N. 95 SENTENZA 14 - 28 maggio 2015

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati tributari - Reati in materia  di  imposte  sui  redditi  e  sul
  valore aggiunto (Inapplicabilita'  della  sospensione  condizionale
  della pena per i delitti di cui agli artt. da 2 a 10 del d.lgs.  n.
  74 del 2000 qualora l'ammontare dell'imposta evasa sia superiore al
  30 per cento del volume d'affari e superiore a tre milioni di euro;
  possibilita' per le parti di richiedere l'applicazione  della  pena
  per i delitti di cui al d.lgs. n. 74 del 2000 solo qualora  ricorra
  la  circostanza  attenuante  del  pagamento  dei  debiti  tributari
  relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi). 
- Decreto legislativo 10 marzo 2000,  n.  74  (Nuova  disciplina  dei
  reati in materia di imposte sui redditi e sul  valore  aggiunto,  a
  norma dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999,  n.  205),  artt.
  12, comma 2-bis, e 13, comma 2-bis,  aggiunti  dall'art.  2,  comma
  36-vicies semel, lettere h), ed m),  del  decreto-legge  13  agosto
  2011, n. 138  (Ulteriori  misure  urgenti  per  la  stabilizzazione
  finanziaria e per  lo  sviluppo),  convertito,  con  modificazioni,
  dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. 
-   
(GU n.22 del 3-6-2015 )
  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Alessandro CRISCUOLO; 
Giudici :Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo  GROSSI,  Aldo
  CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo  CORAGGIO,
  Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 12, comma
2-bis, e 13, comma 2-bis, del decreto legislativo 10 marzo  2000,  n.
74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte  sui  redditi  e
sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della  legge  25  giugno
1999, n. 205), aggiunti dall'art. 2, comma 36-vicies  semel,  lettere
h), ed m), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure
urgenti per  la  stabilizzazione  finanziaria  e  per  lo  sviluppo),
convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148,
promosso dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario
di La Spezia nel procedimento penale a carico di F.R. ed  altri,  con
ordinanza del 3 dicembre  2013,  iscritta  al  n.  124  del  registro
ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2014. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio dell'11  marzo  2015  il  Giudice
relatore Giuseppe Frigo. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 3 dicembre  2013  il  Giudice  dell'udienza
preliminare  del  Tribunale  ordinario  di  La  Spezia  ha  sollevato
questioni di legittimita' costituzionale: 
    a) dell'art. 12, comma 2-bis, del decreto  legislativo  10  marzo
2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in  materia  di  imposte  sui
redditi e sul valore aggiunto, a norma dell'articolo 9 della legge 25
giugno 1999, n. 205), aggiunto dall'art. 2,  comma  36-vicies  semel,
lettera h), del decreto-legge  13  agosto  2011,  n.  138  (Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo),
convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148,
per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo
comma, della Costituzione; 
    b) dell'art. 13, comma 2-bis, del medesimo d.lgs. n. 74 del 2000,
aggiunto dell'art. 2, comma 36-vicies semel, lettera m), del d.l.  n.
138 del 2011, per asserita violazione degli artt. 3 e 24 Cost. 
    Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale
nei confronti di cinque persone, imputate del reato  di  associazione
per delinquere costituita allo scopo di commettere reati tributari  e
fallimentari, nonche', in concorso tra loro e con altri soggetti, dei
delitti tributari di cui agli artt. 2, 4, 8 e 10-quater del d.lgs. n.
74 del 2000 e del delitto di bancarotta fraudolenta impropria. 
    Il rimettente riferisce, altresi',  che  nel  corso  dell'udienza
preliminare i difensori degli imputati avevano chiesto l'applicazione
della pena ai sensi dell'art. 444 del  codice  di  procedura  penale,
subordinando  la  richiesta  alla   concessione   della   sospensione
condizionale.  Il  pubblico  ministero  aveva  negato,  peraltro,  il
proprio consenso: quanto a tre degli imputati, perche' aveva ritenuto
non congrua la pena richiesta  in  considerazione  della  gravita'  e
pluralita'  delle  contestazioni  e,  comunque,  per  le  preclusioni
stabilite dagli artt. 12, comma 2-bis, e 13, comma 2-bis, del  d.lgs.
n. 74  del  2000;  quanto  agli  altri  due  imputati,  perche',  pur
apparendo la  pena  congrua,  la  richiesta  trovava  ostacolo  nelle
predette preclusioni. 
    Recependo l'eccezione formulata dai difensori, il giudice  a  quo
dubita della legittimita' costituzionale delle citate disposizioni. 
    Ad avviso  del  rimettente,  le  questioni  sarebbero  rilevanti,
dovendo egli fare applicazione  delle  norme  censurate  al  fine  di
decidere sulle richieste di "patteggiamento". 
    Quanto, poi,  alla  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
rileva che il comma 2-bis dell'art. 12 del  d.lgs.  n.  74  del  2000
vieta di concedere la  sospensione  condizionale  della  pena  per  i
delitti previsti dagli articoli  da  2  a  10  del  medesimo  decreto
legislativo, quando l'ammontare dell'imposta evasa  sia  superiore  -
congiuntamente - al trenta per cento del  volume  d'affari  e  a  tre
milioni di euro. 
