaio 2014 e  dalla  Corte  di  cassazione,  terza
sezione penale, con ordinanza del  20  maggio  2014,  rispettivamente
iscritte ai nn. 101 e 209 del registro ordinanze  2014  e  pubblicate
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 26 e  48,  prima  serie
speciale, dell'anno 2014. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 14 gennaio  2015  il  Giudice
relatore Giorgio Lattanzi. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- La Corte di cassazione, terza sezione penale,  con  ordinanza
depositata il 20 maggio 2014 (r.o. n. 209 del 2014), ha sollevato una
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 44, comma  2,  del
d.P.R.  6  giugno  2001,  n.  380  (Testo  unico  delle  disposizioni
legislative e regolamentari  in  materia  edilizia  -  Testo  A),  in
riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, nella parte in cui, in forza dell'interpretazione della
Corte europea dei diritti  dell'uomo,  tale  disposizione  «non  puo'
applicarsi nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato  anche
qualora la responsabilita' penale sia stata accertata in tutti i suoi
elementi». 
    Il giudice a quo  premette  di  conoscere  del  ricorso  proposto
contro una sentenza della Corte d'appello di Roma, che, tra le  altre
statuizioni, ha disposto la confisca di immobili e terreni oggetto di
lottizzazione abusiva. 
    Si e'  trattato,  in  particolare,  della  realizzazione  di  una
struttura residenziale  di  285  abitazioni,  in  contrasto  con  gli
strumenti  urbanistici  e  in  luogo  del  previsto   «complesso   di
case-albergo per anziani». 
    Con  riferimento  al  reato  di  lottizzazione  abusiva,   punito
dall'art. 44, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380  del  2001,  gli
imputati sono stati prosciolti per estinzione del reato conseguente a
prescrizione. Al giudizio penale hanno partecipato  anche  acquirenti
delle abitazioni frutto della lottizzazione,  in  qualita'  di  parti
civili. Il rimettente riferisce che «almeno per quindici di  esse  si
pone il problema della confiscabilita'  degli  immobili»,  posto  che
tale misura, disposta dal giudice del merito, li  raggiungerebbe,  in
quanto proprietari del bene, ai sensi dell'impugnato art.  44,  comma
2, del d.P.R. n. 380 del 2001. 
    Tale disposizione  stabilisce  che  la  sentenza  definitiva  del
giudice penale che accerta che  vi  e'  stata  lottizzazione  abusiva
dispone la confisca dei terreni abusivamente lottizzati e delle opere
abusivamente costruite. Il giudice rimettente precisa che la confisca
«puo' essere disposta anche in presenza di una  causa  estintiva  del
reato, purche' sia accertata - come avvenuto nel caso in esame  -  la
sussistenza della lottizzazione abusiva sotto il profilo oggettivo  e
soggettivo,   nell'ambito   di   un   giudizio   che   assicuri    il
contraddittorio e la piu' ampia partecipazione degli  interessati,  e
che verifichi  l'esistenza  di  profili  quantomeno  di  colpa  sotto
l'aspetto  dell'imprudenza,  della  negligenza  e  del   difetto   di
vigilanza dei soggetti nei confronti dei quali  la  misura  viene  ad
incidere». 
    Per quanto concerne la posizione  degli  imputati,  la  Corte  di
cassazione esclude di poter accogliere la domanda di assoluzione  per
insussistenza del  fatto,  perche',  quanto  al  proscioglimento  per
intervenuta prescrizione, ai sensi dell'art. 129  c.p.p.,  «non  puo'
dirsi che  dagli  atti  emerga  l'assoluta  assenza  della  prova  di
colpevolezza» a loro carico. Ne consegue  che  i  ricorsi  andrebbero
rigettati anche con riguardo ai «capi della  sentenza  impugnata  con
cui  e'  stata  disposta  la  confisca  delle  aree  e  dei   terreni
lottizzati». 
    Il rimettente, in altri termini, si troverebbe a  confermare  una
sentenza che, pur in presenza di una causa estintiva del reato,  reca
l'accertamento  della  lottizzazione  abusiva  e  a  valutare  se  la
confisca, prevista in tal caso dall'art. 44, comma 2, del  d.P.R.  n.
380 del 2001, possa raggiungere  il  terzo  acquirente  dell'immobile
oggetto del reato. 
    Su quest'ultimo punto, la Corte di cassazione  osserva  che  «Non
emergono [...] elementi incontrovertibili da cui possa escludersi che
i 15 acquirenti e  i  restanti  promissari  acquirenti  gli  immobili
abusivamente  lottizzati,  costituitisi  parti  civili  nel  presente
processo, fossero qualificabili come terzi di buona  fede»,  come  la
Corte d'appello avrebbe illustrato nella propria decisione oggetto di
ricorso. Pertanto «la disposta confisca dovrebbe  essere  confermata,
con innegabile sacrificio patrimoniale del diritto di proprieta', non
potendo gli stessi qualificarsi  come  terzi  estranei  al  reato  di
lottizzazione abusiva per il solo fatto di non aver mai rivestito  la
qualita'  di  persona  sottoposta  ad  indagini  od   imputato,   ne'
l'intervenuta costituzione di parte civile e' decisiva per affermarne
l'estraneita'». 
    Tuttavia,  il  giudice  a  quo,  dopo  aver  dato  atto  che   la
consolidata interpretazione dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n.  380
del 2001, anche alla luce della sentenza n. 239 del  2009  di  questa
Corte,  imporrebbe  di   confiscare   i   beni,   da'   conto   della
sopravvenienza  della  sentenza  della  Corte  europea  dei   diritti
dell'uomo 29 ottobre 2013, Varvara contro Italia (ric. n.  17475  del
2009), e  ritiene  che  essa  abbia  modificato  il  contenuto  della
disposizione censurata. La Corte europea, infatti,  avrebbe  statuito
che, in base all'art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia
dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (d'ora in  avanti
«CEDU»), firmata a  Roma  il  4  novembre  1950,  ratificata  e  resa
esecutiva con la legge 4 agosto  1955,  n.  848,  e  all'art.  1  del
relativo Primo Protocollo addizionale,  la  confisca  non  possa  mai
essere disposta in difetto di una sentenza di condanna per  il  reato
di lottizzazione abusiva, ed in particolare quando si  e'  verificata
l'estinzione del reato. 
    Il rimettente osserva che simile  indirizzo,  non  univoco  nella
giurisprudenza europea,  si  pone  in  conflitto  con  una  linea  di
tendenza legislativa volta a prevedere  ipotesi  di  «confisca  senza
condanna»,  come  ad  esempio  disporrebbe,  in  talune  ipotesi,  la
direttiva 3 aprile 2014,  n.  2014/42/UE  (Direttiva  del  Parlamento
europeo e del Consiglio relativa al congelamento e alla confisca  dei
beni strumentali  e  dei  proventi  da  reato  nell'Unione  europea).
Tuttavia, esso, promanando dalla Corte  di  Strasburgo,  andrebbe  in
ogni caso recepito. 
    Una volta assunto l'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del  2001
nel significato attribuitogli in senso conforme alla CEDU, il giudice
a quo dubita della compatibilita' di tale significato con  gli  artt.
2, 9, 32, 41, 42 e 117, primo comma, Cost., «i quali impongono che il
paesaggio, l'ambiente, la vita  e  la  salute  siano  tutelati  quali
valori costituzionali oggettivamente  fondamentali,  cui  riconoscere
prevalenza nel bilanciamento con il diritto di proprieta'». 
    2.- Il  rimettente  specifica  che  la  questione  e'  rilevante,
poiche',  allo  stato,  la  disposizione  impugnata  osterebbe   alla
confisca dei beni oggetto di lottizzazione abusiva in danno del terzo
acquirente,  mentre,  ove  essa  fosse  accolta,  tale  misura,  gia'
disposta dalla Corte d'appello, andrebbe confermata. 
    3.- Con riguardo alla non manifesta infondatezza,  il  giudice  a
quo enuncia una premessa che accomuna tutte le  censure,  svolte  poi
analiticamente  con  riferimento  ai  parametri  sopra  dedotti.   La
confisca del frutto della lottizzazione abusiva sarebbe l'effetto  di
una scelta legislativa conseguente agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e 117,
primo comma, Cost. 
    Infatti, il diritto di proprieta', alla cui salvaguardia  sarebbe
preposta  l'interpretazione  dell'art.  44,   comma   2,   impugnato,
valorizzato  dalla  giurisprudenza  europea,  sarebbe   destinato   a
recedere di fronte a valori costituzionali di maggior rilievo, tra  i
quali quelli espressi  dalle  sopracitate  norme  costituzionali.  La
Costituzione, prosegue  il  rimettente,  «certamente  riconosce  come
diritto fondamentale, da definire diritto inviolabile  dell'uomo,  ai
sensi dell'art. 2 Cost., non il diritto di proprieta'  privata  senza
aggettivi, ma il diritto di "proprieta' personale", quella riferibile
al soddisfacimento dei bisogni primari dell'uomo», e lo colloca  «nel
Titolo  dedicato  ai  "Rapporti  economici"».  Esso,  pertanto,  «non
costituisce un valore assoluto, un diritto fondamentale  inviolabile,
ma un diritto che esiste secondo la previsione della legge, la quale,
tenuto conto del suo obbligo di assicurarne la funzione sociale e  di
renderl[o]  accessibile  a  tutti,  potrebbe  anche   comprimerl[o]»,
riducendolo a un nucleo essenziale. 
    In questo contesto, aggiunge il giudice rimettente, «E',  quindi,
la legge che impone, in caso di "accertata"  lottizzazione  [...]  il
sacrificio del diritto  di  proprieta'».  La  disposizione  impugnata
verrebbe invece ad impedire tale sacrificio, esponendosi al dubbio di
costituzionalita'. 
    4.- Passando ad approfondire le censure,  il  giudice  rimettente
ritiene leso anzitutto l'art. 2 Cost., poiche' l'art.  44,  comma  2,
impugnato, imporrebbe «di considerare il diritto di  proprieta'  come
inviolabile», in contrasto con  quanto  osservato  in  senso  opposto
dallo stesso giudice. 
    Sarebbe  poi  violato  l'art.  9  Cost.,  giacche'  omettendo  la
confisca si pregiudicherebbe il bene dell'ambiente, mentre «La natura
di principio fondamentale della  nostra  Carta  costituzionale  della
tutela del paesaggio e del  territorio  giustifica,  nell'ottica  del
legislatore, il sacrificio della proprieta' privata». La disposizione
impugnata  assicurerebbe  invece  la  «prevalenza  del   diritto   di
proprieta'», cosi' invertendo la contraria scelta costituzionale. 
    Per le medesime ragioni sarebbe leso l'art. 32 Cost.  Il  giudice
rimettente  premette  che  la  «legislazione  urbanistica»  ha  «come
obiettivo non  soltanto  la  conservazione  di  un  ordinato  assetto
territoriale, ma anche quello di garantire la tutela del  diritto  ad
un "ambiente" salubre e, dunque, la tutela della salute umana». 
    Ne consegue che «nel conflitto tra tre diversi interessi quali il
mercato,  l'ambiente  e  la  persona»  e'  ammessa  una  compressione
dell'integrita' ambientale  «in  ragione  degli  interessi  economici
delle  imprese»,  ma  in  nessun  caso  potrebbe  venire  compromesso
«l'interesse fondamentale della persona alla difesa della  salubrita'
dell'ambiente (Corte Cost., sentenza n. 127/1990)». 
    Il giudice a quo conclude che «escludere [...] la confiscabilita'
dei terreni e degli immobili sequestrati determinerebbe,  ancora  una
volta, la prevalenza del  diritto  di  proprieta'  sul  diritto  alla
salute», in contrasto con l'art. 32 Cost. 
    Infine, analogo ragionamento e' svolto con riferimento agli artt.
41 e 42 Cost. La Corte di  cassazione  evidenzia  che  e'  lo  stesso
legislatore che, assegnando prevalenza all'«interesse dello  Stato  a
reprimere» le violazioni  urbanistiche,  impone  «il  sacrificio  del
diritto  di  proprieta'  attesa  l'incompatibilita'  della   condotta
integrante l'illecito lottizzatorio con la  funzione  sociale  e  con
l'utilita' sociale». 
    Il  rimettente  conclude,   rammentando   che   «il   potere   di
pianificazione   urbanistica»   e'   «funzionalmente   rivolto   alla
realizzazione contemperata di una pluralita' di  interessi  pubblici,
che  trovano  il  proprio  fondamento  in  valori  costituzionalmente
garantiti». 
    Venendo meno la confisca, nel caso di lottizzazione abusiva,  «si
priverebbe la pubblica amministrazione di un essenziale strumento  di
realizzazione di valori  costituzionali,  quali  sono  almeno  quelli
espressi dagli articoli 9, comma  secondo,  32,  42,  44,  47,  comma
secondo, Cost.». 
    5.- Alla  luce  di  queste  considerazioni,  il  giudice  a  quo,
ripercorsa la giurisprudenza costituzionale in tema di  rapporti  tra
CEDU e legge nazionale, rammenta  che  «il  rispetto  degli  obblighi
internazionali non puo' mai essere causa di una diminuzione di tutela
rispetto a quelle gia' predisposte dall'ordinamento interno» e reputa
la norma impugnata contraria  al  principio  di  «massima  espansione
delle garanzie», posto che essa frustra gli interessi  costituzionali
riassunti  dalle  disposizioni  asseritamente  violate.  Ne'  sarebbe
possibile «attivare la procedura prevista dal Protocollo n.  16  alla
Convenzione» e richiedere il parere della Corte  europea,  posto  che
tale strumento  non  e'  ancora  entrato  in  vigore.  A  parere  del
rimettente,  non  resta  percio'  che  sollevare  una  questione   di
costituzionalita' dell'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del  2001,
nel significato da attribuirgli sulla base  della  giurisprudenza  di
Strasburgo. 
    6.- Con ordinanza depositata il 17 gennaio 2014 (r.o. n. 101  del
2014), il Tribunale ordinario di Teramo, in composizione monocratica,
ha sollevato una questione di legittimita'  costituzionale  dell'art.
44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, in riferimento all'art. 117,
primo comma, Cost., in relazione all'art. 7 della CEDU, «nella  parte
in cui consente che l'accertamento nei  confronti  dell'imputato  del
reato di lottizzazione abusiva - quale presupposto  dell'obbligo  per
il giudice penale di disporre la confisca  dei  terreni  abusivamente
lottizzati e  delle  opere  abusivamente  costruite  -  possa  essere
contenuto anche in una sentenza che dichiari  estinto  il  reato  per
intervenuta prescrizione». 
    Il rimettente si trova a giudicare una persona imputata del reato
di lottizzazione abusiva previsto dall'art. 44, comma 1, lettera  c),
del d.P.R. n. 380 del 2001, in qualita' di proprietario  dell'area  e
committente dei lavori. 
    Il giudice a quo rileva, anzitutto, che il reato e' prescritto  e
che pertanto, in difetto delle condizioni per assolvere l'imputato ai
sensi dell'art. 129 c.p.p., e' necessario dichiarare di  non  doversi
procedere per estinzione del reato stesso. 
    Peraltro,   il   rimettente   reputa   integrati   gli    estremi
dell'illecito penale, anche  sotto  l'aspetto  della  responsabilita'
personale  dell'imputato,  se  non   altro   a   titolo   di   colpa.
Quest'ultimo, prosegue il rimettente, ha progressivamente alterato la
destinazione urbanistica agricola dell'area,  imprimendole  carattere
residenziale.  Nonostante  gli  atti  di   assenso   della   pubblica
amministrazione,   la   macroscopica   violazione   della   normativa
urbanistica, e il difetto di un  reale  nesso  strumentale  dei  beni
edificati rispetto alle esigenze agricole del terreno, convincono  il
giudice a quo della colpevolezza dell'imputato. 
    Cio'   premesso,   il   Tribunale   osserva   che,   alla    luce
dell'interpretazione dell'art. 44, comma 2, del  d.P.R.  n.  380  del
2001, vigente, a seguito della sentenza di questa Corte  n.  239  del
2009,  e  seguita  dalla  Corte  di  cassazione,  sarebbe  necessario
disporre la confisca  del  bene  oggetto  di  lottizzazione  abusiva,
poiche' essa non richiede inderogabilmente la condanna penale, ma  il
solo accertamento della responsabilita' della persona  verso  cui  la
misura e' disposta. 
    Tuttavia, il rimettente reputa che tale assetto, che  costituisce
diritto  vivente,  dovrebbe  ritenersi  superato  per  effetto  della
sentenza della Corte europea dei  diritti  dell'uomo  resa  nel  caso
Varvara contro Italia, sopra gia' citata, con  la  quale  si  sarebbe
stabilito che l'art. 7 della CEDU vieta  di  applicare  una  sanzione
reputata penale nei confronti di chi non sia stato condannato. 
    Il giudice a quo esclude di potersi discostare in via ermeneutica
dal diritto vivente appena ricostruito, nonostante l'«ambiguita'  del
dato letterale» offerto dalla disposizione impugnata, ma ritiene  che
esso si ponga in contrasto con l'art. 7 della CEDU, come interpretato
dalla Corte di Strasburgo, e conseguentemente con l'art.  117,  primo
comma, Cost. 
    Secondo questa prospettiva,  sarebbe  necessario  superare  «ogni
residuo dubbio interpretativo» sull'intrinseca  natura  penale  della
confisca,  concludendo  per  un'attrazione   di   essa   «nell'orbita
garantista sostanziale» assicurata dai «principi di  legalita'  della
pena e di "colpevolezza"» di cui all'art. 25 Cost. 
    7.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata. 
    L'Avvocatura  ritiene  che  la  confisca  prevista  dalla   norma
impugnata non costituisca una sanzione penale, perche' non e' diretta
a punire, ma a permettere all'amministrazione  di  recuperare  l'area
lottizzata,  ripristinando  la  «situazione  ambientale».  La  misura
concernerebbe  esclusivamente  la  tutela  del  territorio,  come  si
dovrebbe dedurre dal fatto che l'amministrazione  puo'  scegliere  se
demolire l'opera o acquisirla al proprio patrimonio, e dal fatto  che
la confisca, pur disposta  dallo  Stato,  opera  a  favore  dell'ente
locale. 