    In questo modo,  il  legislatore  avrebbe  stabilito  una  rigida
preclusione alla fruizione  di  un  istituto  che  «assume  un  ruolo
centrale  nelle  scelte  repressive».  La  sospensione   condizionale
avrebbe, infatti, da tempo perduto  le  sue  originarie  connotazioni
"clemenziali", per trasformarsi in  uno  strumento  che  permette  di
valutare la necessita' o meno di applicare,  nel  caso  concreto,  la
pena inflitta, nella prospettiva di garantire le migliori  condizioni
per  il  recupero  sociale  del  condannato.  Al  tempo  stesso,   la
perpetuazione della minaccia di detta pena (attraverso la  previsione
della possibile revoca della  sospensione)  e  i  contenuti  positivi
della misura (costituiti dalle condizioni  cui  la  sospensione  puo'
essere assoggettata) conferirebbero alla sospensione  condizionale  i
tratti di una vera e propria «pena alternativa». 
    Con la norma censurata, il legislatore avrebbe inteso  sostituire
le  proprie  valutazioni  alla  discrezionalita'  giudiziale,   nella
prospettiva  di  far  apparire  certa  l'esecuzione  della  pena  nei
confronti  degli  autori  di   delitti   tributari   che   implichino
un'evasione di imposta di ammontare superiore ai due limiti stabiliti
(proporzionale e fisso). 
    Per tal verso, la  disposizione  censurata  violerebbe  anzitutto
l'art. 3 Cost., giacche' la scelta di sottoporre i reati tributari ad
un trattamento piu' rigoroso di  quello  riservato  alla  generalita'
degli altri reati si paleserebbe irragionevole. 
    Se pure e' vero che la «diffusa  pratica  dell'evasione  fiscale»
genera un notevole allarme sociale, l'illecito penale tributario  non
presenterebbe comunque caratteristiche tali da giustificare un regime
differenziato, quanto  alle  condizioni  ostative  della  sospensione
condizionale.  Si  tratterebbe,  infatti,  di  un  reato  contro   il
patrimonio,  qualificato  dell'ulteriore  disvalore   connesso   alla
violazione di  un  dovere  che  rappresenta  un  aspetto  di  rilievo
dell'«appartenenza  sociale»,  quale  quello  di   osservanza   degli
obblighi tributari. Non per questo solo, tuttavia, i reati  tributari
risulterebbero meritevoli di un trattamento piu' severo di quello che
la legge riserva  ad  altri  reati  contro  il  patrimonio  pubblico,
parimenti caratterizzati da un tratto di  infedelta',  semmai  ancora
piu' pregnante: quali,  ad  esempio,  i  delitti  di  peculato  o  di
malversazione, per i quali non sono previste analoghe disposizioni. 
    La  disposizione  censurata  violerebbe,  altresi',  l'art.   25,
secondo comma, Cost., imponendo l'adozione di un trattamento punitivo
suscettibile di infrangere il rapporto di proporzione tra la  pena  e
il fatto commesso. 
    Il  legislatore  avrebbe,  infatti,  attribuito  «una   rilevanza
preponderante e vincolante», ai fini  dell'accesso  alla  sospensione
condizionale, ad alcuni soltanto tra i criteri di  adeguamento  della
pena al caso concreto enunciati dall'art. 133  del  codice  penale  e
richiamati dall'art.  164,  primo  comma,  del  medesimo  codice  (il
rapporto  tra  evasione  e  volume  d'affari  rientrerebbe   tra   le
«modalita' della condotta», mentre l'entita' dell'evasione atterrebbe
alla misura del danno). Al contrario, solo tenendo conto di tutti gli
elementi di cui al  citato  art.  133  cod.  pen.  sarebbe  possibile
apprezzare il disvalore  del  singolo  episodio  criminoso.  Potrebbe
accadere, di conseguenza - come nel caso di specie - che  soggetti  i
quali hanno agito in circostanze  di  tempo  o  di  luogo  del  tutto
peculiari, o ai quali si puo' comunque muovere un  «rimprovero  [...]
minimo»  sul  piano  della  colpevolezza,  si  vedano   preclusa   la
concessione della sospensione condizionale della pena, che pure tutti
gli altri fattori indicherebbero come la soluzione piu' adeguata. 
    La norma denunciata si porrebbe  in  contrasto,  ancora,  con  il
principio di personalita'  della  responsabilita'  penale  (art.  27,
primo comma, Cost.), in quanto collegherebbe il trattamento punitivo,
sotto il profilo della concessione  della  sospensione  condizionale,
alla sola rilevanza del danno, anziche'  al  «rimprovero  soggettivo»
che  puo'  essere  mosso   all'agente.   La   soluzione   legislativa
apparirebbe particolarmente  censurabile  in  casi  quale  quello  di
specie, nel quale sarebbe  la  stessa  imputazione  a  rivelare  come
alcuni degli imputati meritino un rimprovero solo «marginale», avendo
agito come prestanomi inconsapevoli di un altro soggetto (imputato in
un procedimento separato), che avrebbe determinato i contenuti  delle
dichiarazioni fiscali sfruttando la propria posizione dominante. 