    L'Avvocatura aggiunge che  la  sentenza  resa  nel  caso  Varvara
contro Italia, peraltro solo a maggioranza dei componenti della Corte
europea, «desta allarme prima  che  perplessita'»,  perche'  pone  in
questione il meccanismo «consolidato» delle sanzioni  amministrative,
indebolendo la  risposta  sanzionatoria  nei  confronti  di  condotte
assunte in danno del territorio.  Cio'  comporterebbe  la  violazione
degli artt. 9 e 42 Cost. 
    In ragione della prevalenza da attribuirsi  a  tali  disposizioni
rispetto alle norme della CEDU, l'Avvocatura reputa «nel potere della
Corte costituzionale accertare e  dichiarare»  la  inidoneita'  della
Convenzione nel caso di  specie  «ad  imporre  la  conformazione  del
diritto interno». 
    8.- Con memoria depositata il 18 dicembre 2014,  l'Avvocatura  ha
ulteriormente sviluppato gli argomenti gia' enunciati  per  sostenere
l'infondatezza della questione. 
    Dopo aver ripercorso il contenuto delle pronunce rese dalla Corte
europea dei diritti dell'uomo nel caso Sud Fondi srl e  altri  contro
Italia e nel caso Varvara contro Italia, l'Avvocatura rileva  che  il
«principio di diritto nazionale», affermato in quest'ultima sentenza,
secondo cui non sarebbe possibile applicare una sanzione  accessoria,
come la confisca per la  lottizzazione  abusiva,  in  caso  di  reato
estinto per prescrizione o per altra causa, non sarebbe sancito dalla
Costituzione o da norme legislative dell'ordinamento nazionale e  non
troverebbe riscontro nel diritto vivente di fonte  giurisprudenziale.
Il legislatore nazionale avrebbe previsto, infatti,  diverse  ipotesi
di confisca senza  condanna,  subordinandole  all'accertamento  della
responsabilita'  colpevole  dell'imputato.  Il  diritto  vivente   di
origine giurisprudenziale avrebbe affermato un analogo  principio  in
tema di confisca di cui all'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001. 
    La possibilita' della confisca senza  condanna  sarebbe  prevista
anche dal diritto dell'Unione europea  (art.  4  della  direttiva  n.
2014/42/UE) e dal  diritto  internazionale  (art.  54,  paragrafo  1,
lettera c, della Convenzione dell'Organizzazione delle Nazioni  unite
contro la corruzione del 31 ottobre 2003). 
    Secondo  l'Avvocatura,   «L'applicazione   della   "pena"   della
confisca» anche in presenza di una sentenza  di  proscioglimento  non
costituirebbe  un  esito  illogico  o  incomprensibile  del  processo
penale. Infatti, se si attribuisse «all'etichetta  "condanna  penale"
il significato di applicazione di una "pena" (intesa in senso  ampio,
ex art.  7,  Cedu),  la  sentenza  di  proscioglimento  con  confisca
[sarebbe], in realta' nella sostanza,  una  condanna,  e  dunque  non
[costituirebbe]   un   controsenso».   Ricollegando   all'espressione
«"condanna penale" il significato di  applicazione  delle  sole  pene
formalmente considerate tali dall'ordinamento nazionale», la confisca
di cui all'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, non  sarebbe
ugualmente in «contraddizione» con  il  principio  di  legalita',  in
quanto essa, nell'ordinamento italiano,  costituirebbe  una  sanzione
amministrativa  e  non  una  pena.  Il  presupposto  della  condanna,
infatti, andrebbe inteso non come categoria astratta, «ma  solo  come
termine  evocativo  dell'accertamento   della   responsabilita'   che
giustifica la sottrazione definitiva del bene». 
    Pertanto, qualora si ritenga che la sentenza della Corte  europea
resa nel caso Varvara «abbia inteso per "condanna" non  la  categoria
formale, ma solo la pronuncia  evocativa  di  un  accertamento  pieno
accompagnato da tutte le  garanzie  difensive  della  responsabilita'
dell'imputato»,   la   Corte   dovrebbe   adottare    una    sentenza
interpretativa di rigetto. Ove si ritenga, invece, che tale  sentenza
affermi che il legislatore «non ha previsto» o «non poteva prevedere»
un caso di confisca senza condanna,  allora  tale  decisione,  avente
«valore sub-costituzionale»  sarebbe  in  contrasto  con  i  principi
costituzionali che riservano alla Corte costituzionale e  alla  Corte
di cassazione il compito di  «definire  il  diritto  vivente  interno
desumibile rispettivamente dalla Costituzione o dalle altre fonti del
diritto», e con l'art.  25  Cost.,  che  attribuisce  al  legislatore
ordinario la competenza a «definire  i  presupposti  di  applicazione
delle pene e dunque della confisca». 
    L'Avvocatura, inoltre, sottolinea che la regola  affermata  dalla
Corte europea nel caso Varvara, secondo cui  sarebbe  priva  di  base
legale e arbitraria la confisca disposta ai sensi  dell'art.  44  del
d.P.R.  n.  380  del  2001,  in  assenza  di  una  condanna   penale,
rischierebbe di pregiudicare i  valori  fondamentali  del  paesaggio,
dell'ambiente, della vita e della salute, destinati a  prevalere,  in
considerazione del rango sub-costituzionale della Convenzione e delle
decisioni della Corte di Strasburgo. Inoltre, i valori  in  questione
prevarrebbero nel bilanciamento con  il  diritto  di  proprieta',  il
quale  non  costituisce  un  diritto  assoluto  inviolabile,  dovendo
comunque essere rivolto ad assicurare una funzione sociale. 
    L'interpretazione dell'art. 44, comma 2, del d.P.R.  n.  380  del
2001, discendente dalla giurisprudenza europea, fornendo  al  diritto
di  proprieta'  una  protezione  maggiore  di   quella   sancita   in
Costituzione, sarebbe  in  contrasto  con  il  valore  costituzionale
primario del paesaggio di cui all'art. 9  Cost.  Ugualmente,  sarebbe
violato il diritto alla salute, nella sua accezione di diritto ad  un
ambiente  salubre,  previsto  dall'art.  32  Cost.,  e  destinato   a
prevalere sul diritto di proprieta'. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con ordinanza del 20 maggio 2014 (r.o. n. 209 del  2014),  la
Corte  di  cassazione,  terza  sezione  penale,  ha   sollevato,   in
riferimento agli artt. 2, 9, 32, 41, 42 e  117,  primo  comma,  della
Costituzione, una questione di legittimita' costituzionale  dell'art.
44, comma 2, del d.P.R. 6 giugno 2001,  n.  380  (Testo  unico  delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia -  Testo
A), nella parte in cui vieta di  applicare  la  confisca  urbanistica
«nel caso di dichiarazione di prescrizione del reato anche qualora la
responsabilita' penale sia stata accertata in tutti i suoi elementi». 
    La disposizione impugnata stabilisce che «La sentenza  definitiva
del giudice penale che accerta che vi e' stata lottizzazione abusiva,
dispone la confisca dei  terreni,  abusivamente  lottizzati  e  delle
opere abusivamente costruite». 
    Il giudice  rimettente  e'  investito  del  ricorso  proposto  da
numerose parti contro una pronuncia della Corte  d'appello  di  Roma,
che, rilevato il decorso del termine di prescrizione  del  reato,  ha
ugualmente disposto  la  confisca  urbanistica  di  beni  oggetto  di
lottizzazione abusiva, anche nei confronti dei  terzi  acquirenti  di
essi. Il giudice rimettente, dopo avere escluso  di  poter  assolvere
gli imputati ai sensi dell'art. 129 c.p.p., osserva che il capo della
sentenza di merito  concernente  la  confisca  meriterebbe  conferma,
perche' non emergono dagli atti «elementi  incontrovertibili  da  cui
possa escludersi» che  gli  acquirenti  «fossero  qualificabili  come
terzi di buona fede», come avrebbe adeguatamente illustrato la  corte
territoriale. Pertanto, l'art. 44, comma 2, del  d.P.R.  n.  380  del
2001,   secondo   la   lettura   tradizionalmente    seguita    dalla
giurisprudenza di legittimita', avrebbe comportato  la  confisca  dei
lotti   unitamente   alla   pronuncia   penale   dichiarativa   della
prescrizione del reato. 
    Tuttavia, la Corte di cassazione reputa che,  per  effetto  della
sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo 29  ottobre  2013,
Varvara contro Italia (ric. n. 17475 del 2009),  la  norma  impugnata
abbia assunto il significato che e' preclusa  la  confisca  dei  beni
quando  non  viene  pronunciata  una  condanna  per   il   reato   di
lottizzazione abusiva. 
    La misura non potrebbe percio' essere piu'  adottata,  quando  il
reato  e'  prescritto,  e  nonostante  sia  stata,  o  possa  venire,
incidentalmente, accertata la responsabilita'  personale  di  chi  e'
soggetto alla confisca. 
    Tale assetto appare al giudice a quo in contrasto con  gli  artt.