    Impedendo l'esecuzione penitenziaria di una pena pure  rientrante
nei limiti che ne  consentirebbero  la  sospensione  condizionale  ed
inflitta ad un soggetto incensurato, nei cui confronti sia  possibile
formulare una prognosi favorevole  sul  piano  dell'astensione  dalla
reiterazione delle condotte criminose, la disposizione  sottoposta  a
scrutinio comprometterebbe, infine, la  finalita'  rieducativa  della
pena (art. 27, terzo comma, Cost.). Essa sancirebbe, in sostanza, una
presunzione assoluta non rispondente all'id quod plerumque accidit e,
percio', irrazionale  e  arbitraria:  presunzione  che  colliderebbe,
altresi',  con   le   costanti   indicazioni   della   giurisprudenza
costituzionale, al lume delle quali  la  funzione  rieducativa  della
pena e la risocializzazione del condannato  devono  esplicarsi  sulla
base di criteri individualizzanti e non di rigidi automatismi. 
    Per quanto attiene, poi, al comma 2-bis dell'art. 13  del  d.lgs.
n. 74 del 2000, detta disposizione stabilisce che, per i  delitti  di
cui al medesimo decreto legislativo, «l'applicazione  della  pena  ai
sensi dell'articolo 444 del codice di procedura  penale  puo'  essere
chiesta dalle parti solo qualora ricorra la circostanza attenuante di
cui ai commi 1 e 2» dello stesso art. 13, e cioe' solo  nel  caso  di
estinzione mediante pagamento dei debiti tributari relativi ai  fatti
costitutivi dei predetti delitti. 
    A parere del giudice a quo, la norma violerebbe l'art.  3  Cost.,
determinando una irragionevole disparita' di trattamento tra soggetti
imputati del medesimo reato, a seconda  delle  rispettive  condizioni
economiche. 
    Violerebbe, altresi', l'art. 24 Cost., limitando  il  diritto  di
difesa dell'imputato non abbiente,  il  quale  si  vedrebbe  precluso
l'accesso al rito speciale  esclusivamente  per  motivi  legati  alla
propria condizione di impossidenza. 
    2.- E' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale
ha  chiesto  che  le  questioni  siano  dichiarate  inammissibili  o,
comunque, infondate. 
    Secondo la difesa dello Stato, le questioni sarebbe inammissibili
per difetto di rilevanza. Nella specie, il pubblico ministero non  ha
prestato il proprio consenso  al  "patteggiamento":  circostanza  che
priverebbe il giudice  rimettente,  in  quanto  giudice  dell'udienza
preliminare, di un autonomo potere  di  valutazione  della  richiesta
formulata dall'imputato. Ai sensi dell'art. 448 cod. proc. pen., tale
potere compete, infatti,  unicamente  al  giudice  del  dibattimento,
davanti al quale la richiesta potra' essere reiterata; detto giudice,
inoltre, ove il pubblico ministero  ribadisca  il  proprio  dissenso,
potra' provvedere solo all'esito del dibattimento stesso. 
    Le questioni sarebbero comunque  inammissibili  per  «difetto  di
autosufficienza» dell'ordinanza di rimessione  e  omessa  motivazione
sulla rilevanza, non avendo il rimettente chiarito con riferimento  a
quali degli imputati  e  delle  numerose  imputazioni  l'applicazione
delle norme in esame sia indispensabile ai fini della decisione. 
    In relazione a tre degli imputati, il pubblico ministero non  ha,
infatti, prestato il consenso perche' ha ritenuto non congrua la pena
richiesta, richiamando solo  in  aggiunta  la  preclusione  stabilita
dalle norme censurate. Riguardo agli altri due imputati, il giudice a
quo non avrebbe, d'altra parte, valutato se e a quali  delle  plurime
condotte criminose loro ascritte le norme in esame siano  applicabili
ratione temporis. Ai sensi del comma 36-vicies bis  dell'art.  2  del
d.l. n. 138  del  2011,  dette  norme  si  applicano  solo  ai  fatti
successivi alla data di entrata in vigore della legge di  conversione
del medesimo  decreto,  ossia  al  16  (recte:  17)  settembre  2011:
laddove,  invece,  molte  delle  imputazioni  indicano  una  data  di
commissione del reato anteriore. 
    Da ultimo, il rimettente avrebbe omesso di verificare  se,  nelle
fattispecie  concrete,  risulti  effettivamente  superata  la  doppia
soglia  di  applicabilita'  prevista  dalla  prima  delle  due  norme
denunciate (art. 12, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del 2000). 
    Nel merito, le questioni sarebbero comunque infondate. 
    Quanto alla questione relativa al citato art.  12,  comma  2-bis,
insussistente  risulterebbe,   anzitutto,   la   dedotta   violazione
dell'art. 3 Cost. 
    Rigettando una questione di legittimita' costituzionale formulata
in modo analogo, concernente le esclusioni oggettive  dal  cosiddetto
"patteggiamento allargato" (art. 444, comma 1-bis, cod. proc.  pen.),
la Corte costituzionale  ha  gia'  avuto  modo  di  rilevare  che  il
legislatore,  per  ragioni   di   politica   criminale,   puo'   bene
riconnettere al titolo del reato - e non (o non soltanto) al  livello
della pena edittale - l'applicabilita' di un trattamento  sostanziale
o processuale piu' rigoroso. In tali ipotesi, l'individuazione  delle
fattispecie criminose da assoggettare alla disciplina piu'  severa  -
proprio in quanto basata  su  apprezzamenti  di  politica  criminale,
connessi specialmente all'allarme sociale generato dai singoli  reati
-  «resta  affidata  alla  discrezionalita'  del  legislatore;  e  le
relative scelte possono venir sindacate dalla Corte solo in  rapporto
alle eventuali disarmonie  del  catalogo  legislativo,  allorche'  la
sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e
dimensioni  tali  da  non  potersi  considerare  sorretta  da  alcuna
ragionevole giustificazione» (ordinanza n. 455 del 2006). 
    Nella specie, la previsione di un trattamento piu' rigoroso per i
reati   tributari,   in   un   momento   di   congiuntura   economica
«particolarmente drammatico», non risulterebbe affatto irrazionale  o
arbitraria. Lo stesso rimettente da' atto, del resto, del particolare
allarme sociale generato da tale categoria di reati, cui andrebbe  ad
aggiungersi la rilevanza  del  danno  da  essi  arrecato  al  sistema
economico nazionale nel suo complesso: fattori che giustificherebbero
un trattamento  differenziato  rispetto  ad  un  istituto,  quale  la
sospensione condizionale della pena, che conserverebbe  comunque  una
connotazione "clemenziale". 
    Infondata sarebbe anche la censura di  violazione  dell'art.  25,
secondo comma, Cost., sotto  il  profilo  dell'asserita  rottura  del
rapporto di proporzione tra risposta punitiva e fatto commesso. 
    La disposizione  denunciata  preclude,  infatti,  la  concessione
della  sospensione  condizionale  della  pena  in  presenza  di   due
condizioni economicamente significative, la cui ricorrenza  congiunta
consentirebbe ragionevolmente di presumere che la  condotta  illecita
non  rappresenti  una  «devianza  occasionale»  del  reo,   ma   «una
percentuale importante del complesso degli affari da questo  gestiti,
o alla cui gestione  concorre».  La  soglia  di  tipo  proporzionale,
ragguagliata all'incidenza dell'imposta evasa sul volume  di  affari,
garantirebbe, in specie, l'adeguamento del trattamento  sanzionatorio
al fatto  commesso,  con  riguardo  alle  condizioni  soggettive  del
colpevole. 
    L'applicazione della sospensione  condizionale  non  e',  d'altra
parte, rimessa alla totale discrezionalita' del giudice,  ma  ad  una
discrezionalita' da esercitare nel rispetto di  parametri  prefissati
dal legislatore. Tali parametri possono essere indicati con  maggiore
o minore grado di dettaglio: nella stessa disciplina  codicistica,  a
fianco di disposizioni molto generali, quale l'art.  133  cod.  pen.,
che indica gli elementi da cui desumere la gravita' del reato, ve  ne
sono altre maggiormente puntuali,  quali  quelle  che  precludono  la
concessione del beneficio al delinquente o contravventore abituale  o
professionale (art. 164, secondo comma, cod. pen.).  La  disposizione
speciale in esame  non  farebbe,  in  effetti,  che  individuare  con
maggior dettaglio gli elementi per desumere  la  gravita'  del  reato
presi in considerazione dal citato art. 133 cod. pen., ponendosi, con
cio', quale espressione del normale rapporto tra la  discrezionalita'
dell'organo giudiziario e quella del legislatore. 
    Quanto,  poi,  alla   dedotta   violazione   del   principio   di
personalita' della responsabilita'  penale  (art.  27,  primo  comma,
Cost.), la questione sarebbe inammissibile, in quanto  il  rimettente
avrebbe omesso di «contestualizzare» il dubbio di  costituzionalita',
specificando quali fra gli imputati  nel  giudizio  a  quo  avrebbero
assunto  il  ruolo  di  «prestanome  inconsapevole»:  evenienza   che
apparirebbe, peraltro, smentita dalle indicazioni contenute nei  capi
di imputazione. 
    La censura sarebbe, ad ogni  modo,  infondata.  Un  soggetto  che
abbia agito in modo «inconsapevole»  non  potrebbe  essere,  infatti,
condannato per i reati tributari previsti dagli articoli da  2  a  10
del d.lgs. n. 74 del 2000, i quali richiedono tutti il dolo specifico
di evasione delle imposte. Inoltre, le  elevate  soglie  quantitative
previste dalla norma censurata renderebbero altamente improbabile che
possa ipotizzarsi una situazione di partecipazione inconsapevole o di
«rimprovero marginale» dell'autore del fatto. 
    Le precedenti considerazioni escluderebbero, da ultimo, anche  la
configurabilita' della dedotta violazione della finalita' rieducativa
della pena (art. 27, terzo comma, Cost.). 
    Parimenti  infondata  sarebbe  la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del  2000,
che subordina l'accesso al rito speciale di  cui  all'art.  444  cod.
proc. pen. al pagamento dei debiti tributari. 