2, 9,  32,  41,  42  e  117,  primo  comma,  Cost.,  in  quanto  esso
determinerebbe una forma di iperprotezione del diritto di proprieta',
nonostante il bene abusivo non assolva ad una  funzione  di  utilita'
sociale (artt.  41  e  42  Cost.),  con  il  sacrificio  di  principi
costituzionali di  rango  costituzionalmente  superiore,  ovvero  del
diritto a sviluppare la personalita' umana  in  un  ambiente  salubre
(artt. 2, 9 e 32 Cost.). 
    2.- Con ordinanza del 17 gennaio 2014 (r.o. n. 101 del 2014),  il
Tribunale  ordinario  di  Teramo,  in  composizione  monocratica,  ha
sollevato una questione di legittimita' costituzionale dell'art.  44,
comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001,  in  riferimento  all'art.  117,
primo comma,  Cost.,  quest'ultimo  in  relazione  all'art.  7  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (d'ora in avanti «CEDU»), firmata a Roma  il  4
novembre 1950, ratificata e resa esecutiva  con  la  legge  4  agosto
1955, n. 848, nella parte in cui consente che la confisca urbanistica
dei  terreni  abusivamente  lottizzati  e  delle  opere  abusivamente
costruite venga disposta «anche in una sentenza che dichiari  estinto
il reato per intervenuta prescrizione». 
    Il rimettente premette di procedere penalmente per  il  reato  di
lottizzazione  abusiva  nei  confronti  di  un   imputato,   la   cui
responsabilita' e'  stata  dimostrata  nel  corso  del  dibattimento.
Tuttavia, aggiunge, e' maturata la prescrizione, con  la  conseguenza
che si impone una pronuncia di non  doversi  procedere.  In  base  al
diritto vivente formatosi sulla norma in questione, sarebbe parimenti
doveroso disporre la confisca  dei  beni  oggetto  di  lottizzazione,
posto che a tal fine  e'  sufficiente  che  sia  stata  accertata  la
responsabilita' di colui che la subisce, mentre non e'  richiesta  la
condanna penale. La lettera della  disposizione  impugnata,  infatti,
non  menziona  tale  condanna,  ma   il   solo   accertamento   della
lottizzazione abusiva. 
    Il rimettente reputa, pero', che tale ultima regola, fino ad oggi
pacifica,  sia  entrata  in  collisione  con  l'art.  7  della  CEDU,
nell'interpretazione da ultimo adottata  con  la  ricordata  sentenza
Varvara contro Italia. Con questa decisione, la Corte  di  Strasburgo
avrebbe escluso la conformita' al principio di legalita'  in  materia
penale di  una  confisca  urbanistica  applicata  unitamente  ad  una
sentenza dichiarativa della estinzione del reato per prescrizione,  e
dunque in assenza di condanna. 
    Tale contrasto e' all'origine dell'odierno dubbio di legittimita'
costituzionale, posto che il giudice rimettente  esclude  di  poterlo
risolvere in via interpretativa. 
    3.- Le questioni sono connesse, giacche' vertono  sulla  medesima
disposizione,  e  pongono  problemi  affini.  E'  percio'   opportuno
disporre la riunione dei giudizi, affinche' possano essere decisi con
un'unica pronuncia. 
    4.- La questione di legittimita' costituzionale  sollevata  dalla
Corte di cassazione e' inammissibile, anzitutto perche'  erroneamente
ha per oggetto l'art. 44, comma, 2,  del  d.P.R.  n.  380  del  2001,
anziche' la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali firmata  a  Roma  il  4  novembre  1950  e  del
Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a  Parigi  il
20 marzo  1952),  nella  parte  in  cui  con  essa  si  e'  conferita
esecuzione ad una norma reputata di dubbia costituzionalita',  ovvero
al divieto di applicare la confisca urbanistica se non unitamente  ad
una pronuncia di condanna penale. 
    Questa  Corte  ha,  infatti,  gia'  chiarito  che  il   carattere
sub-costituzionale della CEDU impone un raffronto tra  le  regole  da
essa  ricavate  e  la  Costituzione,  e  che  l'eventuale  dubbio  di
costituzionalita' da cio'  derivato,  non  potendosi  incidere  sulla
legittimita'  della  Convenzione,   deve   venire   prospettato   con
riferimento alla legge nazionale di adattamento (sentenze n. 349 e n.
348 del 2007; in seguito, sentenza n. 311 del 2009). 
    Il rimettente e' convinto che, a seguito della  sentenza  Varvara
contro Italia, l'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001,  debba
assumere,  in  via  ermeneutica,  il  significato  che  la  Corte  di
Strasburgo gli avrebbe attribuito, e che, proprio per effetto  di  un
simile processo adattativo, tale significato si presti a  rilievi  di
costituzionalita'. 
    Questo modo di argomentare e' errato sotto un duplice aspetto. 
    In primo  luogo,  esso  presuppone  che  competa  alla  Corte  di
Strasburgo determinare il significato della legge nazionale,  quando,
al contrario, il giudice europeo si trova a valutare  se  essa,  come
definita e applicata  dalle  autorita'  nazionali,  abbia,  nel  caso
sottoposto a giudizio, generato violazioni delle superiori previsioni
della  CEDU.  E'  pertanto  quest'ultima,  e  non  la   legge   della
Repubblica, a vivere nella dimensione ermeneutica che  la  Corte  EDU
adotta in modo costante e consolidato. 
    Naturalmente, non e' in discussione  che,  acquisita  una  simile
dimensione, competa al giudice di assegnare alla disposizione interna
un significato quanto piu' aderente ad  essa  (sentenza  n.  239  del
2009), a condizione che non si riveli del tutto  eccentrico  rispetto
alla lettera della legge (sentenze n. 1 del 2013 e n. 219 del 2008). 
    Tuttavia, e in secondo luogo, sfugge al rimettente che il  dovere
del giudice comune  di  interpretare  il  diritto  interno  in  senso
conforme alla CEDU, appena ribadito, e', ovviamente,  subordinato  al
prioritario  compito  di  adottare  una  lettura   costituzionalmente
conforme, poiche' tale  modo  di  procedere  riflette  il  predominio
assiologico della Costituzione sulla CEDU (sentenze n. 349 e  n.  348
del 2007). 
    Il piu' delle volte, l'auspicabile  convergenza  degli  operatori
giuridici  e  delle  Corti  costituzionali  e  internazionali   verso
approcci  condivisi,  quanto  alla  tutela  dei  diritti  inviolabili
dell'uomo,  offrira'  una  soluzione  del  caso  concreto  capace  di
conciliare i principi desumibili da entrambe queste fonti. Ma,  nelle
ipotesi estreme in cui tale via appaia sbarrata, e'  fuor  di  dubbio
che il giudice debba obbedienza anzitutto alla Carta repubblicana. 
    Nel caso sottoposto al giudizio  di  questa  Corte,  percio',  il
giudice a quo non avrebbe potuto assegnare, in  sede  interpretativa,
all'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, un significato  che
la stessa Corte di cassazione  reputa  incostituzionale.  La  pretesa
antinomia venutasi a creare tra il diritto nazionale interpretato  in
senso costituzionalmente orientato, e dunque fermo nell'escludere che
la confisca urbanistica esiga una condanna penale, e la CEDU,  che  a
parere  del  rimettente  esprimerebbe  una  regola  opposta,  avrebbe
percio' dovuto essere  risolta  ponendo  in  dubbio  la  legittimita'
costituzionale della legge di adattamento, in  quanto  essa  permette
l'ingresso nell'ordinamento italiano di una simile regola. 
    5.- La questione di legittimita'  costituzionale  proposta  dalla
Corte di cassazione e' inammissibile anche per difetto di motivazione
sulla rilevanza. 
    Come si e' visto, il rimettente  ritiene  che  solo  per  effetto
della sentenza Varvara sarebbe oramai preclusa  l'applicazione  della
confisca urbanistica nei confronti  dei  terzi  acquirenti  dei  beni
lottizzati. In assenza  di  questa  sopravvenienza,  invece,  avrebbe
dovuto essere confermato il capo della sentenza di merito  che  aveva
ordinato la misura ablativa, nonostante la prescrizione del reato. La
motivazione in ordine alla applicabilita'  della  regola  di  diritto
tratta  dalla  giurisprudenza  europea,  e  oggetto  del  dubbio   di
costituzionalita', e' dunque legata al presupposto secondo  cui,  nel
caso di specie, essa impedisce  un  effetto  giuridico  nel  processo
principale, che altrimenti si sarebbe prodotto. Tuttavia, e'  proprio
tale motivazione a rivelarsi carente, per le ragioni che seguono. 
    Come e'  noto,  la  confisca  urbanistica  prevista  dalla  norma
impugnata e' una sanzione amministrativa (ordinanza n. 187 del 1998),
che per lungo tempo la giurisprudenza nazionale ha ritenuto di  poter
disporre  sulla  base  del  solo  fatto  obbiettivo  costituito   dal
carattere abusivo dell'opera, e dunque  senza  che  fosse  necessario
muovere un addebito di responsabilita' nei confronti di chi subiva la
misura. 
    Questa Corte ha gia' avuto modo di rilevare (sentenza n. 239  del
2009) che la situazione e' mutata  in  seguito  alla  sentenza  della
Corte di Strasburgo 20 gennaio 2009, Sud Fondi  srl  e  altri  contro
Italia, con la  quale  si  e'  deciso  che  la  confisca  urbanistica
costituisce sanzione penale ai sensi dell'art. 7 della  CEDU  e  puo'
pertanto  venire  disposta  solo  nei  confronti  di  colui  la   cui
responsabilita'  sia  stata  accertata  in  ragione  di   un   legame
intellettuale (coscienza e volonta') con i fatti. 