    Tanto la  disposizione  generale  dell'art.  165  cod.  pen.  che
numerose norme speciali - in particolare,  in  materia  ambientale  -
prevedono  che  la  sospensione  condizionale  sia  subordinata  alla
riparazione del danno, senza per cio'  essere  ritenute  contrastanti
con il principio di eguaglianza. In base al citato art. 165,  d'altra
parte, l'imposizione della condizione dell'adempimento degli obblighi
di restituzione e risarcimento del danno e' rimessa alla  valutazione
discrezionale del giudice solo in occasione della  prima  concessione
del beneficio, divenendo obbligatoria  ove  esso  sia  accordato  una
seconda volta: e cio' senza neppure il  temperamento  precedentemente
insito nella formula «salvo  che  cio'  sia  impossibile»,  soppressa
dalla legge 11 giugno 2004, n. 145 (Modifiche al codice penale e alle
relative disposizioni di coordinamento e transitorie  in  materia  di
sospensione  condizionale  della   pena   e   di   termini   per   la
riabilitazione del condannato). 
    La  disposizione  risponde   pacificamente   ad   una   finalita'
specialpreventiva sia sotto il profilo negativo, dissuadendo l'autore
del fatto dalla commissione di ulteriori reati sotto la  minaccia  di
oneri personali  o  patrimoniali,  sia  sotto  il  profilo  positivo,
giacche' l'onere  imposto  al  reo  contribuisce  a  ricostituire  il
rapporto di fiducia tra il soggetto  e  la  collettivita'.  La  norma
contribuisce,  cosi',   a   rafforzare   l'efficacia   preventiva   e
rieducativa della pena  sottesa  alla  disciplina  della  sospensione
condizionale, realizzando il principio costituzionale di cui all'art.
27, terzo comma, Cost. 
    La Corte costituzionale ha, d'altra parte, escluso che  la  norma
violi il principio di eguaglianza, osservando  come  le  disposizioni
che impongono un onere economico per il raggiungimento di determinati
fini  comportano,  inevitabilmente,  una  diversa   possibilita'   di
utilizzazione secondo la diversa condizione  economica  dei  soggetti
che   quei   fini   si   propongono   di   conseguire.    L'interesse
all'eliminazione del danno e al ravvedimento del  reo  rappresentano,
peraltro, valori costituzionali atti a  giustificare  ragionevolmente
la disparita' di trattamento (sentenza n. 49 del 1975). 
    In materia di reati  tributari,  vi  sarebbe,  poi,  una  diretta
correlazione  tra  entita'  del  danno  cagionato   e   potenzialita'
economiche del reo, posto che l'arricchimento degli autori del  reato
e'  esattamente  corrispondente  all'imposta  sottratta   al   fisco.
Sarebbe,  dunque,  ragionevole  ipotizzare,  in  via  generale,   che
l'evasore disponga, o abbia avuto la possibilita' di disporre,  delle
risorse economiche per il risarcimento del danno. 
    D'altro  canto,  subordinare   la   condizione   dell'adempimento
dell'obbligo  tributario  alla   valutazione   delle   disponibilita'
economiche del reo equivarrebbe a  rendere  inapplicabile  la  norma.
L'evasione di imposta e', infatti, sempre piu' spesso  realizzata  da
soggetti «avveduti», che non  risultano  formalmente  proprietari  di
beni, e con modalita'  che  prevedono  lo  svuotamento  del  «veicolo
societario» utilizzato. L'autorita' giudiziaria non sarebbe,  quindi,
in grado di accertare la reale consistenza del patrimonio del reo, se
non  a  mezzo  di  ulteriori  indagini:  con  la   conseguenza   che,
nell'accesso al rito speciale, rimarrebbero avvantaggiati  proprio  i
soggetti piu' callidi,  che  presentano  una  maggiore  pericolosita'
sociale. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Giudice dell'udienza preliminare del  Tribunale  ordinario
di  La  Spezia  dubita  della  legittimita'  costituzionale  di   due
disposizioni in materia penale tributaria, introdotte dalla legge  14
settembre 2011, n. 148, in sede di  conversione,  con  modificazioni,
del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138  (Ulteriori  misure  urgenti
per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo). 
    I dubbi investono, in primo luogo, l'art. 12,  comma  2-bis,  del
decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei  reati
in materia di imposte sui redditi e  sul  valore  aggiunto,  a  norma
dell'articolo 9  della  legge  25  giugno  1999,  n.  205),  aggiunto
dall'art. 2, comma 36-vicies semel, lettera h), del  citato  d.l.  n.
138 del 2011, come convertito, in forza del  quale  l'istituto  della
sospensione  condizionale  della  pena  non  si  applica  ai  delitti
previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo  decreto  legislativo,
quando l'ammontare dell'imposta evasa superi -  congiuntamente  -  il
trenta per cento del volume d'affari e tre milioni di euro. 
    La  norma  censurata  violerebbe  l'art.  3  della  Costituzione,
sottoponendo  i  reati  tributari  considerati  ad   un   trattamento
irragionevolmente piu' severo di quello  riservato  alla  generalita'
degli altri reati, ivi compresi taluni delitti contro  il  patrimonio
pubblico con tratti di infedelta' ancora piu'  accentuati,  quali  il
peculato e la malversazione, per i quali non sono  previste  analoghe
preclusioni. 
    La disposizione denunciata si porrebbe,  altresi',  in  contrasto
con l'art. 25, secondo comma, Cost., in quanto impedirebbe al giudice
di valutare la concreta gravita' del reato, ai fini della concessione
della sospensione condizionale, sulla  base  di  tutti  gli  elementi
indicati dall'art. 133 del codice penale, rompendo cosi' il  rapporto
di proporzionalita' fra la risposta punitiva e il fatto commesso. 
    Violerebbe,  ancora,  l'art.  27,  primo  comma,  Cost.,  perche'
collegherebbe il trattamento sanzionatorio alla  sola  rilevanza  del
danno causato dal reato, anziche' al «rimprovero soggettivo» che puo'
essere  mosso  all'agente,  in  contrasto   con   il   principio   di
personalita' della responsabilita' penale. 
    Comprometterebbe, infine, la  finalita'  rieducativa  della  pena
(art. 27, terzo comma, Cost.), imponendo un trattamento punitivo  che
puo' risultare, in concreto, inadeguato e desocializzante. 
    Il rimettente censura, in secondo luogo, l'art. 13, comma  2-bis,
del d.lgs. n. 74 del 2000,  aggiunto  dall'art.  2,  comma  36-vicies
semel, lettera m), del d.l. n. 138 del 2011, ove si  stabilisce  che,
per i delitti di cui al medesimo decreto legislativo,  l'applicazione
della pena ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale puo'
essere chiesta  dalle  parti  solo  qualora  ricorra  la  circostanza
attenuante di cui ai commi 1 e 2 dello stesso art. 13, e  cioe'  solo
nel caso di estinzione,  mediante  pagamento,  dei  debiti  tributari
relativi ai fatti costitutivi dei predetti delitti. 
    La previsione violerebbe tanto l'art. 3 Cost.,  determinando  una
irragionevole disparita' di trattamento  tra  soggetti  imputati  del
medesimo reato, a seconda delle loro  condizioni  economiche;  quanto
l'art. 24 Cost., limitando il diritto  di  difesa  dell'imputato  non
abbiente, il quale  vedrebbe  precluso  l'accesso  al  rito  speciale
esclusivamente  per  motivi  legati  alla   propria   condizione   di
impossidenza. 
    2.- Invertendo l'ordine di prospettazione  del  rimettente,  deve
essere esaminata per prima - in quanto logicamente pregiudiziale - la
questione afferente alla limitazione  del  "patteggiamento"  prevista
dall'art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del 2000. 
    Nel caso di specie, il giudice a quo si trova, infatti,  a  dover
decidere sulla richiesta di applicazione della pena  formulata  dagli
imputati di plurimi reati tributari (oltre  che  di  altri  delitti):
richiesta subordinata alla concessione della sospensione condizionale
(art. 444, comma 3, cod. proc. pen.). Il  primo  punto  da  chiarire,
percio', e' se il "patteggiamento" sia ammesso in relazione ai  reati
per cui si procede. Solo  se  si  risponda  affermativamente  a  tale
quesito  ci  si  potra'  interrogare  sulla   realizzabilita'   della
condizione cui la richiesta e' subordinata. 
    3.- Con riguardo alla questione concernente il  citato  art.  13,
comma   2-bis,   le   eccezioni   di    inammissibilita'    formulate
dall'Avvocatura generale dello Stato non sono fondate. 
    Quanto all'eccezione di inammissibilita' per difetto di rilevanza
- connessa al fatto che, nella specie, il pubblico ministero  non  ha
prestato il consenso alla richiesta di applicazione della pena - vale
il rilievo che,  alla  luce  di  quanto  riferito  nell'ordinanza  di
rimessione, almeno rispetto a due dei cinque imputati nel giudizio  a
quo, il dissenso e' stato  motivato  unicamente  con  le  preclusioni
stabilite dalle norme censurate. Rimosse queste ultime, l'opposizione
del rappresentante  della  pubblica  accusa  -  non  sindacabile  dal
rimettente, in quanto giudice  dell'udienza  preliminare  -  verrebbe
automaticamente meno e la richiesta potrebbe essere quindi accolta. 
    Egualmente infondata e' l'eccezione  di  difetto  di  motivazione
sulla rilevanza, per non avere il rimettente specificato a quali, fra
i numerosi reati contestati, le  norme  censurate  siano  applicabili
ratione temporis. La richiesta di applicazione  della  pena  proposta
dagli imputati investe, infatti, tutte le imputazioni cumulativamente
formulate nei loro confronti.  Basta,  percio',  che  la  preclusione
censurata operi in rapporto ad una sola di esse perche' la  richiesta
divenga inaccoglibile. E tale condizione certamente  sussiste,  posto
che - alla luce dei capi di imputazione riprodotti nell'ordinanza  di
rimessione - buona parte dei  reati  tributari  per  cui  si  procede
risultano commessi dopo il 17 settembre 2011 (data  a  partire  dalla
quale la denunciata  limitazione  del  "patteggiamento"  e'  divenuta
operante, ai sensi dell'art. 2, comma 36-vicies bis, del d.l. n.  138
del 2011). 
    4.- Nel merito, la questione e' infondata. 
    Con la norma sottoposta a scrutinio, il legislatore ha introdotto
una  esclusione  oggettiva  dal   "patteggiamento",   riferita   alla
generalita' dei delitti in materia tributaria previsti dal d.lgs.  n.
74 del 2000: esclusione che  si  affianca  alle  numerose  esclusioni
oggettive dal  cosiddetto  "patteggiamento  allargato"  -  ossia  dal
patteggiamento per una pena detentiva compresa tra i due e  i  cinque
anni - gia' previste dall'art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen. 