    Si e' aggiunto che, nel nostro  ordinamento,  l'accertamento  ben
puo' essere contenuto  in  una  sentenza  penale  di  proscioglimento
dovuto a prescrizione del reato, la quale, pur non avendo  condannato
l'imputato, abbia comunque  adeguatamente  motivato  in  ordine  alla
responsabilita' personale di chi e' soggetto  alla  misura  ablativa,
sia esso l'autore del fatto, ovvero il terzo di mala fede  acquirente
del bene (sentenze n. 239 del 2009 e n. 85 del 2008). 
    Naturalmente, non spetta a questa Corte  soffermarsi  sui  limiti
che l'ordinamento processuale puo', di volta in  volta  e  a  seconda
della fase in cui versa il processo, imporre al giudice penale quanto
alle  attivita'  necessarie  per  giungere   all'accertamento   della
responsabilita', benche' si possa  ravvisare  in  giurisprudenza  una
linea di tendenza favorevole ad un ampliamento di essi  (ad  esempio,
Corte di cassazione, sezioni unite penali, 10 luglio 2008, n. 38834).
Resta il fatto che, di per se', non e' escluso che il proscioglimento
per prescrizione possa  accompagnarsi  alla  piu'  ampia  motivazione
sulla  responsabilita',  ai  soli  fini  della  confisca   del   bene
lottizzato (misura, quest'ultima, che il giudice penale e'  tenuto  a
disporre con la sentenza definitiva  che  accerta  che  vi  e'  stata
lottizzazione abusiva ai sensi dell'art. 44, comma 2, del  d.P.R.  n.
380 del 2001). 
    E' chiaro che, una volta recepito il  principio  enunciato  dalla
sentenza Sud Fondi srl e altri contro Italia,  ed  interpretato  alla
luce di esso l'art. 44, comma 2, del d.P.R. n.  380  del  2001,  tale
motivazione non costituisce una facolta' del giudice, ma  un  obbligo
dal cui assolvimento dipende la legalita' della confisca. 
    Sia che la misura colpisca l'imputato, sia che essa raggiunga  il
terzo acquirente di mala fede estraneo al  reato,  si  rende  percio'
necessario che il giudice penale  accerti  la  responsabilita'  delle
persone che la subiscono, attenendosi ad adeguati standard  probatori
e rifuggendo da clausole di stile che non siano capaci di dare  conto
dell'effettivo apprezzamento compiuto. 
    Ora, tali considerazioni chiariscono che il terzo  acquirente  di
buona fede, che ha a buon titolo confidato nella conformita' del bene
alla normativa  urbanistica,  non  puo'  in  nessun  caso  subire  la
confisca. Va poi da se' che l'onere di dimostrare la  mala  fede  del
terzo grava, nel processo penale, sulla pubblica  accusa,  posto  che
una "pena", ai sensi dell'art. 7 della  CEDU,  puo'  essere  inflitta
solo vincendo la presunzione di non colpevolezza formulata  dall'art.
6, comma 2, della  CEDU  (ex  plurimis,  Corte  europea  dei  diritti
dell'uomo, sentenza 1° marzo 2007, Geerings contro Paesi Bassi). 
    Tornando al caso oggetto di giudizio, si e' gia' ricordato che la
Corte di cassazione e' giunta  alla  conclusione  dell'applicabilita'
della confisca nei confronti del  terzo  acquirente  (impedita  dalla
sopravvenienza  del  divieto  che  sarebbe  stato  enunciato  con  la
sentenza  Varvara),  osservando  che  non  erano  emersi  dagli  atti
elementi incontrovertibili, che  permettessero  di  escludere  che  i
terzi acquirenti fossero in buona  fede,  e  rinviando  sul  punto  a
quanto dedotto dalla Corte d'appello con la sentenza di merito. 
    Ora, fermo il pacifico divieto di  integrare  per  relationem  la
motivazione dell'ordinanza di rimessione (ex plurimis,  ordinanza  n.
33 del 2014), e' evidente che il giudice a quo, con tali espressioni,
non ha affatto dato conto del superamento della  presunzione  di  non
colpevolezza del terzo,  ma  ha  adottato  un  criterio  di  giudizio
esattamente opposto, e percio' inidoneo a sorreggere la confisca.  Ai
fini della  motivazione  sulla  rilevanza  della  questione,  invece,
sarebbe stato necessario argomentare il  raggiungimento  della  prova
della responsabilita' del  terzo  acquirente,  perche',  seguendo  il
ragionamento del rimettente, solo in tal caso  vi  sarebbe  stata  la
necessita' di applicare la contestata regola di  diritto  tratta  dal
caso Varvara. 
    Nell'ipotesi opposta,  al  contrario,  la  confisca  non  avrebbe
potuto essere disposta neppure in applicazione del "diritto  vivente"
che ha preceduto quest'ultima pronuncia della Corte EDU. 
    6.-  Un'ulteriore  causa  di  inammissibilita'  della   questione
sollevata dalla Corte di cassazione, e anche di quella sollevata  dal
Tribunale ordinario di Teramo, deriva dal  fatto  che  entrambe  sono
basate su un duplice, erroneo presupposto interpretativo. 
    I giudici rimettenti, pur divergendo in ordine agli  effetti  che
la sentenza  Varvara  dovrebbe  produrre  nell'ordinamento  giuridico
nazionale, sono convinti che con tale pronuncia la  Corte  EDU  abbia
enunciato un principio di diritto tanto innovativo, quanto vincolante
per il giudice chiamato ad applicarlo, raggiungendo un nuovo  approdo
ermeneutico nella lettura dell'art. 7 della CEDU. 
    Il primo fraintendimento imputabile ai giudici a quibus verte sul
significato che essi hanno  tratto  dalla  sentenza  della  Corte  di
Strasburgo. 
    Nonostante le questioni siano state sollevate, in conformita'  ai
casi oggetto dei giudizi principali,  con  specifico  riferimento  al
divieto  di  adottare  una  misura  riconducibile  all'art.  7   CEDU
unitamente ad una sentenza che abbia accertato  la  prescrizione  del
reato,  e'  chiaro  che  il  principio  di  diritto  selezionato  dai
rimettenti mostra un respiro ben piu' ampio.  La  Corte  europea,  in
definitiva, avrebbe affermato che, una volta qualificata una sanzione
ai sensi dell'art. 7 della CEDU, e dunque dopo averla reputata  entro
questo ambito una "pena", essa non potrebbe venire inflitta  che  dal
giudice penale, attraverso la sentenza di condanna per un reato.  Per
effetto di cio', la confisca urbanistica, che fino ad oggi continuava
ad operare sul piano interno a  titolo  di  sanzione  amministrativa,
irrogabile  anzitutto  dalla  pubblica   amministrazione,   pur   con
l'arricchimento  delle  garanzie  offerte  dall'art.  7  della  CEDU,
sarebbe stata integralmente riassorbita nell'area del diritto penale,
o, per dirlo in altri termini,  alle  tutele  sostanziali  assicurate
dall'art. 7  si  sarebbe  aggiunto  un  ulteriore  presidio  formale,
costituito dalla riserva di competenza del giudice penale  in  ordine
all'applicazione della misura a titolo  di  "pena",  e  percio'  solo
unitamente alla pronuncia di condanna. 
    Ne seguirebbe un corollario: l'illecito  amministrativo,  che  il
legislatore distingue con ampia discrezionalita' dal reato (ordinanza
n. 159 del 1994; in seguito, sentenze n. 273 del  2010,  n.  364  del
2004 e n. 317 del 1996; ordinanze n. 212 del 2004 e n. 177 del 2003),
appena fosse  tale  da  corrispondere,  in  forza  della  CEDU,  agli
autonomi  criteri   di   qualificazione   della   "pena",   subirebbe
l'attrazione del diritto penale  dello  Stato  aderente.  Si  sarebbe
cosi' operata una saldatura tra il  concetto  di  sanzione  penale  a
livello nazionale e quello a livello europeo. Per  effetto  di  cio',
l'area del diritto penale sarebbe destinata ad allargarsi  oltre  gli
apprezzamenti discrezionali dei  legislatori,  persino  a  fronte  di
sanzioni lievi, ma per altri versi pur sempre costituenti una  "pena"
ai sensi dell'art. 7 della CEDU (Grande Camera, sentenza 23  novembre
2006, Jussila contro Finlandia). 
    I rimettenti,  nell'enunciazione  di  una  simile  premessa,  non
colgono che essa si  mostra  di  dubbia  compatibilita'  sia  con  la
Costituzione, sia con la stessa  CEDU,  per  come  quest'ultima  vive
attraverso le pronunce della Corte di Strasburgo. 
    6.1.-  Su  questo  piano,  non  puo'  sfuggire  che   l'autonomia
dell'illecito  amministrativo  dal  diritto  penale,  oltre  che   ad
impingere nel piu' ampio grado di  discrezionalita'  del  legislatore
nel  configurare  gli  strumenti  piu'  efficaci  per  perseguire  la
«effettivita' dell'imposizione di obblighi o di doveri» (sentenza  n.
317  del  1996),  corrisponde  altresi',  sul  piano  delle  garanzie
costituzionali, al «principio di  sussidiarieta',  per  il  quale  la
criminalizzazione,  costituendo  l'ultima  ratio,  deve   intervenire
soltanto allorche', da parte degli altri rami  dell'ordinamento,  non
venga offerta adeguata tutela ai beni da garantire» (sentenza n.  487
del 1989; in seguito, sentenze n. 447 del 1998 e n.  317  del  1996).
Difatti, «Le esigenze costituzionali di  tutela  non  si  esauriscono
[...] nella (eventuale) tutela  penale,  ben  potendo  invece  essere
soddisfatte con diverse forme di precetti e di sanzioni» (sentenza n.
447 del 1998). 
    Tale principio, che si pone alla base delle  scelte  di  politica
criminale operate dal  legislatore,  si  coniuga  armonicamente,  del
resto, con lo sviluppo della  giurisprudenza  europea  sull'autonomia
dei criteri di valutazione della natura penale di  una  sanzione,  ai
fini dell'estensione delle garanzie offerte dall'art. 7  della  CEDU,
rispetto alla qualificazione che l'ordinamento nazionale offre  della
medesima sanzione. 
    Come e' noto, la Corte EDU, fin dalle  sentenze  8  giugno  1976,
Engel contro Paesi Bassi, e 21 febbraio 1984, Öztürk contro Germania,
ha elaborato peculiari indici per qualificare una sanzione  come  una
"pena" ai sensi dell'art. 7 della CEDU, proprio per scongiurare che i
vasti processi di decriminalizzazione, avviati dagli  Stati  aderenti
fin dagli anni 60 del secolo scorso,  potessero  avere  l'effetto  di
sottrarre  gli   illeciti,   cosi'   depenalizzati,   alle   garanzie
sostanziali assicurate dagli artt. 6 e  7  della  CEDU  (sentenza  21
febbraio 1984, Öztürk contro Germania). 
    Non e' stata percio' posta in discussione la discrezionalita' dei
legislatori nazionali di arginare  l'ipertrofia  del  diritto  penale
attraverso  il  ricorso  a  strumenti  sanzionatori   reputati   piu'
adeguati, e per la natura della sanzione comminata, e per  i  profili
procedimentali semplificati connessi alla prima  sede  amministrativa
di inflizione della sanzione. Piuttosto, si e' inteso evitare che per
tale  via  andasse  disperso  il  fascio  delle  tutele   che   aveva
storicamente accompagnato lo sviluppo del diritto penale, e alla  cui
difesa la CEDU e' preposta. 
    In  questo  doppio  binario,  ove  da  un  lato  scorrono   senza
opposizione  le  scelte  di  politica  criminale  dello   Stato,   ma
dall'altro ne sono frenati gli effetti di detrimento  delle  garanzie
individuali, si manifesta in modo vivido la natura della CEDU,  quale
strumento  preposto,  pur   nel   rispetto   della   discrezionalita'
legislativa degli  Stati,  a  superare  i  profili  di  inquadramento
formale di una fattispecie, per valorizzare piuttosto la sostanza dei
diritti umani che vi sono coinvolti, e salvaguardarne l'effettivita'. 
    E' infatti  principio  consolidato  che  la  "pena"  puo'  essere
applicata anche da un'autorita' amministrativa, sia pure a condizione
che vi sia facolta' di impugnare la decisione innanzi ad un tribunale
che offra le garanzie dell'art. 6 della CEDU,  ma  che  non  esercita
necessariamente la giurisdizione penale (da ultimo, sentenza 4  marzo
2014, Grande Stevens e altri contro Italia, con  riferimento  ad  una
sanzione  reputata  grave).  Si  e'  aggiunto  che  la  "pena"   puo'
conseguire alla definizione di un procedimento amministrativo, pur in
assenza di una dichiarazione formale di colpevolezza da  parte  della
giurisdizione penale (sentenza  11  gennaio  2007,  Mamidakis  contro
Grecia). 
    E' percio' da dubitare che la sentenza  Varvara  si  sia  davvero
incamminata sulla via  indicata  da  entrambi  i  giudici  a  quibus,
introducendo un elemento disarmonico nel piu'  ampio  contesto  della
CEDU; ne' i rimettenti si sono  adoperati  per  risolvere  un  simile
dubbio, impiegando gli strumenti di cui dispongono a tal fine. 
    I    canoni     dell'interpretazione     costituzionalmente     e
convenzionalmente  orientata  debbono  infatti  trovare  applicazione
anche nei confronti delle sentenze della Corte EDU, quando  di  esse,
anche per le ragioni che si diranno, non si e' in grado  di  cogliere
con immediatezza l'effettivo principio di diritto che il  giudice  di
Strasburgo  ha  inteso  affermare  per  risolvere  il  caso  concreto
(sentenza n. 236 del 2011). 
    In tali evenienze, non comuni ma pur sempre possibili,  a  fronte
di una pluralita' di significati potenzialmente  compatibili  con  il
significante, l'interprete e' tenuto a collocare la singola pronuncia
nel flusso continuo della giurisprudenza europea,  per  ricavarne  un
senso che possa conciliarsi con quest'ultima, e  che,  comunque,  non
sia di pregiudizio per la Costituzione. 
    Nell'ipotesi definita dalla sentenza Varvara, questa Corte reputa
che una tale attivita' per i  rimettenti  fosse  doverosa  e  che  il
mancato esaurimento di essa li abbia indotti ad attribuire  a  questa
pronuncia una portata che era invece tutta da verificare, anche  alla
luce del caso concreto. 
    6.2.- Questa Corte ha gia'  affermato  che  «Ancorche'  tenda  ad
assumere un valore generale e di principio, la  sentenza  pronunciata
dalla  Corte  di  Strasburgo  [...]  resta  pur  sempre  legata  alla
concretezza della situazione che l'ha originata» (sentenza n. 236 del
2011). 
    Nel caso Varvara, la Corte EDU,  dopo  aver  preso  atto  che  la
confisca era stata disposta in ragione dell'oggettivo  contrasto  del
piano di lottizzazione con la normativa urbanistica (paragrafo 22), e
nonostante il reato fosse stato dichiarato estinto per  prescrizione,
ha  concluso  che  l'applicazione  al  ricorrente  di  una  "sanzione
penale", quando il reato era estinto e la sua responsabilita' non era
stata accertata con  una  sentenza  di  condanna,  contrasta  con  il
principio di legalita' enunciato dall'art. 7  della  CEDU  (paragrafo
72).  Questa  disposizione  infatti  non  si  concilierebbe  con   la
punizione di un imputato, il cui processo non si e' concluso con  una
condanna (paragrafo 61). 
    La questione da risolvere, secondo  i  criteri  appena  enunciati
dell'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente conforme,
consiste allora nel decidere se il giudice  europeo,  quando  ragiona
espressamente in termini di "condanna", abbia a mente  la  forma  del
pronunciamento del giudice, ovvero la sostanza che necessariamente si
accompagna a tale  pronuncia,  laddove  essa  infligga  una  sanzione
criminale ai sensi dell'art. 7 della CEDU, vale a dire l'accertamento
della responsabilita'. 
    Se si fosse realizzata quest'ultima alternativa, non  vi  sarebbe
ragione di dubitare che essa corrisponda ad una regola gia' impostasi
nell'ordinamento giuridico nazionale (sentenza n. 239 del  2009),  la
cui osservanza dipende percio' non dalla normativa  vigente,  che  la
contempla, ma dal modo con cui essa trova applicazione  di  volta  in
volta. 
    Parimenti,  si  tratterebbe  di  un  principio   tutt'altro   che
innovativo, e del tutto consono al  piu'  tradizionale  filone  della
giurisprudenza  europea,  che,  in  base  alla  presunzione  di   non
colpevolezza, non permette l'applicazione  di  una  pena,  quando  la
responsabilita' di chi la subisce non sia stata legalmente  accertata
(tra le molte, sentenza 1° marzo 2007, Geerings contro  Paesi  Bassi,
in materia  di  confisca).  Del  resto,  l'assenza  di  significativi
profili di innovazione ben spiegherebbe per quale ragione  sia  stata
respinta la richiesta del Governo della Repubblica di  sottoporre  il
caso Varvara al giudizio della Grande Camera. 
    Che sia proprio l'accertamento di responsabilita'  a  premere  al
giudice europeo e' ben argomentabile sulla base sia  del  testo,  sia
del tenore logico della motivazione svolta con la pronuncia  Varvara.
Qui si sottolinea,  infatti,  che  l'art.  7  della  CEDU  esige  una
dichiarazione di responsabilita' da parte dei giudici nazionali,  che
possa permettere di addebitare il reato (paragrafo 71),  poiche'  non
si puo' avere una pena senza l'accertamento  di  una  responsabilita'
personale (paragrafo 69). Non e' in definitiva concepibile un sistema
che punisca coloro che  non  sono  responsabili  (paragrafo  66),  in
quanto  non  dichiarati  tali  con  una  sentenza   di   colpevolezza
(paragrafo 67). 