    Nel negare l'illegittimita' costituzionale  di  tali  esclusioni,
questa Corte ha rilevato  come  rientri  nella  discrezionalita'  del
legislatore riconnettere al titolo del reato, e non (o non  soltanto)
al livello della pena edittale, un trattamento piu' rigoroso,  quanto
all'accesso al rito alternativo: discrezionalita' il cui esercizio  -
in quanto basato su apprezzamenti  di  politica  criminale,  connessi
specialmente all'allarme sociale generato  dai  singoli  reati  -  e'
sindacabile solo  ove  decampi  nella  manifesta  irragionevolezza  e
nell'arbitrio, come avviene  quando  le  scelte  operate  determinino
inaccettabili sperequazioni tra figure criminose omogenee  (ordinanza
n. 455 del 2006). Censura, questa, peraltro non mossa dal  rimettente
alla norma in esame. 
    Nel frangente, il legislatore ha inteso rimuovere la  preclusione
solo quando ricorra una  circostanza  attenuante  speciale  collegata
alla riparazione  dell'offesa  causata  dal  reato,  qual  e'  quella
delineata dai commi 1 e 2 dello stesso art. 13 del d.lgs. n.  74  del
2000: vale a dire, solo se, prima della dichiarazione di apertura del
dibattimento di primo grado, i debiti  tributari  relativi  ai  fatti
costitutivi dei delitti considerati  siano  stati  «estinti  mediante
pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di
adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie». 
    Il giudice a quo reputa tale  soluzione  normativa  incompatibile
con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto generativa di una disparita' di
trattamento fra imputati del medesimo reato  in  ragione  delle  loro
condizioni economiche e, al tempo  stesso,  di  una  limitazione  del
diritto di  difesa  dei  non  abbienti.  Solo  chi  abbia  la  "forza
economica" per pagare - tempestivamente e compiutamente -  il  debito
tributario  ha,  infatti,  la  possibilita'  di  accedere   al   rito
alternativo e al connesso sconto di pena. 
    L'assunto - sulla cui base  il  rimettente  chiede  la  rimozione
integrale della norma preclusiva - non puo' essere condiviso. 
    Questa Corte ha gia'  escluso  -  con  risalente  decisione  -  i
vulnera  costituzionali  denunciati  in  rapporto  alla   circostanza
attenuante comune del risarcimento del danno,  di  cui  all'art.  62,
numero 6), prima parte, del codice penale, rispetto alla quale quella
tributaria si pone in rapporto di specialita' (sentenza  n.  111  del
1964, le cui affermazioni sono state successivamente  ribadite  dalla
sentenza  n.  49  del  1975,  con  riguardo  alla   possibilita'   di
subordinare la sospensione condizionale della pena  alla  riparazione
del danno). 
    Nell'occasione, la Corte ha  rilevato  che  qualunque  norma  che
imponga oneri patrimoniali per il raggiungimento di determinati  fini
risulta  diversamente  utilizzabile  a   seconda   delle   condizioni
economiche dei soggetti interessati a  conseguirli.  Non  per  questo
solo, tuttavia, essa e' costituzionalmente illegittima. Cio'  avviene
esclusivamente  in  due  ipotesi:  da  un  lato,  quando  ne  risulti
compromesso l'esercizio di un diritto che la Costituzione  garantisce
a tutti paritariamente (quale  il  diritto  di  azione  e  difesa  in
giudizio, come avveniva per i vecchi istituti del solve et  repete  e
della cautio pro expensis: sentenze n. 21 del 1961 e n. 67 del 1960);
dall'altro, quando gli oneri imposti non  risultino  giustificati  da
ragioni  connesse  a  circostanze  obiettive,  cosi'  da  determinare
irragionevoli situazioni di vantaggio o svantaggio. 
    E' del tutto evidente come questa seconda ipotesi non ricorra nel
caso in esame.  Il  generale  interesse  pubblico  (oltre  che  della
persona offesa) all'eliminazione delle conseguenze dannose del reato,
anche per il suo valore sintomatico del processo di ravvedimento  del
reo - interesse che giustifica le disparita' di  trattamento  indotte
dal citato art. 62, numero 6), prima parte, cod.  pen.  (sentenza  n.
111 del 1964) - si coniuga, infatti, nel  frangente,  allo  specifico
interesse alla integrale riscossione dei tributi evasi. 
    Ma neppure ricorre la prima ipotesi:  e  cio'  ancorche'  l'onere
patrimoniale imposto  dalla  norma  censurata  incida  -  tramite  il
richiamo all'anzidetta circostanza attenuante - sulla fruizione di un
istituto che, a differenza di questa, non  ha  natura  esclusivamente
sostanziale,  ma   "ibrida"   (processuale-sostanziale),   quale   il
"patteggiamento";  rito  alternativo  cui  si  collega,  in  funzione
incentivante, la  possibilita'  di  beneficiare  di  una  consistente
riduzione della pena (fino a un terzo: art. 444, comma 1, cod.  proc.
pen.). 
    E' ben vero che, per reiterata affermazione di questa  Corte,  la
facolta' di chiedere i riti alternativi - quando  e'  riconosciuta  -
costituisce una modalita',  tra  le  piu'  qualificanti  ed  incisive
(sentenze n. 237 del 2012 e  n.  148  del  2004),  di  esercizio  del
diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 273 del 2014, n. 333  del
2009 e n. 219 del 2004). 