    Simili espressioni, linguisticamente aperte ad un'interpretazione
che non costringa l'accertamento di responsabilita' nelle sole  forme
della condanna penale, ben si  accordano  sul  piano  logico  con  la
funzione, propria della  Corte  EDU,  di  percepire  la  lesione  del
diritto umano nella sua dimensione concreta, quale che sia  stata  la
formula astratta con cui il legislatore nazionale  ha  qualificato  i
fatti. 
    Come si e' gia' ricordato, nell'ordinamento giuridico italiano la
sentenza che accerta la prescrizione di un reato non denuncia  alcuna
incompatibilita' logica o giuridica  con  un  pieno  accertamento  di
responsabilita'. Quest'ultimo, anzi, e' doveroso qualora si tratti di
disporre una confisca urbanistica. Decidere se l'accertamento vi  sia
stato, oppure no,  e'  questione  di  fatto,  dalla  cui  risoluzione
dipende la conformita' della confisca rispetto alla CEDU  (oltre  che
al  diritto  nazionale).  Ed   e'   appunto   questo   compito,   che
istituzionalmente le spetta  in  ultima  istanza,  che  la  Corte  di
Strasburgo  ha  assolto  nel  caso  di  specie,  concludendo  per  la
violazione del diritto, dato che era mancato un congruo  accertamento
di responsabilita'. 
    Ne' va tralasciato che il giudice europeo deve essere messo nella
condizione di  valutare  con  cognizione  la  natura  della  sentenza
dichiarativa della prescrizione,  affinche'  sia  posto  in  luce  il
contenuto di accertamento che essa puo' assumere (ed ha eventualmente
assunto nel caso a giudizio) ove il  legislatore  lo  richieda  quale
condizione per applicare contestualmente una sanzione amministrativa. 
    Si tratta quindi  non  della  forma  della  pronuncia,  ma  della
sostanza  dell'accertamento.   La   stessa   Corte   di   Strasburgo,
pronunciandosi  in  altra  occasione  sulla  compatibilita'  con   la
presunzione di non colpevolezza di una condanna alle  spese  adottata
nonostante la prescrizione del reato, ha  infatti  escluso  di  poter
decidere la controversia sulla base della sola natura in  rito  della
sentenza adottata dal giudice nazionale, senza invece  valutare  come
quest'ultimo avesse motivato in concreto  (sentenza  25  marzo  1983,
Minelli contro Svizzera). 
    Questa Corte deve concludere che i giudici a quibus non solo  non
erano tenuti ad estrapolare dalla sentenza Varvara  il  principio  di
diritto dal quale  muovono  gli  odierni  incidenti  di  legittimita'
costituzionale, ma avrebbero dovuto attestarsi su una lettura ad esso
contraria. Quest'ultima e' infatti compatibile  con  il  testo  della
decisione e gli estremi della vicenda decisa, piu' armonica  rispetto
alla tradizionale logica della  giurisprudenza  europea,  e  comunque
rispettosa del principio costituzionale di sussidiarieta' in  materia
penale, nonche' della  discrezionalita'  legislativa  nella  politica
sanzionatoria degli illeciti, con eventuale opzione per la  (interna)
natura amministrativa della sanzione. 
    Le garanzie che l'art. 7 della CEDU offre rispetto alla  confisca
urbanistica sono  certamente  imposte,  nell'ottica  della  Corte  di
Strasburgo, dall'eccedenza che tale misura puo' produrre rispetto  al
ripristino della legalita' violata (sentenza  20  gennaio  2009,  Sud
Fondi srl e altri  contro  Italia),  a  propria  volta  frutto  delle
modalita' con cui l'istituto e' configurato nel nostro ordinamento. 
    Esse pero' non pongono in ombra  che  la  potesta'  sanzionatoria
amministrativa,  alla   quale   tale   misura   e'   affidata   prima
dell'eventuale  intervento  del  giudice  penale,  ben  si  lega  con
l'interesse   pubblico   alla   «programmazione   edificatoria    del
territorio» (sentenza n. 148 del 1994), alla cui cura e' preposta  la
pubblica amministrazione. Un interesse, vale la pena  di  aggiungere,
che non e' affatto estraneo agli orizzonti  della  CEDU  (sentenza  8
novembre 2005, Saliba contro Malta). 
    Allo stato,  e  salvo  ulteriori  sviluppi  della  giurisprudenza
europea (in seguito al deferimento alla Grande Camera di controversie
attinenti  a  confische  urbanistiche  nazionali,  nei   ricorsi   n.
19029/11, n. 34163/07 e n. 1828/06), deve percio'  ritenersi  erroneo
il convincimento, formulato dai rimettenti come punto di partenza dei
dubbi di costituzionalita', che la sentenza Varvara sia  univocamente
interpretabile nel senso che la  confisca  urbanistica  possa  essere
disposta solo unitamente ad una sentenza di  condanna  da  parte  del
giudice per il reato di lottizzazione abusiva. 
    7.- Entrambe le questioni sono altresi' inammissibili, perche'  i
rimettenti erroneamente hanno ritenuto di essere obbligati a recepire
il principio di diritto che avevano ricavato dalla sentenza  Varvara.
In  tal  modo  essi  hanno  attribuito  all'art.  7  della  CEDU   un
significato  non  immediatamente  desumibile  da  tale  disposizione,
benche' la pronuncia appena citata  non  fosse,  con  ogni  evidenza,
espressione  di  un'interpretazione  consolidata  nell'ambito   della
giurisprudenza europea. 
    Questa Corte non puo' che ribadire  quanto  affermato  fin  dalle
sentenze n. 348  e  n.  349  del  2007,  ovvero  che  alla  Corte  di
Strasburgo compete di pronunciare la «parola ultima» (sentenza n. 349
del   2007)   in   ordine   a   tutte   le   questioni    concernenti
l'interpretazione e  l'applicazione  della  Convenzione  e  dei  suoi
Protocolli, secondo quanto le parti  contraenti  hanno  stabilito  in
forza  dell'art.  32  della  CEDU.  Si  tratta   di   una   «funzione
interpretativa eminente» (sentenza n. 348 del 2007), con la quale  si
assicura  che,  all'esito  di  un  confronto  ermeneutico,  tale   da
coinvolgere  nel  modo  piu'  ampio  possibile  la  comunita'   degli
interpreti, sia ricavata dalla disposizione convenzionale  una  norma
idonea a garantire la certezza del diritto e l'uniformita' presso gli
Stati aderenti di un livello minimo di tutela dei diritti dell'uomo. 
    Tuttavia, sarebbe errato,  e  persino  in  contrasto  con  queste
premesse, ritenere che la CEDU abbia  reso  gli  operatori  giuridici
nazionali, e in primo luogo i giudici comuni, passivi ricettori di un
comando esegetico  impartito  altrove  nelle  forme  della  pronuncia
giurisdizionale,  quali  che  siano  le  condizioni  che   lo   hanno
determinato. 
    Il giudice nazionale non puo' spogliarsi della funzione  che  gli
e' assegnata dall'art. 101, secondo comma, Cost.,  con  il  quale  si
«esprime l'esigenza che il giudice non  riceva  se  non  dalla  legge
l'indicazione  delle  regole  da  applicare  nel  giudizio,   e   che
nessun'altra  autorita'  possa  quindi  dare  al  giudice  ordini   o
suggerimenti circa il modo di giudicare in concreto» (sentenza n.  40
del 1964; in seguito, sentenza n. 234 del 1976), e  cio'  vale  anche
per le norme della CEDU, che hanno ricevuto ingresso nell'ordinamento
giuridico interno grazie a una legge ordinaria di adattamento. 
    Certamente, il giudice comune non potra' negare di dar corso alla
decisione promanante dalla Corte di Strasburgo che abbia definito  la
causa di cui tale giudice  torna  ad  occuparsi,  quando  necessario,
perche' cessino, doverosamente, gli effetti lesivi  della  violazione
accertata (sentenza n. 210 del 2013). In tale ipotesi  «la  pronunzia
giudiziaria si mantiene sotto l'imperio della legge anche  se  questa
dispone che il giudice formi il suo convincimento avendo  riguardo  a
cio'  che  ha  deciso  altra  sentenza  emessa  nella  stessa  causa»
(sentenza n. 50 del 1970). 
    Quando, invece, si tratta di operare al di  fuori  di  un  simile
presupposto, resta fermo che «L'applicazione e l'interpretazione  del
sistema di norme e' attribuito beninteso in prima battuta ai  giudici
degli Stati membri» (sentenza n. 349 del 2007). 
    Cio' non vuol dire, pero', che  questi  ultimi  possano  ignorare
l'interpretazione  della  Corte  EDU,  una  volta  che  essa  si  sia
consolidata  in  una  certa  direzione.  Corrisponde  infatti  a  una
primaria esigenza di diritto costituzionale  che  sia  raggiunto  uno
stabile assetto  interpretativo  sui  diritti  fondamentali,  cui  e'
funzionale, quanto alla CEDU, il ruolo di ultima istanza riconosciuto
alla Corte di Strasburgo. 
    Quest'ultimo, poggiando sull'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  e
comunque sull'interesse di dignita' costituzionale appena rammentato,
deve coordinarsi con l'art. 101, secondo comma, Cost., nel  punto  di
sintesi tra autonomia interpretativa del giudice comune e  dovere  di
quest'ultimo di prestare collaborazione, affinche' il significato del
diritto fondamentale cessi di essere controverso. E' in  quest'ottica
che si spiega il  ruolo  della  Corte  EDU,  in  quanto  permette  di
soddisfare l'obiettivo di certezza e stabilita' del diritto. 
    Questa Corte ha gia' precisato, e qui ribadisce, che  il  giudice
comune  e'  tenuto  ad  uniformarsi  alla   «giurisprudenza   europea
consolidatasi sulla norma conferente» (sentenze n. 236 del 2011 e  n.
311  del  2009),  «in  modo  da  rispettare  la  sostanza  di  quella
giurisprudenza» (sentenza  n.  311  del  2009;  nello  stesso  senso,
sentenza n. 303 del 2011), fermo  il  margine  di  apprezzamento  che
compete allo Stato membro (sentenze n. 15  del  2012  e  n.  317  del
2009). 
    E', pertanto,  solo  un  "diritto  consolidato",  generato  dalla
giurisprudenza europea, che il giudice interno e' tenuto  a  porre  a
fondamento del proprio processo interpretativo, mentre nessun obbligo
esiste in tal senso, a fronte di pronunce che non siano espressive di
un orientamento oramai divenuto definitivo. 
    Del resto, tale asserzione non solo si  accorda  con  i  principi
costituzionali, aprendo la via al confronto costruttivo  tra  giudici
nazionali e Corte EDU sul senso da attribuire ai  diritti  dell'uomo,
ma si rivela confacente rispetto  alle  modalita'  organizzative  del
giudice di Strasburgo. Esso infatti si articola per sezioni,  ammette
l'opinione dissenziente, ingloba un meccanismo idoneo a risolvere  un
contrasto interno di giurisprudenza, attraverso  la  rimessione  alla
Grande Camera. 
    E' percio' la stessa CEDU a postulare  il  carattere  progressivo
della  formazione  del  diritto  giurisprudenziale,  incentivando  il
dialogo fino a quando la forza degli  argomenti  non  abbia  condotto
definitivamente ad imboccare una strada, anziche' un'altra. Ne'  tale
prospettiva si esaurisce nel rapporto  dialettico  tra  i  componenti
della Corte di Strasburgo, venendo invece  a  coinvolgere  idealmente
tutti i giudici che devono applicare la CEDU, ivi compresa  la  Corte
costituzionale. Si tratta di un approccio che, in prospettiva, potra'
divenire ulteriormente fruttuoso alla luce del Protocollo addizionale
n. 16 alla Convenzione stessa, ove il parere consultivo che la  Corte
EDU potra' rilasciare, se  richiesta,  alle  giurisdizioni  nazionali
superiori e' espressamente definito non vincolante (art.  5).  Questo
tratto conferma un'opzione di favore per l'iniziale confronto fondato
sull'argomentare, in un'ottica di cooperazione e di  dialogo  tra  le
Corti, piuttosto che per  l'imposizione  verticistica  di  una  linea
interpretativa su questioni di principio che non hanno ancora trovato
un assetto giurisprudenziale consolidato e  sono  percio'  di  dubbia
risoluzione da parte dei giudici nazionali. 
    La   nozione   stessa   di   giurisprudenza   consolidata   trova
riconoscimento  nell'art.  28  della  CEDU,  a  riprova  che,   anche
nell'ambito  di  quest'ultima,  si  ammette  che   lo   spessore   di
persuasivita' delle pronunce sia soggetto a sfumature di grado,  fino
a quando non emerga  un  «well-established  case-law»  che  «normally
means case-law which has been consistently  applied  by  a  Chamber»,
salvo il caso eccezionale su questione  di  principio,  «particularly
when the  Grand  Chamber  has  rendered  it»  (cosi'  le  spiegazioni
all'art. 8 del Protocollo n. 14, che ha modificato  l'art.  28  della
CEDU). 
    Non sempre e' di immediata evidenza se una certa  interpretazione
delle disposizioni della CEDU abbia maturato a Strasburgo un adeguato
consolidamento, specie a fronte di  pronunce  destinate  a  risolvere
casi  del  tutto  peculiari,  e  comunque  formatesi   con   riguardo
all'impatto prodotto dalla CEDU su ordinamenti  giuridici  differenti
da quello italiano. Nonostante cio',  vi  sono  senza  dubbio  indici
idonei  ad  orientare  il  giudice  nazionale  nel  suo  percorso  di
discernimento: la creativita' del principio  affermato,  rispetto  al
solco tradizionale della giurisprudenza europea; gli eventuali  punti
di distinguo, o persino di contrasto, nei confronti di altre pronunce
della Corte di Strasburgo; la ricorrenza  di  opinioni  dissenzienti,
specie se alimentate da robuste deduzioni; la circostanza che  quanto
deciso promana da una sezione semplice, e non  ha  ricevuto  l'avallo
della Grande Camera; il dubbio che, nel caso di  specie,  il  giudice
europeo non sia stato posto in  condizione  di  apprezzare  i  tratti
peculiari dell'ordinamento giuridico nazionale, estendendovi  criteri
di giudizio elaborati nei confronti di altri Stati aderenti che, alla
luce di quei tratti, si  mostrano  invece  poco  confacenti  al  caso
italiano. 
    Quando tutti, o alcuni di questi indizi si  manifestano,  secondo
un giudizio che non  puo'  prescindere  dalle  peculiarita'  di  ogni
singola vicenda, non vi e' alcuna ragione  che  obblighi  il  giudice
comune a condividere la linea interpretativa adottata dalla Corte EDU
per decidere una peculiare controversia, sempre che non si tratti  di
una "sentenza pilota" in senso stretto. 
    Solo nel caso  in  cui  si  trovi  in  presenza  di  un  "diritto
consolidato" o di una "sentenza pilota", il  giudice  italiano  sara'
vincolato a recepire la norma individuata a Strasburgo, adeguando  ad
essa il suo criterio di giudizio  per  superare  eventuali  contrasti
rispetto ad una legge interna, anzitutto per mezzo di «ogni strumento
ermeneutico a sua disposizione», ovvero, se cio' non fosse possibile,
ricorrendo all'incidente di legittimita' costituzionale (sentenza  n.
80 del 2011). Quest'ultimo assumera' di conseguenza, e  in  linea  di
massima, quale norma interposta il  risultato  oramai  stabilizzatosi
della giurisprudenza europea, dalla quale  questa  Corte  ha  infatti
ripetutamente affermato di  non  poter  «prescindere»  (ex  plurimis,
sentenza n. 303 del 2011), salva l'eventualita'  eccezionale  di  una
verifica negativa circa la conformita' di essa, e dunque della  legge
di adattamento, alla Costituzione (ex plurimis, sentenza n.  264  del
2012), di stretta competenza di questa Corte. 
    Mentre, nel caso in cui sia il  giudice  comune  ad  interrogarsi
sulla compatibilita' della norma convenzionale con  la  Costituzione,
va da  se'  che  questo  solo  dubbio,  in  assenza  di  un  "diritto
consolidato", e' sufficiente per escludere quella  stessa  norma  dai
potenziali contenuti assegnabili in via ermeneutica alla disposizione
della CEDU, cosi' prevenendo, con interpretazione  costituzionalmente
orientata,  la   proposizione   della   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    7.1.- I rimettenti sono  consapevoli  che  la  sentenza  Varvara,
secondo la lettura che ne hanno dato, non riflette alcun orientamento
consolidato della  giurisprudenza  europea,  e,  anzi,  presuppongono
dichiaratamente la carica innovativa dell'affermata  incompatibilita'
con l'art. 7 della CEDU di un provvedimento di confisca adottato  con
una sentenza che contestualmente abbia accertato  la  responsabilita'
personale, anziche' mediante una sentenza penale di condanna. 
    In  questo  contesto,  entrambi  i  rimettenti  avrebbero  dovuto
vagliare i profili  di  costituzionalita'  implicati  dalla  vicenda,
muovendo dal presupposto che la sentenza Varvara non li vincolasse ad
attribuire all'art. 7 della CEDU il significato che invece  ne  hanno
tratto. La Corte di cassazione, inoltre, non avrebbe potuto in nessun
caso sposare un'interpretazione  che  lo  stesso  giudice  rimettente
riteneva di dubbia costituzionalita'. 
    L'erroneita' del presupposto interpretativo sul vincolo derivante
dalla   sentenza   Varvara   determina   un'ulteriore   ragione    di
inammissibilita' delle questioni. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 44, comma  2,  del  decreto  del  Presidente
della  Repubblica  6  giugno  2001,  n.  380   (Testo   unico   delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia -  Testo
A), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 9,  32,  41,  42  e  117,
primo comma, della Costituzione, dalla  Corte  di  cassazione,  terza
sezione penale, con l'ordinanza indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 44, comma 2, del d.P.R.  n.  380  del  2001,
sollevata, in riferimento  all'art.  117,  primo  comma,  Cost.,  dal
Tribunale ordinario  di  Teramo,  in  composizione  monocratica,  con
l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 gennaio 2015. 
 
                                F.to: 
                  Alessandro CRISCUOLO, Presidente 
                     Giorgio LATTANZI, Redattore 
                Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 26 marzo 2015. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                    F.to: Gabriella Paola MELATTI