    Ma e' altrettanto vero  che  la  negazione  legislativa  di  tale
facolta' in rapporto  ad  una  determinata  categoria  di  reati  non
vulnera il nucleo incomprimibile del predetto diritto. La facolta' di
chiedere l'applicazione della  pena  non  puo'  essere  evidentemente
considerata una condicio sine qua non per  un'efficace  tutela  della
posizione giuridica dell'imputato, tanto e' vero che essa e'  esclusa
per un largo numero di reati: tutti  quelli  per  i  quali  non  puo'
essere inflitta, in concreto, una pena detentiva contenuta  entro  il
limite generale di fruibilita' dell'istituto  (cinque  anni  di  pena
detentiva, ovvero due, rispetto ai reati esclusi dal  "patteggiamento
allargato"); tutti quelli di competenza del tribunale per i minorenni
e del giudice di pace (art. 25, comma 1, del decreto  del  Presidente
della Repubblica 22 settembre 1988,  n.  448,  recante  «Approvazione
delle  disposizioni  sul  processo  penale  a  carico   di   imputati
minorenni», e art. 2, comma 1, lettera g, del decreto legislativo  28
agosto 2000, n. 274, recante «Disposizioni  sulla  competenza  penale
del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre
1999, n. 468»: sulla legittimita' costituzionale di tali  esclusioni,
sentenza n. 135 del 1995; ordinanze n. 28 del 2007, n. 312 e  n.  228
del 2005). 
    La stessa attenuante comune del risarcimento del danno puo',  del
resto, condizionare la fruibilita' del "patteggiamento", quante volte
il suo riconoscimento risulti concretamente  indispensabile  per  far
scendere la pena detentiva al di sotto del  limite  dei  cinque  anni
(ovvero dei due anni, quanto ai  reati  esclusi  dal  "patteggiamento
allargato"). 
    Si aggiunga che, come evidenziato dalla difesa dello  Stato,  con
riguardo ai  reati  tributari  vi  e',  di  regola  -  anche  se  non
immancabilmente - una diretta  correlazione  tra  entita'  del  danno
cagionato e risorse economiche del reo (ove questi si identifichi nel
contribuente persona fisica), o  da  lui  comunque  gestite  (ove  si
tratti dell'amministratore o del liquidatore  di  societa'  o  enti),
posto che il profitto conseguente al  reato  corrisponde  all'imposta
sottratta al fisco. Si tratta  di  una  situazione  analoga,  mutatis
mutandis, a quella riscontrabile in rapporto al delitto di insolvenza
fraudolenta, di  cui  all'art.  641  cod.  pen.,  rispetto  al  quale
l'adempimento dell'obbligazione ha addirittura effetti estintivi  del
reato. 
    5.- La riscontrata infondatezza  della  questione  inerente  alla
preclusione del "patteggiamento" rende inammissibile, per difetto  di
rilevanza, la questione relativa  al  divieto  di  concessione  della
sospensione condizionale  della  pena  per  i  delitti  di  cui  agli
articoli da 2 a 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, sancita  dal  censurato
art. 12, comma 2-bis, del medesimo decreto. 
    La richiesta presentata dagli imputati nel  giudizio  a  quo  va,
infatti, comunque disattesa  per  la  pregiudiziale  ragione  che  il
"patteggiamento" non e' consentito in rapporto ai reati  per  cui  si
procede:  di  modo  che  l'eventuale  rimozione  dell'ostacolo   alla
concessione della  sospensione  condizionale,  cui  la  richiesta  e'
subordinata, rimarrebbe del tutto ininfluente sulla decisione che  il
rimettente e' chiamato ad adottare. 
    Resta con cio'  assorbita  l'eccezione  di  inammissibilita'  per
difetto di motivazione sulla rilevanza,  formulata  dalla  Presidenza
del Consiglio  dei  ministri  in  correlazione  all'asserita  mancata
verifica, da parte del rimettente, dell'avvenuto  superamento,  nelle
singole fattispecie contestate,  delle  soglie  quantitative  cui  e'
subordinata l'applicabilita' della norma censurata. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1)  dichiara   non   fondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 13, comma 2-bis, del decreto legislativo  10
marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia  di  imposte
sui redditi e sul valore aggiunto,  a  norma  dell'articolo  9  della
legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall'art. 2, comma  36-vicies
semel,  lettera  m),  del  decreto-legge  13  agosto  2011,  n.   138
(Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo
sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla  legge  14  settembre
2011, n. 148, sollevata, in riferimento  agli  artt.  3  e  24  della
Costituzione, dal  Giudice  dell'udienza  preliminare  del  Tribunale
ordinario di La Spezia con l'ordinanza indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   inammissibile   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 12, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del  2000,
aggiunto dall'art. 2, comma 36-vicies semel, lettera h), del d.l.  n.
138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n.  148  del
2011, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25,  secondo  comma,  e
27, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Giudice dell'udienza
preliminare del Tribunale ordinario di  La  Spezia  con  la  medesima
ordinanza. 
 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 14 maggio 2015. 
 
                                F.to: 
                  Alessandro CRISCUOLO, Presidente 
                      Giuseppe FRIGO, Redattore 
                Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 28 maggio 2015. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                    F.to: Gabriella Paola MELATTI